sabato 22 novembre 2014

Corriere 22.11.14
Incontro chiesto dal Quirinale
È l’omaggio all’amico Papa
Il Colle: «Siamo chiamati entrambi a governare realtà complesse. Un incontro privato e riservatissimo»
di Marzio Breda

qui


il Fatto 22.11.14
Napolitano corre dal papa
L’addio inizia in Vaticano
di Fabrizio d’Esposito


IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA A SORPRESA DAL PONTEFICE, PER UN COLLOQUIO DI UN’ORA E 20 SENZA TESTIMONI. IL COLLE: “INCONTRO STRETTAMENTE PRIVATO”

Il presidente della Repubblica ha cominciato dal Vaticano l’impegnativa liturgia del suo congedo dal Quirinale? Il punto di domanda è d’obbligo considerato che mai come questa volta non c’è alcuna conferma. Né dal Colle, né dalla Santa Sede. Quello che è certo è che ieri pomeriggio, alle diciassette in punto, la Lancia con a bordo Giorgio Napolitano, preceduta da una sola auto di scorta, si è infilata nell’ingresso del Perugino della Città del Vaticano. E pochi minuti dopo, il presidente si è ritrovato faccia a faccia con papa Bergoglio nella Domus Santa Marta, che Francesco ha scelto come sua abitazione al posto dell’appartamento papale. Trapela che i due avrebbero parlato senza alcun testimone. Da soli, per evitare il successivo chiacchiericcio delle versioni da un fronte e dall’altro. Si sono scambiati pareri e consigli per ottanta minuti, fino alle diciotto e venti. La lunghezza del colloquio supporta l’ipotesi del commiato tra i due, in vista delle dimissioni annunciate di Re Giorgio nel 2015. Ma dal Quirinale si precisa comunque ufficiosamente che i congedi sono gestiti e organizzati diversamente. Pare però scontato che il pontefice e il capo dello Stato abbiano parlato delle dimissioni di quest’ultimo. Probabilmente, Napolitano avrà spiegato a Bergoglio come vive questa fase, cercando anche un sostegno alle sue convinzioni. Appena l’altro giorno, al netto di tutte le date che circolano, questo era il ragionamento degli ambienti del Colle: “Il presidente prenderà una decisione definitiva prima di Natale”. Appunto. Di qui, le ragioni della visita a sorpresa di ieri.
I due comunicati sul rapporto “intenso”
Fonti vaticane riferiscono che la richiesta di un incontro sarebbe stata inoltrata a settimana già iniziata. Un fatto insolito. Dal Colle nessuna conferma. In ogni caso, Francesco ha ricevuto subito l’ottantanovenne Napolitano e alla fine sono state ben due i comunicati che riassumono, si fa per dire, il senso del colloquio, di cui non c’è neanche un’immagine. La dichiarazione di padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, è rigorosa, asciutta: “Oggi pomeriggio nella residenza di Santa Marta il Santo Padre ha ricevuto il presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano per un incontro strettamente privato. L’incontro, svoltosi in un clima di grande cordialità, è durato oltre un’ora”. “Strettamente privato” e “grande cordialità” sono le uniche concessioni al clima del faccia a faccia. Il congedo non sarà stato formale, ma sostanziale e informale sì, in linea con lo stile casual, senza fronzoli, del papato di Bergoglio. Più “largo”, invece, il comunicato diramato dal Quirinale: “Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è stato ricevuto oggi pomeriggio in Vaticano da papa Francesco per un incontro di carattere strettamente privato svoltosi in un’atmosfera che ha confermato l’intensità e l’affabilità del rapporto personale tra il Pontefice e il Presidente”. Il Colle ribadisce la natura “strettamente privata” ma mette in risalto, altro fatto insolito, “l’atmosfera che ha confermato l’intensità e l’affabilità del rapporto personale tra i due”. È come se Francesco e Napolitano si fossero visti innanzitutto da amici. E un rapporto intenso e affabile fa presupporre una ricognizione ad ampio raggio, che non esclude nulla. Né la dimensione politica delle dimissioni, né la sfera privatissima dell’attuale stato di salute del capo dello Stato. Emozioni, dubbi, ragionamenti, il senso ultimo della vita. Un incontro tra vecchi amici, appunto, che si confidano tutto.
La decisione sarà presa prima di Natale
Alla prima data utile per le dimissioni di Napolitano, tenendo sempre presente che il presidente in merito ancora non ha deciso nulla e lo farà “entro Natale”, mancano esattamente due mesi. E nel 2013, al tempo del primo congedo dal Quirinale, al termine del settennato, il timing fu esattamente lo stesso. Il 23 febbraio Napolitano andò a “salutare” Ratzinger in Vaticano. Ma in quell’occasione, a dire il vero, a prevalere fu soprattutto il congedo di Benedetto XVI, a cinque giorni dall’effettiva validità delle sue clamorose dimissioni di papa. Non solo. In primavera, scongiurato da Bersani e Berlusconi, Napolitano disse di sì a un secondo mandato presidenziale al Quirinale. A tempo.
La visita di Francesco al Parlamento europeo
Un altro argomento toccato tra i due è stato poi quello della visita che Francesco farà martedì prossimo al Parlamentato europeo. L’ultima volta di Napolitano in Vaticano, prima di ieri, è stata un anno e mezzo fa, nel giugno del 2013. Una visita a Francesco dopo la rielezione al Colle. Ieri, il commiato tra amici. A sorpresa.

La Stampa 22.11.14
“La pillola dei 5 giorni dopo sarà venduta in farmacia”
Via libera dell’Agenzia europea del farmaco, ma l’Italia frena
di Paolo Russo


Addio corse a ostacoli per avere la «pillola dei 5 giorni dopo». Dal 2015 in Europa il contraccettivo efficace fino a 120 ore dopo il rapporto sessuale potrebbe essere acquistato in farmacia senza più obbligo di ricetta medica e, soprattutto, senza più test di gravidanza. Fatto, quest’ultimo, che in Italia ne aveva nella pratica impedito l’uso alla maggioranza delle donne.
La decisione, che da noi ha suscitato polemiche, è stata presa dal Comitato tecnico per i medicinali ad uso umano dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, ma la palla passa alla Commissione europea, che deciderà se emanare un provvedimento ad hoc o una semplice raccomandazione, che spetterà ai singoli Paesi recepire o meno. Il dado sembra però tratto perché l’Ema non ha riscontrato - in oltre 600 gravidanze - pericoli per la salute delle donne. Facendo così decadere quella controindicazione che due anni fa aveva spinto il Consiglio superiore di sanità a consigliare l’uso della pillola solo dopo test di gravidanza. Indicazione subito trasformata in obbligo dall’Aifa, la nostra Agenzia del farmaco. Decisione senza riscontri in Europa, che ha impedito alla maggioranza delle italiane l’accesso in tempi rapidi all’anticoncezionale, che se assunto entro le 24 ore ha un’efficacia tra il 95 e il 97%. Il triplo della tradizionale pillola del giorno dopo.
Invece ottenere in tempi rapidi il super-contraccettivo si è rivelato impossibile in 4 consultori su 5 (9 su 10 al Sud), per mancanza degli stick necessari ad effettuare il test di gravidanza. Così, dopo essersi affacciata nelle nostre farmacie nel 2012, tre anni dopo l’approvazione europea dell’Ema, «ellaOne» si è trasformata alla fine in un flop. Al quale dovrebbe ora porre riparo la decisione dell’Agenzia europea del farmaco, se la Commissione Ue non si limiterà a recepire il tutto con una semplice raccomandazione agli Stati membri.
In tal caso non è detto che per la «pillola dei 5 giorni dopo» la strada sia da noi spianata. Almeno a sentire la reazione a caldo del Sottosegretario alla Salute ai tempi dell’approvazione del farmaco, Eugenia Roccella (Ncd): «Trasformarlo in un farmaco da banco suggerisce che non fa male, e visto che a richiederla sono quasi sempre le adolescenti così non le educhiamo alla consapevolezza di cosa stanno per fare. Inoltre nel foglietto illustrativo c’è scritto che il farmaco è teratogenico in caso di gravidanza pregressa, cioè impedisce il normale sviluppo del feto». Infine «esperienze di altri Paesi dicono che non fa diminuire il numero di aborti». Che invece la pillola eviterebbe soprattutto alle giovanissime, secondo Silvana Agatone, presidente della Laiga, l’associazione dei ginecologi pro-legge 194.

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Repubblica 22.11.14
Inchiesta
Sbarchi, finita la missione Mare Nostrum  con Triton meno fondi e più rischi
Dramma dei naufraghi. Nessuno saprà mai quanti sono
di Raffaella Cosentino e Andrea Fama, video di Alberto
qui


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il Fatto 22.11.14
Duello senza fine
“Scioperi” e “onestà”: rissa Renzi-Landini
Ancora scontri al comizio del premier
di Wanda Marra


Prima o poi si voterà e i suoi avversari non saranno Camusso e Landini, ma Berlusconi e Verdini”. Si intitola “Parole sbagliate” l’editoriale con cui Repubblica ammonisce il premier: “Un conflitto sull’articolo 18 è comprensibile - scrive il quotidiano decisamente amico di Renzi - Molto meno il linguaggio con cui tratta la Cgil”. Si apre con un avvertimento una giornata che è tutta un’escalation. Di toni e di conflitti. Una scivolata del leader Fiom, Maurizio Landini (che parla di mancanza di consenso da parte degli “onesti” per il premier) serve a Renzi su un piatto d’argento la possibilità di giocare il ruolo del “responsabile”. Mentre le tensioni in piazza non solo non si allentano, ma peggiorano.
“NOI Berlusconi l’abbiamo portato al 15%, Camusso e Landini a vincere le elezioni”. Reagisce così alle parole del giornale di Mauro il renzianissimo David Ermini, responsabile Giustizia del Pd. Ai piani alti dem si minimizza: “Domani (oggi, ndr) scriveranno un altro editoriale contro Landini. E poi, B. è già sconfitto”. Nessun pentimento, dunque. Anzi. “Che idea ha il segretario Pd della sinistra che guida? ”, si chiede Repubblica. Chiudendo la campagna elettorale di Stefano Bonaccini per la presidenza dell’Emilia Romagna al Paladozza di Bologna, Renzi giovedì sera non ha esitato a chiamare l’applauso della platea contro il sindacato. Base sociale ed elettorale tradizionale del Pd, soprattutto in una Regione rossa. La platea ha risposto con una standing ovation. Toni altissimi dal palco: “Non hanno scioperato contro la Fornero ma contro di noi e lo fanno per un motivo politico. Noi vogliamo bene ai sindacati che difendono i lavoratori e non i sindacati che difendono la miriade di sigle, difendiamo il lavoro e non i professionisti della burocrazia”. Entusiasmo in platea. Perplessità tra gli stessi Democratici per una reazione talmente forte da essere inaspettata. Si chiamano in ballo gli errori del sindacato, ma pure la piaggeria nei confronti del leader. Commenta Stefano Fassina, il giorno dopo: “È preoccupante. Chi va a sentire Renzi è selezionato in origine. Molti, infatti, non ci vanno più”.
Tra una scintilla e l’altra, a un certo punto arriva il cortocircuito. “Oggi Renzi il consenso di chi lavora, dei giovani che stanno cercando lavoro, delle persone oneste non ce l’ha. E allora, deve decidere da che parte stare”, dice Landini durante un corteo a Napoli. Putiferio. Il premier lancia l’hashtag “#bastainsulti”, i suoi rincarano con “#iosononesto”. Il Pd va all’attacco. “Dire che il governo non ha il consenso delle persone oneste offende milioni di lavoratori che nel Pd credono. Spiace che a farlo sia un sindacalista”, commenta Matteo Orfini, presidente Dem. Posizione ufficiale. Angelo Rughetti, sottosegretario alla Pa, denuncia all’Huffington Post: “La strategia del sindacato è l’escalation contro il governo”. Landini si scusa a stretto giro di posta davanti alle telecamere: “Se quella cosa l’ho detta non è il mio pensiero. Se sono stato poco chiaro me ne scuso”. Un assist involontario. “Noi andiamo avanti ancora più convinti”, ripete Renzi ai collaboratori, dicendosi preoccupato per il clima nel paese. “Landini oggi è la prova di chi cerca solo lo scontro con gli insulti”, evidenziano da Palazzo Chigi. Non è un caso che ieri il Capo del governo scelga di andare in Confindustria a esibire lo scalpo: “L’articolo 18 non è più un problema”.
Il leader Fiom più tardi chiarisce: “Volevo dire che il consenso sulla loro azione non ce l’hanno. Questo non è un governo eletto dalle urne. Nessun partito aveva nel programma le cose che stanno facendo”.
I due, amici in passato, non si sentono. Nessuna ricucitura. Anche se, ammettono i renziani: “Matteo preferisce avere nemici la sinistra e il sindacato piuttosto che i Cinque Stelle”. Che i toni sono troppo alti, che così la situazione non si tiene però qualcuno a mezza bocca nel Pd lo dice.
ANCHE ieri Renzi viene accolto da tafferugli a Cosenza. Il responsabile Economia del Pd, Taddei, gira con la scorta. Lo schieramento di polizia in ogni occasione pubblica è imponente: una strategia precisa per evitare l’incidente, da parte delle forze dell’ordine. Ma anche una misura di sicurezza: ci sono state segnalazioni secondo le quali è meglio proteggere bene le uscite del presidente del Consiglio. Non è un caso che lui abbia scelto luoghi chiusi per la fine della campagna elettorale. E invece di fendere la folla, come ama fare, preferisca entrare dalla porta laterale. Il timore è che, partendo da fischi e uova, si arrivi a qualcosa di peggio.

Repubblica 22.11.14
Landini
“Va bene, ho detto una cavolata ma la protesta dei lavoratori c’è il governo non può nasconderla”
I toni duri di questi giorni sono figli della mancanza di dialogo Renzi divide non solo chi lavora ma gli stessi imprenditori
intervista di Paolo Griseri


GLI insulti? «Sono figli della mancanza di dialogo». Maurizio Landini riflette sulle reazioni alla sua controversa affermazione: «Renzi non ha il consenso delle persone oneste».
Landini, pensa davvero che gli onesti stiano con lei e i disonesti con Renzi?
«Non ho detto questo. È stata estrapolata una frase dal mio discorso ».
C’è il video..
«Certo, c’è il video. Ma io non ho mai pensato che solo chi è con noi è onesto».
Ma l’ha detto..
«Ho detto che la maggioranza di coloro che lavorano e di chi il lavoro lo cerca, la maggioranza di coloro che pagano le tasse e non le evadono, non appoggia le scelte del governo».
Lei crede che la maggioranza dei lavoratori sia contro Renzi?
«Io constato che le manifestazioni di protesta di questi giorni hanno una partecipazione come non si vedeva da vent’anni. E penso che questo sia il messaggio più importante di una giornata come quella di ieri a Napoli».
Messaggio offuscato da quella frase sugli onesti. Come è stato possibile?
«Non volevo certo offendere coloro che sostengono le politiche di questo governo. Poi, può far comodo utilizzare la frase di Landini per nascondere il messaggio di protesta che arriva dai luoghi di lavoro e dai pecari. È una strategia ma non serve a risolvere il problema. È un altro modo per nascondere la cenere sotto il tappeto».
Anche se fosse così, non è il caso di fornire la scopa a chi si accinge a farlo, non crede?
«I toni duri di questi giorni sono figli della incomunicabilità. Un governo che rimane indifferente di fronte alle centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che protestano nelle piazze, che si rifiuta di discutere con i sindacati sulle leggi che riguardano il lavoro, che non si confronta in Parlamento e modifica leggi fondamentali come lo Statuto dei lavoratori a colpi di fiducia, non può attendersi che nelle fabbriche e negli uffici si alzino cori di consenso ».
Lei si sente l’altra faccia di Salvini, come ha detto Renzi?
«Io non voglio trascendere e arrivare a questi livelli di personalizzazione. Non mi interessano messaggini su twitter, battutine, giochi di parole: i lavoratori italiani si attendono dal governo leggi che facciano aumentare l’occupazione, che tengano le aziende in Italia, che riducano le tasse sul lavoro, che combattano la precarietà. Invece abbiamo un governo che divide il paese, che cerca di mettere precari contro lavoratori dipendenti, cittadini contro sindacati, che divide addirittura gli imprenditori tra di loro».
Ma non era lei, nella Cgil, l’uomo del dialogo con Renzi?
«Quando ha fatto cose positive lo abbiamo apprezzato. Ritengo che sia stata positiva la scelta di mettere gli 80 euro in busta paga, penso che sia stata positiva la decisione che ha favorito l’utilizzo dei contratti di solidarietà per risolvere il caso Electrolux. Noi siamo autonomi, come sempre dovrebbe essere un sindacato. Discutiamo sul merito delle questioni. Non siamo pregiudizialmente contro o a favore del governo. Lo misuriamo e lo giudichiamo sulle scelte che fa. Quelle degli ultimi mesi sono scelte divisive, che non servono a risolvere la crisi del lavoro in Italia e che seguono ricette ormai ritenute sbagliate anche da una parte degli imprenditori».
Per dire tutto questo, c’era bisogno di tirare in ballo la categoria dell’onestà?
«Non ce n’era bisogno, almeno non nel senso in cui quella frase poteva essere interpretata».
Possiamo dirla in modo non democristiano?
«Certo, non mi è mai piaciuto nascondermi dietro le parole».
E’ stata una frase infelice? Come si dice, una cazzata?
«Si, è stata una cavolata. Anche perché non riflette proprio quel che penso. Non ho mai ritenuto di dividere il mondo in due, con i buoni dalla mia parte e i cattivi dall’altra. Noi lavoriamo per unire i lavoratori. E’ la politica che cerca di dividerli».

La Stampa 22.11.14
L’eterno (e sfortunato) ritorno del partito degli onesti
Un mito bipartisan passato indenne alla terza Repubblica
di Mattia Feltri

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Corriere 22.11.14
Dai fax ai girotondi
Quell’eterna pretesa del monopolio morale
di Pierluigi Battista


Ancora una volta l’uso politico dell’«onestà». Non l’onestà che si richiede a tutti, la precondizione dell’agire politico, risorsa che nessuno schieramento può pretendere di monopolizzare. Ma l’«onestà» come arma contundente, il tic del dare del «disonesto» all’avversario politico. Malgrado le smentite, resta nel sospetto di «disonestà» lanciato ieri da Landini sui sostenitori di Renzi il retrogusto di un luogo comune avvelenato molto diffuso negli anni agonici della Prima Repubblica e nel cuore della Seconda: la pretesa della propria superiorità morale, la condanna nel girone infernale della «disonestà» del Nemico considerato antropologicamente portato all’immoralità. Una pretesa sempre meno fondata e credibile, tra l’altro, vista l’universalità trasversale di comportamenti eticamente discutibili. Nessuno è più autorizzato a scagliare la prima pietra.
È una corrente sotterranea che esonda e invade le piazze. Prima il «popolo dei fax», poi quello del «post it», poi i girotondi che si stringono non attorno a una fabbrica, luogo del lavoro e della sinistra del lavoro, ma attorno a un tribunale, luogo della legge e dell’ordine, ma soprattutto tempio dei magistrati che come angeli vendicatori rappresentavano per quel popolo là fuori il surrogato della lotta politica, la casta in toga deputata a ripulire la Nazione dai «disonesti» che la politica dei partiti, dei voti, della democrazia non riusciva a cacciar via. Una storia antica, una pretesa antica.
All’inizio degli anni Ottanta il dibattito politico italiano ruotò intorno al surreale quesito se i comunisti fossero da considerarsi veramente moralmente superiori agli altri oppure no. Una pretesa assurda ma che fu presa sul serio da tutti. La «questione morale» agitata da Enrico Berlinguer era questo: il dogma della propria diversità, il presupposto che tutti fossero cattivi, malvagi, ladri, disonesti, lottizzatori tranne i comunisti. La dicotomia di un mondo pulito e incorrotto, quello del Pci e di ciò che gli ruotava attorno, e di uno impuro, peccaminoso, immerso nel Male, quello che si identificava con tutti gli altri partiti.
Il povero Aldo Moro, prima di essere rapito e ammazzato con la sua scorta, invano in Parlamento assicurava che la Dc non si sarebbe fatta «processare» nelle pubbliche piazze. E invece la Democrazia Cristiana (con gli altri partiti di governo) si è fatta eccome processare nelle pubbliche piazze oltreché nei tribunali. Erano i «forchettoni» bersagliati dal Togliatti che nel frattempo faceva affluire nelle casse del Pci rubli a dismisura. Ma i «forchettoni» erano sempre gli altri. Nelle parole di Landini, certamente eccessive nella foga tipica del personaggio, e poi attenuate, parla inconsciamente questa tradizione. La stessa tradizione che portò un qualche «popolo» eterodiretto a circondare il Raphael, rifugio dell’Orco, dell’Arcinemico, Bettino Craxi e a umiliarlo in favor di telecamera con sprezzanti monetine: «Rubati anche queste». Non era forse il campione della Disonestà da linciare in piazza prima ancora che un tribunale ne decretasse l’eventuale colpevolezza?
Ma c’è sempre a sinistra uno più puro che ti epura, sosteneva Pietro Nenni, memore delle degenerazioni del giacobinismo che sfociò nel Terrore e nella mistica della ghigliottina tanto cara al Robespierre che veniva infatti glorificato come l’«Incorruttibile» (ma dopo averne mozzate tante, anche lui ebbe infine la testa mozzata). E anche nella Seconda Repubblica accadde che una setta dei puri, capitanata da Antonio Di Pietro, diventasse la casa di tutti gli epuratori. Per la verità non è che l’Italia dei Valori, con Razzi e Scilipoti, abbia richiamato sempre intransigenti seguaci dell’incorruttibilità alla Robespierre. E nei partiti che erediteranno la storia del Pci la pretesa tardo-berlingueriana di essere i portabandiera della «questione morale» non è stata accompagnata sempre da visibili applicazioni pratiche di quegli austeri princìpi. Era parso che il sindacato, aduso a ben altri impegni a difesa del lavoro, non si fosse fatto contaminare dai cascami velenosi del giustizialismo forcaiolo. Ma le parole (per quanto poi frenate) di Landini smentiscono questa convinzione. Noi onesti, loro disonesti appare ancora oggi una retorica facile da usare.

La Stampa 22.11.14
La crepa a sinistra e il futuro di Landini
di Marcello Sorgi


Mitigato appena dalle scuse del segretario della Fiom (aveva detto che gli onesti non dovrebbero votare Pd) e da una reazione controllata del premier, lo scontro Landini - Renzi ha animato l’ultima giornata di campagna elettorale, aprendo una crepa a sinistra che entrambi forse si sarebbero volentieri risparmiata. La rottura tra il presidente del consiglio e il leader dei metalmeccanici infatti è recente. In tutta la prima fase della segreteria dell’ex-sindaco, e anche dopo il suo approdo a Palazzo Chigi, il braccio di ferro era stato (e rimane) con la Camusso. La discriminante che ha finito con l’allineare la segretaria della Cgil e quello della Fiom è stato il Jobs Act, con la cancellazione dell’articolo 18 e del diritto alla reintegra per i licenziamenti ingiustificati, che il sindacato era riuscito a salvare anche dalla riforma Fornero.
Né Camusso né Landini inoltre hanno gradito che la parte bersaniana della minoranza Pd, inizialmente schierata contro la riforma del mercato del lavoro progettata dal governo (e ieri, dopo l’infelice frase sugli «onesti», schierata con Orfini contro Landini) sia arrivata facilmente all’accordo sui licenziamenti disciplinari, che ha consentito di far uscire in breve tempo il testo del Jobs Act dalla commissione e potrebbe permettere di vederlo definitivamente approvato alla Camera entro il 9 dicembre.
A quel punto il governo sarebbe in grado di mantenere l’impegno del varo definitivo della riforma entro la fine dell’anno e dell’entrata in vigore, dopo l’emanazione dei decreti connessi alla delega, a partire da gennaio 2015: ciò che Renzi ha ribadito ieri, parlando a suocera (sindacati e Confindustria) perché nuora (Bruxelles e la Commissione europea) intendano.
Seppure Cgil e Fiom non riusciranno a fermare il Jobs Act e la battaglia del sindacato - che culminerà il 12 dicembre nello sciopero generale organizzato con la Uil - è dunque destinata, almeno per il momento, a restare di testimonianza, non è un mistero che su Landini negli ultimi tempi si concentrino le attenzioni della sinistra radicale e della parte della minoranza Pd (Fassina, D’Attorre, Civati), che continua ad opporsi alla cancellazione dell’articolo 18 e potrebbe votare contro alla Camera. Landini insomma ieri ha perso il primo tempo della partita. Ma ha portato all’estremo la rappresentazione della rottura tra Pd, governo e una parte consistente del mondo del lavoro. Per questo, in caso di scissione del partito, è atteso al secondo tempo come leader della nuova formazione che potrebbe nascere a sinistra.

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il Fatto 22.11.14
Così l’offensiva di Renzi ha rivitalizzato i sindacati
Landini conteso tra le trasmissioni tv, Barbagallo intervistato ovunque e i cortei affollati
Gli attacchi del premier un balsamo per Cgil Cisl e Uil
di Salvatore Cannavò


Quando Maurizio Crozza imita Susanna Camusso si capisce quanto gli attacchi di Matteo Renzi abbiano rivitalizzato il sindacato. Certo, il comico genovese sbeffeggia la vetustà dei dirigenti della Cgil, li proietta indietro di decenni. Ma non si erano mai visti leader sindacali scaraventati nel vivo della satira televisiva. Negli anni Settanta, la satira era più corrosiva di uno sberleffo e se ne accorse Luciano Lama all’università di Roma nel 1977 (“I Lama stanno in Tibet” recitava un celebre slogan). Oggi, la Cgil conquista i riflettori del “circo mediatico” grazie al fatto di essere l’unica vera opposizione al governo e grazie al duello che Camusso ha ingaggiato con il premier.
L’IMPATTO BENEFICO si è esteso, nell’ultima settimana, anche alla sigla sindacale più piccola delle tre. Carmelo Barbagallo, eletto ieri segretario generale della Uil, è stato fotografato, intervistato, vivisezionato come mai era successo a un dirigente di quella componente. Qualcuno ipotizza che la mannaia della satira crozziana stia per abbattersi anche su di lui e sul suo marcato accento siciliano. Tutti segnali della buona salute mediatica del sindacato.
Il segretario della Fiom, Maurizio Landini, è ormai presente in tv a giorni alterni e averlo in trasmissione è considerato alla stregua di uno scoop. L’effetto si sta estendendo alla Cgil anche se la Camusso non ha la stessa rapidità verbale del leader metalmeccanico ma, a giudicare dalle battute fulminanti, si sta attrezzando. Insomma, tra i tanti effetti dell’era Renzi c’è la rianimazione del sindacato. Che, fino a ieri, non se la passava così bene.
Nonostante una quantità di iscritti da record - Cgil, Cisl e Uil superano i 12 milioni, un elettore su quattro - i risultati dell’attività sindacale sono magri da tempo. I rinnovi contrattuali sono sempre più difficoltosi. Ne sa qualcosa il pubblico impiego dove il contratto è fermo al 2010 e prima del 2016 non vedrà novità positive.
NELLA SCUOLA è anche peggio, il contratto è bloccato al 2009. Senza la firma della Fiom, i metalmeccanici hanno dovuto accettare un contratto “modello Marchionne” che ha reso più poveri i lavoratori e più difficili le vertenze sindacali. In diversi settori sono stati firmati salari di ingresso molto inferiori al salario contrattuale.
I dati sulla partecipazione agli scioperi negli ultimi decenni (dati Istat), offrono chiaramente il quadro della crisi. Nel 1969, l’anno del primo, vero “autunno caldo”, i lavoratori dell’industria coinvolti in scioperi furono 4,7 milioni e le ore non lavorate 232 milioni. Nel 1979 i lavoratori furono 6,4 milioni a fronte di 106 milioni di ore non lavorate. La cifra precipita nel 1990: 1 milione di lavoratori coinvolti per 25 milioni di ore non lavorate. Ma si inabissa nel 2009: 171 mila lavoratori per 1,5 milioni di ore non lavorate. La curva discendente non è mai stata risalita.
I dati di sciopero tra il 2009 e il 2013 indicano una sostanziale stabilità del conflitto sociale e della formula dello sciopero che, per dirla con l’Autorità garante degli scioperi, è soprattutto “uno strumento di legittimazione, per ottenere visibilità contrattuale”.
Tra i grandi sindacati, sono pochi quelli a poter vantare risultati positivi. Il massimo che si riesce a esaltare è aver mantenuto le postazioni o posti di lavoro in cambio di riduzioni salariali.
Le cose non vanno meglio sul fronte della credibilità sindacale. Che è bassa, forse solo la politica è meno credibile. Secondo un’inchiesta condotta dall’Associazione Bruno Trentin, della Cgil, solo il 15 per cento della popolazione attiva è interessata a iscriversi a un sindacato (anche se il 72 per cento dice di essersi rivolto a un sindacato per consigli o per far valere dei diritti).
IL SINDACATO È ASSOCIATO a cattiva trasparenza, a scarsa moralità, a commistione con le logiche di impresa o delle burocrazie pubbliche. Le notizie relative alle super-pensioni di alcuni suoi dirigenti destano scandalo e rendono la vita delle organizzazioni sindacali sempre più difficile.
L’altro giorno Renzi ha ricordato che in occasione della riforma Fornero non c’è stato nessuno sciopero generale (in realtà ci fu quello della Fiom) mentre ora si fa uno “sciopero politico”. La vicenda delle pensioni è un’altra nota dolente, che pesa sulla credibilità di Cgil, Cisl e Uil.
OGGI, PERÒ, tutto questo sembra superato. Il sindacato è di nuovo tornato protagonista. Non sarà come nel 2002, quando Sergio Cofferati fece conoscere alla Cgil una seconda giovinezza ma per il sindacato italiano si apre una fase di tipo nuovo. Quello che è chiaro, soprattutto a sinistra, è che finisce la lunga fase della promiscuità con il partito della sinistra. Renzi recide i legami e lascia la Cgil al proprio destino, quello di un soggetto che dovrà reinventare la propria, autonoma, capacità di “fare politica” nel senso pieno del termine. A meno che non prevalga, ancora una volta, la logica della prova di forza per arrivare, infine, a un compromesso e a un reciproco riconoscimento dei contendenti in campo. Ieri, Barba-gallo della Uil, lo ha detto chiaramente: “Renzi inventi una scusa per evitare il nostro sciopero”.
Il sindacato lo ha già fatto altre volte: alzare la voce per essere accettato a tavola. La logica politica lascia presagire che stavolta non succederà. Ma sono in molti a sperare il contrario.

Corriere 22.11.14
Carmelo Barbagallo, nuovo segretario della Uil
«Facevo boxe Con il premier non abbasso lo sguardo»
intervista di Monica Guerzoni


ROMA Da quando aveva i calzoni corti Carmelo Barbagallo, nuovo segretario della Uil, è stato barbiere, pastaio, meccanico. Ha lavorato in una cooperativa ittica e in un magazzino di smistamento postale, per poi approdare alla Fiat di Termini Imerese.
L’unico mestiere che non ha fatto è il presidente del Consiglio .
«Una volta al Costanzo Show c’era Massimo D’Alema. Io lo contestavo e lui mi disse “anche io da giovane ho fatto l’agitatore politico”... E io risposi “Bene! Vuol dire che io posso diventare presidente del Consiglio”».
Adesso c’è Matteo Renzi .
«Lui ci sfida, ma io non abbasso lo sguardo. L’avversario devi guardarlo negli occhi, l’ho imparato dal pugilato».
Ha fatto anche il pugile ?
«Mio padre era un campione, peso mosca e poi gallo. Anche io ero bravo,
sul ring. Ma lui mi diceva
che non avevo il pugno
del knock-out, mi manca la cattiveria finale».
Sogna di mandare il presidente del Consiglio Matteo Renzi a tappeto?
«Ha preso un po’ di vizi da sindaco. Dice che è eletto dal popolo e risponde al popolo, il che andava bene per la Democrazia cristiana...».
Le piace il Jobs act ?
«Troppo inglese, circolazione a sinistra e guida a destra».
Lei quanto guadagna ?
«Io sarei il primo firmatario di una legge che mette in trasparenza tutto».
Bene, quanto prende?
«Non posso subire interrogazioni come fossi un colpevole».
Quindi non lo dice?
«Se me lo chiede un politico, no».
Ha detto che si è laureato alla Uil, il suo sindacato. Non teme le caricature?
«Non ho avuto tempo di andare a scuola. L’italiano l’ho imparato dai fumetti, e allora? Se sono arrivato fin qui è perché ho un quid che qualcun altro non ha».
Non è fuori tempo un leader di 67 anni?
«Un vecchio proverbio masai dice “i giovani corrono veloci, gli anziani conoscono la strada”. Lo dico a Matteo Renzi e ai suoi ministri non parlanti».
Condivide la frase del segretario della Fiom Maurizio Landini su Matteo Renzi?
«Ha esagerato, bisogna abbassare i toni».
In bocca al lupo, allora.
«Sono stufo di dire “crepi il lupo”. La razza è in via di estinzione».

il Fatto 22.11.14
La solitudine dei call center in piazza
A Roma la protesta, ignorata dai politici, per chiedere tutele contro le delocalizzazioni
di Sal. Can.


Determinati, generosi, combattivi. Ma soli. Questa l’immagine della “Notte bianca dei call center” che si è svolta ieri sera a Roma. Alcune migliaia in corteo, tra le strade buie della capitale, fino a una piazza del Popolo allestita con un grande palco, con ospiti musicali, attori, cantanti, a supportare una vicenda che dura ormai da tempo. Ma nessun politico, nessun parlamentare a sostenere la vertenza. Meno che mai il governo. Solo Susanna Camusso trova il tempo di portare un saluto e il messaggio di sostegno della sua Cgil.
Il bersaglio privilegiato è Matteo Renzi, le sue politiche, i suoi sberleffi. I suoi attacchi al lavoro e al diritto di sciopero. Sarebbe interessante osservare un confronto tra una piazza anomala come questo e il giovane leader del Pd. I lavoratori dei call center in Italia sono diventati ormai 80mila di cui la metà con contratti a tempo indeterminato e il resto precari. Non hanno più il profilo di qualche tempo fa, non sono studenti in cerca di un lavoro provvisorio. Come dicono i lavoratori dell’Accenture di Palermo che rischiano di finire in mobilità, “262 (i possibili licenziati, ndr.) non è un numero ma famiglie”.
“E OGGI CI VUOLE UN BEL CORAGGIO a metter su famiglia” dice il loro rappresentante mentre interviene dal palco prima che la “notte bianca” cominci sul serio. In prevalenza vengono dal sud. Dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Sardegna, dalla Campania. Ma ci sono delegazioni anche dal nord, l’Almaviva contact, il gigante del settore, la E-Care di Cesano Boscone dove sono in 489 ad aver perso, di fatto, il posto di lavoro. Nel corteo, che si snoda nella fredda serata romana, tra le vetrine e il traffico del centro già affollato, lo slogan ripetuto fino alla noia è uno solo: “Vogliamo il lavoro”. Lo chiedono a gran voce da Taranto dove Teleperformance, con i suoi 2000 dipendenti, età media 35 anni, è la seconda realtà imprenditoriale dopo l’Ilva.
Le aziende, man mano che perdono le commesse, lasciano a casa i lavoratori. Ed è qui che si sostanzia la principale richiesta, l’applicazione della direttiva Ue secondo la quale, quando un’azienda (le Poste, l’Enel, etc.) decide di cambiare l’operatore di call center in un determinato sito deve mantenere i lavoratori. Oggi, invece, le aziende si susseguono una dopo l’altra perché gli appalti al massimo ribasso spazzano via la concorrenza e questi sono possibili tramite due strade: le delocalizzazioni (Albania in primis) e le nuove aziende che riaprono al sud grazie agli incentivi pubblici. I nemici principali sono questi. “La flessibilità non è spostare l’azienda dove gli pare”. Ma si chiede anche “dignità”. “Spesso viviamo con 700 euro al mese e vediamo ragazze licenziate perché sono state troppo tempo in bagno” dice Girolamo di Milano.
Per il governo, il sottosegretario Teresa Bellanova assicura che il settore sarà seguito “con attenzione”. Meno vaga la proposta del M5S che annuncia un progetto di legge ad hoc.

il Fatto 22.11.14
W le riforme
Lo scontro è uno spot per i mercati
di Stefano Feltri


Oggi l’articolo 18 è solo un simbolo, un totem ideologico, inutile stare adesso a discutere se abolirlo o meno”. Così parlava Matteo Renzi il 12 agosto scorso, su Rai3, per rassicurare chi temeva l’ennesimo “autunno caldo”. E poi cosa è successo? Renzi è rimasto convinto che l’articolo 18 sul reintegro dei licenziati senza giusta causa abbia una valenza soltanto simbolica. Ma da questa consapevolezza ha tratto una conclusione opposta a quella estiva: il governo ha bisogno dello scontro sempre più forte con i sindacati e anche delle piazze piene di manifestanti.
“PER TRASFORMARE l’Italia in una economia moderna e competitiva serve una agenda di riforme ampia e il governo Renzi è sulla palla, con un impressionante pacchetto di riforme”, ha scritto domenica scorsa il capo economista globale di Unicredit Erik Nielsen nella sua seguitissima analisi settimanale. Nielsen difende il Jobs Act dai “naysayers” (i gufi, direbbe Renzi) che vedono nel compromesso con la minoranza Pd sul reintegro per gli ingiusti licenziamenti disciplinari un cedimento.
Gli economisti delle banche che spiegano l’Italia agli investitori che determinano l’andamento della Borsa, il prezzo degli interessi sul debito pubblico e, in parte, le prospettive della nostra economia, hanno un approccio schematico. Vedono un Paese che è in recessione, col Pil 2014 a -0,4 e quello 2015 che, se va bene, sarà +0,5. Un debito pubblico enorme sopra il 133 per cento del Pil e una produttività dei lavoratori bassa. I problemi citati sono sempre due: la lentezza della giustizia civile e un mercato del lavoro che non funziona.
Nella lettura semplificata che presentano ai clienti nei loro report, Renzi è un premier che finalmente sta affrontando questi nodi in modo coraggioso, come dimostrano le proteste di piazza dei sindacati che manifestano per difendere lo status quo, l’Italia come la Germania di dieci anni fa ai tempi delle riforme Hartz. Questa l’analisi di Royal Bank of Scotland del 18 novembre: “Renzi sta spingendo con decisione le riforme” e ha anche “ottenuto l’approvazione del cruciale Jobs Act per riformare il mercato del lavoro”. Appena più cauto il Credit Suisse, il 6 novembre: “In Italia l’area chiave da riformare nel breve termine è il mercato del lavoro dove il premier ha ottenuto il consenso per una vasta gamma di proposte inclusa l’estensione dei sussidi disoccupazione, il taglio del numero dei contratti a termine e una riduzione della protezione dei lavoratori a tempo indeterminato (articolo 18) ”.
E tutto questo, cioè l’approvazione di misure così controverse, avviene senza apparenti ripercussioni sul sostegno al premier: secondo i sondaggi diffusi ieri da Ixé, il Pd ha ancora il 38,2 per cento dei consensi, nonostante le sempre più frequenti contestazioni al premier lascerebbero pensare a un calo ben più drastico dal 40,1 di giugno.
Nei report delle banche non si legge mai che il Jobs Act è soltanto una legge delega, che i tempi reali di applicazione sono assai incerti (esiste già una delega sul fisco, per esempio, ma l’esecutivo non ha mai emanato decreti delegati), che tutti i dettagli che dovrebbero certificare lo spirito riformatore di Renzi sono ancora incerti e il loro impatto economico ancora di più.
SOLTANTO Goldman Sachs, che pure è positiva sul governo, si concede un invito alla prudenza. In una analisi diffusa ieri scrive che le riforme di Renzi dovrebbero spingere il Pil ma “se fallisce la loro applicazione o si rivela deludente, la crescita in Italia potrebbe rimanere sclerotica” (nel senso di asfittica).
Non si leggono molti numeri sull’impatto del Jobs Act. Quella di Renzi è un’operazione tutta di simboli e i sindacati si stanno comportando secondo il copione immaginato dal premier. L’operazione di immagine fuori dall’Italia sta funzionando. Il bilancio interno, tra scioperi, tensioni e delusioni crescenti, è molto meno esaltante.

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Corriere 22.11.14
Si complica l’accordo sull’Italicum del premier
di Massimo Franco


Matteo Renzi comincia a rendersi conto che senza completare la riforma del Senato, gli sarà difficile avere quella elettorale. Nascerebbero tali e tante questioni, anche di costituzionalità, da scoraggiare qualunque forzatura. Silvio Berlusconi, invece, è sempre più convinto che l’Italicum abbozzato dal premier e dal suo alleato Angelino Alfano non convenga a Forza Italia. La soglia del 3 per cento per entrare in Parlamento favorisce i piccoli partiti e impedisce l’eventuale ricomposizione del centrodestra. E il premio alla lista darebbe un vantaggio indubbio al Pd.
Per questo, i contorni della riforma del voto stanno diventando più confusi e sfuggenti. I tempi si possono allungare, sebbene Renzi sia convinto di poter chiudere per fine anno. La verità è che oggi Berlusconi, l’uomo-simbolo del sistema maggioritario, ne è il più acerrimo avversario. E considera l’odiato proporzionale la formula magica per la sopravvivenza. Non a caso, da qualche giorno il suo partito getta parole di scetticismo sull’Italicum nella versione governativa. E lascia filtrare la tentazione di elezioni anticipate; ma non con le regole abbozzate da Renzi e prefigurate dalla trasformazione del Senato. Forza Italia accarezza l’idea di andare alle urne seguendo le indicazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale dell’anno scorso: quella che ha bocciato il cosiddetto Porcellum e suggerisce una legge fondata sul massimo di proporzionalità. Insomma, la sensazione è che le distanze tra premier ed ex premier vadano accentuandosi non solo sulla politica economica. I loro interessi elettorali divergono. E le fronde simmetriche e opposte dentro il Pd e dentro FI rendono il patto del Nazareno tra loro un’intesa a rischio di tenuta.
Sulle prospettive della legislatura a questo punto non pesa solo l’incognita delle dimissioni di Giorgio Napolitano dal Quirinale. Va valutato anche se e come si evolverà il rapporto tra il presidente del Consiglio e Berlusconi. Per Renzi, andare al voto senza un premio di seggi alla forza maggiore significherebbe ritrovarsi con un Parlamento perfino più frammentato dell’attuale; e senza la certezza di poter governare. Berlusconi, invece, per quanto indebolito politicamente e numericamente, conserverebbe comunque la speranza di entrare in una coalizione; senza contare che rinvierebbe la resa dei conti con i suoi oppositori interni.
Rimane un aspetto non secondario: l’acuirsi delle tensioni sociali e dello scontro tra premier e sindacati. La tensione tra Renzi e la Cgil è tale che si comincia a ipotizzare una mediazione per evitare lo sciopero generale del 12 dicembre: sebbene non si capisca come. La Fiom, la federazione dei metalmeccanici, sta andando fuori misura. Il segretario Maurizio Landini ieri è arrivato a dire che a votare il leader del Pd non c’è «la gente onesta»: un autogol seguito da una rettifica imbarazzata. L’episodio, tuttavia, conferma a che livello sia arrivato il conflitto. Bisogna solo capire se lo si vuole contenere o cavalcare, da parte di entrambi: magari per calcoli elettorali.

Corriere 22.11.14
Alle urne con il Consultellum
La tentazione di Berlusconi
Renzi vuole l’Italicum dal Senato come regalo di Natale, Berlusconi invece spera di trovare nell’uovo di Pasqua le elezioni con il Consultellum.
di Francesco Verderami


La politica riflessa nello specchio offre sempre di sé un’immagine rovesciata: così il premier — che sembra desideroso delle urne — sta dando in realtà «ampie garanzie» al capo dello Stato e agli alleati di governo, sostenendo di non voler interrompere la legislatura; mentre il Cavaliere — che fa mostra di temere il voto — vorrebbe tanto un lavacro elettorale. C’è più di un motivo che divide i pattisti del Nazareno, e il mini-test delle Regionali porterà tutto alla luce.
Perché non c’è dubbio che l’astensionismo potrebbe macchiare la vittoria del Pd, data per scontata, ma una debacle di Forza Italia spalancherebbe le porte degli inferi davanti a Berlusconi, che ieri si è già precostituito l’alibi in previsione della sconfitta: «Il mio partito è stato ingiustissimamente mutilato dall’assenza del suo leader». È un pezzo di verità, a cui va aggiunto però l’altra parte, visto che il Cavaliere si è preclusa anzitempo in Calabria la possibilità di competere con il Pd, rompendo l’alleanza di centrodestra.
Si vedrà se l’idea di ricongiungere la coalizione da lunedì prossimo è una manovra tattica o un progetto strategico, ma è evidente che il tempo è nemico di Berlusconi, e che i suoi avversari proprio sul fattore tempo fanno affidamento. Le elezioni in primavera con il Consultellum sarebbero quindi l’unico modo per rompere l’assedio a cui va incontro, ecco perché ieri — per una volta — Brunetta ha interpretato autenticamente il pensiero di Berlusconi: «Prima si va alle urne con il Consultellum, meglio è».
Per quanto ridimensionato nella forza, il Cavaliere — con il proporzionale — si garantirebbe comunque un ruolo al fianco di Renzi per un governo che, dietro il solenne impegno di varare le riforme, porterebbe indietro le lancette della storia. Per arrivarci, però, sarebbe necessario che qualcuno staccasse la spina all’attuale esecutivo. E siccome il premier dice di voler «vincere o perdere da solo», toccherebbe a Ncd aprire la crisi, dopo che l’«operazione Lassie» è fallita e Berlusconi non è riuscito a smontare i gruppi parlamentari di Alfano. Sono davvero queste le intenzioni del Cavaliere? Perché due settimane fa si rivolse così al suo ex delfino: «Si dia una mossa». Senza questa «mossa», e in caso di sconfitta alle Regionali, il leader di Forza Italia dovrebbe fronteggiare — oltre l’Opa di Salvini — anche l’offensiva interna di Fitto, che da giorni si chiede se il ricovero per l’uveite sia servito a Berlusconi solo per porre rimedio al malanno o anche per evitare il loro programmato faccia a faccia. Una cosa è certa: l’ex governatore della Puglia non ha accettato di sconvocare la manifestazione organizzata per il 27, nonostante le richieste pressanti del Cavaliere.
La «pace armata» sta per terminare, e un risultato negativo alle Regionali riaprirebbe il conflitto in Forza Italia. La tempistica dipenderà da Renzi, per quel gioco di incastri che tiene assieme le cose della politica.
Qualora il premier garantisse la prosecuzione della legislatura e si chiudesse la finestra elettorale di primavera, a fianco di Fitto si potrebbero schierare molti di quei parlamentari azzurri finora rimasti prudenti per paura delle urne. A quel punto, basterebbe una parola a provocare il terremoto: «Primarie». Sarebbe un big bang che aprirebbe nuovi scenari dentro il centrodestra, preludio magari di quel «nuovo contenitore» evocato nei giorni scorsi da Gasparri e in cui potrebbero infine ritrovarsi le forze che in Italia si rifanno al Ppe, così da ridimensionare le mire leghiste e per rilanciare un’area moderata di governo credibile nella sfida con Renzi. Nessuna manovra nell’ombra contro Berlusconi, «io faccio tutto allo scoperto» ha detto ieri in un comizio Fitto, convinto che il premier non voglia nè possa andare alle urne, ma in attesa di avere «una prova».
E la «prova» si materializzerà la prossima settimana, quando sull’Italicum il leader del Pd ufficializzerà lo «scambio» al Senato: Renzi chiederà che palazzo Madama esamini la riforma del sistema elettorale tra il 21 e il 24 dicembre, e accetterà al contempo una norma transitoria che renderà inapplicabile il nuovo meccanismo di voto fino alla riforma del bicameralismo. Ecco il regalo di Natale che si aspetta. Per Berlusconi sarebbe come trovarsi il carbone sotto l’albero.

Il Sole 22.11.14
Sull'Italicum frenatori all'opera
di Roberto D'Alimonte


L'ultima novità in tema di riforma elettorale è questa: il Parlamento non dovrebbe legiferare nei prossimi giorni perché un voto definitivo sull'Italicum creerebbe una situazione in cui non si potrebbe tornare a votare per mancanza di uno strumento elettorale costituzionalmente legittimo.
È la tesi di alcuni costituzionalisti ed ex giudici della Consulta. Secondo questa tesi un premio di maggioranza, come quello previsto dall'Italicum, va bene solo se garantisce la governabilità. Solo in questo caso diventa ragionevole, e pertanto costituzionalmente accettabile, il sacrificio della rappresentatività conseguente alla distorsione del rapporto tra voti e seggi causato dal premio.
Se il Parlamento fosse composto da una sola camera che dà la fiducia, l'Italicum andrebbe bene. Ma le camere sono attualmente due e allora la possibilità che si possa andare alle urne, dopo l'approvazione dell'Italicum e prima della approvazione della riforma del Senato, con due sistemi elettorali diversi, uno maggioritario e l'altro proporzionale renderebbe l'Italicum incostituzionale. La ragione starebbe nel fatto che il premio previsto dal nuovo sistema elettorale non garantirebbe comunque la governabilità. Il risultato del Senato infatti potrebbe non dare una maggioranza assoluta di seggi al vincente, come avviene alla Camera, o addirittura potrebbe produrre una maggioranza completamente diversa da quella della Camera. La conclusione di questo ragionamento è che non si può approvare l'Italicum senza riformare il Senato oppure senza estendere al Senato un sistema elettorale simile a quello della Camera. Per essere ancora più precisi, l'approvazione dell'Italicum, rebus sic stantibus, creerebbe una situazione di vuoto normativo. Il paese sarebbe senza un sistema elettorale utilizzabile per andare alle urne.
Quindi, niente riforma elettorale per ora. Infatti è del tutto irrealistico che i partiti consentano a Renzi di estendere l'Italicum, o una sua versione, al Senato. Nessuno vuole il voto. Dare a Renzi la possibilità di andare alle urne sarebbe irrazionale dal punto di vista degli attuali deputati e senatori il cui unico interesse è quello di conservare il seggio e non certo quello di fare una buona riforma elettorale. Seguendo questo ragionamento l'Italicum dovrebbe essere accantonato e il parlamento dovrebbe concentrarsi sulla riforma del Senato. Solo dopo la sua approvazione, e cioè tra un anno o più, si potrebbe ripescare l'Italicum. Si capisce l'entusiasmo di tanti di fronte alle parole degli ex-giudici della Consulta sentiti dalla commissione affari costituzionali del Senato nei giorni scorsi. Chi voleva rinviare alle calende greche l'approvazione di una nuova legge elettorale ha trovato un avvallo insperato.
La tesi appena esposta però non sta in piedi. È irragionevole che un sistema elettorale previsto per la elezione dei deputati venga giudicato costituzionale o meno non in base ad un principio generale ma a seconda di un dato di fatto ipotetico, cioè quello che potrebbe succedere al Senato. In altre parole, se gli elettori votano allo stesso modo sia alla Camera che al Senato il sistema elettorale è costituzionale. Se invece votano in maniera diversa, con un esito tra le due camere diverso, il sistema è incostituzionale. Detto altrimenti, se l'Italicum fosse approvato anche per il Senato in una versione simile a quella della Camera non ci sarebbe nessuna certezza che assicurerebbe la governabilità, dando luogo allo stesso risultato nei due rami del parlamento. La governabilità che secondo i giudici rende costituzionalmente legittimo il premio di maggioranza non è solo una funzione del sistema elettorale, ma anche delle preferenze degli elettori che a loro volta dipendono dalla offerta politica. Una offerta politica diversa tra le due camere può dar luogo ad un risultato diverso indipendentemente dal fatto che il sistema elettorale della Camera - l'Italicum - sia col premio e quello del Senato - il consultellum - no.
Insomma, premio o non premio in un sistema bicamerale l'esito del voto tra le due camere può essere divergente. E così è stato anche ai tempi della Mattarella, senza che giudici e giuristi sollevassero il problema della costituzionalità di due diversi sistemi maggioritari (tutti e due a premio, anche se un premio diverso da quello dell'Italicum) che potevano produrre risultati non coincidenti. E questo anche in virtù del fatto che i due elettorati, allora come ora, erano diversi visto che alla Camera si vota a 18 anni e al Senato a 25. C'è qualcuno che alla Corte sollevò il problema? E la legge elettorale del 1953 quando il premio fu introdotto alla Camera e non al Senato? Era incostituzionale anche quella?

Il Sole 22.11.14
La scommessa del premier
di Lina Palmerini


La linea di confine non è, come vorrebbe Maurizio Landini, tra onesti e disonesti ma tra europeisti e non. E ieri Matteo Renzi è sembrato più convintamente tra i primi, nonostante le polemiche anche recenti. Di certo perché martedì lo attende il primo esame sulla manovra.
Sono passati pochi mesi da quando si parlava di un premier pronto a violare la regola del 3 per cento. Una strada che è stata poi velocemente abbandonata per intraprendere quella esattamente opposta: un percorso di riforme che sta costando a Matteo Renzi quello che lui temeva, un calo di consensi e proteste in piazza. Seguire una linea pro-Europa ha un prezzo politico che, però, ora il premier sembra volersi giocare in un'altra chiave. Non più della polemica a distanza contro i burocrati della Commissione, come ha fatto fino a qualche giorno fa mettendo un piede nel mainstream anti-Ue, ma cercando risultati spendibili in chiave nazionale. Quali? Innanzitutto uno a brevissimo termine. Martedì prossimo la Commissione – sembra – approverà la nostra legge di stabilità senza chiedere ulteriori correzioni. E questo Renzi lo userà sul piano interno: per contrastare scioperi sindacali e l'opposizione interna dirà di aver vinto il primo round con Bruxelles.
Il prossimo round, più importante, è quello del piano Juncker da 300 miliardi. Quello che c'è sul piatto l'ha detto chiaramente ieri intervenendo al summit della Confindustria europea: scorporare gli investimenti dal calcolo del deficit. Dunque, se la revisione dell'articolo 18 gli costa un calo di consensi a sinistra e lo sciopero generale del 12 dicembre, lui punta a smontare l'opposizione sociale mettendo sul piatto una scommessa più grande: risorse per rilanciare l'economia e l'occupazione. Ma è una partita che si giocherà il 18 dicembre, quando si riunirà il Consiglio Ue e comincerà a prendere forma e sostanza quel piano. In vista di quell'incontro Renzi potrà dire che la riforma del lavoro fa parte di un negoziato per incassare quello che nessun premier italiano ha finora ottenuto: tenere fuori dal parametro del 3% la quota di investimenti pubblici.
Troppo presto per dire se la spunterà ma comunque Renzi, tatticamente, ha messo la sua asticella lì, a Bruxelles. E le proteste sindacali non fanno che aiutarlo a dimostrare all'Europa quanto stia facendo sul serio. È chiaro che in questa scommessa il premier traccia anche una linea di campo tra europeisti e anti scavalcando quella tra onesti e disonesti tracciata – ieri – da un Maurizio Landini incappato in una frase poi corretta. Segno che davvero gli scioperi contro le politiche del Governo hanno ragioni deboli se non sono declinati anche in una chiave anti-europeista. Un campo, però, dove dominano i populismi da cui finora anche la sinistra si è tenuta a distanza.
La scommessa di Renzi con l'Europa ha quindi almeno tre date per essere verificata. La prima, martedì prossimo. La seconda il 18 dicembre con il Consiglio Ue sul piano Juncker. La terza, dei primi mesi del 2015, riguarda la partita nella Bce sull'approvazione del Quantitative easing. È in questa prospettiva che si collocano le parole di ieri di Renzi che erano molto in sintonia con Bruxelles, Francoforte e Berlino. «Noi siamo sicuri della necessità di cambiare l'Ue ma prima dobbiamo cambiare noi stessi. Dobbiamo dare un messaggio di cambiamento radicale». Parole che sembrano quasi ispirate a Mario Monti. È però prevedibile che se tutto si dovesse complicare, la strategia di Renzi segnerà un'altra inversione a U. E il premier riprenderà il linguaggio di qualche mese fa, colpendo con più forza l'obiettivo che oggi dice di voler rispettare: quel 3% di deficit/Pil.

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il Fatto 22.11.14
Jobs Act senza soldi
Sinistra Pd: “Molto rumore per nulla”


IERI SERA la commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento del governo che aumenta di 200 milioni i fondi per gli ammortizzatori sociali universali (cioè estesi anche ai precari) previsti dal Jobs Act: nella manovra, così, la cifra stanziata è di 1,7 miliardi in tutto, circa 500 milioni in meno di quanto servirebbe secondo la minoranza interna del Pd (e anche a stare alla spesa in materia degli anni scorsi). L’esecutivo, però, non ha trovato altri soldi e quindi il testo è passato così. In commissione, per la sinistra dem, è intervenuto Stefano Fassina per ribadire la posizione del suo gruppo. Precedentemente già Cesare Damiano aveva spiegato: “Renzi ha sostenuto con forza la necessità di rendere universali le tutele per dare anche ai lavoratori precari una indennità di disoccupazione. Così, però, non avremmo risorse sufficienti. Come dire: tanto rumore per nulla”. Insomma, il giudizio della minoranza interna sul Jobs Act diventa definitivamente negativo: senza risorse nuove, senza l’eliminazione di quasi tutte le 46 forme contrattuali esistenti, la legge delega sul lavoro diventa solo l’occasione per eliminare anche i pezzi residui dell’articolo 18 sui licenziamenti senza giusta causa.

Corriere 22.11.14
Jobs act e fiducia, la sinistra teme lo strappo
di M. Gu.

ROMA Strappare o ricucire? È il dilemma dell’ala dura del Pd di fronte al voto sul Jobs act. Pippo Civati spinge per convincere gli altri «non-renziani» a votare contro la delega del lavoro, ma i dubbi prevalgono. Persino Stefano Fassina riconosce «piccoli miglioramenti» e non sembra ancora convinto di non votare la fiducia per poi bocciare in aula il provvedimento: «Non è nemmeno sicuro che ci sia, la fiducia...». Parlando alla riunione del gruppo, Fassina non ha fatto sconti al capo del governo, che «cavalca l’antipolitica contro il sindacato». Ma pur confermando che «l’impostazione della delega non è condivisibile», ringrazia la commissione «per l’impegno». Toni cauti anche da Alfredo D’Attorre, che al governo chiede di aumentare i soldi per gli ammortizzatori sociali e di smentire il Ncd: «Sacconi ha concordato con Poletti i decreti delegati, lui li sa e noi siamo al buio?». Per il bersaniano la delega ha portato «a un sistema quasi castale di tipo indiano, che rende permanente la frattura tra vecchi e nuovi assunti». E comunque, riconosce D’Attorre, «miglioramenti ci sono stati e bisogna tenerne conto». La fiducia preoccupa più l’ala sinistra che il governo. D’Attorre, Davide Zoggia e anche Gianni Cuperlo lavorano per scongiurarla, evitando lo strappo con i bersaniani dialoganti: l’Area riformista ha lanciato un appello (scritto da Epifani) ad abbassare i toni e si prepara a dare il via libera, sia alla fiducia che al provvedimento. Per la sinistra «dura» è un’altra storia. Rosy Bindi riconosce il lavoro di Damiano in commissione, ma non accetta le modifiche allo Statuto dei lavoratori: «Si abolisce l’articolo 18 e si crea discriminazione tra giovani e resto del mondo». Ma il punto politico, per la presidente dell’Antimafia, è Renzi: «Ha un atteggiamento di rottura, offensivo verso il sindacato. In un Paese che sta esplodendo il Pd non può essere lontano da chi soffre». Giudizio duro, eppure la Bindi potrebbe votare la fiducia: «L’obiettivo non è far cadere il governo». Civati invece insiste per una scelta più radicale: «Dicano pure sì alla fiducia, ma almeno votino contro il Jobs act, sennò gli elettori, i sindacati e i grillini ci prenderanno in giro».

Repubblica 22.11.14
Minoranza dem in trincea trenta verso il no alla riforma Guerini: costretti alla fiducia
di Francesco Bei


ROMA La ferita del lavoro sanguina, la voglia di «farla pagare» a Renzi è forte. C’è anche un documento in gestazione contro il Jobs Act. Una lettera aperta per gridare al mondo la distanza fra il PdR, il partito di Renzi e il vecchio Pd versione analogica, quel mondo antico vicino alla Cgil che il premier sbeffeggia ogni giorno. La crisi è scoppiata ieri mattina, in una riunione a porte chiuse del gruppo dem alla Camera, un’assemblea che avrebbe dovuto sancire la ricomposizione del partito ed è invece stato il film della lacerazione tra la maggioranza e l’area dei dissidenti. Un processo al Jobs Act e al premier dai toni durissimi, con Bindi, Fassina, D’Attorre e Cuperlo a sparare ad alzo zero contro il quartier generale.
A poco serve una lunga dissertazione di Cesare Damiano, sinistra collaborativa, che spiega come e perché la legge delega uscita dalla commissione lavoro sia molto diversa da quella approvata in Senato. «Al di là del dato tecnico — attacca Rosy Bindi — resta un interrogativo politico di fondo: può il principale partito della sinistra essere lontano dal mondo del lavoro, estraneo a quelle che il Papa chiama le periferie esistenziali? Io due anni fa, da presidente del Pd, insieme a Bersani ho fermato la mano della Fornero sull’articolo 18. E ora cosa dovrei fare? ». Lorenzo Guerini, incaricato di difendere la linea, prova a mediare: «Il governo ha recepito le indicazioni del partito. Il nostro atteggiamento va misurato sulla distanza tra il provvedimento e l’ordine del giorno della direzione del Pd. Quella distanza si è annullata, è una cosa che tutti possono rivendicare». Manco per niente. Alfredo D’Attorre: «Secondo Guerini il Pd ha ottenuto tutto. Non sono d’accordo. Renzi diceva di voler superare l’apartheid del mondo del lavoro, ma qui dal Sudafrica passiamo all’India delle caste: si rende permanente la discriminazione tra lavoratori». Dopo D’Attorre, Stefano Fassina elenca senza sconti tutti i punti «inaccettabili» del testo: «Purtroppo è tutta l’impostazione di fondo della delega che non va. Non c’è il contratto unico, non si tagliano i contratti precari, non c’è il miliardo e mezzo di risorse aggiuntive per gli ammortizzatori sociali. La parte destruens è molto chiara, la parte construens invece è virtuale». Non è che l’inizio: «Quando Renzi parla di lavoro — prosegue l’arringa Fassina — utilizza il linguaggio dei peggiori conservatori. Cavalca l’antipolitica per colpire i sindacati». È un crescendo. E da ultimo arriva Gianni Cuperlo, ormai lontano dall’ala bersaniana dialogante. L’ex sfidante di Renzi alle primarie lamenta una «compressione dei diritti», una cosa «che dovrebbe essere inaccettabile per un partito che si dice ancora di sinistra». Poi la pietra dello scandalo: «Questo Jobs Act svende i lavoratori: chiedo la libertà di coscienza per i parlamentari ». È un punto delicato, c’è la disciplina del gruppo in discussione. Un rapido scambio di occhiate tra Guerini e il capogruppo Speranza segnala che si è arrivati al bivio decisivo. E qualcuno s’incarica di stoppare subito l’incursione di Cuperlo. Sono proprio i bersaniani a farlo, quelli che sul Jobs Act sono per rivendicare i miglioramenti fatti e per votare sì al provvedimento. Davide Marantelli s’inalbera: «Dov’era Fassina quando abbiamo votato la Fornero, non era il nostro responsabile economico?» E a Cuperlo risponde: «Parli di libertà di coscienza? Quando mi è stato fatto votare l’articolo 81 della Costituzione avrei voluto anch’io appellarmi alla libertà, ma non mi è stato concesso». Enza Bruno Bossio, area riformista, spara una bordata ancora più pesante: «Chiedere la libertà di coscienza significa voler additare come traditori noi che rispettiamo la disciplina di partito».
Alla fine lo spettro della fiducia aleggia sulla riunione. La minoranza potrebbe votarla, salvo poi votare no sul provvedimento finale e rendere pubblico un documento di dissenso. Si parla di un gruppo di una trentina di ribelli. Finita la riunione, Guerini s’allontana scuotendo la testa: «Non vorrei che la fiducia fossimo costretti a metterla per colpa del Pd».

Repubblica 22.11.14
I partiti senza bussola
di Massimo L. Salvadori


SI BECCANO come galli agitando gli uni contro gli altri i propri cartelli con le scritte Destra, Mezza destra, Centro, Mezzo centro, Sinistra che tende al pallido, Sinistra che vuole ravvivare il rosso, Lega dei puri ex padani ora tout court italiani, Popolo del Grillo parlante. Ma come possono gli sconcertati elettori chiamati a scegliere tra le diverse offerte se le etichette dei partiti si presentano sempre più come richiami meramente commerciali, dietro ai quali sta un disarmante vuoto di elaborazione politico-culturale? Si grida che il mondo non è più quello del Novecento, che cambia ogni giorno alla velocità della luce, che le stratificazioni sociali non sono più quelle di ieri e neppure i partiti, che occorrono strategie e approcci innovativi poiché chi si ferma è perduto. Tutto ciò dovrebbe stimolare i gruppi dirigenti e i leader dei partiti a impegnarsi in un’elaborazione intellettuale che, andando oltre gli orizzonti delle interviste ai giornali e delle ormai infinite varianti e imitazioni televisive del “Porta a porta” di Bruno Vespa, aiuti a capire dove stiamo andando. Non si ripete a ritornello che nella nuova era la cultura è la risorsa maggiore, quella risolutiva? E invece dai nostri partiti non viene niente di propriamente costruttivo. Siamo sommersi dalle battute polemiche.
Una volta, in tempi sì irrimediabilmente passati ma che dovrebbero ancora insegnare qualcosa di importante, i partiti e anche i sindacati si riunivano in congressi dove leader di alta statura presentavano non solo i loro programmi, ma anche li sostenevano con argomentazioni aventi alle spalle molta cultura. Una volta, quei leader — fossero democristiani, liberali, repubblicani, socialisti, comunisti — sapevano usare la penna, scrivevano libri e articoli: roba seria; sapevano parlare agli iscritti ai loro partiti e alla massa degli elettori, messi così in grado di cogliere dove ciascun partito, secondo la sua posizione e i suoi fini, volesse condurli. Erano i De Gasperi e i Togliatti, i Nenni e i La Malfa, i Lombardi, i Fanfani e i Moro, i Di Vittorio e i Pastore. Non si dica che questa è pruderie accademica, nostalgia di cose passate, le quali per tanti aspetti non la meritano proprio. È invece registrazione di una differenza che dà a pensare, ed esprime l’impoverimento del dibattito pubblico e il deterioramento della politica.
Vengo alla sinistra che è cara a chi scrive e semina senza risparmio motivi di sconforto. Sono tra coloro che considerano Renzi il meglio che passa il convento. Ma cert’è che anch’egli quanto a cultura politica se la cava a buon mercato, come si vede a partire dal suo commento alle recente edizione di Destra e sinistra di Bobbio, dove, da bravo rottamatore delle veteroideologie del Novecento, ha proclamato con innocente sicurezza che quel che conta per la sinistra è scegliere tra “aperto/chiuso”, “conservazione/ innovazione” (ma la Thatcher non era un turbine di innovazione?) e offrire ai più deboli “l’opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un’esistenza più ricca di esperienze”. Qui si viaggia sul troppo indeterminato. E poi: per carità, non ceda il leader alla trappola di voler fare del Pd il Partito della Nazione. Una definizione tanto altisonante quanto vacuamente retorica. Un partito della Nazione lo abbiamo già avuto uno, ed è bastato. Quanto ai dissidenti interni al Pd — i Bersani, i D’Alema, i Fassina, i Civati, i quali sprezzano un informe partito pigliatutto che si piega agli interessi degli imprenditori e perciò del Pd intendono riappropriarsi — ad essi va rivolta un’esortazione: spieghino quale tipo di partito hanno in mente, quali pensano debbano essere oggi la struttura organizzativa e il bagaglio programmatico di un “vero” partito di sinistra. Attendiamo lo sforzo teorico, anche per rispondere alla domanda se nella sostanza il Pd sia un partito che poggi su un comun denominatore.
La sinistra uscita dalla dissoluzione del Pci nel 1991 ha un lungo e pesante debito non pagato in materia di cultura politica e quindi di identità. Il corpo maggioritario, quello post-comunista, nelle sue varie incarnazioni — il Pds, i Ds, il Pd — è passato attraverso molti tormenti irrisolti: una suggestione socialdemocratica alla D’Alema rimasta senza seguito; lo stento liberalsocialismo di Veltroni; la malriuscita combinazione tra cattolici democratici, liberaldemocratici, semi-socialdemocratici; un approdo infine al renzismo, che si muove nella battaglia politica con spregiudicatezza e determinazione ma molta incertezza in tema di indirizzi culturali (ma a cui va riconosciuto il merito di aver compiuto il passo, che le precedenti leadership non avevano avuto l’intenzione o il coraggio di fare, di portare il maggiore partito della sinistra italiana nelle file del Partito Socialista Europeo). Sia consentito di ribadire in conclusione che ogni forza politica ha bisogno — non per dotarsi di orpelli luccicanti, ma per operare con maggiore efficacia — di dotarsi di una cultura politica adeguata: perché questa soltanto dà orecchi e occhi per orientarsi in relazione a quel che avviene nel mondo e fornisce agli elettori la possibilità di comprendere verso quale società si intenda condurli.

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Corriere 22.11.14
Elezioni regionali in Emilia
Bonaccini, il funzionario fedele in corsa contro l’astensione
Il candidato pd in Emilia: io faccio sempre quello che mi chiede il partito
di Marco Imarisio


Stefano Bonaccini è uno di famiglia. Al punto che la sua gente potrebbe dimenticarsi di andare a votarlo, tanto è come se fosse già presidente. Il probabile governatore dell’Emilia-Romagna sembra fatto con lo stampino di questa terra. E lo rivendica. «Sono nato e cresciuto nella regione meglio governata d’Italia. Ho sentito i miei avversari che dicevano di voler ridare l’orgoglio agli abitanti, come se vivessero in una landa desolata. Prima di parlare a vanvera bisognerebbe conoscere la realtà delle cose».
In questo articolo non troverete battute, motti arguti e dichiarazioni roboanti. Bonaccini è come appare, di spalle larghe, squadrato. A un tavolino del bar Vertice, nome non casuale visto che si trova di fronte al palazzo della Regione, recita il suo programma come se sgranasse un rosario studiato chissà quante volte. «Modestamente mi sono fatto il fegato come quello di un’oca a mangiare in giro per circoli pd, sedi Arci, osterie, mense e tavole calde. Facciamo una sfida. Lei mi dice il nome di un Comune e io le dico il sindaco. Li conosco tutti, anche quelli di Forza Italia, Lega e M5S, che per fortuna sono pochi».
Ogni tanto gli occhi mandano lampi di ironia, addirittura divertimento a qualche battuta dell’interlocutore, come quando gli si chiede a che punto è la sua profonda amicizia con Matteo Richetti, il parlamentare iper renziano voglioso di rivincita in terra di infedeli bersaniani che si candidò all’insaputa di tutti e fece scoppiare la rivolta nel partitone emiliano che aveva trovato il punto di equilibrio nella scelta di Daniele Manca, il sindaco di Imola. Alle prese con la possibile implosione di quello che è pur sempre il granaio del Pd nazionale, Renzi chiese a Bonaccini, che a Roma si apprestava a diventare il responsabile dell’Organizzazione pd, il «sacrificio» di candidarsi nella sua regione.
L’attuale candidato non lo ammetterà manco sotto tortura, ma gli sarebbe piaciuto restare dov’era. Per uno che viene da Campogalliano, 8 mila abitanti nel cuore dell’Emilia rossa, che ha fatto l’assessore a Modena, i palazzi di Roma e il gioco grande della politica esercitano il fascino delle cose proibite. A quelli della sua razza non è mai andata bene appena fuori dalla cinta daziaria, i vecchi comunisti emiliani storicamente erano visti come «risorse» che era meglio restassero a casa loro, e oggi la tendenza non è certo cambiata.
«Io faccio quello che mi chiede il partito, sempre». La frase riassume la seconda delle doti che hanno fatto crescere, e molto, Bonaccini nella classifica personale di Renzi, che lo volle alla guida della sua campagna per le primarie del 2013. Il probabile presidente è un funzionario cresciuto nella disciplina di partito che ha continuato ad applicare anche dopo che la Ditta ha cambiato insegne e titolari. «Credo che di me apprezzi la solidità di chi non improvvisa e lo spirito di servizio. Tra noi ho l’impressione che ci sia anche un rapporto umano, ma ognuno con il suo ruolo. Per me la capacità di stare al proprio posto è una delle virtù di cui c’è più bisogno in questo Paese».
Non soddisfatto di quello che aveva combinato, Richetti, indagato per le presunte spese pazze della Regione, rivelò per via avvocatizia che anche il suo grandissimo amico Bonaccini godeva delle attenzioni della procura di Bologna, con gli stessi capi d’accusa rivolti a lui. I due giorni seguenti furono i peggiori della vita di Bonaccini, che solo grazie a una specie di corsia preferenziale venne ascoltato a tempo di record e prosciolto. «Ma io voglio davvero bene a Richetti. È solo che gli manca l’esperienza da amministratore, quella che ti permette di capire i problemi reali della gente».
E così il candidato riluttante si trova a combattere contro l’astensione. Un nemico invisibile come i Viet Cong nella giungla. Avversari, manco a parlarne, come sempre da queste parti. L’interesse di un voto più che scontato risiede nel numero di coloro che non andranno a votare, quelli al corrente sono pochi, e nella gara interna tra la Lega di Salvini e FI, forse il dato foriero di maggiori ricadute nazionali, almeno sul centrodestra. «Obama è stato eletto con il voto di metà della popolazione e nessuno dice che è dimezzato». Le mani avanti a stelle e strisce non nascondono il fatto che lunedì, nonostante la vittoria, potrebbe essere un giorno complicato. «Anche dentro il Pd c’è chi pensa al voto disgiunto, non contro di me ma per dare un segnale a Matteo. Non mi sembra intelligente. Io dormo bene lo stesso». Eppure Bonaccini, tifoso della Juventus e del Modena, centravanti fino in Promozione nonostante un’operazione al cuore da piccolo, non ha un compito facile. Arrivare dopo Vasco Errani, considerato come il migliore amministratore su piazza, potrebbe non risultare una passeggiata. L’innovazione nella continuità è un concetto che sfiora l’ossimoro, ma anche l’unica strada possibile. «Dobbiamo rinnovarci, magari rinunciando all’orgoglio del “piccolo è bello”». Anche Bonaccini avrebbe voglia di allargare i propri confini. «Non escludo di dare una mano a livello nazionale». Ma sempre al proprio posto e nel rispetto dei ruoli, si capisce.

Corriere 22.11.14
I prodotti sul palco del Pd
(niente simbolo, c’è il parmigiano)

Nel comizio conclusivo giovedì sera a Bologna del candidato pd alla presidenza dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini (in primo piano nella foto Benvenuti insieme al segretario e premier Matteo Renzi) grande sfoggio sul palco dei prodotti d’eccellenza della regione: 1) una fiammante moto rossa Ducati 2) una macchina per la produzione di gelato Carpigiani 3) mortadella 4) piadine, cotechino, parmigiano reggiano posizionati su un tavolino 5) un prosciutto di Parma stagionato 18 mesi 6) a terra una selezione di vini regionali, dal Lambrusco al Pignoletto, e qualche bottiglia di aceto balsamico 7) per la musica un deejay ha selezionato brani soul della cantante Alicia Keys. Sul palco nessun simbolo del Partito democratico e alcun riferimento alla storia del Pci, nella città che fu il cuore del comunismo italiano. Prima dei comizi di Bonaccini e Renzi sono stati proiettati video con le immagini di cantanti simbolo della regione, da Nilla Pizzi a Gianni Morandi e Raffaella Carrà.

Corriere 22.11.14
Lo stile «Ladylike» in politica
e le teorie estetiche di Ale Moretti
di Aldo Grasso
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Corriere 22.11.14
Gli ex consiglieri regionali: i vitalizi di lusso sono «diritti acquisiti»
La battaglia legale contro i tagli parte dalla Lombardia. Ma ovunque sono pronti i ricorsi Buona parte dei costi delle associazioni di ex eletti è sostenuta dalle Regioni
Nessuno vuole rinunciare a una quota di trattamenti ormai inaccettabili
di Sergio Rizzo

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Repubblica 22.11.14
Truffa Atac, ancora nessun colpevole
e un anno dopo lo scandalo continua
Biglietti clonati, nel 2013 lo scoop di Repubblica
di Daniele Autieri

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Repubblica 22.11.14
Pediatri arrestati
Viaggi e regali per far vendere il latte in polvere
“Voglio l’hotel più caro se sono con mia moglie pretendo di stare bene”
Weekend a Berlino, voli negli Usa e soggiorni a Sharm El Sheik Così nelle intercettazioni i camici bianchi avanzavano pretese
di Michele Bocci


FIRENZE La vita del corruttore può essere molto faticosa. Talvolta non è facile soddisfare le continue richieste dei medici, e poi è sempre meglio non fidarsi. «Per quanto simpatici ti possano sembra’ perché ti fanno i sorrisi sono anche... ti fanno le ripicche. Ovvero, te ci rimani d’accordo in un determinato modo... questi dall’oggi al domani chiudono tutti i rubinetti, non gliene frega ‘na sega ». Stralcio di conversazione telefonica con toscanismo tra due informatori della Dmf, Dario Boldrini e Fabio Virgili. Vivono un momento di sconforto, si chiedono se tutto quello che stanno facendo serva a qualcosa, in particolare ad aumentare il fatturato.
Ha più polso il loro capo, Vincenzo Ruotolo, che, intercettato, senza mezzi termini sentenzia: «Qui o esce il latte o questi l’anno prossimo non hanno proprio niente. Se non esce il latte è finita, eh!». Stop ai regali, stop ai favori. E c’è da immaginare che qualcuno si auguri davvero di interrompere la catena di corruzione. Ma il sistema va avanti, non si ferma. E i medici sono primi attori. Quando deve scegliere l’albergo di Berlino, pagato da una azienda, il dottor Maurizio Petri chiede la sistemazione più cara e spiega: «Una volta che mi muovo con la moglie, voglio di’ io, tre giorni, tre notti, volevo vede’ di sta bene, capito?».
Ci sono due generi di regali che vengono fatti ai dottori. Prima di tutto gli oggetti tecnologici: televisori, computer, telefoni e pure condizionatori d’aria. Sono gli stessi professionisti a chiederli, a dire il proprio indirizzo e a informarsi sulle consegne. E loro, i dipendenti delle ditte, ad ingegnarsi per soddisfare le richieste. Magari tentano pure di risparmiare un po’. Parlando di un televisore, sempre Ruotolo dice a un collega che propone un acquisto in Rete: «E però il problema è quello, che tu quando vai a comprare queste cose su internet... lo sai che costa tutto meno però alla fine non sai che vai a comprà». Meglio i canali tradizionali.
Il secondo filone di regali, quello più corposo, riguarda i viaggi. Visto che la legge vieta di fare doni di qualunque tipo ai medici, è stato adottato un sistema già noto. Si è trovata una agenzia pisana, la New Taurus (i cui titolari hanno collaborato con gli investigatori), che ha fatturato acquisti di voli per partecipare a congressi scientifici. In realtà, hanno chiarito i Nas, nei giorni in cui si svolgevano i noiosi consessi i pediatri se ne stavano nel loro studio. Non partivano, e in questo modo guadagnavano un “buono” presso la stessa agenzia da spendere in viaggi con la famiglia. Mille, duemila, tremila euro per coprire tutte o parte delle spese per Sharm El Sheik, l’India, gli Usa, Selva di Val Gardena, Cannes. O le capitali europee.
«Allora, se... ti è possibile, a me andrebbe benissimo... ho già parlato domenica con mia moglie... 23-26 Berlino». Non sta nella pelle il dottor Petri, e per organizzare il viaggio in Germania è costantemente in contatto con il rappresentante Humana, anche per decidere l’albergo. Poi scegli il più caro: «Costa centodieci euro in più... a persona.. Sicché voglio dire... deve essere, deve essere... buono per forza...».
I due primari vengono trattati con i guanti, e loro in cambio chiedono soldi per organizzare congressi. In particolare Roberto Bernardini, luminare di Empoli, chiede fino a 7mila euro. E Vincenzo Ruotolo spiega cosa ha intenzione di dirgli: «Dottore più lei ci soddisfa... più noi la soddisfiamo... ». Si parla anche di entrare nei “turni” del reparto. Si tratta di un’usanza ormai vietata che evidentemente ancora sopravvive. In pratica le aziende vengono, una alla volta e per qualche mese, indicate alle pazienti al momento della dimissione, con consegna di campioni e brochure, per far “affezionare” loro e soprattutto i figli. Un modo per promuovere in modo ecumenico più produttori.
«Ho parlato con il medico, gli ho spiegato come funzionano i sistemi di controllo attraverso i codici di avviamento postale...», spiega un altro rappresentante a un collega. È questo il modo in cui i corruttori controllano i corrotti. Visto che della prescrizione di latte non risultano tracce, come invece avviene per i farmaci, le aziende guardano il volume di vendita al dettaglio nell’area dove lavorano i medici. Appunto attraverso i cap. Così sanno di chi ci si può fidare e chi invece deve essere chiamato e invitato a fare di più. Insomma, il latte deve uscire.

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il Fatto 22.11.14
L’Italia non paga per Auschwitz
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, viaggio molto per l’Europa e mi sento dire che l’Italia è l’unico Paese che non ha contribuito al fondo per Auschwitz, un impegno di tutti i Paesi europei a quotarsi per garantire la conservazione del luogo che ricorda un immenso genocidio. È vero?
Bianca

IL PRESIDENTE dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, ha detto al Corriere della Sera (18 novembre): “mi risulta che ci siano contatti tra la presidenza del Consiglio italiano e il governo polacco per risolvere la questione”. La dichiarazione è benevola, ma rivela che il problema esiste. Al fondo di 120 milioni di euro che tutti si erano impegnati a versare, manca il contributo italiano. Una svista così grave umilia non gli ebrei italiani, come qualcuno ha detto, ma coloro che sembrano non essersi resi conto, neppure adesso, che l’Italia è stato l’altro grande assassino della Shoah. Senza il partner fascista, laborioso nella caccia agli ebrei e convinto sostenitore (come si vede nella documentazione del tempo) di una immaginata e ridicola superiorità della pura razza italiana, neppure l’alacre attività di Eichmann avrebbe avuto successo. Mai dimenticare che l’Italia, Paese disonesto già allora, mandava i suoi soldati a combattere con scarpe di cartone e carri armati di latta, ma agli occhi dell’Europa di allora era, sul versante fascista, l’altra grande potenza. Sarebbe stato difficile per la Germania di Hitler, da sola, condurre tutti i Paesi europei occupati, alla scrupolosa osservanza delle cosiddette “leggi razziali” se l’Italia (che partecipava all’occupazione) non ne fosse stata modello e campione, come i tedeschi. Con il Vaticano silente. Una certa storiografia italiana ha isolato personaggi eroici (qualche generale, alcuni consoli, alcuni vescovi, figure indimenticabili come Giorgio Perlasca) e ne ha fatto una sorta di canone italiano della non partecipazione alla persecuzione e allo sterminio. Invece l’Italia di massa ha accettato, l’Italia intellettuale ha taciuto, e chi doveva eseguire ha eseguito, con particolare alacrità dove le truppe italiane occupavano e cooperavano con gli apparati di Hitler. In una ricerca di storia orale fatta da un liceo italiano (i ragazzi sono stati impegnati per un anno a raccogliere storie e ricordi di anziani sugli anni di guerra e di razzismo, nei luoghi in cui gli interpellati si trovavano), più di un terzo dei testimoni non ebrei che hanno partecipato ai dialoghi ha mostrato di non sapere che vi fossero leggi contro gli ebrei e di avere mai visto arresti e deportazioni. È bene che il governo di Renzi, con la scusa di essere giovane, non dia la stessa impressione di rimozione deliberata. Qualcuno ricordi che i deportati del ghetto di Roma (il 16 ottobre 1944) e tanti altri italiani, arrestati da italiani, sono morti ad Auschwitz perché erano italiani ed ebrei. Pagare è poco. Non pagare è ignobile. E lo è ogni giorno di ritardo.

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La Stampa 22.11.14
“No alla distruzione delle case dei terroristi” Scontro tra Ue e Israele sulle demolizioni
La richiesta di Bruxelles: «Così si rischia di infiammare le tensioni»
Critico anche il dipartimento di Stato Usa
Netanyahu: solo così possiamo dissuadere da nuovi attacchi
di Maurizio Molinari

qui


Corriere 22.11.14
Israele litiga sulla legge «anti arabi»
Haaretz: «Invece di cercare di ridurre la discriminazione Netanyahu le sta dando la forza di una legge»
La «legge della nazionalità» sancisce il carattere ebraico dello Stato israeliano ma non garantisce l’uguaglianza al 20 per cento di cittadini arabi
di Davie Frattini


«Il 99,9 per cento degli arabi israeliani è fedele al Paese», calcola Naftali Bennett. «La discriminazione contro di loro è inaccettabile», ammonisce Benjamin Netanyahu. Il premier e il suo ministro più oltranzista hanno dovuto rimproverare il sindaco di Ashkelon, città sulla costa verso sud e la Striscia di Gaza, perché ha impedito ai muratori arabi di venire a lavorare nei cantieri che costruiscono rifugi negli asili contro i razzi sparati da Hamas. «Dopo gli attentati a Gerusalemme, i genitori hanno paura, non avrebbero mandato i bambini a scuola», spiega.
Netanyahu e Bennett redarguiscono la decisione razzista del sindaco, eppure domani alla riunione di governo sosterranno e voteranno una norma che l’opposizione di sinistra (assieme ai ministri moderati nella coalizione) considera ben più discriminante della messa al bando imposta ad Ashkelon.
Quella che è chiamata «legge della nazionalità» sancisce il carattere ebraico dello Stato israeliano (e questo punto non è contestato) ma non garantisce — accusano i critici — l’uguaglianza al 20 per cento di cittadini arabi. «Il documento ignora l’esistenza di una comunità con la sua lingua, la sua cultura e i suoi diritti — scrive il quotidiano Haaretz in un editoriale —. Invece di cercare di ridurre la discriminazione Netanyahu le sta dando la forza di una legge». La costituzionalista Ruth Gavison sostiene che il provvedimento guasti l’equilibrio cercato dai padri fondatori: il testo voluto da David Ben-Gurion nel 1948 dichiara l’indipendenza ebraica e i diritti degli ebrei con l’impegno di integrare gli arabi (a differenza dei palestinesi che vivono in Cisgiordania o a Gerusalemme Est, sono cittadini a tutti gli effetti e votano per il parlamento).
Come fa notare Nahum Barnea, prima firma del quotidiano Yedioth Ahronoth , la norma viene approvata nel mezzo di un’ondata di attacchi palestinesi: la violenza produce paura e la paura produce razzismo.

Corriere 22.11.14
Iran, stretta finale verso l’accordo
Viaggi rimandati e colpi di scena a tre giorni dalla scadenza per il negoziato nucleare
Kerry: «La situazione è fluida»
Tra i nodi il calendario di abolizione delle sanzioni
di Paolo Valentino


VIENNA Qualcosa d’importante è successo nella trattativa nucleare con l’Iran, apertasi martedì nella capitale austriaca in un clima di grande incertezza. Ma il colpo di scena di ieri pomeriggio rimane di difficile lettura. A tre giorni dalla scadenza di lunedì, data ultima fissata per un accordo, i tre ministri occidentali presenti, l’americano John Kerry, il francese Laurent Fabius e il britannico Philip Hammond hanno fatto sapere che avrebbero lasciato Vienna, per tornarvi al momento opportuno. A motivare la scelta, l’annuncio di Mohammad Javad Zarif, il capo della diplomazia iraniana, di voler far ritorno a Teheran, per consultarsi con i vertici politici e religiosi del regime sciita, prima di lanciarsi nella fase finale della trattativa.
Ma all’improvviso i piani dell’inviato persiano sono cambiati: «I colloqui non hanno raggiunto uno stadio tale da rendere necessario che torni in Iran. Quindi Zarif rimane e i negoziati continuano», hanno fatto sapere fonti della sua delegazione all’agenzia Irna . Da parte occidentale invece nessun cambiamento, ma una mossa a sorpresa: prima di volare a Parigi insieme a Fabius, Kerry in serata ha incontrato nuovamente il collega iraniano, un faccia a faccia non previsto e coperto dal più grande riserbo. «La situazione è fluida», ha commentato il segretario di Stato americano.
Non è chiaro cos’abbia causato il ripensamento di Zarif. Secondo fonti vicine alla trattativa, il ministro iraniano avrebbe ricevuto dai 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania) la bozza di un possibile accordo, con le modalità del baratto che punta a inibire la capacità di Teheran di dotarsi dell’arma atomica, in cambio della rimozione delle sanzioni occidentali, che hanno devastato l’economia iraniana. Probabilmente non soddisfatto dei termini, Zarif vorrebbe strappare alcune concessioni prima di tornare in patria, dove deve ottenere un difficile avallo politico dalla guida suprema, l’ayatollah Khamenei.
Certo è che la situazione sia in grande movimento. Dopo un colloquio a tre con Zarif e Lady Ashton, alla sua ultima missione da inviato della Ue, ieri pomeriggio Kerry ha parlato al telefono con il collega russo Sergei Lavrov, atteso per questa sera a Vienna. Secondo la versione di Mosca, i due si sono trovati d’accordo che «ulteriori sforzi» sono necessari per giungere all’intesa entro dopodomani e non hanno escluso la convocazione di una riunione straordinaria di tutti i ministri degli Esteri coinvolti nella partita.
I nodi più difficili da sciogliere, quelli su cui può naufragare l’intero processo, rimangono due: la capacità dell’Iran di arricchire l’uranio, misurata dal numero di centrifughe e dalla dimensione delle sue riserve di materiale fissile già arricchito. E il calendario di smantellamento delle sanzioni. Teheran dispone attualmente di 19 mila centrifughe, di cui poco più di 10 mila in attività. Secondo i calcoli dell’Aiea, se fossero tutte operative, le basterebbero pochi mesi per produrre abbastanza uranio da armare una testata atomica. E’ il cosiddetto «break-out time», che gli occidentali vorrebbero lungo almeno un anno, riducendo a meno di 4 mila il numero delle centrifughe in funzione e congelando le altre, sotto un severissimo regime di controllo internazionale. L’Iran ha fin qui rifiutato. A complicare tutto è il destino del reattore ad acqua pesante in costruzione ad Arak, che produrrà plutonio e che gli occidentali vorrebbero chiudere o ridimensionare.
In cambio dei limiti al proprio programma nucleare, che dovrebbe comunque essere solo civile, Teheran invoca un «big bang» sulle sanzioni, abolite tutte e subito, mentre i 5+1 vogliono smantellarle passo dopo passo, solo dopo aver verificato il pieno rispetto delle intese.
Ma in fondo, pur decisivi, i dettagli dell’intesa, definita al 95% come ripetono le fonti, hanno importanza relativa. Perché nella partita viennese, la posta è molto più grande del futuro dell’industria nucleare iraniana. Per tutti. Per Obama, che cerca un successo di politica estera col quale ridefinire e rilanciare la propria presidenza: il ritorno dell’Iran potrebbe infatti aiutarlo nella lotta all’Isis e nella soluzione delle crisi siriana e irachena. Per l’attuale dirigenza di Teheran, dove il presidente Rouhani combatte la sua battaglia con i duri del regime. Per Israele, che considera il regime persiano un pericolo esistenziale. Per i sauditi, che vedono minacciato il loro ruolo nella regione dalla rinascita dei cugini sciiti.

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Corriere 22.11.14
Immigrati, Obama tira dritto
È già caccia ai voti del 2016
Scontro durissimo con i repubblicani anche sulla riforma sanitaria
di Massimo Gaggi


NEW YORK Dopo la sconfitta elettorale di due settimane fa, Barack Obama riconquista il centro della scena politica con un discorso alla nazione nel quale annuncia una sanatoria parziale per gli immigrati clandestini (in realtà una semplice sospensione dei rimpatri forzati) che vivono e lavorano negli Usa da più di 5 anni e hanno figli che risiedono legalmente in America o ne sono cittadini, essendo nati nel Paese. Un intervento annunciato da tempo, che si applica solo a poco più di un terzo degli immigrati illegali (4 milioni su 11) e che arriva dopo due anni di inutili tentativi del Congresso di riformare la spinosa materia: i parlamentari non sono riusciti a trovare una soluzione di compromesso.
Nonostante ciò la reazione dei repubblicani è durissima: per il senatore Ted Cruz, Obama si comporta da imperatore mentre per il leader della Camera, John Boehner, il presidente ha adottato un provvedimento illegale in spregio del Parlamento. In realtà misure giuridicamente simili, anche se di portata più limitata, sono state varate in passato da quasi tutti i suoi predecessori compresi tre presidenti repubblicani: Eisenhower, Reagan e Bush padre. Ma i leader della destra non sentono ragioni e, tanto per far capire quanto sarà infuocato il clima nei prossimi mesi, aprono un secondo fronte sulla sanità: ieri il gruppo repubblicano alla Camera ha denunciato il governo davanti alla Corte distrettuale di Washington accusandolo di abuso di potere nell’attuazione di «Obamacare».
Quella riforma ha avuto fin dall’inizio vita difficilissima, col rifiuto di molti Stati, quelli governati da una maggioranza conservatrice, di adottare le misure necessarie per attuarla. Ma le nuove regole sono state comunque introdotte. In modo illegittimo, sostengono ora i repubblicani secondo i quali Obama sta regalando 175 miliardi di dollari alle compagnie assicurative: in pratica i contributi che verranno versati in dieci anni dal governo per coprire le spese sanitarie delle famiglie a basso reddito che, in base alla riforma, hanno ottenuto polizze assicurative sussidiate dallo Stato.
Anche sul provvedimento a favore degli immigrati clandestini è prevedibile una pioggia di ricorsi giudiziari. Il primo a denunciare Obama è stato lo sceriffo arciconservatore dell’Arizona, Joe Arpaio, famoso per le sue prigioni «low cost», coi detenuti che dormono in tenda nel deserto. E molti altri sceriffi accusano il governo di diffondere un messaggio di tolleranza verso il crimine quando non, addirittura, di aprire una falla nella lotta contro il terrorismo.
Obama aveva messo in conto la dura reazione repubblicana. Per lui lo smacco è venuto, semmai, dalla decisione delle grandi reti televisive — Nbc , Abc e Cbs — di non trasmettere il suo messaggio alla nazione (come hanno fatto, invece, le reti via cavo Cnn e Fox e quelle ispaniche, Univision e Telemundo ). La Casa Bianca ha protestato menzionando il precedente di un messaggio di George Bush del 2007 che fu teletrasmesso da tutti nonostante fosse meno rilevante. Ma le reti hanno obiettato che allora il messaggio era «bipartisan», mentre quella di oggi è una mossa politica. Per i grandi «broadcaster» Obama sta già facendo campagna elettorale in vista del voto del 2016. Considerazione non infondata: una componente elettorale nelle decisioni di Obama sicuramente c’è. Coi repubblicani sempre più forti tra i maschi bianchi, soprattutto negli Stati dell’interno, i democratici scommettono, oltre che sulle donne, sulle minoranze a cominciare da quella ispanica, la più consistente e dinamica. Comunità che stanno diventando decisive, e non solo in California o sulla costa atlantica. In Texas, ad esempio, nel 2016 ci saranno 900 mila elettori ispanici e solo 185 mila bianchi in più.
Massimo Gaggi

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La Stampa 22.11.14
L’esercito dei bimbi “senza volto” e senza diritti
L’allarme lanciato dall’Unicef. Bambini inesistenti per le autorità, quindi privati di tutti i servizi. Le femmine continuano ad avere meno opportunità di studio rispetto ai maschi
di Francesco Semprini

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La Stampa 22.11.14
Cina, a processo la giornalista anti-censura
È accusata di aver divulgato un “documento interno del Partito Comunista Cinese” che riguarderebbe i metodi con cui vengono applicati i controlli nel Paese

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Il Sole 22.11.14
Economia in rallentamento. L'istituto centrale di Pechino ha abbassato di 25 punti base il tasso sui depositi a un anno al 2,75% e il tasso sui prestiti a un anno di 40 punti base al 5,6%
La Cina a sorpresa taglia i tassi di interesse
di Rita Fatiguso


PECHINO Attesa da oltre due anni, quella del taglio dei tassi di interesse è stata la mossa a sorpresa del prudente governatore della People's Bank of China Zhou Xiaochuan, il che dimostra quanto l'economia cinese versi in una congiuntura critica.
L'obiettivo immediato di Zhou è quello di contenere le sofferenze del settore immobiliare, i prezzi delle nuove case hanno continuato a scendere del 10% nei primi dieci mesi dell'anno in 67 delle 70 città campione, i crediti incagliati, invece, hanno preso l'abbrivio e sembrano non doversi fermare mai.
Come ha rivelato la scorsa settimana la China Banking Regulatory Commission i prestiti in sofferenza sono aumentati di ben 72,5 miliardi di yuan (11,8 miliardi dollari) rispetto al trimestre precedente, arrivando a toccare la soglia dei 766,9 miliardi di yuan. I prestiti inesigibili, in buona sostanza, sono cresciuti dell'1,16 per cento. Un peso decisamente eccessivo per il sistema finanziario cinese.
La produzione industriale, nel frattempo, è cresciuta del 7,7, il secondo più grave rallentamento dal 2009. I prezzi al consumo sono cresciuti dell'1,6, i prezzi alla produzione del 2,2. La partenza della Shanghai Hong Kong Stock connection, di là dal risalto mediatico, è stata laboriosa e a senso unico, le due borse devono ancora trovare un reciproco vantaggio dal nuovo link.
In questo contesto poco felice i tassi di interesse reali sono lievitati proprio a causa del rallentamento della crescita e dell'inflazione, il che ha intaccato le risorse delle aziende aumentando il rischio di default. Ha destato timori il fatto che il colosso statale Sinosteel abbia dichiarato di versare in cattive acque, dopo il fallimento di Zhejiang Xingrun Real Estate nel marzo scorso potrebbero verificarsi nuovi, preoccupanti, default ai quali la Cina non è abituata. Nel circuito dei corporate bond si conosce un solo caso di default, quello di Chaori Solar, in tutti gli altri casi lo Stato è intervenuto evitando il peggio.
Per ridare fiato al sistema la Banca centrale ha ridotto i tassi a un anno di 40 punti base a 5,6, mettendo nel mirino, evidentemente, proprio il sistema dei prestiti bancari.
Intanto, però, ha iniettato altri 50 miliardi di yuan (8,2 miliardi di dollari) nel mercato, fino a settembre la dote era di di 769,5 miliardi di yuan (126 miliardi di dollari) stando a quanto ha dichiarato lo stesso istituto.
Come ha detto il governatore Zhou Xiaochuan, il quale non intende abdicare alla sua prudente politica monetaria, «il quadro dei mercati finanziari fornirà liquidità attraverso diversi strumenti di politica monetaria, ogni volta che sarà necessario e, comunque, la liquidità del sistema bancario è ampia».
Ma la liquidità delle precedenti iniezioni di cash nel sistema non ha dato i risultati previsti specie il nuovo sistema del Medium-term Lending Facility, che include i famosi 500 miliardi di yuan concessi a settembre e i 269 di ottobre alle principali banche cinesi.
L'aggregato totale dei prestiti censito a ottobre, infatti, era di 662,7 miliardi di yuan, al di sotto degli 1,05 trilioni di yuan a settembre. I nuovi prestiti erano a 548,3 miliardi di yuan, sotto gli 857,2 miliardi del mese precedente. Il debito totale cinese intanto ha raggiunto il 251% del prodotto interno lordo, in crescita rispetto al 234% del 2013 e al 160% del 2008.
Ma la volatilità del mercato nella provvista di capitale a breve termine e nei tassi di interesse negli ultimi giorni è stata forte, la motivazione ufficiale è stata l'arrivo delle nuove Ipo. ll repo a sette giorni, che testa la liquidità del sistema interbancario, è cresciuto di 30 punti base al 3,5%, il più alto balzo da settembre.
La lotta allo shadow banking, in parallelo, è sempre fortissima e crea effetti di competizione interna al sistema. Per questo il taglio dei tassi è stato accompagnato da un altro passo nella liberalizzazione dei depositi, il tetto entro il quale le banche possono finanziare i clienti sui loro depositi è stato elevato al 120% dal precedente 110. Il che dovrebbe lasciare intatti i guadagni per le banche e metterle al riparo dalla concorrenza sleale dei prodotti di wealth management dello shadow banking.

Il Sole 22.11.14
Energia. Sale l'attesa per il vertice Opec di giovedì prossimo
Il petrolio tenta il rimbalzo sul taglio dei tassi cinesi
Il calo del dollaro favorisce gli acquisti
di Balduino Ceppetelli


MILANO I prezzi del petrolio tentano il rimbalzo sostenuti dalle notizie provenienti dalla Cina, che ha ridotto i tassi di interesse, e dal fronte Opec, dove sono allo studio tagli produttivi a sostengo del mercato.
Ieri infatti il Brent, il greggio di riferimento per i mercati europei, durante la seduta ha superato ampiamente la soglia degli 81 dollari al barile, per poi ridimensionarsi e riavvicinarsi ai livelli della seduta precedente sotto i 79,60 dollari. Andamento simile a New York, dove il Wti si a avvicinato ai 78 dollari per poi riportarsi attorno sotto quota 76 dollari al barile. I mercati infatti hanno accolto con una certa euforia il taglio a sorpresa (è il primo dal 2012) dei tassi di interesse da parte della banca centrale cinese, la People's Bank of China (si veda articolo a pag. 3). La decisione, che ieri ha determinato un indebolimento del dollaro, potrebbe contribuire a rivitalizzare la crescita economica del paese (e quindi i consumi energetici), che ora come ora sta viaggiando ai ritmi annuali più bassi degli ultimi 24 anni.
A sostenere la ripresa dei prezzi – che negli ultimi mesi si sono fortemente indeboliti sulla scia dell'ampia offerta e della debolezza dei consumi – stanno contribuendo anche le ipotesi di un taglio produttivo da parte dell'Opec, il cartello degli esportatori che si riunirà giovedì prossimo a Vienna. Difficile comunque fare previsioni. I membri del cartello sembrano infatti divisi sul da farsi. Rafael Ramirez, il ministro degli Esteri venezuelano, ha invocato un intervento a sostegno dei prezzi. Anche l'Arabia Saudita ha più volte ribadito la necessità di azioni per favorire il rilancio delle quotazioni. Simile la posizione della Russia, il maggior produttore non membro del cartello, che soffre particolarmente la debolezza del barile che sta mettendo in difficoltà l'intera economia nazionale, già provata sanzioni occidentali sul caso Ucraina. Difficile comunque che il paese possa ridurre le estrazioni a causa della limitata capacità di stoccaggio e del gelo che potrebbe bloccare gli impianti in casi di stop produttivi.
Nulla comunque tuttavia appare scontato. Alcuni analisti prevedono che durante l'incontro nella capitale austriaca verrà deciso un taglio produttivo. Altri invece ritengono la cosa improbabile. Una mossa del genere potrebbe favorire una rilancio dei prezzi, ma forse anche una perdita di quote di mercato da parte dei Paesi Opec a favore di altri esportatori, primi tra tutti i produttori Usa di shale oil. L'altra strategia allo studio sarebbe quella di lasciar scendere ancora i prezzi al fine di mettere in crisi proprio il settore dello shale oil, caratterizzato da costi di produzione decisamente elevati (costi che in media sono invece molto contenuti nei paesi membri del cartello). Una mossa in tal senso tuttavia metterebbe in crisi molti Paesi già in difficoltà (dal punto di vista economico), quali Venezuela o Nigeria.
«Giovedì prossimo – ha commentato – Doug King, responsabile investimenti del Merchant Commodity Fund – sarà un giorno cruciale per il settore. Sarà l'incontro Opec più importate degli ultimi 10 o 15 anni e se nessuna decisione dovesse essere presa potremmo assistere a nuovi ribassi. In caso invece di tagli produttivi vicini a 1,5 milioni di barili al giorno, si potrebbe vedere il Brent riavvicinarsi ai 90 dollari».

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Corriere 22.11.14
Lo Stato forte che il Paese ama solo a giorni alterni
Gli italiani amano poco le funzioni di vigilanza dell’ordine e della legalità
Ma un’autorità debole è poco compatibile con un’Italia moderna
di Giovanni Belardelli


Nel corso del Seicento alcuni grandi teorici della politica cercarono di spiegare perché gli esseri umani avessero un giorno abbandonato lo «stato di natura» per far nascere lo Stato e il governo. Secondo John Locke, uno dei padri nobili del liberalismo, lo avevano fatto, anzi avevano dovuto farlo, per ottenere la garanzia che i diritti di ciascuno venissero fatti rispettare. A ben vedere, le occupazioni milanesi di case, la protesta romana di Tor Sapienza rappresentano, insieme a tanti altri episodi analoghi, una specie di grande lezione collettiva circa i fondamenti della politica, la dimostrazione pratica di quanto quell’assunto di Locke faccia ancora parte del bagaglio di una società democratica. Ci hanno mostrato infatti dove si va a finire quando l’azione dello Stato — e dei poteri pubblici in generale — è debole o assente e ciascuno pensa di poter provvedere a farsi giustizia da sé, dando vita a una guerra di tutti contro tutti (come definì la condizione prestatale Thomas Hobbes).
È dal 1861 che l’Italia soffre di una statualità debole, per molti motivi. Per il sentimento di estraneità, in quel momento, di gran parte della popolazione. Per il conflitto che oppose a lungo Stato e Chiesa. Non ultimo per il fatto che il protagonista dell’unificazione, il Piemonte, non aveva — in termini di territorio, popolazione, forza militare — un peso così superiore e prevalente rispetto al complesso degli altri Stati preunitari, come era invece il caso della Prussia che svettava nettamente rispetto agli staterelli tedeschi con i quali costituì nel 1871 la Germania. Venendo ad anni più vicini, tutti ricordiamo come nella prima Repubblica i partiti — quanto meno i due maggiori — rappresentassero soggetti che limitavano il potere dello Stato in quanto erano essi stessi delle istituzioni protostatali, come qualcuno li ha definiti. La nascita delle Regioni e l’estensione dei poteri successivamente loro attribuiti con la riforma del titolo V della Costituzione hanno rappresentato un ulteriore fattore di debolezza dello Stato, come luogo di indirizzo e guida della vita del Paese. Si è trattato di una debolezza che, come avviene anche per gli individui quando sono deboli e insicuri, si è tramutata e si tramuta spesso in arroganza e prevaricazione. Lo testimoniano i rapporti del comune cittadino con la pubblica amministrazione o la giungla di adempimenti fiscali e amministrativi cui è costretta ogni piccola impresa.
Diciamo la verità. Con questa (relativa) debolezza dello Stato noi italiani ci siamo accomodati benissimo: sempre pronti a chiedere provvidenze e interventi a uno Stato sociale dalle finanze abbastanza dissestate, amiamo invece poco lo Stato cosiddetto guardiano notturno, quello che vigila sul rispetto dell’ordine pubblico e delle leggi. Quel che avviene riguardo alla tutela del territorio e alle catastrofi naturali evidenzia proprio questo. Una parte del Paese ha tenacemente avversato ogni norma che potesse limitare le costruzioni in zone a rischio: dalle aree golenali dei fiumi alla zona rossa del Vesuvio. Salvo poi chiedere allo Stato di intervenire per i soccorsi, i danni, la ricostruzione. Questo, come è ovvio, non vuol dire che i singoli cittadini danneggiati da una frana o da una alluvione siano esattamente gli stessi che avevano edificato incautamente o illegalmente. Nondimeno è questa domanda alternata di assenza e presenza dello Stato che si è verificata e — temo — continua a verificarsi. Come è noto, la frana di Sarno del 1998 fu causata anche dal fatto che fossero stati ostruiti dai rifiuti i canali per drenare le acque che scendevano dalla montagna. Dopo la tragedia (circa 160 morti) l’area venne messa in sicurezza; ma oggi, ha dichiarato il sindaco di Sarno ( Corriere , 13 novembre), le vasche per la raccolta delle acque «sono state trasformate in discariche di rifiuti». Non c’è che dire, una descrizione perfetta di quella specie di «stato di natura» in cui molti italiani si ostinano a voler vivere. Incuranti del fatto che questa è una condizione poco compatibile con l’esistenza di un Paese moderno.

La Stampa TuttoLibri 22.11.14
Uno, nessuno centomila Sade
Pornografo libertino o illuminista radicale?
I testi meno noti su leggi, libertà e ateismo offrono un quadro inedito del “Divin Marchese”
di Paola Dècena Lombardi


Sade, chi era veramente? Un abietto, aristocratico Lucifero, che da astuto giacobino d’occasione ha cavalcato gli sconvolgimenti della Rivoluzione francese per accreditarsi poi come un filosofo-scrittore, più per aspirazione e prestiti che per originale realizzazione? O è stato la vittima sacrificale di un’epoca di passaggio di cui ha condiviso privilegi e lussuria, utopia rivoluzionaria e disillusione? Celebre più per la dismisura dell’erotismo che pervade quasi tutti i suoi romanzi e per l’ateismo che erige a sistema, assai meno per l’esperienza di vita e per gli altri scritti: per chi si accosta alla lettura di Sade, a due secoli dalla morte, l’interrogativo resta. Chi era veramente l’uomo accusato di «libertinismo estremo», che tra brevi arresti e detenzione ha passato più di trent’anni recluso, prima tra il forte di Vincennes e la Bastiglia, poi tra l’Ospizio per carcerati e malati di mente di Charenton?
All’erotismo di Sade si è rivolto quasi subito l’interesse critico, ma il percorso per una rivalutazione è stato lungo. E al lettore, soprattutto italiano, sfugge in gran parte l’altro Sade, l’autore di testi di carattere filosofico, politico e critico letterario. Il Dialogo tra un prete e un moribondo, che mette in scena un’apologia dell’ateismo in nome dell’uomo secondo natura; La modalità della sanzione delle leggi, in cui Sade propugna la partecipazione popolare diretta nell’elaborazione del processo costituente, e L’idea sui romanzi, che ripercorrendo dalle origini la storia dell’affabulazione fino alla narrazione romanzesca, dalla dissertazione erudita e dalla lettura critica della letteratura contemporanea approda a un’appassionata autodifesa, propongono un piccolo tassello dell’altro Sade. E riferendosi a tre momenti diversi della vita ne rivelano atteggiamenti, stati d’animo e letture che danno la misura della sua cultura illuminista.
Nel primo, il tu con cui il moribondo si rivolge al prete che gli risponde con il voi, rispecchia l’orgoglio dell’aristocratico che «circondato dal lusso e dall’abbondanza, giunto all’età della ragione (ha) creduto che la natura e la fortuna si fossero unite per colmarmi dei loro doni. E un pregiudizio così ridicolo (lo) ha reso altero, dispotico e collerico». La foga con cui il citoyen mette in guardia dal pericolo di una delega che non tenga conto dell’assenso popolare nel sancire le leggi, può far supporre una strategia per rafforzare la sua fede politica, ma anche l’anarchismo che caratterizza tutti i suoi comportamenti.
Scritta in carcere, quando ancora spera nella libertà, L’idea sui romanzi che metterà in prefazione ad Aline e Valcour, è l’ancora di salvezza che dovrebbe convincere a riabilitarlo. Attraverso la rassegna erudita che all’inizio mette a dura prova il lettore ma che poi si stempera nell’interpretazione, c’è la passione dell’uomo di lettere gran lettore e grafomane, che nella scrittura e nella rappresentazione di pièces teatrali troverà l’unica via di salvezza alla sua condizione.
Contro la mitizzazione poetica e morale dei surrealisti, Klossowski e Lacan, Bataille e Foucault, Deleuze, Barthes e Sollers, tra gli altri, con i loro saggi hanno indagato in modo critico aspetti di carattere religioso, filosofico e psichico, letterario dell’opera complessa e della travagliata esperienza di vita di Sade. Ma di fronte all’ambiguità della dismisura dello scrittore e dell’uomo, resta il desiderio di saperne di più. Cosa c’è a monte dell’esperienza? Cos’ha segnato profondamente l’infanzia e l’adolescenza di Sade? Il suo silenzio in proposito, interrotto in brevi frasi o allusioni, sembra riflettere un pudore di chi non voglia coinvolgere i suoi corruttori.
Dalla montatura del caso Sade da parte dei contemporanei e dalle contraddizioni e ambiguità dell’uomo, che emergono sul filo dei testi in cui molti sono i calchi e i prestiti, la figura di Sade appare, almeno a chi scrive, doppiamente vittima: del suo tempo e di se stesso. È inevitabile, infatti, chiedersi perché non abbia cercato mediazioni più proficue mostrando ravvedimento o maggiore prudenza. Perché abbia seguitato a subire una condizione disumana rivendicando «una fermezza d’animo che non ha mai saputo piegarsi e che non si piegherà mai». Per orgoglio aristocratico o per identificazione nel ruolo di filosofo-martire perseguitato? In questo caso, l’idea di Freud che il sadismo comporti necessariamente un elemento masochista, risulterebbe pienamente confermata. E con l’esempio più appropriato.

«la prima terapia sperimentale alla base della moderna antipsichiatria»?
La Stampa TuttoLibri 22.11.14
Quel detenuto s’è conquistato una fama così triste...


Dal carteggio in appendice al volume di Castelvecchi pubblichiamo un brano di Roulhac du Maupas, direttore nell’ospizio di Charenton, che sostituì l’abate Coulmier dopo anni di lamentele del medico capo Royer-Collard, il quale, non condividendone i metodi, si era più volte rivolto al ministro dell’Interno. Autoritario ma paternalista con i reclusi, Coulmier concedeva grande libertà di movimento. Su suggerimento di Sade, cui permise di avere accanto l’amante, autorizzò feste e rappresentazioni teatrali dai suoi testi, con gli stessi reclusi come attori, che sono considerate la prima terapia sperimentale alla base della moderna antipsichiatria:

A.S.E IL MINISTRO DELL’INTERNO
7 settembre 1814
Signore, S. E. non ignora quale trista fama il marchese de Sade si sia conquistato. A seguito della parola data per iscritto al mio predecessore M. de Coulmiers, nel floreale dell’anno X, che avrebbe lavorato «soltanto a distruggere le cattive impressioni che potevano essergli state messe in conto e a meritare la sua stima», ottenne dalla polizia di essere trasferito da Bicêtre a Charenton... Quando ho preso in mano l’Amministrazione della Casa il 1° giugno scorso, ho trovato M. Sade che godeva, di fatto, di una libertà quasi completa poiché, oltre alle uscite quasi al di fuori della Casa, si diverte a passeggiare in ogni parte della Casa e dei giardini che è aperta agli ospiti liberi e questo a tutte le ore in cui gli va di passeggiare.
M. de Sade in stato di arresto per decreto firmato Napoleone in fondo ai rapporti presentati al Consiglio privato seguita ad essere prigioniero di Stato a Charenton. A 74 anni, affetto quotidianamente dopo i pasti da coliche di stomaco molto violente come lui stesso mi ha detto e Mme Quesnet mi ha confermato, non nego che possa aver bisogno di stare all’aria aperta e di camminare. Ma con tale pretesto deve anche essergli facilitato il contatto con tutti i frequentatori della Casa, il possesso delle penne, dell’inchiostro della carta e la possibilità di scrivere, far copiare e inviare le sue opere all’esterno? Non vedo che un mezzo per prevenire i pericoli da cui è minacciata la Società per la residenza di M. de Sade a Charenton. S.E. voglia ritirarlo da questa casa e consegnarlo a S.E. il Direttore generale di Polizia del Regno affinché ne disponga come giudicherà e trovi un modo di accordare la sicurezza e i pubblici costumi con i riguardi dovuti all’età e alle malattie di M. de Sade...
Ma scongiurandola di liberarci finalmente di M. de Sade, debbo al contempo supplicarla di provvedere affinché la Casa di Charenton non perda una rimanenza di 8.934 franchi delle sue vecchie spese di pensione...
Roulhac Du Maupas

Corriere 22.11.14
Addio a Dynkin innovatore dell’algebra

È scomparso a 90 anni a Ithaca, New York, il matematico russo naturalizzato statunitense Eugene Dynkin, famoso per i suoi contributi alla teoria della probabilità. Nato nel 1924 a Leningrado, si laureò a Mosca, dove divenne professore di matematica nel ‘50. Nel ‘76 lasciò l’Urss per gli Usa e l’anno successivo ottenne la cattedra alla Cornell University dove concluse la carriera accademica. Dynkin si affermò alla fine degli anni Cinquanta per i suoi studi innovativi sull’algebra, sviluppando le teorie del norvegese Sophus Lie. Nel ‘59 formulò una nuova teologia algebrica chiamata «Diagramma di Dynkin» o «Diagramma di Coxeter-Dynkin», importante anche per le analisi delle particelle elementari in fisica.

Repubblica 22.11.14
Anche il Medioevo sapeva che il mondo era sferico
La Terra non è mai stata piatta
di Umberto Eco


QUANDO si è iniziato a riflettere su quale fosse la forma della Terra, era stato abbastanza realistico per gli antichi ritenere che essa fosse quella di un disco. Per Omero il disco era circondato dall’Oceano e ricoperto dalla calotta dei cieli, e – a giudicare dai frammenti dei presocratici, talora imprecisi e contraddittori a seconda delle testimonianze – per Talete era un disco piatto; per Anassimandro aveva la forma di un cilindro e Anassimene parlava di una superficie piatta, contornata dall’Oceano, che navigava su una sorta di cuscino di aria compressa.
Solo Parmenide pare ne avesse intuito la sfericità e Pitagora la riteneva sferica per ragioni mistico- matematiche.
Su osservazioni empiriche si erano invece basate le successive dimostrazioni della rotondità della terra, come testimoniano i testi di Platone e Aristotele. Dubbi sulla sfericità sopravvivono in Democrito ed Epicuro, e Lucrezio nega l’esistenza degli Antipodi, ma in generale per tutta l’antichità posteriore la sfericità della Terra non viene più discussa.
Che la Terra fosse sferica lo sapeva naturalmente Tolomeo, altrimenti non avrebbe potuto dividerla in trecentosessanta gradi di meridiano, e lo sapeva Eratostene, che nel III secolo a.C. aveva calcolato con una buona approssimazione la lunghezza del meridiano terrestre, considerando la diversa inclinazione del Sole, a mezzogiorno del solstizio di primavera, quando si rifletteva nel fondo dei pozzi di Alessandria e di Syene (l’odierna Assuan), città di cui si conosceva la distanza.
Malgrado molte leggende che ancora circolano su internet, tutti gli studiosi del medioevo sapevano che la Terra fosse una sfera. Anche uno studente di prima liceo può facilmente dedurre che, se Dante entra nell’imbuto infernale ed esce dall’altra parte vedendo stelle sconosciute ai piedi della montagna del Purgatorio, questo significa che egli sa benissimo che la Terra è tonda. Ma della stessa opinione erano stati Origene e Ambrogio, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, Ruggero Bacone, Giovanni di Sacrobosco, tanto per citarne alcuni.
Nel VII secolo Isidoro di Siviglia (che pure non era un modello di accuratezza scientifica) calcolava la lunghezza dell’equatore. Indipendentemente dalla precisione delle sue misure, chi si pone il problema della lunghezza dell’equatore ovviamente ritiene che la Terra sia sferica. Tra l’altro la misura di Isidoro, sia pure approssimativa, non si discosta moltissimo da quelle attuali.
Allora perché si è a lungo creduto, e ancora oggi molti lo credono, che il mondo cristiano delle origini si fosse allontanato dall’astronomia greca e fosse tornato all’idea della Terra piatta?
Si provi a fare un esperimento, e si domandi a una persona anche colta che cosa Cristoforo Colombo volesse dimostrare quando intendeva raggiungere il Levante per il Ponente, e che cosa i dotti di Salamanca si ostinassero a negare. La risposta, nella maggior parte dei casi, sarà che Colombo riteneva che la Terra fosse rotonda, mentre i dotti di Salamanca ritenevano che la Terra fosse piatta e che, dopo un breve tratto di navigazione, le tre caravelle sarebbero precipitate dentro l’abisso cosmico.
Una parte del pensiero ottocentesco, irritato dal fatto che varie confessioni religiose stessero opponendosi all’evoluzionismo, ha attribuito a tutto il pensiero cristiano (patristico e scolastico) l’idea che la Terra fosse piatta. Si trattava di dimostrare che, come si erano sbagliate circa la sfericità della terra, così le Chiese potevano sbagliarsi circa l’origine delle specie. Si è quindi sfruttato il fatto che un autore cristiano del IV secolo come Lattanzio (nel suo Institutiones divinae ), siccome nella Bibbia l’universo viene descritto sul modello del tabernacolo, e quindi in forma quadrangolare, si opponesse alle teorie pagane della rotondità della Terra, anche perché non poteva accettare l’idea che esistessero degli Antipodi dove gli uomini avrebbero dovuto camminare con la testa all’ingiù. Infine, era stato scoperto che un geografo bizantino del VI secolo, Cosma Indicopleuste, in una sua Topographia Christiana , sempre pensando al tabernacolo biblico, aveva sostenuto che il cosmo fosse rettangolare, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra. Nel modello di Cosma la volta ricurva rimane celata ai nostri occhi dallo stereoma, ovvero dal velo del firmamento. Sotto si stende l’ecumene, ovvero tutta la Terra sui cui abitiamo, che poggia sull’Oceano e monta per un declivio impercettibile e continuo verso nord-ovest, dove si erge una montagna talmente alta che la sua presenza sfugge al nostro occhio e la sua cima si confonde con le nubi. Il Sole, mosso dagli angeli – a cui si debbono anche le piogge, i terremoti e tutti gli altri fenomeni atmosferici – , passa al mattino da oriente verso il meridione, davanti alla montagna, e illumina il mondo, e alla sera risale a occidente e scompare dietro la montagna. Il ciclo inverso viene compiuto dalla luna e dalle stelle.
Molti autorevoli libri di storia dell’astronomia, tutt’oggi studiati, asseriscono che le opere di Tolomeo rimasero ignote a tutto il medioevo (il che è storicamente falso) e che la teoria di Cosma divenne l’opinione prevalente sino alla scoperta dell’America. Ma il testo di Cosma, scritto in greco, fu reso noto al mondo occidentale solo nel 1706 e pubblicato in inglese nel 1897. Nessun autore medievale lo conosceva.
Come si è potuto sostenere che il medioevo considerasse la terra un disco piatto? Nei manoscritti di Isidoro di Siviglia, che pure, l’abbiamo visto, parlava dell’equatore, appare la cosiddetta “mappa a T” dove la parte superiore rappresenta l’Asia, in alto, perché in Asia stava secondo la leggenda il Paradiso terrestre, la barra orizzontale rappresenta da un lato il Mar Nero e dall’altro il Nilo, quella verticale il Mediterraneo, per cui il quarto di cerchio a sinistra rappresenta l’Europa e quello a destra l’Africa. Tutto intorno sta il gran cerchio dell’Oceano.
L’impressione che la terra fosse vista come un cerchio è data anche dalle mappe che appaiono in molti manoscritti medievali. Come era possibile che persone che ritenevano la terra sferica facessero mappe dove si vedeva una terra piatta? La prima spiegazione è che lo facciamo anche noi. Criticare la mancanza di tridimensionalità di queste mappe sarebbe come criticare la mancanza di tridimensionalità di un nostro atlante contemporaneo. Si trattava, allora come oggi, di una forma convenzionale di proiezione cartograica.
Ma dobbiamo tenere in considerazione altri elementi. Il primo ci viene suggerito da Agostino, il quale ha ben presente il dibattito aperto da Lattanzio sul cosmo a forma di tabernacolo, ma al tempo stesso conosce le opinioni degli antichi sulla sfericità del globo. La conclusione di Agostino è che non bisogna lasciarsi impressionare dalla descrizione del Tabernacolo biblico perché, si sa, la Sacra Scrittura parla spesso per metafore, e forse la Terra è sferica. Ma siccome sapere se sia sferica o no non serve a salvarsi l’anima, si può ignorare la questione.
Questo non vuole dire che non ci fosse un’astronomia medievale. Tra XII e XIII secolo vengono tradotti l’-Almagesto di Tolomeo e poi il De coelo di Aristotele. Una delle materie del quadrivio insegnato nelle scuole medievali era l’astronomia, ed è del XIII secolo quel Tractatus de sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco che, ricalcato su Tolomeo, costituirà un’autorità indiscussa per alcuni secoli a venire.

IL LIBRO E L’INCONTRO La filosofia e le sue storie -L’antichità e il Medioevo a cura di Umberto Eco e Riccardo Fedriga ( Editori Laterza -Encyclomedia Publishers pagg. 576 euro 28), che qui anticipiamo, sarà presentato al convegno “Come insegnare la filosofia, e altro” il 4 dicembre a Milano alle 18 nell’aula magna della Società di Incoraggiamento d’Arti e Mestieri (via Santa Marta 18)

Per completezza di informazione, seppure con un certo ribrezzo, riprendiamo anche la "lettera"  di Renzi oggi sul quotidiano di Scalfari
l’Unità l’ha chiusa, tanto per farsi sentire ha a disposizione Repubblica. E non soio
Repubblica 22.11.14
Il premier
“Ho rivendicato l’appartenenza del Pd alla famiglia socialista europea Per me parlano i miei comportamenti”
Ecco la mia sinistra: sta con i più deboli e non ha bisogno di esami del sangue
di Matteo Renzi


Il Pd è al fianco dei più fragili, dalla parte della speranza e della fiducia in un futuro che va costruito insieme
Non possiamo permetterci di restare fermi a un passato glorioso, ma rivitalizzarlo ogni giorno cambiando
Non c’è riforma più di sinistra del Jobs Act. Con Berlusconi e Verdini solo per cambiare le regole del gioco

CARO direttore, Repubblica mi chiama in causa personalmente. Mi chiede quale sia la nostra idea di sinistra che rivendico, ad esempio, quando parlo della riforma del lavoro. Come lei sa, non da ora, sono tra quelli che hanno favorito e accelerato la fine dell’era del trattino. Quando non si poteva pronunciare la parola sinistra senza premettere qualche prefisso per attenuarla, quasi a prendere le distanze.
Ho sempre rivendicato, con fierezza ed orgoglio, l’appartenenza del Partito democratico alla sinistra, alla sua storia, la sua identità plurale, le sue culture, le sue radici. Per questo ho spinto al massimo perché il Pd, dopo anni e anni di dibattito, fosse collocato in Europa dove è adesso, dentro la famiglia socialista della quale oggi, grazie al risultato delle ultime elezioni, è il primo partito con oltre 11 milioni di voti. Questo per dire che nei comportamenti concreti, nelle scelte strategiche, il Pd sa da che parte stare.
DALLA parte dei più deboli, dalla parte della speranza e della fiducia in un futuro che va costruito insieme. Non credo sia il caso qui e ora di discutere di pantheon e di storie, ognuno ha i suoi riferimenti, le persone che ci hanno ispirato nella azione politica. Dico solo che nel Partito democratico hanno tutti cittadinanza alla pari, così come le tradizioni, le esperienze, le parole che ognuno di noi porta dentro questo progetto che è collettivo e anche personale perché riguarda nel profondo ognuno di noi, e non perché come vorrebbe chi ci vuole male c’è un uomo solo al comando. Quella del Pd è una sfida plurale, un progetto condiviso da milioni di persone, non la tigna di un individuo. Ed è per questo, però, che non possiamo permetterci di restare fermi a un passato glorioso, ma rivitalizzarlo ogni giorno cambiando, trovando soluzioni concrete ed efficaci a problemi che si trasformano e che riguardano da vicino la vita delle persone.
So che Repubblica non vuole farci un esame del sangue, come invece pretenderebbe qualcuno anche dalle parti del sindacato. Lo dico per rispondere alla premessa del vostro editoriale, di una mancanza di rispetto nei confronti di una storia e di una rappresentanza. Non è la mia intenzione, ho un profondo rispetto per il lavoro e per i lavoratori che il sindacato rappresenta. E non sono parole formali. Penso, tuttavia, che altrettanto rispetto sia da chiedere anche nei confronti di un governo che sta cambiando il mondo del lavoro per evitare che alibi e tabù tengano fuori dal mercato milioni di lavoratori solo perché non hanno contratto o sono precari.
Penso che il modo più utile per difendere i diritti dei lavoratori sia quello di estenderli a chi ancora non ce li ha, di aprire le porte di uno spazio rimasto troppo chiuso per troppi anni. Altrimenti qualcuno ci deve spiegare perché con tutto l’articolo 18 abbiamo una disoccupazione a doppia cifra che cresce in questo paese. Sono pronto sempre al confronto, da mesi giro l’Italia in lungo e largo, visitando aziende, stringendo le mani di chi lavora, parlando del futuro del paese in una competizione sempre più dura nel mondo. Non siamo noi, non è il governo, non è il Partito democratico a cercare lo scontro. Siamo noi, però, a porre il tema di un mondo che cambia, nel quale non possiamo più permetterci di non dare tutele alle donne che non hanno garanzie se aspettano un figlio. Un mondo nel quale la selva di contratti precari e precarizzanti deve essere disboscata, semplificata. Un mondo nel quale esista una rete di strumenti di welfare che sostenga chi perde il lavoro e lo metta in condizione di trovarne un altro. Se entriamo nel merito del Jobs Act vediamo che non c’è riforma più di sinistra.
L’altra sera, al PalaDozza di Bologna, nel cuore di quella Emilia rossa fatta di tradizione e pragmatismo, di storia e senso pratico, il passaggio più sentito di un intervento che ho fatto per sostenere Stefano Bonaccini come presidente di Regione è stato quello sul sindacato che non ha manifestato contro la Legge Fornero e oggi manifesta contro il Jobs Act. E avevo davanti una platea di militanti e dirigenti, molti dei quali vengono proprio dalla storia profonda della sinistra italiana. Allora, io mi faccio molte domande, mi interrogo e sento la responsabilità del cambiamenti che stiamo portando, che è autentica e non di facciata. Ma vorrei che anche il sindacato e più in generale il mondo della sinistra si chiedesse se non ci sia una grande opportunità da cogliere.
Per questo penso che la battuta su Berlusconi e Verdini che fa l’editoriale di Repubblica sbagli indirizzo e destinatario. Il Pd ha chiara la differenza tra maggioranza e opposizione così come ha chiaro che le regole del gioco si prova a cambiarle assieme per poi tornare a dividersi su tutto il resto. L’alternativa all’Italicum è lo status quo proporzionalistico. Che convince chi ha in mente un disegno neocentrista che fino a qualche mese fa era sul tavolo e che noi abbiamo sparecchiato.
Mi viene rimproverato anche di scherzare coi gufi e coi soloni. Penso che un po’ di ironia, Direttore, possa aiutare tutti a mettere a fuoco meglio le nostre posizioni, non per banalizzarle, ma per metterle in prospettiva. Per noi la sinistra è storia e valori, certo, è Berlinguer e Mandela, Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi. Ma è soprattutto un futuro su cui lavorare insieme per risolvere i problemi delle persone, per dare orizzonte e dignità, per sentirsi parte e avere orgoglio di essere non solo di sinistra, ma italiani.
Il mondo in questi mesi è cambiato, l’Italia in questi mesi è cambiata; l’Italia delle Istituzioni, del lavoro, della pubblica amministrazione, della giustizia. Una libertà ingiusta, una libertà per pochi, è la ragione sociale della destra. Ma una giustizia illiberale, una giustizia cioè che pretenda di essere per tutti ma senza rispetto per la libertà dei singoli, è la prigione ideologica di una sinistra che ha una visione odiosa delle cose.
Tocca a noi recuperare questo ritardo, rivoluzionando come democratici questo meraviglioso paese. Ci sono due modi per cambiare l’Italia. Farlo noi da sinistra. O farlo fare ai mercati, da fuori. Sostenere che le ricette siano le stesse cozza contro la realtà.
In ciò sta tutta la nostra idea di sinistra. Parole che producono fatti. Perché il tempo delle parole, giuste o sbagliate, slegate dai fatti, è un tempo che abbiamo deciso di lasciarci alle spalle per sempre.