sabato 20 ottobre 2012


l’Unità 20.10.12
«Prima di tutto il lavoro»
Piazza San Giovanni una manifestazione lunga un giorno
Cgil in piazza per il lavoro
Camusso: salviamo il futuro

«Prima di tutto il lavoro». È lo slogan della manifestazione nazionale della Cgil di oggi a Roma, a piazza San Giovanni. L’obiettivo la vera grande emergenza nazionale, riunificando tutte le di vertenze aperte. In un’intervista a l’Unità Susanna Camusso dice: «Ci battiamo per il futuro. Vediamo tanto rigore per i lavoratori e troppe cortesie per i corrotti».
“Prima di tutto il lavoro”. Questo lo slogan della manifestazione nazionale della Cgil di oggi a Roma, a piazza San Giovanni, con lo scopo di riunificare le centinaia di vertenze ancora senza soluzione e aprire un dialogo e un'azione comune tra tutti i soggetti che sono stati colpiti dalla crisi economica e che rischiano sempre più spesso di rimanere isolati, come si è potuto vedere drammaticamente dalle proteste sempre più estreme a cui i lavoratori sono stati obbligati per farsi sentire.
Proprio per la particolare caratteristica dell’evento, la Cgil ha pensato di organizzare una manifestazione con un modulo diverso dal solito. Non ci sarà corteo e la piazza sarà aperta per quasi tutta la giornata, dalle 10,30 alle 17,30. Una vera e propria non stop del lavoro. Molti gli interventi di gruppi musicali: P-funking band, Noarrembì, Casa del vento, Peppe Voltarelli, Tosca, Enzo Avitabile & Bottari, Eugenio Finardi. Presentatore della manifestazione sarà Rolando Ravello, che darà il via alla non stop alle 10,30, con la musica dei P-Funking band.
Nel corso della giornata dal palco parleranno lavoratori, lavoratrici, delegati di tutti i settori: dai ricercatori alle lavoratrici tessili, dai dipendenti delle coop sociali ai lavoratori del settore del mobile imbottito, agli edili e metalmeccanici, i dipendenti del settore del commercio. Ci saranno i racconti dei casi più conosciuti alla cronaca (Irisbus, Vynils, Carbosulcis), ma anche i racconti delle storie di lavoro meno conosciute.
In piazza San Giovanni, oltre al tradizionale palco delle manifestazioni, ci saranno infatti anche 30 stand che comporranno il “villaggio del lavoro”. Saranno 21 gli stand regionali dove saranno rappresentate ed evidenziate le aziende in crisi dei diversi territori. Altri 12 stand delle federazioni di categoria che illustreranno le diverse crisi dei settori di riferimento.
Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, comincerà a parlare intorno alle 16,30. In contemporanea a Londra il Tuc, il sindacato inglese terrà una manifestazione sulla stessa tematica (“A future that works”). Per questo i due segretari generali Susanna Camusso e Brendan Barber si sono scambiati messaggi che verranno letti nelle rispettive manifestazioni.

l’Unità 20.10.12
Susanna Camusso: «Tanto rigore con i lavoratori, troppe cortesie per i corrotti»
Vogliamo dare visibilità alle migliaia di vertenze sconosciute,
dare voce ai disoccupati, ai giovani, ai più deboli. Vogliamo che il governo li ascolti
intervista di Rinaldo Gianola

La Cgil si ritrova oggi in piazza San Giovanni per dare visibilità al lavoro, per raccontare il dramma di migliaia di cittadini vittime della crisi, rimasti senza occupazione, senza reddito, per chiedere una svolta profonda di politica economica. Susanna Camusso, che chiuderà nel pomeriggio la lunga iniziativa, dice che «vogliamo dare volto e voce a tanti lavoratori in difficoltà, ai giovani, agli esodati, vogliamo portare all’attenzione dell’opinione pubblica centinaia di vertenze sconosciute, le tante forme di precariaro: il nostro obiettivo è di affermare la priorità assoluta del tema del lavoro, “il lavoro prima di tutto” come condizione per uscire dalla crisi». Segretario Camusso, una manifestazione va bene, forse uno sciopero generale avrebbe prodotto un effetto più forte... «Noi non rinunciamo a nulla. Questo è il momento di proporre la difesa del lavoro come grande tema collettivo, una questione decisiva per il futuro del Paese. Sappiamo benissimo e lo ripetiamo che questa politica del rigore del governo non ha senso se si esaurisce nella distruzione del lavoro, se non affronta le questioni dello sviluppo e dell’equità. Anche gli interventi di questi giorni, l’aumento dell’Iva e le discussioni aperte, testimoniano che non c’è attenzione adeguata verso i ceti più deboli, ai redditi più bassi, ai pensionati, al lavoro dipendente. Non c’è nemmeno l’interesse a sostenere il mercato interno e le imprese che sono direttamente interessate alla sua salute».
Ma se l’emergenza principale è il lavoro che manca, che senso ha avviare un tavolo sulla produttività?
«In effetti alcuni obiettivi che ha in testa il governo con il confronto sulla produttività sono fuori dal mondo, mi sembrano impraticabili. Si vuole proporre l’idea che una politica di rigore può anche ridurre la retribuzione dei lavoratori, trascurando non solo un principio di equità ma passando sopra anche ad accordi e contratti. C’è un tentativo, poi, del governo di imporre un accordo intervenendo direttamente su alcune parti sociali, cercando di imporre un patto da fuori. È una ingerenza grave, che ha un cattivo sapore. Si fa sapere che se ci sarà un certo accordo allora scatterà una defiscalizzazione di un miliardo e 200 milioni nel 2013 e poi anche nel 2014. Così, intanto, si condizionano anche i governi futuri».
Ma esiste il problema della produttività?
«Certo, c’è un problema di produttività del Paese e siamo pronti a discuterne, a trovare soluzioni. Ma se il confronto si limita esclusivamente alla produttività del lavoro, allora non va bene, la questione è falsata. La Cgil, comunque, è impegnata a realizzare l’accordo del 28 giugno che apriva la strada, vogliamo tradurlo in pratica a partire dalla rappresentanza. Bisognerebbe che il confronto riprendesse con responsabilità, cercando il consenso delle parti, evitando pericolose lacerazioni».
Che cosa non le piace?
«L’ingerenza, il tentativo di separare i buoni e i cattivi anche tra le parti imprenditoriali. Ma non condivido nemmeno una certa frenesia che si manifesta quando si vuole condizionare pesantemente le condizioni di vita delle persone con un decreto legge. Perché si insiste per intervenire immediatamente sulla contrattazione di secondo livello che in Italia riguarda meno di duemila aziende? Mi viene il sospetto che si voglia preparare un intervento a piedi uniti contro il contratto nazionale e la tutela delle retribuzioni».
Allora, come se ne esce?
«Trattiamo, noi siamo interessati a farlo per raggiungere risultati che siano utili, ma non vogliamo che tutto si risolva in un attacco alle retribuzioni, alle condizioni dei lavoratori».
Lei ha espresso un giudizio severo sulla legge anticorruzione, perché?
«Bisogna essere coerenti. Il governo tecnico non può pensare di intervenire senza alcuna incertezza sulla vita delle persone, cambiando le pensioni e il mercato del lavoro, e invece usa ogni riguardo con i signori del falso in bilancio. C’è una differenza di trattamento troppo grande, c’è la sensazione che l’esecutivo sia forte con i deboli e debole con i
forti. Il governo deve battere il pugno, perché è con questo provvedimento che si rafforza la lotta all’evasione fiscale, l’origine di tutti i nostri problemi. È grave non punire il falso in bilancio, derubricare il reato di concussione come sostengono alcune forze in parlamento. Se si vogliono attirare investimenti in Italia dobbiamo partire da una severa legge contro la corruzione».
Le Regioni sono investite da scandali, inchieste giudiziarie e anche da gravi difficoltà finanziarie. Qual è la soluzione? «Non si può mettere tutto insieme. Le inchieste su Batman nel Lazio o gli arresti in Lombardia hanno responsabili precisi, ci sono indagini della magistratura. Poi ci sono situazioni di dissesto, come in Piemonte o anche nel comune di Alessandria. Sono problemi diversi che non possono essere risolti complessivamente con interventi d’emergenza che alterano gli assetti istituzionali senza aver pensato, se necessario, a una riforma».
Gli ultimi episodi che hanno fatto cadere le giunte del Lazio e della Lombardia sono però un pugno in faccia ai cittadini... «La politica non comprende l’urgenza di un’autoriforma rigorosa, quasi non si cura del fatto che ogni giorno che passa i cittadini si allontanano di più dai partiti, dalle istituzioni. C’è una sfiducia crescente verso la politica, l’amministrazione pubblica, che mette a repentaglio la tenuta del tessuto democratico». E il sindacato, resiste dopo cinque anni di crisi?
«Il sindacato regge ancora e fa fatica. La Cgil sta in campo. Ma la crisi è drammatica. Lo vedo nelle Camere del Lavoro, la gente ti guarda con disperazione, cerca una risposta davanti al licenziamento. Le gente vuole un lavoro, non è vero come dice qualche ministro che cerca assistenza. Il lavoro deve tornare centrale».
La Fiat ha perso anche in Appello: deve assumere 145 operai Fiom a Pomigliano. «È una buona notizia. La decisione di Marchionne di non assumere i lavoratori della Fiom grida vendetta, ci riporta agli anni bui del padrone delle ferriere. La libertà sindacale è un diritto, per tutti».

l’Unità 20.10.12
Pomigliano, la Fiat perde: riassuma i 145 operai Fiom
Un po’ di giustizia a Pomigliano «Fiat assuma 145 operai Fiom»
La Corte d’appello rafforza la sentenza di 1° grado
Il Lingotto ha quaranta giorni per assumere i primi 19
di Massimo Franchi

La Fiat perde ancora: dovrà riassumere nello stabilimento di Pomigliano d’Arco i 145 operai iscritti alla Fiom. Ieri la Corte d’Appello di Roma ha confermato quanto deciso lo scorso 21 giugno quando il Lingotto era stato condannato per discriminazioni contro il sindacato guidato da Maurizio Landini. La Fiat annuncia il ricorso ma manda segnali di apertura.

Altro che folklore. La Corte di appello di Roma assesta a Sergio Marchionne un colpo ancora più forte della sentenza di primo grado del 21 giugno che aveva intimato alla Fiat di reintegrare sul posto di lavoro 145 iscritti alla Fiom e che l’ad Fiat aveva definito dalla Cina come «folklore locale» italiano. Il collegio composto dai giudici Torrice, Orrù e Bonanni è stato molto più duro del giudice Baroncini del Tribunale. Se in primo grado la discriminazione contro gli operai Fiom era stata considerata solo collettiva, nell’ordinanza resa nota ieri viene accertata anche una discriminazione individuale. Alla Fip (Fabbrica Italia Pomigliano) viene infatti intimato di assumere entro 40 giorni i 19 iscritti al sindacato che hanno deciso di sottoscrivere la causa intentata dalla Fiom nazionale. In più i restanti 126 dovranno essere identificati tra i 207 iscritti alla Fiom al momento della presentazione della causa e assunti entro 180 giorni.
La Fiat aveva cercato in tutti i modi di non ottemperare alla sentenza. Prima aveva richiesto alla stessa Corte d’appello una sospensiva che, ad inizio agosto, era stata respinta. Poi aveva deciso di appellarsi senza assumere alcun operaio. Nella discussione dell’appello gli avvocati del Lingotto le hanno tentate tutte. Con un atto di intervento, tre lavoratori ancora in cassa integrazione avevano sostenuto di essere «pregiudicati» dalla sentenza di primo grado: gli iscritti Fiom venivano favoriti rispetto a loro. Ma la mossa è stata un autogol: «non può ritenersi che la tutela accordata ad ipotesi di discriminazione vietata possa essa stessa costituire condotta illecita o discriminatoria», si legge nell’ordinanza. In più la Fiat ha cercato di distinguere fra Fga (la società precedente) e Fip (la new-co), sostenendo che la Fip non fosse obbligata ad assumere tutti i 5mila ex lavoratori, come firmato negli accordi. Ma anche su questo punto i giudici hanno contestato: Fip, assumendone una parte, si è presa in carico la totalità dell’accordo sottoscritto da Fga.
La situazione a Pomigliano è molto tesa. Al momento sono stati assunti 2.143 operai rispetto ai 5mila che lavoravano nella vecchia società. I restanti sono in cassa integrazione straordinaria. Un ammortizzatore che scadrà a giugno. La prospettiva per tutti questi lavoratori è quella della mobilità e il licenziamento. Anche per i lavoratori assunti da Fip le cose non vanno come sperato e promesso da Marchionne: la crisi del mercato colpisce pure la Panda e la Cassa integrazione è arrivata anche per loro.
La sentenza, che ironia della sorte, si rifà ad una legge del governo Berlusconi (la 216 del 2003 con cui l’Italia si equiparava ad una direttiva europea sulla discriminazione sui luoghi di lavoro) ha quindi confermato la discriminazione operata da Fiat verso gli iscritti della Fiom e confermata dal fatto che nessuno di loro sia ancora stato riassunto.
LA FIAT USA TONI MORBIDI
La Fiat ha subito risposto. Ma il tono del comunicato, nel quale comunque si prospetta il ricorso in Cassazione e si ricorda la cassa integrazione in vigore a Pomigliano («la Fiat prende atto», ma «risultano ancor più valide oggi» «le considerazione sul ricorso alla Cig fatte dopo la sentenza di 1° grado»), è meno duro e quello che trapela da Torino è molto diverso dalla sfida alla magistratura che Marchionne ha sempre chiesto agli avvocati. «Se dopo il primo grado mancava l’identificazione delle persone da assumere spiega l’avvocato Fiom Pier Luigi Panici con l’appello adesso abbiamo i nomi e i tempi dei 19 che hanno vinto la causa. Per questo non credo che la Fiat possa non ottemperare alla sentenza e i segnali che ho dagli avvocati della controparte vanno in questo senso. Se non rispettasse l’ordinanza, la Fiat compirebbe un reato penale», conclude Panici.
Da parte di Maurizio Landini arrivano parole forti, ma anche apertura al dialogo: «Siamo ormai all’ennesima ordinanza contro la Fiat per comportamento antisindacale o discriminazione, è venuto il momento che tutte le istituzioni e le forze politiche chiedano a Marchionne il rispetto delle leggi e della Costituzione». Landini poi rilancia la sua proposta: «La sentenza non riguarda solo i nostri iscritti, riguarda tutti gli oltre 2.500 ancora non riassunti: noi chiediamo alla Fiat di riassumerli tutti e di utilizzare il contratto di solidarietà. Del resto è già stato fatto all’Iveco di Brescia e la Volkswagen, che ora va benissimo, lo fece nel 2009 per non licenziare. Apriamo una fase di normale dialettica sindacale», chiosa Landini.
Per tutti i lavoratori ha parlato Franco Percuoco, uno dei 19 ricorrenti: «Siamo felici e lo sono anche tanti che lavorano già e gioirebbero ad avere un vero sindacato all’interno dell’azienda, senza sottostare ai diktat dei capi. Ma io vorrei poter parlare con Marchionne, che secondo me è stato mal consigliato, e dirgli: adesso basta, vogliamo solo essere giudicati per il nostro lavoro. Basta fare la guerra alla Fiom, rispetta le leggi, come faccio io da lavoratore».
Tanti i commenti. Se la Fim Cisl ricorda come «Pomigliano esiste perché abbiamo fatto l’accordo», soddisfazione esprimono Cesare Damiano e Stefano Fassina del Pd. Per Maurizio Sacconi «la sentenza è angosciante, costringe Fiat ad un imponibile di manodopera comunista».

l’Unità 20.10.12
Una sentenza importante
di Nicola Cacace

LA SENTENZA DELLA CORTE D’APPELLO DI ROMA CHE ORDINA ALLA FIAT DI CORREGGERE la discriminazione anti Cgil assumendo i 145 operai della Fiom deliberatamente esclusi dalle assunzioni di Pomigliano, è un segnale importante. La decisione non è inaspettata: non si capisce come la Fiat avesse pensato di convincere i giudici che la sua decisione non aveva carattere antisindacale discriminatorio. Ma non è usuale trattandosi di Fiat, un’azienda che da più di 100 anni fa e disfa a suo piacimento le più «alte» decisioni, incamerando profitti negli anni buoni e cercando di scaricarli ad altri Stato, comunità locali, fornitori, clienti, territorio nei periodi di magra. Da un saggio del 2002, «Non Fiat», di Loris Campetti, (Cooper Castellucci), si apprende che già nel lontano 1930, grazie ad un convincente intervento del vecchio senatore Agnelli precipitatosi a Roma, in un mese il Parlamento vara la Legge Gazzera, che recitava: «sono vietati nuovi impianti di fabbriche o ampliamenti senza previo consenso del ministro della guerra». Una legge che in pratica blocca le avanzate trattative d’acquisto della Isotta Fraschini, piccola ma prestigiosa fabbrica di auto dell’epoca, da parte della Ford, che aveva già prenotato un terreno presso Livorno per industrializzare la produzione delle ammiratissime macchine italiane. Il fatto si è ripetuto 56 anni dopo, nel 1986, ancora una volta a danno della Ford, quando governi (e sindacati) bloccarono l’acquisto dell’Alfa Romeo da parte della grande azienda di Detroit, regalandola alla Fiat che la sta seppellendo.
Insomma la Fiat si comporta da anni nel nostro e suo Paese (ma fino a quando sarà anche suo?) come uno Stato nello Stato coi bei risultati sotto gli occhi di tutti: l’unico Paese europeo con un solo grande produttore nazionale, l’ultimo Paese europeo produttore di auto, con meno di 400mila pezzi in un mercato nazionale dove se ne vendono 1,5-2 milioni l’anno, l’unico grande mercato dell’auto alimentato al 70% da marche straniere e con tutti gli Stakeholders, parti interessate oltre agli azionisti al successo di una impresa, che non sono solo esclusi da ogni possibilità di difendere i loro legittimi interessi quanto talvolta anche delegittimati nelle loro richieste. Come quando il premier Monti, ricevendo a palazzo Chigi Marchionne ed Elkann, amministratore e presidente della Fiat, ebbe a sposare interamente le loro tesi di «piena libertà di investire dove più conveniva all’azienda», comportandosi più come un convinto liberista che come presidente del Consiglio della Repubblica. Allontanandosi in questo modo sia dalle più moderne teorie sulla responsabilità dell’impresa (soprattutto della grande impresa) che è responsabilità economica verso gli azionisti ma è anche responsabilità sociale verso tutti, sia dal comune comportamento che altri capi di governo da Obama a Merkel, da Sarkozy ad Hollande tengono con le multinazionali di casa loro quando devono difendere gli interessi nazionali. Chi non ricorda i tremendi rabbuffi di Obama allo scomparso boss di Microsoft Bill Gates, colpevole di trasferire in Cina tutte le sue produzioni, o della Merkel quando Marchionne tentò, maldestramente, di mettere le mani sulla Opel o di Sarkozy quando la Peugeot voleva delocalizzare in Serbia? Niente di tutto questo ha fatto il nostro presidente del Consiglio, tenendo fede alla ben nota fama di convinto liberista e antikeynesiano , come ci ha ricordato tra gli altri, l’ultimo numero dell’Economist mai smentito. Il premier non ha mostrato di seguire in questo neanche le raccomandazioni del suo vescovo Benedetto XVI che nell’ultima Enciclica, Charitas in Veritate, auspica la responsabilità sociale dell’impresa e condanna apertamente «le delocalizzazioni fatte senza attenzione agli interessi di lavoratori, fornitori e territorio». I giudici di Roma sono stati più attenti. Basterà a salvare la più grande azienda automobilistica d’Italia? Speriamo.

La Stampa 20.10.12
Da gennaio 101 casi
Donne uccise, un dramma della modernità
di Mariella Gramaglia

Carmela Petrucci, liceale, diciassette anni, palermitana, si frappone fra la sorella e il suo omicida di 22 anni. Cerca di salvarla dal furore dell’ex fidanzato respinto. Le hanno trovate una accanto all’altra, le ragazze, riverse nell’androne di casa al ritorno da scuola.
E’ la centounesima vittima di femminicidio nell’Italia del 2012. Femminicidio, parola una volta lontana, usata per le feroci esecuzioni di donne da parte dei trafficanti di droga messicani di Ciudad Juarez, è oggi entrata nel nostro lessico di europei sempre più incerti di noi stessi e della forza dei nostri valori.
Non è accaduto per bizzarria ed esotismo, ma per dolore, per sdegno, per sottolineare che viene un momento in cui ciò che non si voleva guardare diventa un’ossessione della coscienza, che ciò che ad alcuni pareva sopportabile – uno dei tanti dolorosi dettagli della cronaca – prende il corpo di un’emergenza democratica, di una ferita al patto sociale che ci unisce.
Infatti, molto spesso, non è di arretratezza che si tratta. La storia delle due sorelle palermitane somiglia da vicino, non solo geograficamente, a quella della catanese Stefania Noce morta il 27 dicembre 2011. Ventiquattro anni, brillante studentessa di Psicologia, femminista militante, battagliera nel movimento degli studenti. Il ragazzo che la uccise, dopo un amore finito, non seppe dire altro che una frase pesante come un macigno: «L’amavo più della sua vita». E’ la contiguità, l’ossessione del possesso, la perversione blasfema dell’amore a fare di un uomo un assassino. Raramente si uccide una sconosciuta. Su una donna un uomo, un particolare uomo, proietta ciò che ha deciso di non essere: è da lei che pretende e si aspetta l’assoluta dedizione. Che può andare oltre la vita dell’altra, come racconta il dialogo teatrale di Cristina Comencini, che prende le mosse proprio dal grande vuoto che buca l’anima di molti ragazzi e che a Torino di recente, alle Officine Grandi Riparazioni, ha commosso tanti spettatori .
I dati, le statistiche sono arnesi difficili da maneggiare. Tuttavia non credo ci sia un caso italiano, una ferita che riguarda solo noi, o principalmente noi. E’ un dramma della modernità, però, non dell’arretratezza, o meglio non solo dell’arretratezza. Su questo non possiamo darci consolazioni facili. Una zona buia dell’anima convive con l’epoca delle Cancelliere e delle Segretarie di Stato donna: sembra ignorarle e affondare nella preistoria. Nel 2009 in Finlandia, Danimarca e Norvegia ci sono state in media sette donne uccise ogni milione di cittadine. Un po’ di più che in Italia: da noi 6,57. Forse alcolismo e solitudine sono più potenti dell’emancipazione.
Negli anni fulgenti del primo Zapatero in Spagna (2004-2005) ci fu, invece, un calo significativo della violenza contro le donne: lui ci aveva creduto, aveva speso denari ed energie per la prevenzione, l’educazione, la promozione brillante di quel tipo di autorevolezza femminile che crede nel sostegno alle altre e che sola può far da argine al peggio.
Dunque la politica non è impotente. Se vuole. Le volontarie del «Telefono rosa», esaminando un campione di mille e cinquecento telefonate, hanno scoperto che il novanta per cento delle donne che le chiamano perché già colpite, picchiate, a rischio di vita, non denunciano il loro persecutore. I tempi del procedimento sono troppo lunghi, durano in media cinque anni, e nel frattempo la protezione per loro e per i loro bambini non è tale da rassicurarle. Qualcosa potrebbe essere cambiato. I centri di sostegno contro la violenza potrebbero essere rafforzati e infittiti.
E’ quello su cui preme anche la comunità internazionale, con la Convenzione di Istanbul che impone agli Stati più protezione per le vittime, sanzioni penali per i matrimoni forzati, robuste strategie di prevenzione.
La nostra ministra delle Pari opportunità Elsa Fornero l’ha firmata il 27 settembre scorso. Peccato che nella seduta del 20 settembre, in cui il Senato avrebbe dovuto dare solennità al suo mandato, la discussione fu sospesa alla maniera di una riunione di condominio: il vicepresidente Domenico Nania era sparito, Rosi Mauro non poteva perdere un aereo e il presidente Schifani tardava a farsi vivo in aula. Non era mai accaduto nella storia della Repubblica.
Brutto segno di un brutto Parlamento. Fornero è decisa a tornare alla carica il venticinque novembre prossimo, giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Intende chiedere la ratifica della Convenzione e presentare il suo programma in materia di violenza sulle donne. Non disperiamo. La politica qualche volta può anche essere una cosa seria.

La Stampa 20.10.12
L’abbandono non accettato dietro la strage delle donne
Carmela è la 101esima vittima dall’inizio del 2012
di Rosaria Talarico

La triste contabilità delle donne ammazzate supera il numero emblematico dei 100 casi: Carmela Petrucci è la centounesima vittima del 2012. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale stalking nel 2011 ci sono stati 127 omicidi di donne e nel 15% era stata presentata una denuncia per atti persecutori. Una percentuale che però non deve trarre in inganno, poiché quando si parla di stalking (il termine inglese con cui viene indicata l’insieme di azioni che portano a perseguitare una persona con pedinamenti, telefonate o minacce) è il sommerso a dominare.
«Per il 93-95% dei casi non c’è una denuncia - spiega Massimo Lattanzi, coordinatore dell’Osservatorio e abbiamo verificato che oltre il 50-60% degli omicidi sono avvenuti dopo separazioni o abbandoni non accettati dal partner». Un’affermazione che trova conferma nell’analisi del criminologo Francesco Bruno: «Una volta l’uomo dominante uccideva la donna di cui si voleva liberare, ora la uccide perché ne è dipendente. Non riesce a essere lasciato». E spesso poi completa l’opera suicidandosi.
Ai 127 omicidi del 2011 andrebbero infatti aggiunti 15 suicidi successivi all’omicidio della compagna. Come accaduto a luglio a Milano Marittima dove un uomo ha ucciso la ex convivente con una pistola e con un’altra si è sparato in testa subito dopo. Mentre ad aprile a San Giuliano Milanese è finito in carcere un 55enne che aveva ammazzato la sua ex compagna di 43 anni con una stilettata al cuore. La vittima in passato aveva già denunciato il 55enne per stalking. Maria Anastasi, 39 anni, è invece stata uccisa a picconate a Trapani. La donna era al nono mese di gravidanza ed era già mamma di tre figli minorenni. Accusato dell’omicidio è il marito con la complicità dell’amante. Il cesenate Luca Lorenzini uccise l’ex fidanzata Stefania Garattoni di 19 anni a marzo del 2011. All’ennesimo rifiuto da parte di Stefania di riprendere la loro relazione, Lorenzini estrasse un coltello e la colpì con 13 pugnalate. E si potrebbe continuare elencando casi e modalità molto simili, con un trend che non ha subito variazioni dall’introduzione della legge sullo stalking voluta dall’ex ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna. «Non è efficace per contenere gli omicidi - prosegue Lattanzi - paradossalmente dal 2009 i numeri sono in aumento. La legge prevede misure cautelari, l’ammonimento e anche il carcere, ma sono strumenti non efficaci. C’è bisogno di affiancare un percorso di risocializzazione, altrimenti continueremo a vedere casi di questo tipo. In Spagna hanno adottato un protocollo simile e si è registrata stata una riduzione del 50%». La Spagna però lo fa attraverso un accordo previsto per legge con il ministero dell’Interno. Lattanzi ricorda come gli stalker siano altamente recidivi e pericolosi, anche dopo un periodo in carcere, che non basta dunque a ridurne la pericolosità sociale.
L’Osservatorio dal 2007 ha in cura 200 persone (di cui il 25% sono donne) ed esiste un sito dedicato (www.presuntiautori.it) a cui ci si può rivolgere per chiedere aiuto se si ammette di avere un problema. Il percorso prevede sia incontri periodici che un’assistenza telefonica.

l’Unità 20.10.12
L’imbarazzo dello staff. E il sindaco minaccia l’Unità
A freddo Renzi sferra un pesante attacco al nostro giornale:
«È giusto dare fondi pubblici a chi insulta?» Cayman, Zingales critico
di Maria Zegarelli

Non c’ero, non ero presente a quella cena. noi della trasparenza e della tracciabilità ne stiamo facendo una battaglia». Simona Bonafé, del Comitato Renzi, risponde così al telefono. Non sa cosa sia questa storia di Davide Serra, organizzatore della serata con banchieri e alta finanza «per dare una mano a Matteo», nonché titolare di una società controllata da una holding alle Cayman, isole dei paradisi fiscali, massima discrezione per chi trasferisce qui i propri capitali. Renzi sulla vicenda dichiara che tutto è trasparente e anzi, sfida Bersani al confronto su finanza e banche. Su Serra non risponde, ma a freddo, torna ad attaccare l’Unità. Si chiede se ha «un senso utilizzare i denari del finanziamento pubblico per l’editoria per insultare qualcuno che non la pensa come te». Torna alla carica dopo aver reso omaggio a Don Giovanni Minzoni, ucciso dai fascisti nel 1923: «Don Giovanni, che difese la libertà educativa degli scouts dall’attacco fascista, era per me un simbolo ai tempi del liceo. Ho scelto di fermarmi sul luogo nel quale fu picchiato a morte quando ho letto che l’Unità ha definito la nostra posizione politica “fascistoide”. Si possono avere idee diverse su tante cose e io credo molto nel rispetto per le altrui opinioni. Ma se qualcuno mi dà del fascista io la giudico un’offesa, non una mera espressione linguistica. Che il quotidiano di Antonio Gramsci mi abbia dato del fascistoide mi colpisce per la violenza dell’insulto. Non ho replicato. Ho solo deposto un mazzo di fiori alla memoria di don Minzoni. Ognuno giudicherà se possa avere un senso utilizzare i denari del finanziamento pubblico per l’editoria per insultare qualcuno che non la pensa come te». Renzi non ricorda la risposta del direttore de l’Unità ma invoca il taglio dei finanziamenti.
Eppure il caso Cayman resta e provoca imbarazzo nel suo staff. Renzi che della lotta all’evasione e la trasparenza ha fatto il refrain della sua campagna elettorale e Serra, che avrebbe interessi in un paradiso fiscale, fanno fatica a tenersi. Giorgio Gori su l’Unità di ieri puntualizzava che Serra «non rappresenta il pensiero di Matteo», che di quei 150 invitati lui ne conosceva non più di tre e
di elementi per dire «se è vero o no» che l’imprenditore ha una società con radici alle Cayman non ne ha.
«Non capisco la polemica commenta Roberto Reggi, consigliere politico si Renzi. Ma se per vent’anni abbiamo avuto un presidente del Consiglio che non ha fatto altro che quella roba...». Reggi definisce quella in corso una polemica «messa su dai bersaniani» perché, spiega, quello stesso giorno Renzi ha incontrato anche le associazioni del volontariato del comitato editoriale del magazine Vita, «ma ovviamente nessuno ne ha parlato». Roberto Della Seta, che in questa partita appoggia il sindaco, non conosce «questo Serra». Aggiunge: «Non so se abbia una società con base alle Cayman, ma la polemica è venuta prima ancora che si sapesse questo particolare. La polemica è nata perché Matteo ha deciso di incontrare la finanza e sinceramente mi sembra molto strumentale. Che la sinistra incontri quel mondo non mi sembra una novità, senza dover per forza citare Passera, Profumo, Consorte e Unipol... Poi, ovvio, se Serra è un signore che è andato alle Cayman per evadere le tasse non è una persona di cui fidarsi».
Ma una bacchettata al sindaco arriva dall’economista Luigi Zingales: «Sicuramente la possibilità di mettere soldi nelle isole Cayman avvantaggia alcuni a danno di altri. Il fatto però che le persone lo possano fare è parte della legge, quindi queste persone non sono illegali: che un candidato raccolga fondi da persone che facciano questo per me non è un male, ma è un male se questi fondi sono molto grossi, e queste persone hanno la capacità di influenzare l’agenda politica di un Renzi premier». Sferzante Davide Zoggia, sostenitore del segretario: «Siamo felici che Renzi abbia deciso che parlerà solo di contenuti. I contenuti di cui parla sono forse le slides di Serra, il patron di una holding delle Cayman? In tal caso abbiamo già capito dove va la fase due».

l’Unità 20.10.12
In difesa de l’Unità
di Claudio Sardo

ORA MATTEO RENZI VUOLE CHIUDERE L’UNITÀ PERCHÉ L’UNITÀ dà conto della battaglia delle primarie senza edulcorare i termini della competizione politica nel Pd. Non gli fa onore, perché un leader democratico che si candida a guidare il Paese dovrebbe sempre avere una cura speciale della libertà di stampa e coltivare il pluralismo come una ricchezza, anche quando esso risulta scomodo. Il casus belli è un articolo di Michele Prospero in cui si definisce «fascistoide» la parola rottamazione.
L’Unità, i lettori lo sanno bene, non ha mai sostenuto che Renzi è un «fascistoide». L’intervento di Prospero contestava la cultura della rottamazione, attribuendo ad essa una matrice violenta e autoritaria. Ma quello scritto era opposto nello stesso numero del giornale ad uno di Roberto Weber, che sosteneva invece la necessità vitale di «facce nuove», pena l’esaurimento del progetto del Pd. Cosa avremmo dovuto fare? Cestinare gli articoli e assicurare i lettori che si sta svolgendo nel Pd un «dibattito franco e vivace»? Ogni giorno su l’Unità parlano i sostenitori di Renzi e si confrontano con quelli degli altri candidati alle primarie. Ieri abbiamo pubblicato due interviste, a Giorgio Gori e a Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia, uno dei più autorevoli dirigenti Pd schierati a fianco del sindaco di Firenze. E in passato abbiamo dato grande rilievo, come è ovvio per un giornale, alle critiche e agli attacchi sferrati dal fronte renziano contro Bersani e la sua segreteria. Ricordo che non sono neppure mancati i paragoni con «Ceausescu» oppure la previsione di un esito «totalitario» del Pd se non fossero state accolte determinate richieste sulle regole delle primarie. L’Unità avrebbe dovuto censurare anche questo? Avrebbe dovuto censurare lo scontro sulla ricandidatura di D’Alema, compreso il dissidio tra D’Alema e Bersani? E dovrebbe ora censurare la polemica sulla cena per la raccolta fondi di Renzi, organizzata da un finanziere che ha costituito la propria società nelle isole Cayman?
Ieri Renzi ha reso omaggio alla tomba di don Giovanni Minzoni, martire di un fascismo che stava sradicando con la violenza la fragile
democrazia italiana. Eravamo con lui, siamo con lui. Se il nostro scontro è servito a regalare al sindaco di Firenze e a tutti noi quella pausa di riflessione sulla tomba del parroco di Argenta, cattolico interventista, appassionato, democratico, penso che sia un bel segno. Don Minzoni è stato ucciso dall’ignoranza e dalla barbarie di un gerarca, o di un comitato fascista, che voleva negargli la libertà di costituire un gruppo scout, di educare i giovani secondo valori diversi da quelli del regime nascente, di dare forma insomma a quel pluralismo sociale e delle idee che è incompatibile sia con i regimi autoritari che con il servilismo alle ideologie dominanti.
Ma tornando alla disputa di oggi, Renzi dice che non ha senso destinare i fondi pubblici dell’editoria a un giornale come il nostro, che poi li usa «per insultare qualcuno che non la pensa come te». Ecco, viene da dubitare che a questo punto il sindaco di Firenze sia stato davvero cosciente dell’enormità di questa affermazione. La questione non è l’insulto (che a mio giudizio non c’è stato ma che assumo come la percezione di un’offesa e come tale mi dispiace e mi ferisce). La questione è condizionare un fondo pubblico per l’editoria a un determinato comportamento o gradimento politico. Se fosse così saremmo pericolosamente fuori da un canone accettabile di libertà. Sono parole gravi, che l’ira può spiegare ma non giustificare.
Tanti avversari de l’Unità hanno nel tempo sperato che l’Unità chiudesse. Oggi le distorsioni del mercato editoriale e la crisi generale costituiscono purtroppo una gravissima minaccia per i giornali di idee e per i quotidiani di medie dimensioni a diffusione nazionale. Il fondo dell’editoria non è una mancia. Deve servire per favorire un risanamento aziendale e un adeguamento strutturale alle nuove
condizioni del mercato, senza però disperdere quel patrimonio di pluralismo e di libertà che esprimono i giornali di chi «non la pensa come te». Lo stesso fondo, ahinoi, è minacciato. Dalla contrazione del bilancio pubblico e dalla pigrizia politica e intellettuale di certi benpensanti ai quali non dispiacerebbe un taglio alla libertà di stampa. Noi ci opporremo con tutte le nostre forze a chi vuole ridurre gli spazi di libertà. E speriamo, anzi siamo convinti, che Renzi sarà dalla nostra parte sia che vinca le primarie del centrosinistra, sia che le perda.
Quanto all’invettiva di ieri contro l’Unità, forse è giusto considerarla come la rabbia di un momento. Chi si ferma in silenzio e in preghiera davanti alla tomba di don Minzoni non può che combattere per avere più libertà, non può avere paura delle differenze e del valore democratico del confronto e del dissenso.

il Fatto 20.10.12
Beppe Vacca, Istituto Gramsci
“Se vince il rottamatore lo espelliamo in 2 mesi”
di Wanda Marra

Un partito nuovo? Mi sembra una castroneria che D’Alema non può aver detto. Perché se le primarie le vince Renzi si farà una lotta politica. Con un regolamento di conti in un congresso. È chiaro che un segretario della statura di Renzi il Pd lo espelle rapidamente”. Parola di Beppe Vacca, direttore dell’Istituto Gramsci, ex deputato comunista, da sempre vicino a Massimo D’Alema ed esponente di spicco della cosiddetta école barisienne.
Quindi, è il partito vecchio che si farebbe nuovo?
Non mi faccia dire cose diverse da quelle che le sto spiegando. Di fatto si aprirebbe un congresso, e lui non ha il controllo dei delegati. Quando un segretario è inadeguato, il partito lo espelle. La storia della sinistra dopo l’89 è ricca di esempi.
Quali? Mi risulta che i segretari dei Ds e del Pd siano stati sempre prima o dopo fatti fuori.
Non si può dire fatti fuori. I segretari sono sempre stati votati e non votati secondo procedure normali in un partito. Ma un corpo complesso rivela l’inadeguatezza del leader.
Secondo lei, dunque, se ne va lui?
Lo scenario è questo, se poi se ne va è un problema suo. Renzi in un partito grande e complesso, seppure acerbo, non regge due mesi.
Dunque, è per la lotta nel partito?
Sono un militante del Pd, vecchio, non voglio incarichi, ma farei una battaglia politica contro un leader inadeguato. Renzi non è in grado di fare il segretario. E poi, figuriamoci il premier.
Con D’Alema vi siete sentiti?
Vede, siamo come fratelli: io sono il fratello maggiore, lui il fratello minore. Ci sentiamo tre, quattro volte l’anno, ma sappiamo di pensarla allo stesso modo. Sostanzialmente il pensiero politico ha varie matrici con due capostipiti: quella kantiana, che legge il mondo come dovrebbe essere e quella hegeliana, il realismo politico. Io e D’Alema, che siamo di questa seconda matrice, ragioniamo alla stessa maniera. Non c’è bisogno di sentirsi.
Quindi ha condiviso le scelte e gli atteggiamenti di D’Alema nell’ultima settimana?
Certamente. Non solo non poteva, ma non doveva fare altro.
È giusto che rimetta il mandato se vince Bersani e dia battaglia se vince Renzi?
Non è cosa diversa da quello che dico io. Dopo le primarie si fa un congresso, con un esercizio della leadership reale, non la ricerca di consenso per le primarie, che è cosa di un momento.
Ma voi il congresso lo chiedereste anche prima delle elezioni?
È necessario, per la salute dell’Italia.
Non le pare che comunque i partiti siano completamente delegittimati?
Ma manco per niente. Il Pd è al 30% e cresce di giorno in giorno. Anche se la crisi generale di legittimazione è tale che noi siamo stati costretti a fare le primarie. La sinistra una sua definizione ce l’ha. L’epicentro del terremoto è a destra, che è completamente crollata. Oggi con la catastrofe della Seconda Repubblica, io devo discutere di Renzi?
Cosa pensa di Grillo?
Quello che ho detto di Renzi vale anche per lui. All’ennesima potenza. È la stessa musica, il prodotto di 20 anni di finta democrazia. Con la crisi della prima Repubblica il sistema dei partiti è esploso e la risposta è stata insufficiente.
Il Pd sta con D’Alema?
D’Alema sta sulle posizioni di Bersani, che ha vinto le primarie con poco più del 50% ma oggi l’opposizione interna non sta sopra il 15.
Beh, per essere così poca fa una bella confusione.
Il fatto che faccia rumore non vuol dire niente. Il punto è cosa è capace di costruire.
Cosa pensa della rottamazione?
Ma lei mi vuol proprio far incazzare?
Ma perché? In fondo è uno scontro di culture, una guerra tra vecchi e giovani.
La guerra si fa ai paesi nemici. In politica si parla di avversari. Uno che inalbera la bandiera della rottamazione si considera un nemico, un nemico interno. Neanche De Gaulle fece così. E se uno si presenta come salvatore della patria deve avere un orizzonte più ampio della rottamazione.

l’Unità 20.10.12
Miguel Gotor: «Ricostruzione civica del Paese È questa la sfida del segretario»
Il giovane storico è tra i firmatari dell’appello per Bersani: contrapporre partiti e società civile rafforza il populismo e fa vincere la destra
di Simone Collini

ROMA La contrapposizione partiti-società civile? Per sapere come andrà a finire, se si continua così, basta guardare a quel che avvenne vent’anni fa. Quella tra giovani e vecchi? Per capire cosa ci sia sotto, bisogna invece andare più indietro e ripensare a cos’era l’Italia della prima metà del 500. Parola di storico. E di chi ora ha deciso di «dare una mano» a Bersani girando l’Italia per raccontare tutto ciò.
Miguel Gotor è docente di Storia moderna presso l’Università di Torino. Durante la campagna per il congresso del Pd del 2009, scrive sul “Sole 24 Ore” un articolo sul «bersanese», in cui non si risparmiano critiche al linguaggio dell’allora candidato segretario. Bersani risponde. I due si conoscono. E ora il leader del Pd ha chiesto al docente universitario di impegnarsi nella campagna per le primarie. «Se avessi detto no mi sarei sentito un disertore. In questi giorni sono stato a Vicenza, Padova, Ravenna, Faenza, Rimini, Vercelli. I miei studi? Più che altro ne risente mia figlia di un anno».
E cosa racconta in queste iniziative?
«Intanto, che l’Italia ha una specificità, perché accanto alla crisi economica, che riguarda tutte le economie occidentali, abbiamo una crisi della democrazia rappresentativa. È vero che non è nuova, basti pensare che il primo biografo di Mazzini già nel 1901 parlava di «decadenza dei partiti», o a De Gasperi che nel ‘45 diceva che gli italiani si mostravano «stanchi dei partiti». Però oggi questa crisi è molto acuta, e se si dà la mano con la crisi economica per l’Italia arrivano tempi veramente difficili. Il cuore della sfida riformista è evitare che ciò avvenga».
Come?
«Bisogna intervenire sulla qualità della politica».
Lo dicono tutti, destra, sinistra, grillini... «Lo dicono. Me nell’azione di Bersani c’è un progetto di ricostruzione civica. Se si insiste sulla contrapposizione tra partiti e società civile, considerando i primi morti e la seconda il luogo della verginità e dell’incontaminazione, se affrontiamo la doppia crisi di cui parlavamo con la stessa lettura del ‘92 e del ’93, riconsegniamo l’Italia alla destra, come peraltro avvenne nel ’94 con Berlusconi».
Berlusconi appartiene al passato e qualche ragione a guardare con speranza nella società civile c’è, non crede?
«Pur se animati dalle migliori intenzioni, una contrapposizione tra partiti e società civile produce il rafforzamento di nuove forme di populismo, che non assumeranno il volto di Berlusconi ma si declineranno in modalità nuove che saranno dentro quel solco e che saranno subalterne a quel tipo di cultura politica».
E allora torniamo al punto di partenza: come se ne esce?
«Facendo appello al civismo italiano, alla società civica».
Società civile no, società civica sì? Sa di disputa sui nomi...
«No, è diversa la riflessione. Si tratta di fare appello all’associazionismo, alla ricchezza di mondi che si auto-organizzano in tante forme di volontariato, alla buona politica che è una ricchezza che deve essere valorizzata e di cui anche il Pd, con i suoi circoli, con i suoi militanti, è un’espressione. La proposta allora è passare dalla contrapposizione all’alleanza. Diamoci la mano e proviamo a rimettere in marcia il Paese. Dal punto di vista economico ma anche culturale, politico, con uno scatto civico. È su questo che si fonda il mio impegno».
Resta il problema dell’attuale credibilità dei partiti, non crede?
«Devono riconoscere i propri limiti, fare un passo indietro, e Bersani su questo ha dimostrato di essere assolutamente convinto. I partiti devono con umiltà trasformarsi in infrastrutture e mettersi a disposizione, con generosità, di questa riscossa civica. E devono assumersi dei rischi, uscire dal fortino. Le primarie sono una straordinaria occasione per provare a riconnettere politica e cittadinanza».
Le primarie stanno però creando problemi, non c’era un’altra strada?
«No, perché la leadership possibile, in un campo democratico e progressista, non può che passare attraverso una grande partecipazione e mobilitazione popolare. Solo se si riuscirà a stabilire una connessione sentimentale tra chi avrà la responsabilità di guidare il governo e milioni di italiani si può affrontare la duplice crisi». Finora si è discusso però più che altro di Monti bis e rottamazione.
«Quei due argomenti vengono usati per coprire la vera posta in gioco».
Che sarebbe?
«L’indisponibilità di Bersani a una nuova maggioranza che contenga ancora il Pdl, in qualunque sua forma, perché ormai è chiaro che vi sono ampi settori del mondo politico, finanziario e imprenditoriale che dietro la coperta del Monti bis in realtà rivogliono questa strana maggioranza, però legittimata dal voto popolare». Perché diceva che anche la polemica giovani-vecchi è una coperta?
«Perché dietro c’è un progetto di balcanizzazione del quadro politico italiano. La destra non è mai stata così debole perché frammentata. Si vorrebbe frammentare e indebolire anche il campo dei democratici e progressisti. Un sistema politico diviso e debole renderà più semplice operazioni finanziarie e economiche in cui ci sono dei rapporti tra paesi stranieri e propaggini nazionali. Qualcosa di molto simile avvenne nella prima metà del 500. Un’Italia più debole e divisa in fazioni fa comodo a tanti. Soprattutto in un momento in cui si sta decidendo un nuovo ruolo dell’Italia in Europa».
E le primarie, in tutto questo?
«La proposta politica di Bersani è non solo la più credibile ma anche l’argine più valido per ridare slancio e speranza all’Italia».

Corriere 20.10.12
La lotta delle generazioni nel Pd In palio «il partito che non c'è»
di Paolo Franchi

Pensare di capire il presente (e figuriamoci il futuro!) solo sulla scorta delle analogie con il passato non porta lontano. Lo aveva spiegato il grande Marc Bloch agli storici comparativisti già nel 1928, la messa in guardia vale pure per i cronisti del 2012. Specie per i più navigati, particolarmente esposti al rischio di adagiarsi nel luogo comune secondo il quale non c'è mai, sotto il sole, niente di nuovo: un rischio tanto più pesante quanto più vengono rappresentate come straordinariamente inedite dinamiche a dir poco antiche.
È il caso del conflitto generazionale che oppone nel Pd (del Pdl è meglio tacere) i quarantenni o quasi ai sessantenni o quasi, in una parola Matteo Renzi a Massimo D'Alema, e in misura diversa, minore, a Walter Veltroni. Una novità assoluta? Non scherziamo. Lasciamo pure da parte le bellissime pagine di Antonio Gramsci sulla «rottura di generazione» tra i giovani e gli anziani e anche le immortali parole di Carlo Maria Cipolla sull'equa distribuzione dei cretini nelle diverse generazioni e classi sociali. Per restare alla storia relativamente recente della sinistra: fu un colloquio tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, che decisero di rinunciare a contendersi la segreteria del Pci, a spianare la strada a Enrico Berlinguer. All'opposto, fu una (vittoriosa) rivolta di quarantenni quella che andò in scena a Roma, all'hotel Midas, nel luglio del 1976, e portò al potere nel Psi Bettino Craxi, in alleanza con Claudio Signorile e Enrico Manca, rovesciando il non ancora settantenne Francesco De Martino. E fu una (vittoriosa) manovra di quarantenni quella che nella primavera del 1988 scalzò Alessandro Natta, prendendo a spunto un suo malore, dalla segreteria del Pci, per portarvi, in anticipo sul previsto, Achille Occhetto. 
Anche allora i leader e i gruppi dirigenti scalzati parlavano assai, specie quelli comunisti, di rinnovamento. Ma sempre specificando che il rinnovamento andava fatto «nella continuità», e che insomma consideravano una loro prerogativa inalienabile quella di decidere, con molta, molta calma, se, quando e, nel caso, con chi «rinnovare». Anche allora quelli che li scalzavano erano portatori di una «discontinuità», e anche di una politica nuova: non sempre chiarissima, ma comunque più dinamica, più spregiudicata, più «moderna». La differenza sostanziale con quel che capita oggi non sta qui. E non è neanche vero che i quarantenni «innovatori» dell'epoca fossero, con i sessantenni «conservatori», molto più rispettosi. Ma non parlavano di «rottamazione», e non solo perché l'orrendo neologismo non era stato ancora coniato, né per le automobili né, quel che è peggio, per gli uomini; o perché la comunicazione politica novecentesca, ignara della Rete e persino dei format, non avvertiva l'urgenza di metterne a punto nemmeno dei blandi sinonimi. L'oggetto della contesa, anche generazionale, era (ovviamente, visto che è di politica che stiamo parlando) il potere o, come si dice, la leadership, e quindi, assieme la linea politica, di un partito. Malridotto, in crisi di identità, dubbioso persino sulle proprie possibilità di sopravvivenza. Ma comunque un partito, e cioè una comunità politica e umana, con le sue magagne, sì, e però con la sua storia, le sue generazioni, i suoi valori condivisi, i suoi codici. 
Retorica nostalgica? Ma no: tutte e due le rivolte di quarantenni di cui parliamo furono, o vennero interpretate, come delle congiure di palazzo anche per questo. Né a Occhetto né a Craxi, che pure lo ha introdotto sulla scena politica, sarebbe mai passato per la testa di girare per l'Italia su un camper, figurarsi a D'Alema. Renzi lo fa, e ha ragione a farlo: la platea chiamata a decidere è cambiata, si è fatta infinitamente più ampia (benissimo) ma anche molto più incerta nei suoi effettivi contorni (il che va meno bene, ma di per sé non è un dramma). Solo che non è chiaro, nemmeno alla suddetta, vastissima platea, quale sia, rottamazione a parte, la posta in gioco. Ufficialmente, perché questo è il tema delle primarie, dovrebbe essere la guida della coalizione: e allora si tratterebbe di una contesa curiosissima, perché Renzi e Pier Luigi Bersani pensano a coalizioni diverse. La guida del Pd, allora? Ma il Pd così com'è sarà pure il partito più forte (o meno debole) del Paese. E però i toni stessi dello scontro testimoniano che non ha né una storia né dei valori né dei codici condivisi. In senso stretto, è difficile persino definirlo un partito: quando D'Alema accusa Renzi di voler attaccare, mediante rottamazione, la «tradizione politica» del Pd, nessuno saprebbe dire a quale tradizione si riferisca. Magari sta qui, allora, la differenza sostanziale con il passato. La posta non è tanto la guida di questo partito. Quanto piuttosto, per l'ennesima volta, e confusamente, la natura del partito che non c'è e che (forse) verrà. O dei partiti che (forse) verranno. 

La Stampa 20.10.12
Verso il 2013, le scelte degli elettori
Grillo senza freni nei sondaggi sale al 21 per cento
Al Movimento 5 Stelle spetterebbero così molte presidenze nelle Commissioni
Il Pdl crolla al 14,3%, il Pd primo con quasi il 26% Si rafforza l’ipotesi di una Grande coalizione
di Carlo Bertini

Ha tutte le carte in regola per esser definito un sondaggio choc, perché per la prima volta fotografa una realtà finora temuta dai partiti, ma ancora mai certificata da un numero così dirompente: la Swg di Trieste assegna al Movimento 5 Stelle di Grillo un 21% tondo tondo, che colloca la forza politica del comico genovese sopra il Pdl (al 14,3%) e al secondo posto dopo il Pd (al 25,9%). E’ la rilevazione diffusa ieri ad Agorà, che vede gli altri partiti più o meno stabili e la fiducia in Monti in leggero calo dal 39 al 37%. E da cui si evince che la crescita dei consensi grillini stavolta è a discapito Di Pietro, che perde l’1,5% dei consensi, al 4,3% rispetto ad una settimana fa, mentre l’M5S cresce appunto dell’1,6%. Saranno pure gli scandali che hanno coinvolto esponenti dell’Idv nel Lazio, saranno le inchieste lombarde e il caos che regna nel centrodestra, altro bacino di pesca in potenziale espansione; sarà pure merito del successo della campagna a tappeto di Grillo in Sicilia, dove ogni sera le piazze traboccano. Fatto sta che oggi i 5 Stelle sono il secondo partito d’Italia, anche in diverse rilevazioni più riservate fatte da altri autorevoli istituti. E se ha ragione Roberto Weber di Swg a dire al Corriere Tv che quello di Grillo «è un partito spugna» come fu la Lega dei tempi migliori; un partito che se arrivasse all’8% in Sicilia potrebbe tranquillamente raggiungere il 21% su scala nazionale, allora le implicazioni sul piano istituzionale sarebbero molteplici. E le forze politiche già tremano.
Solo a livello teorico, al primo partito di opposizione, chiunque vinca le elezioni, spetta indicare un suo esponente per la presidenza del Copasir, il comitato di controllo sui servizi segreti; è vero che bisogna sia votato dalla maggioranza della commissione e che la scelta del nome non per forza debba cadere su un membro di questo o quel partito di opposizione; è vero che i 5 Stelle potrebbero subito tirarsi fuori da tutte le trattative e rinunciare ad ogni incarico istituzionale. Detto questo, la prassi parlamentare vuole pure che due vicepresidenze su quattro della Camera, stessa cosa al Senato, vadano alle opposizioni: oggi ad esempio i vice di Fini sono la Bindi del Pd e Buttiglione dell’Udc, oltre a Lupi e Leone del Pdl. E al Senato sono la Bonino e Chiti del Pd, oltre a Nania del Pdl e a Rosy Mauro della Lega. Quindi, sempre restando nell’ipotesi fissata dai sondaggi, anche Grillo potrebbe far eleggere uno dei suoi sugli scranni più alti, ma non solo: la prassi vuole che all’opposizione tocchi anche un vicepresidente per ognuna delle 14 commissioni permanenti, la presidenza della Vigilanza Rai e quella delle giunte per le elezioni e della giunta per le autorizzazioni. «Sono convinto che Grillo in prima battuta non accetterebbe nulla di tutto ciò - sostiene Osvaldo Napoli, vicecapogruppo del Pdl - perché se accettasse una vicepresidenza di Camera e Senato, si tarperebbe le ali per dar battaglia in aula e mettere in pratica ostruzionismi vari; stessa cosa avverrebbe con le vicepresidenze delle commissioni. Ma non credo rifiuterebbe la Vigilanza Rai o le presidenze di quelle giunte. Certo se diventasse il secondo partito, la grande coalizione diverrebbe una scelta obbligata e si correrebbe il rischio di avere un Parlamento ingovernabile».
Quelli che nel Pd da sempre tengono d’occhio tutti i sondaggi, come Paolo Gentiloni, non credono che Grillo arriverà secondo, «ma un partito anti-sistema con un risultato a due cifre, in un sistema tendenzialmente più proporzionale, può avere una forza micidiale: può far eleggere una valanga di parlamentari che possono avere un’influenza determinante, tale da costringere tutti gli altri alla grande coalizione. Come si può frenare questa tendenza? Con la capacità di rinnovarsi dei partiti: il Pd grazie alle primarie e indirettamente al ruolo di Renzi». E non sarà un caso se da giorni Renzi sia diventato il primo bersaglio di Grillo che lo definisce «il giovane-vecchio» e lo copre di simpatici epiteti come «ebetino inconsapevole, vuoto con il buco intorno»; salvo poi dire che «se si comporta bene valuterò la sua iscrizione al Movimento come attivista: si sentirà a casa... ».

Corriere 20.10.12
Tanto semplice che non si farà
di Giovanni Sartori

La vicenda dei nostri sistemi elettorali spiega, o comunque concorre a spiegare, il fallimentare andazzo della politica italiana. Nel mio ultimo pezzo (Il Porcellum e i Porcellini di domenica scorsa) concludevo dicendo che un modo non corruttibile di consentire all'elettore di esprimere le sue preferenze sui candidati esiste. Ma non lo indicavo. È che il mio spazio era finito, e anche che volevo mettere assieme e ricordare quante leggi elettorali sbagliate, e quindi dannose, abbiamo accumulato negli ultimi decenni. Ricordare gli sbagli serve ad evitarli? In Italia no. Non mi illudo, ma provo lo stesso.
Nel dopoguerra, e dopo l'esperienza del fascismo, era normale adottare un normale sistema proporzionale. Che funzionò senza proliferare partitini perché la paura del Pci portava a concentrare il grosso dei voti sulla Dc. Così fu il Partito comunista che, senza volere, fece funzionare un «bipartitismo imperfetto» che, per quanto imperfetto, ricostruì il Paese e produsse il miracolo economico del nostro dopoguerra. La Francia, con un Pcf molto meno forte, restò invece impantanata in una «repubblica dei deputati» che era poi un parlamentarismo anarchico.
Però anche noi, tra gli anni 50 e 60, abbiamo avuto un Gianburrasca, per l'esattezza Marco Giacinto Pannella, che si impadronì dal 1967 in poi, e oramai si direbbe a vita, del Partito radicale e che affascinò, tra i tanti, anche Mariotto Segni. Pannella riuscì a persuadere Segni (e molti altri, si intende) che l'Italia doveva adottare un sistema maggioritario secco (puro e semplice) che avrebbe immancabilmente prodotto un sistema bipartitico all'inglese. Mai tesi fu più campata in aria. Ho scritto e riscritto senza sosta, nei decenni, che Pannella e i suoi si sbagliavano di grosso. E per decenni ho sostenuto che mentre il maggioritario a un turno avrebbe frantumato il nostro sistema partitico, era invece il maggioritario a due turni che ci avrebbe avvicinati al bipartitismo.
Ma come resistere alla prepotenza e ai digiuni di Pannella? Vinse anche la viltà della Dc che, sfaldandosi, preferì il meno pericoloso (ritenne) Mattarellum, un sistema misto, maggioritario secco per tre quarti e proporzionale per un quarto. Con il Mattarellum cominciò così la nostra scivolata elettorale verso il peggio e la ingovernabilità. L'alibi invocato dai difensori del Mattarellum è di addebitare la moltiplicazione dei partiti al quarto proporzionale di quella legge. Ridicolo. Quella moltiplicazione fu dovuta alle «desistenze»: i partitini che non potevano vincere nella contesa uninominale ricattavano i partiti maggiori chiedendo in cambio dei loro voti una serie di collegi sicuri per sé.
Grazie al Mattarellum siamo così arrivati alla frantumazione partitica che si è conclusa nella grande ammucchiata del secondo governo Prodi. E il rimedio fu ancora peggiore del male che si doveva curare, fu l'ancor vigente legge Calderoli, il Porcellum.
Nel frattempo erano tornate alla ribalta le preferenze che poco più di 20 anni prima avevamo ripudiato a furor di popolo. Fortuna vuole che ora si scopra che i voti di preferenza si comprano anche a Milano. Aggiungi che le preferenze ricreano i partiti di corrente, o di fazioni, addetti appunto a catturare le preferenze che poi, in realtà, il popolo non sa dare o a chi dare.
Eppure un sistema che consente e anzi produce una genuina espressione delle preferenze degli elettori esiste: è il maggioritario a doppio turno. L'ho proposto più volte. Ma no; i nostri legislatori non lo vogliono. Né vogliono capire che il doppio turno è anche un indicatore di preferenze. Lo debbo rispiegare? Per amor di patria (si dice ancora?) forse sì.
Comincio dal ricordare che il sistema maggioritario a doppio turno (che funziona bene da sempre nella V Repubblica francese) è, al primo turno, come un sistema proporzionale: ogni elettore esprime liberamente la sua prima preferenza e, così facendo, immette la sua scelta nel meccanismo elettorale. Meccanismo che conta i voti, che scarta le preferenze dei meno, e che ovviamente non è comprabile.
Supponiamo, per esempio, che la mia prima preferenza sia Marco Giacinto Pannella. So benissimo che il mio sarà un voto perduto. Ma lo voto lo stesso e nessuno potrà dire che non mi è stata data la libertà di preferire e di scegliere. Al secondo turno, la seconda volta, mi toccherà invece scegliere un candidato di mia seconda preferenza, o anche il meno sgradito. Ma anche questa è una scelta mia, non del partito o della mafia. In nessun caso sono mai un sovrano spodestato. Dunque, se le preferenze si vogliono le possiamo avere così. Ma il maggioritario a doppio turno (proposto, ma a sprazzi e senza troppa convinzione, soltanto dal Pd) non piace a nessun altro. Forse per ignoranza, non infrequente nei nostri legislatori; ma soprattutto, sospetto, perché manderebbe troppa gente a casa.
Siccome non sono cattivo come ho la fama di essere, anni fa proposi un addolcimento. In primo luogo il passaggio al secondo turno sarebbe consentito ai primi quattro. Dopodiché, al secondo turno i due partiti minori (dei quattro) hanno la scelta di ritirarsi e così di fruire di un «premio di tribuna», mettiamo, del 20 per cento dei seggi; oppure di combattere le elezioni, perderle, ma così facendo perdendo anche il proprio premio di tribuna.
Questa, oso dire, è una proposta «pulita», tanto più che oggi come oggi è difficile prevedere chi se ne avvantaggerebbe; siamo troppo nel caos (con Grillo, Renzi, i non votanti e una valanga di incerti) per indovinare. Per una volta sarebbe facile fare il bene del Paese. Invece appena presentata in Aula la proposta della commissione Affari Costituzionali del Senato, viene ricevuta da 222 emendamenti. Troppa grazia Sant'Antonio.

La Stampa 20.10.12
I cattolici al secondo conclave di Todi rottamano Bersani, Alfano e Casini
Dietro-front degli organizzatori sulla partecipazione dei tre leader
di Andrea Tornielli

Il secondo «conclave» delle associazioni di ispirazione cristiana che si apre domenica pomeriggio a Todi si presenta ben diverso dal primo. Un anno fa la riunione umbra sembrò segnare un rinnovato protagonismo dei cattolici in politica e in parte contribuì alla fine del governo Berlusconi. Le associazioni del Forum, varie e variegate anche come riferimenti politici, speravano in una scomposizione e ricomposizione degli schieramenti e degli attuali partiti, alla ricerca di spazi di manovra per nuove proposte. Nessuno poteva prevedere lo tsunami di questi giorni, la perdita esponenziale di credibilità della classe politica, la disgregazione del Pdl, le auto-rottamazioni del Pd. Nessuno poteva prevedere che un premier «tecnico» qual è Mario Monti finisse per diventare, nel teatro vuoto della politica, l’appiglio per molti naviganti, conquistandosi anche il rispettoso sostegno della Chiesa.
Ancora tre settimane fa qualcuno dei protagonisti della prima edizione riteneva inutile Todi 2, il secondo «conclave» che avrebbe dovuto segnare l’emergere di una chiara e innovativa proposta politica. E segni evidenti delle difficoltà sono la sostituzione del portavoce del Forum Natale Forlani, come pure il dietro-front riguardo la partecipazione dei segretari di partito: erano stati invitati e avevano assicurato la loro presenza Angelino Alfano, Per Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. Ma nelle ultime ore le associazioni hanno chiesto loro di rimanere a Roma, volendo marcare una certa distanza e sottolineare così la novità della proposta di Todi 2 rispetto all’esistente.
Il secondo «conclave» dovrebbe sancire le diverse prospettive delle differenti anime dell’associazionismo cattolico. Il ministro Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, appare propenso a una collaborazione con il Pd. Le Acli guidate da Andrea Olivero pure, anche se con la speranza di un coinvolgimento dell’Udc di Casini nel centrosinistra, ipotesi che non è affatto scontata, soprattutto dopo l’alleanza tra Bersani e Nichi Vendola. Altre associazioni e movimenti, come l’Mcl guidato da Carlo Costalli, ma anche Confcooperative e Confartigianato, vorrebbero dar vita a un’area moderata alternativa alla sinistra, per occupare lo spazio che potrebbe rimanere vuoto nel centro del centrodestra. Il leader Cisl Raffaele Bonanni, uomo simbolo di Todi 1, sta coltivando il rapporto con Monti e potrebbe contribuire a costruire una rete di consensi per il premier in ambito cattolico, da affiancare a quella che si sta realizzando in aerea laica. Queste associazioni sperano che Casini abbia il coraggio di sciogliere il suo partito per amalgamare i centristi, attirando spezzoni e personalità moderate del Pdl (da Franco Frattini a Mario Mauro), come pure protagonisti dell’attuale esecutivo (come Corrado Passera e Lorenzo Ornaghi). Operazione, quest’ultima, guardata con simpatia anche dalle gerarchie ecclesiastiche. Mentre la Compagnia delle Opere, che ha visto suoi affiliati finire sotto inchiesta in Lombardia, preferisce sottolineare la necessità di una presenza pre-politica, nella società civile, e non vuole essere coinvolta in iniziative partitiche.
Quello che è certo è che rispetto alle attese di un anno fa, i cattolici si presentano sulla soglia della lunga e travagliata stagione pre-elettorale uniti sulle proposte riguardanti la società, il welfare, il mondo del lavoro, l’educazione e le riforme necessarie al Paese, ma divisi sul come e dove realizzare la loro presenza politica. E soprattutto appaiono orfani di un partito nel quale possano sentirsi davvero a casa.

l’Unità 20.10.12
Incandidabili solo sei parlamentari
Anticorruzione La legge che sta preparando il governo renderebbe ineleggibili solo pochi degli attuali 21 condannati
di Claudia Fusani

Gli incandidabili sarebbero appena sei. Sei sui ventuno condannati. A tanto ammonta il numero dei parlamentari che rischiano se il governo riuscisse ad approvare le norme sulla incandidabilità previste dalla delega contenuta
nella legge anticorruzione. La norma che il ministro dell’Interno sta scrivendo, anzi ha già praticamente scritto, prevede infatti che non sarà più possibile candidare chi ha una condanna dai tre anni in su per reati gravi e dai due anni in su per i reati contro la pubblica amministrazione. Da più parti si è espressa soddisfazione per il probabile arrivo di questo provvedimento che impedisce di vedere condannati sui banchi delle Camere. E però le cose non stanno così perché la soglia è così alta che toccherà solo alcuni.

Quattro. Se va bene sei. Forse sette, perchè non è facile radiografare il certificato penale di ognuno. A tanto ammonta il numero dei parlamentari non più candidabili quand’anche il governo facesse in tempo ad esercitare la delega sulla non candidabilità di deputati e senatori condannati.
I quattro espulsi dal Parlamento sono il senatore pdl Giuseppe Ciarrapico; il deputato pdl Marcello De Angelis; il senatore pdl Antonio Tomassini e il senatore pdl Salvatore Sciascia: hanno tutti pene definitive superiori ai due anni. Incerti, dipende da come sarà scritta la delega, sono Aldo Brancher, deputato pdl, sottosegretario per una settimana; Marcello Dell’Utri, senatore pdl; Antonio Del Pennino, subentrato nel 2010 nelle file del pdl al Senato al posto del fu Comincioli e ora senatore unico del partito Repubblicano.
Ci deve essere qualcosa che non torna: o il nostro è un Parlamento pulito e la carica dei 101 con pendenze, indagini e condanne è un solo brutto e sbagliato luogo comune. Oppure la tanta sventolata norma sulla incandidabilità come segno della svolta è un miraggio.
La norma che il ministro dell’Interno sta scrivendo, anzi ha già praticamente scritto, su delega del Parlamento nell’ambito della legge contro la corruzione prevede infatti che non saranno più candidabili coloro i quali hanno una condanna dai tre anni in su per reati gravi e dai due anni in su per i reati contro la pubblica amministrazione. Da più parti si è gridato osanna perchè finalmente arriva una norma che permette di non vergognarsi più di un Parlamento ad alta intensità di persone con lunghi curricula di reati e ipotesi di reato.
Pura illusione. Il centinaio circa, contati secondi parametri che comprendono le categorie degli indagati, a giudizio, condannati in primo e secondo grado e condannati definitivi, prescritti e indultati, si riduce infatti alle dita di una mano. Per vari motivi.
I condannti definitivi in effetti sono più di venti. Ma i più hanno condanne di pochi mesi come Massimo Berruti (8 mesi per favoreggiamento in corruzione, processo per le tangenti alla Guardia di Finanza), Umberto Bossi (8 mesi per finanziamento illecito), Enzo Carra (Udc, 16 mesi), Antonino Papania (Pd, due mesi e 20 gg). Senza voler dire di Rita Bernardini, la battagliera radicale, condannata a quattro mesi per cessione gratuita di marijuana: serve per la media ma di certo non qualifica.
Poi c’è il piccolo drappello degli incerti. Quelli per cui non è chiaro se la norma sull’incandidabilità scatterà oppure no. Non è chiaro infatti come ci si regolerà quando la pena inflitta in via definitiva è pari a due anni. E quando la condanna è stata decisa sulla base di un patteggiamento. In questa categoria rientrano alcuni casi veramente speciali. Marcello Dell’Utri, ad esempio: il senatore fondatore di Publitalia, pur al centro di non si sa più quanti processi (concorso esterno, P3, corruzione), ha una condanna definitiva solo per frode fiscale pari a due anni patteggiati. Aldo Brancher è stato condannato definitivo nel 2011 a due anni (rito abbreviato, ha poi beneficiato dell’indulto) per appropriazione indebita e ricettazione nell’ambito della scalata Antonveneta. Il senatore Del Pennino, attuale membro unico del partito Repubblicano, ha patteggiato nel 1994 due anni per le tangenti Enimont. Rispetto ad altri curricula, resta un galantuomo. Vincenzo Fasano è condannato definitivo a due anni per concussione. Che succede poi a chi è stato condannato al risarcimento per danno erariale? Ci sono tre o quattro casi.
Tra certi e incerti, i numeri restano comunque piccoli. Perchè assai vasta è la variegata platea degli indagati e condannati in primo e secondo grado ma ancora in attesa di sentenza definitiva.
Sono più di ottanta. Tra questi il cavalier Berlusconi, Cosentino e Cesaro, indagati per associazione camorrista; Milanese indagato per la P4; Papa, Fitto, Sergio De Gregorio, il responsabile Grassano, Giuseppe Firrarello; la deputata del pd Maria Grazia Laganà, condannata in primo grado per truffa; il generale Speciale, quello delle spigole inviate in montagna con gli aerei della Finanza, anche lui ancora non si sa se è colpevole oppure no.
Un lungo elenco interamente esentato dal divieto della candidabilità. Certo, la norma impone la decadenza dal seggio e dall’incarico appena la sentenza diventa definitiva. Ma in Italia l’85 per cento delle condanne per reati contro la pubblica amministrazione è inferiore ai due anni. Anche in futuro, quindi, potrà cambiare poco.

il Fatto 20.10.12
Rottamati per finta
Super Maxxi Melandri lascia la Camera
di Fabrizio d’Esposito

Hop hop somarello, trotta trotta il mondo è bello... e Maxxi. Giovanna Melandri ha sempre sospinto il suo talento in perfetto orario. Per non perdere alcun mezzo di locomozione. Dal mulo al pullman. Era il settembre di due anni fa a Filicudi, la più ostica delle isole Eolie, e Giulia Minoli di Gianni e Matilde Bernabei si preparò da sposa nella casa di zia Giovanna, emozionata quanto lei. E da lì partì, con l’abito bianco, a dorso di un mulo per raggiungere la chiesetta. Ad attenderla lo sposo, Salvo Nastasi, astro nascente del sistema dei Beni culturali e capo di gabinetto dell’allora ministro Sandro Bondi. Duecentosedici gli invitati. Tra cui: l’onnipresente Gianni Letta e Guido Bertolaso.
   Melandri, Minoli, Bernabei: le maligne e ingiuste insinuazioni sul cerchio magico dell’ex ministra, rottamata annunciata del Parlamento, sono tornate a valanga con la nomina a presidente del Maxxi, il museo delle Arti del XXI secolo di Roma. Lei, offesa, si è auto-proclamata “madre del Maxxi” nonché “tecnica” che non ha bisogno del paracadute, che in effetti non è un mezzo di locomozione in senso stretto. Diverso dal pullman. Stavolta è il 2006 e gli azzurri di Claudio Lippi hanno vinto il mondiale di calcio in Germania. La sera del 10 luglio sul bus scoperto per il centro di Roma c’è anche lei, titolare dello Sport nel governo Prodi. Più inquadrature per lei che per Totti.
GIOVANNA Melandri è sempre presente nel bene, mai nel male. Un altro talento. Paparazzi in cattiva fede la colsero in un raptus danzante nella tenuta di Malindi di Flavio Briatore, in Kenya. Capodanno 2007. Lei smentì con sdegno e rivelò di essere “una turista consapevole” del Kenya, in visita ai bimbi bisognosi. A Watamu, non a Malindi nella casa di un berlusconiano. Il quale non gliel’ha mai perdonata e ancora nel giugno scorso le ha rinfacciato quella danza fantasma: “Il vero cafone italiano non sono io ma la Melandri. È stata da me in Kenya, ha bevuto champagne al tavolo con noi e poi ha negato”. No, non c’era e se c’era aveva una veste tecnica, di studiosa dei fenomeni degenerativi del berlusconismo. Lei non può essere presente nel male. Ieri l’ultima lezione agli improvvisati moralisti del Pdl che sono insorti contro il ministro Lorenzo Ornaghi per la nomina al Maxxi. Sempre con sdegno, sempre offesa, la Melandri ha telefonato a Fini, presidente della Camera, e gli ha comunicato le sue dimissioni da deputato. Per essere tecnica e basta. Quanta “miseria politica” ha aggiunto, rivolta ai critici. Lei che conosce la miseria vera, al punto da aver lanciato pochi giorni fa la Uman Foundation per fare la filantropa con la finanza sociale e il capitalismo compassionevole. Alla presentazione, si è precipitato in massa, senza eccezione alcuna, tutto il mondo trasversale della talentuosa ex ministra, in quell’ostello della povertà da Terzo Mondo che è l’auditorium dell’Enel a Roma. In ordine sparso: Veltroni, Gianni Letta, il nipote Enrico allocato nel Pd, Renato Soru, Bersani, il premier Mario Monti, Roberto Vecchioni, Francesco Rutelli, Chicco Testa, Giuliano
Amato, il banchiere berlusconiano Ennio Doris. Più volte ministro, ambientalista del Pds, veltroniana ortodossa, Giovanna Melandri per reagire al maschilismo imperante querelò Giancarlo Perna per averla chiamata “sventola bionda”. L’ex dalemiano Claudio Velardi fu ancora più impertinente, ai tempi di D’Alema premier: “Facciamola ministro, nel governo ci vuole una bella donna che venga bene nelle foto”.
FRASE sommamente ingrata per lei che in soli dieci minuti, nel 1996, spostò 800mila voti e fece vincere l’Ulivo. Accadde tutto in confronto tv tra Prodi e B., supportati dai rispettivi staff. Lei c’era e interruppe, nell’ordine, Fini, Mar-tino, Casini e Berlusconi. La Storia, successivamente, fece i calcoli e lei li annunciò al mondo: “Quella trasmissione causò un travaso di 800mila voti”. Un fenomeno, la Melandri, che si fa sempre trovare pronta, in perfetto orario.

il Fatto 20.10.12
risponde Furio Colombo
Clandestino piccolo e grande
Ho sentito dire in un dibattito che i bambini clandestini in Italia sono esclusi dalle cure mediche. È possibile, è vero?

È VERO. E per questo alcuni di noi (solo a sinistra, solo pochissimi) non hanno mai smesso di accusare la Lega Nord (che controllava, da partito secessionista, il ministero dell’Interno italiano) di veri e propri delitti (i più gravi, naturalmente, i respingimenti in mare), come non ha mai smesso di denunciare la portavoce delle Nazioni Unite in Italia, Laura Boldrini. Fra i delitti della Lega occorre aggiungere, come ha notato il lettore, la persecuzione sul nostro civile territorio nazionale, dei bambini clandestini. Negare la scuola e negare le cure mediche è sembrato alla Lega un buon modo di proteggere affari e banche del “territorio padano” infestato di ‘ndrangheta. In tanti, vescovi inclusi, hanno dato una mano alla Lega, prendendo sul serio un partito parassita e ricattatore (ricattava Berlusconi per allargare il suo potere) come se fosse il vero portatore del Federalismo (si veda il crollo di quel finto federalismo in questi giorni), come se fosse stata la voce del popolo che gli altri partiti non sentivano più. Il trattamento ignobile riservato ai bambini immigrati si può riassumere così: se non sono fluenti in italiano devono stare in classi separate (in modo che non imparino mai). Se la famiglia non può pagare la refezione scolastica, digiuno a scuola, di fronte ai bambini che mangiano. Se i genitori non hanno i documenti in regola (dunque i bambini sono clandestini) niente pediatra e niente cure mediche di base. È accaduto davvero, e solo la Conferenza Stato-Regioni dei prossimi giorni potrà porre fine al crimine perché la Lega non esiste più. Si interroghino sul loro comportamento professionale e morale giornalisti e politici che – finché Bossi e Maroni contavano qualcosa – hanno prudentemente fatto finta di niente. Di più: hanno reso l'onore che si deve al potere.
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano

Corriere 20.10.12
I giudici negano al superchirurgo di disconoscere la figlia (non sua)
La sentenza: «Il legame biologico ha sempre meno rilievo»
di Alessandra Mangiarotti

Il neurochirurgo Giulio Maira ha chiesto di non essere più il padre della figlia che quarant'anni prima aveva dichiarato sua. E lo ha fatto proprio autoaccusandosi di aver allora detto il falso. La prima sezione civile del Tribunale di Roma ha però stabilito che il genitore che riconosce, seppur mentendo un bambino, non è poi legittimato a fare marcia indietro facendo leva sul fatto di aver detto una menzogna. Il diritto del figlio a non veder stravolto il proprio status e la propria identità ha insomma il sopravvento sul principio della verità. La famiglia degli affetti in cui si forma la personalità diventa più importante di quella biologica.
In un'epoca in cui i figli sono sempre più acquisiti, adottati o frutto di fecondazioni eterologhe la sentenza è destinata a far discutere. E non solo per la notorietà dei protagonisti, o la promessa di colpi di scena fino all'ultimo livello di giudizio. La storia di Giulio Maira, direttore della Neurochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma, e di sua figlia Francesca, ha inizio 45 anni fa. Quando lui si innamora della madre della piccola che all'epoca aveva sette mesi: prima riconosce la bambina come sua anche se non lo è, poi legittima quella dichiarazione con il matrimonio. È il febbraio 1969. Il neurochirurgo del Vaticano, oggi professionista di fama internazionale, ha venticinque anni. Francesca diventa sua figlia in tutto: nei certificati anagrafici, nei documenti, nel cognome con cui si presenta al mondo, nell'affetto che li lega. Al trentottesimo compleanno di Francesca però Giulio Maira si separa dalla moglie: insieme a quella relazione decide di tagliare anche il legame con la figlia. «Perché lei non è mia figlia: ho dichiarato il falso», dice. Per provarlo chiede il test del Dna: lui, risultato alla mano, avvia il disconoscimento della paternità; lei, né figlia legittima né figlia adottiva, lo denuncia per falso in atto pubblico. Sullo sfondo resta una questione di eredità, un contenzioso parrebbe legato a un patrimonio immobiliare da 10 milioni.
Nella sentenza civile dello scorso 7 ottobre i giudici si sono pronunciati sull'impugnazione da parte di Giulio Maira del riconoscimento per mancanza di veridicità: «l'autore del riconoscimento effettuato in mala fede», scrivono, non è «legittimato a impugnarlo successivamente per difetto di veridicità». E arrivano a questa conclusione dichiarandosi consapevoli di andare oltre il privilegio della verità e di fare un passo più in linea con le nuove convenzioni internazionali. «Sempre meno rilievo — si legge nella sentenza — assume il dato formale del rapporto familiare legato sul legame meramente biologico». E ancora: «La famiglia assume sempre di più la connotazione della prima comunità nella quale effettivamente si svolge e si sviluppa la personalità del singolo e si fonda la sua identità». Il che «impone di considerare irretrattabile il riconoscimento avvenuto nella piena consapevolezza della sua falsità». «Perché questo — afferma Giorgio Robiony, avvocato di Francesca Maira — ha la stessa valenza di una revoca, vietata dalla legge. Il nostro ordinamento è stato per anni centrato sul privilegio della verità, questa sentenza dice che c'è altro: l'identità, la famiglia. Tutte le famiglie visto che oggi ce ne sono tante legalmente riconosciute che non hanno nulla di naturale». 
Di sentenza che segna «un nuovo indirizzo ma forse un ritorno all'antico» parla Ettore Boschi, «padre» del favor veritatis grazie a un verdetto del 1980 che l'ha introdotto insieme alle prove scientifiche. «Da allora — dice l'avvocato di Giulio Maira — abbiamo combattuto per la verità, per favorire i riconoscimenti veri e osteggiare quelli falsi». Da qui nasce la sua «rispettosa perplessità»: «Nella sentenza non c'è traccia di quello che è avvenuto né delle prove del Dna, ma quando la verità emerge non la si può insabbiare. Il contrasto tra favor veritatis e il favor legimitatis si trascina da diversi anni. Ecco... stiamo già preparando il ricorso in appello».

Corriere 20.10.12
Quando i bimbi non sono un elastico
di Cesare Rimini

Sono due storie che si rincorrono: una è un messaggio positivo, l'altra negativo. Il Tribunale di Roma ha respinto la domanda di un padre che aveva impugnato, per difetto di veridicità, il riconoscimento di una bimba che egli stesso aveva compiuto quarant'anni prima, con la piena consapevolezza che la figlia non era sua. E poi c'è la vicenda del bambino di Padova portato via con la forza dalla sua scuola. Entrambe insegnano che i bambini non sono come lo yo-yo, il gioco antico della palla che va su e giù legata alla cordicella. 
Il Tribunale di Roma ha trascurato il concetto di verità, il favor veritatis, ma ha privilegiato l'interesse di quella bambina, ormai donna, a non essere privata dallo stato di figlia legittima. Il Tribunale ha affermato il principio che il mutamento dello stato familiare potrebbe pregiudicare gli equilibri affettivi di un bambino.
La sentenza cita anche il precedente della Corte di Cassazione che ha negato l'azione di disconoscimento a un padre che aveva dato il consenso alla fecondazione eterologa (vietata in Italia) e che poi aveva cambiato idea e voleva cancellare la sua paternità. La Suprema Corte ha sanzionato il comportamento moralmente disinvolto di chi fa un riconoscimento non veridico, con la riserva mentale di impugnarlo.
La storia del fanciullo di Padova, che ha riempito le cronache, consente un'altra riflessione. I bambini son bambini e i grandi siamo noi, genitori, giudici, forze dell'ordine, avvocati, assistenti sociali e psicologi.
In Italia esiste dal 2011 il Garante nazionale per l'infanzia e l'adolescenza che ha proprio l'obiettivo di assicurare la tutela dei diritti e degli interessi delle persone di minore età, e le Convenzioni Internazionali dicono che il bambino dovrebbe poter chiedere un rappresentante speciale nei processi che lo riguardano. Il caso di Padova ha evidenziato anche una lacuna legislativa: l'esecuzione degli ordini del giudice, che riguardano la vita dei bambini, va affidata a chi ha una preparazione specifica. Se si commettono errori il bambino è indotto dalle circostanze a sacrificare la sua infanzia, a diventare un fenomeno. I bambini fenomeno fanno molta pena.

l’Unità 20.10.12
Dagli Usa all’Italia, una cosa di sinistra: investire in ricerca
di Pietro Greco

OCCORRE RIPARTIRE DALLA RICERCA E DALL’INNOVAZIONE. Lo ha detto ieri Pier Luigi Bersani, inaugurando la sua campagna per le primarie ma anche la campagna elettorale della prossima primavera dal Cern di Ginevra, il centro europeo che è il tempio della fisica mondiale. Ma lo hanno anche ribadito 68 premi Nobel americani che ieri hanno pubblicato una lettera di sostegno alla rielezione del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.
Ci sono almeno due punti di contatto tra i due pronunciamenti avvenuti ai due lati opposti della’Atlantico. Il primo è squisitamente politico: a pronunciarli sono persone che non solo sono di area progressista e che riconoscono il valore strategico a ogni livello della scienza. Ma anche di persone che ravvisano nella destra attuale, in Italia come negli Stati Uniti, un’incapacità strutturale, a comprendere che gli investimenti pubblici nella ricerca hanno un valore strategico per l’intero Occidente. Il secondo elemento, strettamente collegato al primo, è di politica economica, oltre che culturale. Viviamo nell’era della conoscenza. E i Paesi occidentali non hanno altra opzione che investire nella produzione di conoscenza e nella innovazione tecnologica per risolvere i problemi interni ed essere competitivi a livello globale.
I 68 premi Nobel che hanno sottoscritto l’appello a favore di Obama sanno che da almeno sessant’anni a questa parte l’85% della ricchezza prodotta negli Stati Uniti è il frutto della capacità di innovazione fondata sulla ricerca scientifica. In particolare sulla ricerca scientifica, di base e applicata, finanziata con fondi pubblici. Questo è il grande motore dell’economia americana.
Il democratico Obama lo sa e per questo punta le sue carte sulla conoscenza. Il repubblicano Romney e tutta la destra americana a partire dagli anni di George W. Bush sembrano averlo dimenticato e per questo, sostengono i 68 premi Nobel, faranno la rovina degli Stati Uniti. Il discorso vale anche per l’Italia, sia pure con le dovute differenze. La destra italiana è infatti in perfetta sintonia con Willard Mitt Romney: basti ricordare quel significativo «con la conoscenza non si mangia» pronunciato da ministro che ha dettato la politica economica nel nostro Paese per quasi tutto il ventennio berlusconiano.
Che il segretario del maggior partito del centrosinistra, che probabilmente (ce lo auguriamo) avrà in carico la guida del Paese dopo le prossime elezioni, indichi nella ricerca e nell’innovazione la leva per ripartire fa ben sperare. D’altra parte l’Italia, ma a ben vedere anche il resto dell’Europa, il Nord America e il Giappone, non hanno alternative se non «credere nella conoscenza» se vogliono evitare il declino economico e il processo di progressivo dumping sociale che è il risultato (non inatteso) delle politiche neoliberiste.
Per alcuni motivi ben noti. I beni ad alto contenuto di conoscenza aggiunto (i beni hi-tech) sono quelli che negli ultimi decenni hanno avuto la crescita maggiore nel mondo. Le imprese che li producono sono quelle che remunerano meglio i loro addetti (e meglio rispettano i diritti del lavoro). Queste produzioni si realizzano nei paesi che investono di più in educazione e ricerca scientifica. Queste produzioni sono quelle che, sia pure in maniera non scontata, meglio consentono di sviluppare il welfare state. Non a caso i paesi del Nord Europa, dove massimi sono gli investimenti in educazione e ricerca, sono quelli che, da un lato, hanno affrontato meglio la crisi e la nuova globalizzazione dei mercati, e dall’altro hanno una migliore distribuzione della ricchezza e uno stato sociale più avanzato. Inoltre caratteristica niente affatto secondaria sono quelli in cui l’impatto ambientale delle attività industriali è minore.
Per dare corpo alle parole di Bersani, il programma di governo del centro-sinistra dovrà contenere, dunque, maggiori investimenti in ricerca scientifica e maggiori investimenti nella scuola di ogni ordine e grado. Proponiamo qualche numero: passare dallo 0,6% all’1% del Pil nella spesa pubblica per la ricerca e dallo 0,9 ad almeno il 2% nella spesa pubblica per le università. Tenendo presente che oggi in Corea del Sud i giovani nella fascia d’età compresa tra 25 e 34 anni sono il 63% del totale; quelli dei Paesi Ocse il 40%, l’Italia non arriva al 20% e il trend è addirittura in diminuzione. L’ignoranza è una condizione che non possiamo più permetterci.
Ma tutto questo deve essere accompagnato da un lucido e rapido programma di «nuova industrializzazione», ovvero di cambiamento della specializzazione produttiva del sistema Paese, passando dalla dominante produzione di beni a basso o media tecnologia a bene a una produzione dominante di beni e servizi ad alta tecnologia.
Solo in questo modo potremo passare da una ventennale condizione di stagnazione /recessione a una nuova crescita. E solo così un governo di centrosinistra potrà qualificare la crescita, trasformandola in sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile.

l’Unità 20.10.12
Eletto Harlem Desir alla guida del Ps: «Più diritti sociali e civili»
Nel referendum tra gli iscritti ottiene il 74%
Il segretario prepara l’incontro con Bersani
di U.D.G.

Sottolinea che la sua «non è una vittoria personale, ma dell’unità dei socialisti». Garantisce «il pieno sostegno al Governo e la totale libertà di dibattito». Afferma convinto che il «Ps vuol essere sempre più una casa aperta a tutti i cittadini e alle istanze di cambiamento che crescono dal basso». E promette: «Il nostro partito lotterà contro la crisi. Il nostro avversario è la destra che l’aggrava». Parola di Harlem Desir, da ieri neo segretario del Ps francese. Eurodeputato ed ex presidente dell’associazione Sos Racisme, Desir, 52 anni, è stato eletto con il 72,5% dei suffragi di fronte a Emmanuel Maurel, rappresentante dell’ala sinistra (27,5%), in occasione di uno scrutinio in cui hanno partecipato meno della metà dei 173.000 militanti. Desir, che da qualche settimana già assicurava la presidenza ad interim del partito dopo l’addio dell’ex segretaria Martine Aubry verrà investito ufficialmente alla guida del Ps in occasione del congresso dei prossimo 26-28 ottobre a Tolosa.
Nei mesi scorsi, Desir ha avuto modo di incontrare più volte i leader delle maggiori forze di sinistra e progressiste europee. Nel maggio scorso, il neo segretario del Ps aveva incontrato a Roma il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, In quell’occasione, il neo segretario del Ps aveva rimarcato la comune visione, e la stima personale, che lo lega al leader dei Democratici italiani. Ad unirli è una sfida comune, ricorda Desir: «Quella di costruire una Europa progressista, solidale, capace di coniugare rigore e crescita. Una Europa che volta pagina rispetto al fallimentare ciclo liberista».
Da Singapore, dove si trova in missione ufficiale, il premier Jean-Marc Ayrault ha rivolto un «messaggio di incoraggiamento» al nuovo segretario, annunciando che ogni settimana intende avere una riunione con lui per consentire una «buona articolazione» tra il governo e il Ps. In recenti colloqui con l’Unità, Desir aveva sottolineato la necessità di una battaglia comune, dei progressisti europei, centrata sull’estensione dei diritti sociali e di cittadinanza. Un impegno a cui il neo segretario del Ps non intende venir meno anche se ciò può voler dire aprire un confronto «dialettico» con il Governo (socialista). Il partito socialista francese vuole includere la procreazione assistita nell’imminente progetto di legge sul matrimonio gay, afferma Desir, intervenendo su I-Tele. «In materia di diritti e di libertà, si tratta di fare in modo che ad esempio domani, nella legge sul diritto al matrimonio e all’adozione per le coppie dello stesso sesso, ci sia anche il diritto alla procreazione medica assistita», ha annunciato il neo segretario del Ps, mentre il suo entourage ha tenuto a precisare che «non si tratta di una sua posizione personale, ma di una posizione del partito». A chi gli faceva notare che in questo modo il partito socialista si smarca dalla posizione ufficiale del governo del presidente Francois Hollande, Desir ha risposto: «Il partito e i parlamentari possono arricchire l’azione del governo».

Corriere 20.10.12
«Al bivio tra sopravvivere o disgregarsi Per questo serve una Confederazione»
Bauman: le identità nazionali sono a rischio senza lo scudo europeo
di Paolo Valentino

ROMA — «L'Europa è a un crocevia. Non è la prima e non sarà l'ultima volta. La sua intera storia è un'avventura infinita. Giovedì sono stati fatti piccoli passi verso una sorta di integrazione finanziaria, attraverso la creazione di una vigilanza bancaria comune. È promettente, ma ci sono grossi punti interrogativi: il diavolo si nasconde nei dettagli. E questo è solo l'aspetto economico, che in fondo è quello affrontato con più attenzione. Ma la speranza che l'integrazione politica seguirà quella economica è infondata, potrà farlo come potrà non farlo. Gli interessi delle diverse aree d'Europa sono troppo contrastanti».
Zygmunt Bauman è il teorico della società liquida, il filosofo che ha individuato e descritto l'essenza proteiforme e instabile della modernità, orfana delle grandi narrazioni metafisiche delle ideologie e strutturalmente precaria. Ma per essere filosofo e sociologo, Bauman è anche molto attento ai processi politici concreti e in particolare a quelli dell'Europa, che per lui, ebreo polacco fuggito dall'occupazione sovietica, vissuto in Israele e Inghilterra, è il grande progetto del Ventunesimo secolo.
Bauman è a Roma, dove oggi terrà una «lectio magistralis» in apertura di InNovaCamp, seminario a più voci organizzato dall'Associazione ItaliaCamp, in collaborazione con la Pontificia Università Lateranense, dal titolo «Salvezza o dannazione — proposte e soluzioni anticrisi». All'evento partecipano anche i ministri della Giustizia e del Lavoro, Paola Severino e Elsa Fornero, oltre al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà.
Per Bauman, l'integrazione politica europea è «questione di vita o di morte, di sopravvivenza o disgregazione». A fargli soprattutto paura è la «discrepanza tra l'immensità della sfida e la mediocrità dei mezzi a disposizione». «Quando ero giovane — spiega — la domanda era: che fare? Oggi è chiaro cosa fare, ma la vera domanda è: chi lo farà? Allora tutti pensavano che una volta individuate le cose da fare, il governo onnipotente se ne farà carico. Oggi il governo è l'ultima istituzione che ci aspettiamo le faccia. Fino a quando questo gap non sarà colmato, siamo nei guai».
Perché è così importante l'unificazione politica?
«Perché senza una qualche forma di Confederazione, con organi decisionali comuni che decidono sulla politica economica e finanziaria, estera e di sicurezza, non credo che i vantaggi che l'Europa è in grado di offrire ai suoi membri possano diventare realtà. La casa europea non va a detrimento delle culture nazionali, ma provvede a una sorta di tetto comune a tradizioni, valori, differenze locali. E il paradosso è che ogni singolo Paese è molto più a rischio di perdere la sua identità specifica, se si espone senza protezione, cioè senza questo scudo europeo, alle forze globali, che sono violentemente e spudoratamente sovranazionali, ignorano i temi e le specificità locali».
Come si può colmare il deficit democratico dell'Europa?
«Lo Stato moderno per emergere ha dovuto combattere, spesso anche in modo violento, contro gli interessi locali. Ci sono voluti cento anni perché questo processo venisse a compimento: ma non furono i poteri locali che rinunciarono a pezzi di sovranità, al contrario questa venne loro tolta poco alla volta, spesso contro una resistenza feroce. Sta succedendo di nuovo, abbiamo 27 nazioni e vogliamo organizzare una nuova organizzazione superiore. Ci vuole tempo e temo che andrà così anche con l'unificazione politica dell'Europa. Non sarà semplice ricreare vere istituzioni democratiche a livello europeo».
Ma cosa dire alla gente per averne il consenso?
«Che l'Europa è la sola chance che hanno di difendere e proteggere la loro identità nazionale. Dobbiamo ripensare le istituzioni europee in modo completamente nuovo. Dovranno avere l'abilità a condensare e unificare un volere popolare europeo altrimenti sparso e diversificato. Esattamente ciò che fanno i Parlamenti locali: far emergere un interesse nazionale da spinte diverse. Solo così possiamo colmare il deficit democratico, che nasce dal fatto che le attuali istituzioni politiche non godono più della fiducia popolare. C'è uno scarto tra la natura generale dei nostri problemi e quella individuale delle nostre soluzioni».
La Rete può aiutare a colmare il deficit democratico?
«Non c'è nulla di specifico che ne faccia strumento naturale per la democrazia, potrebbe anche essere strumento di un regime totalitario. Quindi, invece che in favore dell'unificazione dell'Europa, potrebbe lavorare in favore della sua separazione. Non credo nel determinismo tecnologico. Conta ciò che noi facciamo con la tecnologia. Spostare verso la Rete i compiti che sono nostri, quelli di promuovere democrazia e libertà, è molto pericoloso. Perché ci deresponsabilizza».

Corriere 20.10.12
Cervello ed eros, dove nasce l'ispirazione
Lo psichiatra viennese Kandel alle origini della creatività negli artisti e scienziati
di Sandro Modeo

Il libro: Eric R. Kandel, «L'età dell'inconscio», traduzione di Gianbruno Guerrerio, editore Cortina, pagine 624, 39

Nonostante si presenti come un manufatto avvolgente — cadenzato da un'elegante iconografia — L'età dell'inconscio di Eric Kandel non è un libro rassicurante. Destinato a diventare un classico, lo sarà in quanto lettura che esalta e inquieta, costringendo il lettore a smuovere pregiudizi e autoinganni consolatori.
Kandel, infatti, segue il corso di due rivoluzioni conoscitive, essenziali non solo nel riformulare il rapporto arte/cervello (asse tematico del libro), ma di incidenza più estesa e profonda. 
La prima — l'aprirsi della porta mentale sull'inconscio, decisiva, oltre che per gli artisti, per psicologi e scrittori — ci fa risalire alla Vienna tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, città paragonata dal viennese-ebreo Kandel, con comprensibile trasporto, alla Firenze rinascimentale, e in cui una borghesia emergente — proprio grazie all'immissione di tante intelligenze ebree — sovrappone al tramonto asburgico il chiarore di altre svolte culturali: la filosofia di Wittgenstein, la musica di Mahler e Schönberg, l'architettura pre-Bauhaus di Loos e Otto Wagner. 
La seconda rivoluzione — collegata alla prima dal ponte della psicologia della Gestalt, usata da altri viennesi, gli storici dell'arte Kris e Gombrich, per spiegare la percezione dello spettatore — ci porta invece alle implicazioni ultime (filosofiche e psicologiche) delle neuroscienze, area di competenza di Kandel: e qui, dimostrando come questa seconda rivoluzione sia, della prima, un'integrazione e una revisione critica, il libro non si limita a tracciare cerniere inedite tra arte e scienza, ma inquadra tutte le funzioni superiori della mente (coscienza e inconscio, attenzione e memoria, fino alla creatività) come fossero nuovi paesaggi o — per richiamare Proust — paesaggi abituali sotto uno sguardo nuovo.
Nel lungo prologo sulla Grande Vienna, Kandel individua il break generativo nella visione darwiniana estesa dalla Scuola medica di Carl Von Rokitansky (il primo a impiegare la patologia come cartina di tornasole della fisiologia) al salotto di Berta von Zuckerkandl (critica d'arte e studiosa di biologia in quanto moglie d'un anatomista); visione che culmina nelle scoperte di un allievo di Rokitansky, Theodor Meynert, sui rapporti tra le pulsioni «inconsce, innate, istintive» del cervello rettiliano e il «comportamento riflessivo» della corteccia. 
Ed è da questa visione che se ne irradiano di altrettanto innovative: la psicoanalisi freudiana mutua dall'enfasi evoluzionista sul riprodursi degli organismi la centralità delle pulsioni sessuali (e del loro risvolto dark, quelle di morte) e traduce le intuizioni di Meynert nella lotta tra Es e Super-Io, combattuta sul ring dell'Io; mentre i romanzi dello scrittore-medico Schnitzler — dalla Signorina Else a Doppio sogno — impiegano il monologo interiore per far emergere quello stesso conflitto col rimosso e l'onirico. 
Per i pittori viennesi «modernisti», l'apertura alla biologia e al teatro interiore è anche un'alternativa alla via del realismo, chiusa dall'irruzione della fotografia. Così, Gustav Klimt, lettore di Darwin, punteggia i suoi ori bizantini di citoplasmi e nuclei cellulari; Oskar Kokoschka rivela l'inconscio dei soggetti ritratti attraverso un'ipersensibilità molecolare verso i loro tratti, sguardi e gesti; e lo splenetico Egon Schiele esprime nelle «distorsioni anatomiche esasperate» delle sue figure la biopsicologia della sessualità (specie di quella femminile, che ha capito più di Freud) e il suo fondersi con l'autodistruttività e il nonsenso (vedi tele come «La morte e la fanciulla» o «La morte e l'uomo»). 
Non casuale, per inciso, è l'influenza esercitata su tutto il gruppo da Charcot, il neurologo della Salpêtrière: Freud ne ha appreso la pratica dell'ipnosi; Schnitzler ne è stato assistente; Kokoschka e Schiele hanno preso a modello le mani delle sue pazienti isteriche.
La cornice biologico-evoluzionistica della svolta viennese è ancora più decisiva per seguire Eric Kandel verso la neuropsicologia dell'artista e dello spettatore. Il punto di partenza è vedere la funzione estetico-cognitiva dell'arte come un'applicazione particolare — e insieme un'estensione — della predisposizione del cervello ad acquisire e a elaborare informazioni sul mondo per sopravvivere, scremando ordine dal caos e regolarità dal caso: per i nostri progenitori, per esempio, era vitale discriminare un oggetto da un contesto (una mela rossa) o un corpo statico da uno dinamico (un animale pericoloso). Risalendo a questa remota eredità filogenetica, è possibile capire certi «universali estetici innati», su cui ogni cultura e ogni artista innestano poi specificità storico-stilistiche: collegare la nostra predilezione per la simmetria figurativa a quella per la fisionomia del partner (buona simmetria equivale a buoni geni), o la nostra sensibilità all'«esagerazione» dei tratti e all'intensificazione del colore (che troviamo negli scultori gotici e negli espressionisti, nei manieristi e nel fumetto) alla possibilità, vantaggiosa sul piano adattativo, di una discriminazione visiva più nitida e veloce. 
Entrando nei dettagli neuroanatomici e neurobiologici di quella predisposizione — di quell'allerta costante con cui frughiamo il mondo, già dai continui movimenti oculari, alla ricerca di stimoli —, Eric Kandel riassume la nostra reazione davanti a un oggetto (un quadro o un volto dipinto, ma anche una montagna o un volto in carne e ossa) come una complessa orchestrazione in due tempi: un insieme di processi inconsci «dal basso» (non solo visivi, ma anche motori, emotivi, mnemonici e pre-semantici) e una loro successiva integrazione «dall'alto» (in certe aree della corteccia) che li porta alla luce della coscienza. È la stessa cadenza che agisce — con tempi e modi specifici — a livello sia di creazione che di fruizione (di ri-creazione) dell'opera d'arte. 
A proposito della fase creativa, Kandel ricorda da un lato, in generale, quanto conti per artisti e scienziati, scrittori o musicisti, il momento di incubazione (quel «lasciar vagare la mente» in cui l'inconscio reimposta un problema ed elabora fitte combinazioni-permutazioni), arrivando a identificare il momento dell'eureka (la soluzione-emersione di quel lavoro silente) in una precisa regione del lobo temporale destro. Dall'altro, entrando nei dettagli del talento figurativo, ne conferma il correlato neurale non solo nello stesso lobo temporale, ma in tutto l'emisfero destro, come dimostra il suo attivarsi paradossale e parossistico — conseguente ai deficit di quello sinistro — in autistici savant come Nadia, che a cinque anni dipinge cavalli simili a quelli di Leonardo. È un'ennesima prova, da manuale, sulla dialettica cerebrale tra specializzazione e plasticità. 
Quanto ai processi empatici dello spettatore (al suo sintonizzarsi con l'opera), oggi vediamo confermate le intuizioni della Gestalt su come il cervello reagisca all'ambiguità dell'immagine (a volte insolubile, come nel caso-cult dell'anatra-coniglio di Jastrow) procedendo con una «messa a fuoco», di nuovo, dal bottom-up al top-down, dall'inconscio mimetico (il fantasma dell'immagine) all'immagine carica di significato emotivo e simbolico. 
Nella sua stratificazione tirannica, L'età dell'inconscio (o «dell'intuizione», secondo l'originale) patisce qualche strana omissione (uno scrittore-scienziato austriaco come Robert Musil, tra l'altro attento alla Gestalt) e qualche occasione persa. Prendiamo i vari casi di «inconscio creativo» nella scienza, a partire dal «serpente che si morde la coda» nel sogno del chimico Friedrich Kekulé, che si rivela la soluzione notturna di una sua lunga ricerca sulla struttura dell'anello del benzene. 
Oppure vengono appena sfiorati da Eric Kandel certi passaggi cruciali, come quello in cui l'arte diventa una risposta adattativa al lutto e alla perdita (vedi le mani ocra e nere di certa arte rupestre, secondo alcuni interpreti leggibili come disperati richiami per quelle dei defunti). 
Ma questi, va da sé, non sono né lapsus né rimozioni; solo le imperfezioni di ogni vero classico, come le irregolarità di certi tappeti pregiati.


Repubblica 20.10.12
Il boom dei libri di argomento religioso e un saggio che utilizza come calco la Bibbia
Stile biblico
Dalla fede all’etica laica, il successo di un modello
di Maurizio Ferraris

La religione trionfa in libreria (da qualche settimana buona parte dei primi cinquanta titoli in classifica è di argomento religioso), ma appunto trionfa come genere di scrittura, come stile narrativo. Ne è una prova lievemente paradossale Il buon libro del filosofo inglese Anthony Grayling, una Bibbia laica pensata per gli Inglesi proprio come gli Americani si tengono stretta la Bibbia vera (e magari scientology), mentre gli Italiani, come è di prammatica nei paesi cattolici, sono abbastanza indifferenti alla Bibbia religiosa, pur apprezzando, come dimostrano gli scaffali delle librerie, il tema declinato in forme diverse. Dalle riflessioni che riguardano l’etica, tra fede e filosofia, a quelle spirituali fino alle esperienze mistiche. Dal testo delle conversazioni del Cardinal Martini con Scalfari fino a quello di Ruini.
Ma torniamo a Il buon libro. Che esemplifica un certo spirito dei tempi. Se Newton cercava di spiegare scientificamente la Bibbia, Grayling presta una narrazione biblica a Darwin. Nella sua versione la Genesi racconta la nascita della scienza e l’origine delle specie, e Adamo fa benissimo a mangiare la mela, che è appunto quella di Newton. Non mancano “dieci principi atei” al posto dei dieci comandamenti biblici: “ama bene, cerca il buono in ogni cosa, non danneggiare mai gli altri, pensa da solo, prenditi le tue responsabi-lità, rispetta la natura, dai il massimo, sii informato, sii gentile, sii coraggioso”.
Malgrado questo, Il buon libro non ingaggia una polemica antireligiosa: Grayling, che pure è stato tra i firmatari della lettera che esprimeva la propria contrarietà alla visita in Inghilterra di Benedetto XVI, sostiene che la sua è “una versione di velluto” delle opere di Dawkins e Hitchens: “nel mio libro non ricorrono mai le parole ‘Dio’, ‘aldilà’, o simili. È un libro positivo, e non contiene nulla di negativo”.
Anche nella sua battaglia civile e di editorialista del Guardian Grayling è portatore di una laicità ferma ma non intollerante: i gruppi religiosi dovrebbero venir considerati come dei sindacati, anzitutto per coerenza teorica, giacché Grayling, dal punto di vista metafisico e nella sua attività di filosofo accademico, non ammette l’esistenza di entità soprannaturali nel mondo.
Ovviamente Il buon libro non è il primo esempio di Bibbia laica, che è tutto sommato un genere florido e illustre, che culmina probabilmente nel Catechismo Positivista di Comte, un tentativo di riconvertire la religiosità romantica in un impianto illuminista e scientifico. Ma forse l’antefatto più prossimo, perché appunto riprende non solo le ambizioni teoriche e mo- rali, ma anche lo stile narrativo della Bibbia (nella fattispecie, della traduzione di Lutero) è lo Zarathustra di Nietzsche. Che tuttavia si lanciava in dichiarazioni incendiarie, mentre la prospettiva di Grayling è in buona parte quella di un’etica della moderazione lontana mille miglia da quella del superuomo. Inoltre, e questa è una caratteristica decisiva, diversamente da Nietzsche (o magari dal Profeta di Gibran), Grayling non assume sistematicamente un tono sentenzioso e sapienziale, ma segue una strategia diversa, quella del collage dei Great Books del canone occidentale. Lo stile narrativo, infatti, è camaleontico, e varia da libro a libro, a seconda del genere praticato.
La saggezza sono i precetti di uno stoico antico che ha letto Montaigne, le Parabole hanno la forma dei racconti edificanti, dalle favole di Esopo in avanti, Concordia è ricalcato sul De Amicitia di Cicerone, I Savi invece, in deroga dal canone, evocano l’orientalismo del Siddharta di Hermann Hesse. Mentre i Canti sono forse l’unico libro che assume direttamente un modello biblico, quello dei Salmi, di cui recupera i trasalimenti erotici ma anche qui ammodernando e straniando con immagini di tramonti inglesi e pomeriggi nei cottage. Proprio questa varietà fornisce la risposta a una domanda cruciale: come riesce a riempire 672 pagine? Esattamente come la Bibbia, attraverso una mescolanza di generi e di argomenti, di stili e di modelli. Qui ovviamente si può scatenare il gioco del ri- conoscimento delle fonti (un migliaio di autori) e dei modelli stilistici prevalenti, da un libro all’altro: Il Legislatore è una versione ammodernata delle Leggi di Platone, con l’aggiunta di Plutarco, Machiavelli, Hobbes; gli Attisono un Polibio mescolato a Plutarco e a Livio; Le Epistolesono ovviamente modellate su Seneca; Il Bene — mi sembra — su A se stesso di Marco Aurelio.
E per le Storie naturalmente c’è Erodoto, con l’idea che la lotta dei Greci contro i Persiani (dell’Oriente contro l’Occidente) abbia un valore fondativo per l’identità europea, equivalente alle lotte di Israele per la propria sopravvivenza. Era l’idea di Hegel, e Grayling d’altra parte non è affatto un guerrafondaio (ha anche scritto un libro in cui ha duramente conte- stato la necessità dei bombardamenti alleati sulla Germania durante la seconda guerra mondiale). Casomai ci si potrebbe domandare per quale motivo Il buon libro deve consumare così tante pagine a raccontarci la storia greca e romana, cose che, in apparenza, non hanno niente a che fare con la formazione morale dell’uomo, ma immagino che Grayling potrebbe fornire due risposte pienamente legittime. La prima consisterebbe nel far notare che gli storici antichi concepivano la loro attività come un insegnamento morale e politico prima che come una attività scientifica. La seconda è che anche la Bibbia ha moltissime parti che appaiono incongrue rispetto alla religione e alla morale, e raccontano semplicemente momenti della storia di Israele. La bibbia laica mette così in luce la parentela tra la narrativa biblica e il mélange postmoderno, del tipo di quello di Fuoco Pallidodi Nabokov, e non senza richiami all’esotismo di Salammbô di Flaubert. Il che poi non è sbagliato, non solo, appunto, perché la Bibbia è così (mistica, saggezza, storia, poesia, politica, legislazione: non dimentichiamo che il suo nome viene dal greco biblia, che vuol dire libri), ma anche perché la cultura e la morale sono il risultato di queste intersezioni e mescolanze, non c’è una sola fonte né un solo stile. E questo, se vogliamo, è il motivo per cui una bibbia laica suona come un divertissement intellettuale non privo di fascino ma sottilmente contraddittorio. Perché se in effetti la Bibbia è la raccolta di un patrimonio culturale omogeneo, la forza della cultura laica sta nel saper raccogliere tradizioni molteplici (di cui quella espressa nella Bibbia è solo una parte), così che la vera bibbia laica c’è da tempo, ed ha la forma della biblioteca.