giovedì 24 marzo 2011

Presso le antiche cave di via Ardeatina il 24 marzo 1944 si consuma l’eccidio di 335 civili e militari italiani per mano nazista.Ad organizzare ed eseguire la strage sono l’ufficiale delle SS Herbert Kappler all’epoca anche comandante della polizia tedesca a Roma, il capitano Erich Priebke e Albert Kesselring.
L’eccidio matura come rappresaglia per vendicare 33 militari tedeschi morti in un attentato partigiano a via Rasella il 23 marzo. I tedeschi, dietro ordine diretto di Hitler, applicano alla lettera il principio di fucilare 10 ostaggi italiani per ogni tedesco ucciso. Vengono per errore inseriti 5 nomi in più alla lista.
L’esecuzione, che avviene con un colpo alla nuca, è di proporzioni enormi tanto che gli stessi comandi nazisti la rendono pubblica, insieme all’attentato partigiano, solo a cose fatte e dopo aver fatto saltare le cave con delle mine per rendere più difficoltoso il ritrovamento dei corpi.

www.anpi.it

l’Unità 24.3.11
Pierluigi Bersani, Pd «Abbiamo toccato il fondo davanti alla dignità degli italiani»
Ruby «costa» un ministero Saverio Romano all’Agricoltura. Indagato per mafia, è stato tra i pochi a opporsi al carcere duro per i mafiosi


l’Unità 24.3.11
Intervento «legale» e «necessario» I Democratici ritrovano l’unione
Visto il testo “leghista” della maggioranza sulla Libia, il Pd de- cide di chiamarsi fuori. Bersani: non copriremo le loro miserie. Rientra il dissenso dei “pacifisti”, ma sfuma l’intesa con Idv e Terzo polo.
di A. C.


L’idea di un approccio bipartisan sul- la questione libica svanisce di primo mattino. E non per la pattuglia di par- lamentari Pd intenzionati a porre una questione di coscienza sull’uso delle armi. A Bersani e agli altri big, riuniti in mattinata al Nazareno, basta intui- re il tono della mozione partorita nel- le stesse ore da Pdl e Lega per capire che su quel testo non ci può essere convergenza. La prima a farsi avanti è Rosy Bindi: «Dobbiamo votare una nostra risoluzione, dal momento che i pasticci della maggioranza con la Le- ga sono pericolosi». Bersani spiega: «Non siamo interessati ad argomenta- zioni e correzioni di documenti che servano a coprire le miserie di una maggioranza e di un governo non so- no in grado di esprimere una posizio- ne univoca e hanno mostrato al mon- do di essere in stato confusionale». La linea ormai è decisa, così come, du- rante il coordinamento, rientrano i di- stinguo del gruppo, composto soprat- tutto da ex popolari, che esprimeva dubbi di coscienza. A ora di pranzo inizia la riunione- fiume dei gruppi parlamentari, che ratifica la decisio- ne presa. Solo Enrico Gasbarra si dice pronto a non votare la mozione. Resta anche una pattuglia di senatori incerti, gli stessi che nei mesi scorsi non avevano mai partecipato ai voti sul rifinanziamento delle missioni, guidati da Roberto Di Giovan Paolo e dalla sinistra di Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi. Un gruppo che ha raccolto anche firme di deputati (c’è anche Giovanna Melandri) e che da- rà vita a una iniziativa pubblica a Ro- ma dal titolo «L’Italia responsabile dalla pace». Ma la linea è condivisa a larghissima maggioranza (rientra anche il dissenso dell’area Marino): e fa perno su due parole, l’interven- to in Libia è «legale» e «necessario». E l’idea di votare solo la propria mo- zione, e non quella del governo, con- tribuisce a far rientrare i distinguo. Sfuma però l’ipotesi di una mozione comune con le altre opposizioni: il Terzo Polo e l’Idv decidono di pre- sentare testi propri.
Durante la riunione dei gruppi Pd, alcuni parlamentari hanno chie- sto conto a D’Alema del trattato di amicizia con la Libia che fu avviato quando lui guidava la Farnesina. «Il trattato serviva a riparare ai guasti prodotti da Mussolini, che ha fatto più male ai libici di quanto ne abbia fatto lo stesso Gheddafi», ha replica- to D’Alema, che ha ricordato le tan- te differenze tra l’impostazione del trattato e la traduzione operata da Berlusconi. D’Alema ha anche boc- ciato la proposta di Vendola di una forza di interposizione. «In Libano si potè fare perchè si era ottenuto il “cessate il fuoco”. In Libia la guerra era già in corso, Gheddafi stava ucci- dendo migliaia di persone».

il Riformista 24.3.11
«Oggi la sinistra non può sottrarsi alle responsabilità»
Silvio Pons. Lo storico, direttore dell’Istituto Antonio Gramsci è felice che i pacifisti integrali siano solo «un drappello marginale e sparuto di irriducibili»
di Edoardo Petti

qui
http://www.scribd.com/doc/51443724/il-Riformista-24-3-11-stralci

l’Unità 24.3.11
Gli esorcisti e la Chiesa
di Mario Pulimanti

«Demoniache presenze» all'Ateneo pon- tificio Regina Apostolorum, è di scena il diavolo: dal 28 marzo sino al 2 aprile, si svolgerà a Roma il sesto corso per impa- rare a difendersi da Satana. Il corso vuol essere un aiuto ad approfondire la real- tà del ministero dell'esorcismo nelle sue implicazioni teoriche e pratiche e un au- silio per i vescovi nella preparazione dei sacerdoti che saranno chiamati a tale ministero. Il corso del Regina Apostolo- rum tratterà anche l'allarme destato dall'irruzione del satanismo nel mondo dei giovani. E ci saranno pure approfon- dimenti anche sugli aspetti teologici del fenomeno. Esperti affronteranno an- che la questione dal punto di vista crimi- nologico e non mancheranno le testimo- nianze offerte dagli esorcisti. L'obietti- vo è quello di offrire ai sacerdoti stru- menti per il loro lavoro pastorale, di in- formazione e di sostegno per le fami- glie colpite dal fenomeno del satanismo giovanile.

l’Unità 24.3.11
Dario Fo «85 anni senza smettere di raccontare il potere»
Ribelli senza tempo L’Italia, Voltaire, la morte, il Sessantotto, i ventenni di oggi, la Libia... intervista a 360 gradi al maestro e premio Nobel per il suo compleanno
di Toni Jop


Mi vien da ridere; c’è gente che con entusiasmo mi stringe la mano e dice “caro Fo, questa cosa qui,  bellissima, la facciamo tra dieci an- ni”. Io ci sto, ma ottantacinque più dieci fa novantacinque, e non so perché ma mi vien da ridere...»: questo è il fatto, incredibile ma ve- ro Dario compie ottantacinque an- ni, e se li mette in tasca come fosse- ro caramelle che gli spettano, tanto è uguale. Non c’è niente di normale in quel che dice e nemmeno in quel che ha fatto, tuttavia....
Dario sarebbe bello intanto sapere come va, come stai, insomma fisica- mente... «Sto benissimo, grazie, anzi me la godo e lavoro molto, per esempio adesso ho tirato fuori dal cassetto una mia cosa iniziata tanti anni fa, una cosa su Moro, su quella trage- dia italiana...»
Fermati: questo è un chek-up, non una intervista. Quindi, veniamo alla seconda questione: come va con la paura della morte?
«Aaaaahhh beh! C’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Certo è che uno non se la inventa all’ultimo momento, se ci fa i conti vuol dire che ci ha con- vissuto e non c’è niente di male, an- zi a volte educa».
Per quanto ti riguarda?
«Per quanto mi riguarda, finché la salute mi sostiene, mi diverto a fare quel cazzo che voglio...» E cioè irriti: hai irritato quando facevi teatro politico, quando ti sei imposto come il giullare più ganzo della terra, quando ti hanno assegnato il Nobel, irriti anche adesso che ti metti a ri- spolverare la storia atroce di Aldo Moro...
«Ciascuno ha la sua strada. Io, la mia la sto percorrendo con soddi- sfazione e grande energia...» Vero o no che sei un personaggio di successo? E lo sei in un tempo in cui per avere successo devi dormire all’Olgettina, non sempre ma spesso, non è normale... Mi ricordi un gran bel film che si intitolava «L’impossibi- lità di essere normale»...
«Sì (ride) sono forse un personaggio di successo. Senza Olgettina e senza tv. E sai qual è il laboratorio che mi ha dato forza, intelligenza e senso della smarcatura? Il Sessan- totto, insomma quel tempo lì, quel- la crisi di laggiù, il vocabolario di quella fatica meravigliosa. Questa roba è la mia zattera e mi porta do- ve voglio, anche sotto le finestre di quella ministra senza fama che si chiama Gelmini per la quale il Ses- santotto è un buco nero nella sto- ria. Io non sono normale ma lei non sa nemmeno di stare al mondo...» Togliti da quella finestra, perdi solo tempo...
«Va bene. Però, non mi spiego di- versamente il fatto che più di ogni altro mi riempie di gioia ogni volta che si apre un sipario e sto lì a bear- mi davanti a un pubblico che è fatto di tantissimi ragazzi: vorrà dire che sono stato nel mio tempo ma che il mio tempo è lungo quanto si vuole, vasto quanto serve per parlare ai ra- gazzi di cose che a loro appartengo- no...»
Mettila così: sei forse il solo in Italia che sul palco non ha mai smesso di parlare direttamente del potere e del- la sua natura, lo metti a nudo, sei un pornografo sessantottino...
«Vero, non ho smesso un attimo di raccontare il potere, fin dagli esor- di, fin da quando ho salutato le sale dei teatri e sono sceso nelle strade, nelle piazze, nei palasport, nelle ca- se del popolo, nelle chiese sconsa- crate...»
Che vita, che bella vita, che uomo for- tunato, mi sembri uno dei Beatles, il quinto, davanti a Tina Pica... «E basta! Stavamo parlando della morte. Allora senti questa: “quand ghe n’è più, Gesù Gesù”, vuol dire che quando ti pare che tutto sia fini- to, ecco che ti aggrappi ai santi e alle madonne. Io questa cosa qui non la capisco, non capisco quelli che, giunti secondo loro al giro di boa definitivo, si convertono, e pre- gano e vanno nelle chiese e si fanno riflessivi e prudenti, si prepara- no...»
Eccolo, il figlio del Sessantotto è nipo- te di Voltaire... «Giusto Voltaire. In chiusura del Candide, scrive, più o meno: non ci resta che andare a curare il nostro orticello. E tanti ad andargli dietro proni, come se Voltaire avesse det- to questa battuta mosso da serena rassegnazione; capito niente. Lo diceva e lo scriveva come un insulto, come una zaffata di vetriolo lancia- ta sulla conformità: almeno quan- do sei agli sgoccioli, non rompere le balle al sistema, al potere, non creare difficoltà, statti buono». Qualcuno dice: se te ne stai buono ad un certo punto, vuol dire che te ne sei rimasto buono anche prima, que- sta vecchia psico-massima è servita nel tempo per capire chi abbandona- va il Movimento e si diceva: chi molla ora vuol dire che non c’è mai stato dentro...
«Corretto! Allo stesso modo serve per rintracciare una vera e forte continuità tra il Sessantotto e il Mo- vimento di questi anni e mesi recen- ti. Che gran consolazione! Vedere come milioni di ragazzi non ceda- no alla disperazione, alla tristezza, alla rassegnazione, alla compostez- za di sistema e scendano in piazza e lottino, con gioia, con intelligenza. Metti questa consolazione assieme a quella della mia platea di ventenni: avevi ragione, sono un uomo for- tunato perché sento e so che an- dranno avanti, che faranno cose bellissime, che non tradiranno per- ché non possono farlo, perché si tra- disce solo ciò in cui, in fondo, non si crede e mi fermo qui, non vorrei tromboneggiare...»
Che si fa con la Libia?
«Discorso terribile, difficile maneg- giare senza ferirsi. Ma se non c’era la Francia che partiva in quarta, c’era una strage e staremmo qui a piangere anche sulle nostre respon- sabilità. Dovevamo accettare il mas- sacro? Magari con la scusa che i luo- ghi in cui intervenire per difendere la libertà sarebbero troppi e quindi meglio niente? Meglio fermi e sot- toterra? Non credo, io sto con l’Onu. Certo, bisognava intervenire prima, dare forza e valore alle paro- le, alla trattativa e ancora questa è la strada da battere ma...Ora ci vor- rebbe un controllo meticoloso del- le operazioni, una lucidità che tut- tavia la guerra, o il potere, nega sempre. Poi penso a Berlusconi, ai suoi amici. È un collezionista di fi- gli di puttana, appena ne vede uno gli corre incontro e gli bacerebbe anche i piedi, non solo l’anello, è fat- to così».
Auguri, Dario, dalla curva dell’Unità.

Corriere della Sera 24.3.11
La Francia svela la cultura cinese
Capolavori, manuali, trattati di 25 secoli proposti con testo a fronte

di Armando Torno

La letteratura cinese è in gran parte sconosciuta. È un continente vastissimo e non molto esplorato dall’Occidente. Con la comparsa della scrittura sotto la dinastia Shang, nel XIII secolo prima di Cristo, questo mondo entra nella storia, così come intendiamo oggi codesta dimensione di fatti e d’idee. I libri cinesi, dall’inizio del II secolo, sono scritti sulla carta e nell’VIII comincia per essi la stampa a blocchi litografici. Poco dopo l’XI secolo appaiono i caratteri mobili, che si diffonderanno più tardi. Al pari dell’Occidente la Cina ha conosciuto censure e repressioni, come prova l’imperatore Shih huang della dinastia Ch’in, che nel 213 a. C. ordina di confiscare e bruciare tutti i libri, ad eccezione degli Annali, delle opere di medicina, agricoltura e geomanzia. Di questo universo conosciamo anche testi remoti, come I-ching, ovvero il Libro dei mutamenti (fa parte delle più antiche raccolte letterarie apparse tra L 800 e il 600 a. C.); ci sono traduzioni di Confucio e dei suoi immediati discepoli, o quelle dei sommi taoisti, Lao Tzu e Chuang Tzu (vissero nei secoli in cui fiorì anche la grande filosofia greca). Ma il più è ancora da fare. Del resto, la nostra conoscenza della cultura cinese cominciò con il gesuita Matteo Ricci, morto a Pechino nel 1610, del quale Voltaire diceva che andò a spiegare Aristotele al celeste impero, e quel che manca non ce lo immaginiamo nemmeno. La sinologia moderna, d’altra parte, è cominciata nei primi decenni del XX secolo. Per questo e per numerosi altri motivi è nata la prima «Biblioteca cinese» con il testo a fronte, presso la prestigiosa casa editrice Les Belles Lettres di Parigi (la medesima che pubblica la «Collection Budé» , ovvero una tra le prime collane al mondo per i classici greci e latini) e sta per cominciare qualcosa di analogo all’Università di Yale. Abbiamo incontrato i direttori dell’iniziativa, Anne Cheng (titolare della cattedra di Storia intellettuale della Cina al Collège de France) e Marc Kalinowski, tra i cui incarichi — sul biglietto da visita ha scritto «homo sapiens» — figura quello di «directeur d’études» all’École Pratique des Hautes Études. «L’Occidente conosce un’infima parte — sottolinea Kalinowski — delle opere cinesi, ma ci sono milioni di libri che attendono una traduzione. Siamo dinanzi alla più grande letteratura dell’umanità e, per esempio, il canone buddhista conta almeno cinquemila libri e noi ne leggiamo tradotto qualcuno, mentre quello taoista ne ha circa millecinquecento e da noi ne circolano un paio» . Anne Cheng si propone, con questa nuova collana, di «far conoscere meglio, in una buona traduzione e con l’originale a fronte, la letteratura della Cina, la sua mistica, i trattati, le leggi, la poesia, ma anche opere storiche, politiche, militari, nonché i libri di medicina, astronomia, matematica» . Con un ritmo di tre, quattro volumi l’anno — sei sono già usciti e due vedranno la luce in autunno — si desidera mettere a disposizione, come sottolinea ancora madame Cheng, «un patrimonio straordinario di cultura che va dall’epoca di Confucio (551-479 a. C.) al 1911, anno in cui cade il regime imperiale e comincia l’abbandono della lingua classica in ambito letterario» . Aggiunge Kalinowski: «Non si dimentichi che le élite di Giappone, Corea e Vietnam, sino al debutto del secolo XX, sapevano scrivere in cinese e ci hanno lasciato dei testi che in taluni casi meritano di essere conosciuti» . Insomma, è nata la prima collezione al mondo con ristampe garantite (così come si fa con la «Budé» per greci e latini), che potrà in un successivo momento mettere online testi sicuri: si propone di rivelarci opere sconosciute di quel continente chiamato Cina che giorno dopo giorno ci incute timori non soltanto economici. «Nella realizzazione — ricordano i curatori— sono coinvolti anche gli italiani: le scuole di orientalistica di Napoli e Venezia offrono studiosi di alto livello e di grande affidamento. Per esempio, Isabella Falaschi tradurrà il teatro del periodo mongolo, più o meno identificabile con il tempo di Dante» . Di più: «È in programma tra l’altro — confida Kalinowski — la prima traduzione degli Annali di Jin, Song, Qi, Liang, Chen e Sui, previsti in 21 tomi che permetteranno una conoscenza diversa e non approssimativa dell’antica storia cinese. Ci sarà la versione delle Memorie sui monasteri buddhisti di Luoyang, né mancherà il Libro della grande Pace di epoca Han, quei quattro secoli che sono a cavallo della nascita di Cristo» . Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Anne Cheng, tra l’altro, ricorda come tra i titoli appena usciti ci sia la Disputa sul sale e sul ferro, un testo anonimo scritto alcuni decenni prima della nostra era, che è testimonianza di prima mano sulle condizioni di vita concrete e sui costumi politici di un’epoca lontana, oltre che una riflessione senza tempo sull’arte di governare la società. Kalinowski aggiunge un’osservazione: «La collana che uscirà a Yale, alle quale contribuiranno i grandi sinologi americani, si occuperà soprattutto dei grandi testi classici; questa delle Belles Lettres porterà le ricerche anche in campi quasi inesplorati, tre discipline scientifiche, tecniche ed economiche» . Senza contare che Anne Cheng ha scritto una Storia del pensiero cinese (il suo saggio è stato pubblicato in due volumi da Einaudi nel 2000) ed è la miglior guida per farci scoprire autori e non pochi aspetti di una filosofia che è destinata a contare sempre più nella cultura mondiale. Poi, con Kalinowski, si corre nel tempo. Si pone una domanda e ci offre una risposta per chiarire la materia su cui sta lavorando: «La rivoluzione di Mao? Ha colpito una classe, una educazione, una cultura tradizionale (la rivoluzione del 1919 ha interdetto l’uso della lingua classica); nel 1949 si sarebbero voluti distruggere i caratteri cinesi e sostituirli con i latini, in realtà hanno soltanto semplificato la scrittura. Non pochi manoscritti sono stati bruciati nei villaggi, ma non nelle grandi città; ci sono state confische, dispersioni, le biblioteche sono rimaste ferme sino agli anni 70 del Novecento, poi le ricerche sono riprese» . E, infine, con un sorriso: «Oggi il carattere cinese fa vendere. Anche se pochissimi lo capiscono» .

Corriere della Sera 24.3.11
Quei numeri che non tornano nel patrimonio artistico italiano
di Gian Antonio Stella


Per favore, si mettano d’accordo: ha ragione Berlusconi a dire nel nuovo spot che l’Italia «ha regalato al mondo il 50%dei beni artistici tutelati dall’Unesco» o la Brambilla che sostiene che possiede il 70%? E non è assurdo che affermino due cose diverse sullo stesso sito ufficiale del Turismo? L’opposizione, va da sé, attacca: «Proprio in un momento in cui l’immagine del presidente del Consiglio è compromessa a causa dei festini a luci rosse ad Arcore è bene pensare con attenzione se è il caso di utilizzare o meno il premier in spot finalizzati alla promozione del turismo» , dice in una nota l’udc Deodato Scanderebech. «Parole soltanto parole, cantavano Alberto Lupo e Mina» , ride il responsabile del Turismo pd Armando Cirillo. Il tormentone intorno al patrimonio, in realtà, è vecchio come il cucco. Il repubblicano Giovanni Spadolini, primo ministro dei Beni Culturali, diceva che «in Italia c’è il 50%dei beni storici e culturali dell’intera Europa» . Il socialista Franco Carraro, ministro del Turismo negli Anni 80, diceva che «l’Italia sfiora il 40%dell’intero patrimonio mondiale» . Il ministro della Pubblica istruzione diessino Tullio De Mauro che «in Italia c’è il 75%del patrimonio artistico internazionale» . Il pidiellino Vittorio Sgarbi si spinse più in là: «l’ 80%del patrimonio mondiale» ! Finché, annota divertito Salvatore Settis, un assessore regionale toscano ha teorizzato che il 30%del patrimonio mondiale sarebbe in Toscana e il vicesindaco di Roma Mauro Cutrufo che l’Urbe, da sola, «ha il 30-40%dei beni culturali del mondo» . Conclusione: sommando «queste e simili vanterie (...) avremo un bel risultato: l’Italia da sola supera di gran lunga il 100%dei beni culturali del pianeta. Intorno a noi, il deserto» . La verità è che nessuno è mai stato in grado di censirlo, questo patrimonio. L’unica cosa certa è il numero di siti Unesco: l’Italia è prima al mondo con 45 su 911. Il 5%. La frase del Cavaliere (che nello spot aggiunge che abbiamo «più di 100 mila chiese e monumenti, 40 mila dimore storiche, 3500 musei, 2500 siti archeologici e più di mille teatri) è dunque uno strafalcione vanesio da matita blu. Ma il peggio, come dicevamo, è che nella versione cinese (yidalinihao. com) dello stesso sito, Michela Vittoria Brambilla spara: 70%! Allora, come la mettiamo? Non sarebbe più opportuno, invece che dare numeri così come vengono, metterci dei soldi, sui beni culturali tagliati di oltre la metà negli ultimi dieci anni? ©

Corriere della Sera 24.3.11
Picasso Miró, Dalí. Intrecci geniali
La gioventù arrabbiata di tre pittori che segnarono la nascita della modernità
di Francesca Bonazzoli


Dopo il successo della mostra sul Bronzino, trionfante nella natia Firenze, la Fondazione Palazzo Strozzi gioca la carta internazionale con tre spagnoli dirompenti, Pablo Picasso, Joan Miró e Salvador Dalí, protagonisti del gran Novecento parigino. Già dal titolo, «Giovani e arrabbiati: la nascita della modernità» , l’esposizione mette in rilievo le qualità «giovanili» , «di rottura» delle rispettive produzioni, in una movimentata epoca, lunga oltre venti anni, vissuta in maniera autonoma dai tre artisti, diversi per età e formazione, e però legati dal filo dell’amore ambizioso per la libertà. Il percorso è dunque un incontro, un intreccio di genialità autonome, segnate dall’aspirazione al nuovo, alla giovanile potenza. Curata da Eugenio Carmona dell’Università di Malaga e da Christoph Vitali, consulente dei grandi musei svizzeri, la rassegna vuole esplorare i percorsi dei tre pittori, cresciuti in Catalogna, ma legati dagli incontri determinanti con la insostituibile, fertile Parigi dei primi decenni del Novecento. La visione delle opere va a ritroso nel tempo, «come un film importante, emozionante» , dice Carmona. Infatti la prima delle cinque sezioni parla del tempo più vicino a noi. Sulle pareti, alcune scritte, come la frase di un audace Dalí che incontra — siamo nel 1926 — Picasso e lo omaggia. Dice: «Maestro, son venuto da lei prima di andare al Louvre» . E si sente rispondere un secco: «Molto bene» . Poi, libero e felice, si getta nella sua creatività. Il suo «Nudo nell’acqua» verrà donato, nel tempo, a García Lorca! Seguono la sala del «Neucentisme» (siamo tra il 1915 e il 1925) in cui Miró e Dalí esaltano gli scenari della Catalogna in uno scenario artistico che reagisce agli eccessi del Modernismo; e poi quella del rapporto tra Miró e Picasso, con un incontro mancato a Barcellona nel 1917 all’epoca della rappresentazione dei Ballets Russes e uno avvenuto a Parigi nel 1920: qui Miró viene convinto da Picasso della necessità di vivere nella capitale francese per essere un artista libero, eppure resta incapace di staccarsi dalla sua profumata regione natia. Infine, in questo viaggio all’indietro si arriva ad analizzare quel percorso creativo di Picasso (tra il 1895 e il 1907) che segna la nascita della modernità. Con una chicca che Carmona suggerisce come una specie di guida spirituale, cioè i ben ottantasette schizzi del «Cahier 7» . Una guida del gusto, dell’istinto creatore, insomma, portato direttamente dalla casa natale di Malaga. Un’esperienza visiva senza paragoni. Si può supporre, senza nulla togliere agli altri due autori, che il nome destinato a eccitare in partenza lo slancio del pubblico sia ovviamente quello di Pablo Picasso; e infatti non a caso i «Pensieri» , che distinguono le sezioni, rimandano tutti alle date degli incontri parigini con colui che nessuno si azzarda a considerare «par inter pares» . Appare, amato e temuto protagonista, quel Picasso nato nel 1881 (mentre Miró è del 1893 e Dalí del 1904) e inaugura la sua vita parigina, la sua ribellione politica, la sua avversione «anarchica» per l’arte borghese, proprio agli inizi del secolo. Il visitatore troverà tra l’altro, proveniente da Mosca, il famoso «I due saltimbanchi» assieme alla «Danzatrice spagnola» , che viene da New York, «Le peonie» (da Washington) e anche il quadro dedicato nel 1937 alla «Donna che piange» , assai più vicino al proverbiale stile di «Guernica» . I disegni del «Cahier 7» rivelano la chiara origine delle famose «Demoiselles d’Avignon» , che segnano l’inizio del Cubismo. Wanda Lattes

Corriere della Sera 24.3.11
Uniti (e divisi) da un punto esclamativo
Accomunati da esordi prudenti, approderanno poi a differenti rivoluzioni artistiche
di Vincenzo Trione


Il punto esclamativo, ha osservato Antonio Franchini in un bel testo di qualche anno fa, è il segno di interpunzione della giovinezza. Evoca stupore ed entusiasmo. In una frase, potrebbe essere facilmente omesso, senza traumi. È pura sottolineatura: indica la meraviglia, l’essere fuori dalle righe: dichiara gioie o dolori dell’anima. Viene usato soprattutto dai ragazzi, che lo disegnano nei quaderni, nei diari, nei graffiti: per annotare le loro stenografie sentimentali. Questa stessa veemenza, spesso, si può ritrovare anche nei primi esercizi degli scrittori e dei poeti, che sono caratterizzati da esuberanza e da slancio. In arte, invece, assistiamo a una sorta di inattesa inversione. Nella maggior parte dei casi, pittori e scultori ricorrono a una sintassi sfrontata— idealmente fatta di punti esclamativi— solo dopo aver imparato a dipingere e scolpire in maniera rigorosa, omogenea: talvolta, secondo modalità classiciste. Insomma, nascono accademici; diventano avanguardisti; per farsi nuovamente accademici (con una maggiore consapevolezza). Dopo aver innalzato edifici poetici compatti, cercano di decostruire quegli stessi edifici. Si pensi a Pablo Picasso, a Salvador Dalí e a Joan Miró. Ad accomunarli è la Spagna. Una terra dominata, come ha ricordato Gertrude Stein, da un’architettura che taglia sempre le linee sinuose dell’ambiente naturale. «Il paesaggio e le case non vanno d’accordo, il tondo si oppone al cubo, il movimento del terreno va contro il movimento delle case: ma le case non si muovono, perché è il terreno a muoversi» . Profondamente radicati in questo Paese attraversato da continue interruzioni, i tre enfants terribles hanno esordi che rivelano molte consonanze. Dapprima, riferendosi a modelli tradizionali, essi dispongono le loro intuizioni in sistemi lineari. Solo in seguito arrivano a destrutturare quella medesima linearità. Il punto esclamativo, per loro, non è origine, ma approdo (spesso provvisorio). Picasso muove dalla ritrattistica, adottando stratagemmi compositivi densi di riferimenti alla cultura museale. Dalí, nel riecheggiare strategie cubo-futuriste, allestisce scenari catalani ben definiti, netti nei loro contorni. Anche Miró non tradisce i riti del realismo: salda sapienza nella cura dei particolari e impennate espressioniste. Eppure, in questi inizi prudenti, abitano già i germi di tre cruciali rivoluzioni artistiche novecentesche: cubismo, surrealismo, astrattismo. Soffermiamoci su tre ritratti. Il primo: eseguito da Miró nel 1917. Vi appare l’amico Enric Cristofol Ricart. Come un Cristo laico. Il volto è fortemente marcato, secondo la lezione del Blaue Reiter. Le braccia, intrecciate. A destra, una minuta stampa giapponese. A sinistra, una tavolozza scarna. Ogni dettaglio è reso in maniera puntuale. Già si può cogliere il gusto per una narrazione visiva complessa. Ben presto, questo ordito subirà nette trasformazioni. I l piano de l l a riconoscibilità crollerà. Di quel lontano tentativo giovanile, resteranno: il fitto intreccio delle linee e il gusto per una geometria libera. Gli aspetti aneddotici spariranno. O meglio, tenderanno a dissolversi dentro ramificate cosmogonie astratte: agili riscritture degli universi interiori, tra simboli e alchimie impossibili da decodificare. La seconda opera è un autoritratto di Dalí (del 1920-21). Uno strano incrocio tra Rinascimento e fauvisme. In primo piano, l’artista, con il collo allungato e la testa lievemente girata in direzione dello spettatore: un omaggio a Raffaello. Questo attore è collocato in un teatro allucinato. È la distesa rocciosa e ancora arcaica dell’Alt Ampurdán, la zona che sta tra Barcellona e il confine spagnolo: è quasi liquida, prossima a sciogliersi. Assistiamo a un gioco di sovrapposizioni, in cui la faccia di Dalí viene inondata dai toni della natura. Questi trucchi verranno radicalizzati, sin dalla metà degli anni Venti: quando ci imbatteremo in mondi colti nell’attimo in cui stanno per liquefarsi: affreschi delle inesplorate regioni dell’inconscio. Infine, il grande cannibale: Picasso. Ecco l’autoritratto del 1906. Un quadro apparentemente «senza qualità» . La testa dell’artista è conficcata su un busto antico, muscoloso. I lineamenti — precubisti — sono contaminati da lievi sbavature di colore. L’espressione del personaggio è solitaria, attenta, indagatrice: dice perdita e attesa. Questa figura si staglia su un fondo monocromo, ma sembra protendersi oltre: verso l’immagine percepibile. Dinanzi a noi, è un Adamo moderno, che scruta il Paradiso. Una presenza che lotta per spingersi verso il visibile. In quel dipinto, è il destino del Michelangelo del XX secolo. Appena venticinquenne, egli, come ha scritto John Berger, ha già capito tutto: «Ciò che vedeva avrebbe potuto assumere una forma diversa (…), dietro la realtà visibile esistono in alternativa cento altre forme visibili» . Nel 1906, questa idea è ancora affidata a un’impaginazione classicista. Bisognerà attendere un anno per assistere allo scandalo de Le Demoiselles d’Avignon. Da quel momento in poi, Picasso inizia a cingere d’assedio il reale, rendendolo simile a un congegno a orologeria disponibile a subire infinite disarticolazioni. Non si limita a contemplare il vero, ma lo sottopone a incessanti ribaltamenti fisiognomici e prospettici. Con gioiosa maestria e strepitosa felicità, ridefinisce categorie e codici, piegando la lingua poetica alle necessità della sua veemente fantasia. Don Giovanni del Novecento, assume episodi, proponendo profanazioni, in cui irride e viola ogni tempio consolidato. Dunque, i primi passi dei tre talenti spagnoli: Picasso, Dalí, Miró. Storie di maestri che, solo dopo aver studiato le regole di una grammatica «antica» , hanno saputo misurarsi con l’ebbrezza dello stile eccessivo: lo stile del punto esclamativo.

I fondi non sono stati reintegrati, ma ricavati aumentando ancora le tasse che colpiscono tutti i cittadini
Terra 24.3.11
Vittoria della cultura. Reintegrati i fondi
di Alessia Mazzenga


Pedofilia nella Chiesa. Nasce la rete europea
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/51443783

mercoledì 23 marzo 2011

l’Unità 23.3.11
Il Pd sta con l’Onu
Il Pd all’attacco: «Italia irrilevante Presto una nostra mozione»
Il Pd pronto a presentare una propria risoluzione se il governo arriverà in Parlamento con «furbizie e ambiguità». D’Alema attacca il ministro «dell’attacco» La Russa e il comportamento «disgustoso» della Lega sui profughi.
di Simone Collini


Il Pd è disposto a votare soltanto una risoluzione che ricalchi quella approvata la scorsa settimana dall’Onu. Se invece il governo, per ottenere il via libera da parte della Lega, dovesse presentare in Parlamento un testo sulla crisi libica che contenga anche dei riferimenti alla tutela degli accordi energetici e alla difesa dei nostri confini per bloccare gli immigrati, il Pd voterà contro e presenterà una propria risoluzione. In tal caso oggi, al Senato, non dovrebbero esserci sorprese. Ma domani alla Camera, dove il distacco è minore, i rischi per il governo aumentano, anche se Berlusconi ce la metterà tutta con il rimpasto per garantirsi la maggioranza.
IL PD STA CON L’ONU
Pier Luigi Bersani ha riunito ieri la segreteria e ha convocato per questa mattina il coordinamento del Pd (l’organismo di cui fanno parte tutti i big) e poi deputati e senatori per una riunione congiunta. L’obiettivo, in questa situazione che tra contrasti nell’alleanza internazionale e ambiguità italiche si fa di giorno in giorno più delicata, è capire se il governo punti a sfilarsi e, per quanto riguarda il Pd, arrivare al voto in Parlamento compatti. Defezioni ci saranno, sia tra i cattolici che tra quanti puntano a un rapporto più stretto con la sinistra (esprimono perplessità o netta contrarietà Enrico Gasbarra, Vincenzo Vita, Paolo Nerozzi, Andrea Sarubbi e un’altra decina di parlamentari). Ma saranno «casi di coscienza» isolati che non impensieriscono Bersani. Il leader del Pd vuole schierare i gruppi parlamentari, anche presentando una propria risoluzione se quella del governo conterrà «furbizie e ambiguità», su una linea basata su due punti cardine. Il primo guarda alle Nazioni unite: «Bisogna stare nella risoluzione Onu che dice di impedire a Gheddafi di aggredire il suo popolo. Poi bisognerà passare la mano alla diplomazia per favorire la transizione». Il secondo al Colle.
INTERVENTO DI NAPOLITANO
Giorgio Napolitano ieri ha sottolineato che la Carta dell’Onu prevede anche la possibilità di ricorrere a «risposte militari» per assicurare la pace e la sicurezza internazionale ed è anche intervenuto sul tema del comando unificato della missione dicendo che «la Nato rappresenta la soluzione di gran lunga più appropriata». Che il Capo dello Stato si esponga sul tema della crisi libica viene giudicato positivamente dal Pd, che invece critica duramente il fatto che oggi a riferire al Senato ci siano Frattini e La Russa.
BERLUSCONI ASSENTE E NOSTALGICO
«È gravissimo che il presidente del Consiglio non venga al Senato ad assumersi la responsabilità del comportamento del governo sulla Libia», dice Anna Finocchiaro ricordando che gli altri premier, da Zapatero a Cameron, non si sono sottratti. Anche D’Alema tra una frecciata al ministro «dell’attacco» La Russa, una sottolineatura a beneficio di chi è contro la missione («nel conto di quel che accade va considerato quante vite umane sono state salvate dall’intervento dell’Onu») e un duro attacco alla Lega («è disgustoso che si agiti a scopi di propaganda» la questione dei profughi) critica l’assenza in Parlamento e le disattenzioni a Parigi di Berlusconi: «Lì avevamo il dovere di chiedere chiarezza, cosa è andato a fare? È forte solo quando deve parlare contro i giudici. In momenti come questi si avverte drammaticamente che il paese avrebbe bisogno di un governo e non ce l’ha». Il premier deve riferire in Parlamento anche per evitare che Frattini oggi dica una cosa e il premier, dietro le quinte un’altra, come che è «addolorato per Gheddafi». Parole gravi, per Bersani: «È una indecorosa nostalgia che aggiunge una nota di confusione e di discredito nella posizione del governo italiano».

Repubblica 23.3.11
D’Alema: l´Italia è senza governo premier spettatore davanti alla guerra
"E Maroni e Frattini hanno speculato sulla tragedia"
La prescrizione breve: ecco a che cosa pensava Berlusconi a Parigi. Magari si messaggiava con qualche fedelissimo
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - L´intervento in Libia «era necessario, ma è stato tardivo e male organizzato. Il governo italiano sconta la sua scarsa credibilità, e un premier che nelle riunioni importanti pensa ad altro. Quanto alla Lega, è disgustoso che speculi sulla tragedia dei profughi per i propri interessi elettorali». Il presidente del Copasir Massimo D´Alema - ospite di Repubblica Tv - definisce gravissima la scelta di Berlusconi di non presentarsi al Senato per spiegare le ragioni dell´azione italiana. Ma comincia dal principio, dal perché questa è una guerra indispensabile.
Presidente, la coalizione dei volenterosi ha agito troppo presto o troppo tardi?
«La guerra non è cominciata con la risoluzione dell´Onu. La guerra in Libia c´era, c´era un capo che stava massacrando il suo popolo. L´azione internazionale è partita quando i carri armati di Gheddafi erano alla porte di Bengasi. L´intervento quindi era necessario, è stato forse tardivo, certo molto male organizzato».
La coalizione è partita già divisa. La Francia non vuole l´ombrello Nato, l´Italia preme per ottenerlo. Cosa è mancato?
«Dopo il voto dell´Onu, i Paesi che hanno deciso di agire dovevano chiarire tra di loro modalità e obiettivi precisi. Mi domando cosa abbia fatto nella riunione di Parigi il presidente del Consiglio italiano, che ora parla come se fosse un semplice spettatore. Era lì che bisognava avanzare condizioni e richieste. Io concordo in pieno con la necessità di un coordinamento Nato. La Nato può garantire che si perseguano solo gli scopi fissati dalla risoluzione, che non si vada ognuno per conto proprio. Diminuendo così il rischio di vittime civili. Ma questa richiesta bisognava farla prima».
Lei stesso aveva sollecitato il ruolo della Nato in chiave di scudo per il nostro Paese. Siamo realmente più esposti al rischio terrorismo?
«Il ministro dell´Interno ha detto che tra gli immigrati possono esserci infiltrazioni terroristiche. Poco dopo il ministro degli Esteri ha detto che non c´è questo pericolo. Non stiamo parlando delle previsioni sul campionato di calcio. Per questo ho chiesto al ministro della Difesa di venire davanti al Copasir a dirci come stanno le cose. Trovo molto gravi le parole dette sugli immigrati. Quando ci fu la guerra del Kosovo ospitammo decine di migliaia di profughi, l´Italia può farlo. E´ disgustoso che di fronte a questa tragedia si speculi invece di agire».
Come valuta la decisione del premier di non partecipare al dibattito in Senato e come voterete sulle mozioni?
«Ritengo grave che il presidente del Consiglio non si assuma le sue responsabilità. Noi abbiamo già votato l´autorizzazione ad agire nell´ambito della risoluzione Onu, e quello siamo disposti a votare. Se verranno con dei pasticci contro gli immigrati per accontentare la Lega non credo che potremo votarli».
I pacifisti oggi dicono: si dovevano cercare altre strade, bisognava avviare un´azione politica.
«E´ chiaro che una volta fermati i carri armati di Gheddafi si apre uno spazio per l´iniziativa politica, credo che sia necessario avviarla già da adesso, ma prima bisogna imporre il cessate il fuoco. Io non sono pacifista, sono per la libertà, la democrazia e i diritti umani. Rispetto il pacifismo integrale ma i governi a volte sono costretti a usare la forza anche per imporre la pace».
Nichi Vendola dice: serviva una forza di interposizione.
«In Libano fu inviata una forza di interposizione perché si era già ottenuto un cessate il fuoco. Bisogna misurarsi con la realtà. Gran parte della sinistra europea è schierata dalla parte di un´azione internazionale. Spero che Nichi si muova in sintonia con queste voci».
In questo quadro in commissione alla Camera è passata la prescrizione breve. Da qui all´estate il processo Mills a carico del premier sarà estinto.
«La prescrizione breve, ecco a cosa pensava Berlusconi a Parigi e magari si messaggiava con i fedelissimi. Se uno va alla riunione di Parigi avendo in mente la Questura di Milano da chiamare per qualche ragazza, non può certo pensare all´Onu o alla Libia. Avevano detto di aver messo da parte queste furberie in nome delle grandi riforme: era falso».

il Fatto 23.3.11
I pacifisti provano a rialzare la testa
Strada attacca Napolitano, ieri sit in della sinistra radicale
di Wanda Marra


“Sento le più alte cariche dello Stato dire coglionerie: qualcuno è arrivato al punto di dire che mentre mandiamo i Tornado non siamo in guerra. Nessuna guerra può essere umanitaria, ed è questa la più disgustosa menzogna per giustificare la guerra che è sempre un crimine contro l’umanità”. Lunedì sera, terzo giorno di guerra alla Libia, Ambra Jovinelli, a Roma. A parlare dal palco è Gino Strada, in piedi, sotto un faretto, volto ieratico, pause teatrali, che punta il dito direttamente contro il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
IL QUALE domenica ha usato tutto il peso della sua carica per diffondere un messaggio: “Non siamo in guerra, ma all'interno di un'azione dell'Onu”. Alla serata organizzata da Emergency per presentare il nuovo mensile E ci sono almeno 1600 persone. Catturate, ipnotizzate da Strada che ribadisce il suo no addirittura filosofico alla guerra, e che mette insieme la tragedia giapponese e la guerra libica. È il primo momento di raccordo di un movimento pacifista esitante, assente, addormentato nel momento dell’inizio dei raid aerei sulla Libia, ma anche diviso dalle ragioni dell’intervento umanitario e della rivoluzione libica. All’Ambra Jovinelli ci sono don Luigi Ciotti, Erri De Luca, Maurizio Landini della Fiom, Fiorella Mannoia, Vauro. Ma anche Ezio Mauro, che in totale controcanto, ribadisce che “si deve andare incontro al bisogno di libertà del popolo libico”. Dichiarava ieri Vauro: “Lì c’è una vera e propria guerra civile. In altri paesi del Nord Africa la libertà se l’è presa la popolazione. Intervento umanitario? Guarda caso si fa sempre dove ci sono delle risorse petrolifere”. E poi denuncia il “grottesco” della politica italiana. Di certo la violenza degli attacchi e lo spettacolo di confusione e di indecisione offerto dalla coalizione aiutano i pacifisti a venire allo scoperto. E ieri a Roma c’è stato il primo presidio, a Piazza Navona, organizzato dalla Federazione della Sinistra. “Napolitano ha detto delle cose imperdonabili”, fa eco a Strada Alfio Nicotra, responsabile Pace di Rifondazione. Ma per la verità è un raduno per pochi intimi.
“LE GRANDI manifestazioni non hanno prodotto nulla: e forse è anche per questo che ora non ce ne sono”. Fiducioso Paolo Ferrero: “Quando sarà chiaro che questo intervento non solo non risolve i problemi umanitari, ma li crea, la mobilitazione ci sarà”. Poi, rispetto alla evidente pochezza della reazione pacifista spiega: “È come col Kosovo, con molta parte della sinistra schierata per l’intervento”. In effetti, il Pd è “in prima linea nel fronte interventista”, come ironizza qualcuno, nonostante le prime crepe (“dubbi” ci sono tra i cattolici e la sinistra del partito è su altre posizioni), Vendola si è espresso con chiarezza contro la guerra solo domenica, l’Idv èsulla linea del “ni”. Per il no alla guerra senza se e senza ma restano i pacifisti di sempre: Arci e Fiom, che giovedì faranno una prima riunione di coordinamento. Ieri, intanto, a Milano, in piazza San Babila, circa 150 militanti si sono ritrovati sotto le insegne di Prc-Fds, Sinistra ecologia e libertà, Sinistra critica, oltre a quelle dell’Arci e di Emergency.
E POI, ci sono i cattolici di base, Pax Christi, la Tavola per la pace. Il tentativo è quello di “girare” sulle ragioni della pace il corteo già previsto per sabato a Roma (partenza alle 14 e 30 da piazza Esedra) per l’acqua pubblica e contro il nucleare. Peccato, però, che nessuna richiesta ufficiale sia arrivata agli organizzatori, il comitato Referendario per l’Acqua bene comune. “Va bene manifestare per vari temi, ma nessuno ci metta il cappello”.

Corriere della Sera 23.3.11
I raid dividono il Pd: cattolici «tentati» dal corteo di Vendola
di Maria Teresa Meli


ROMA — Ufficialmente il Pd è compatto e univoco nel suo sì ai bombardamenti sulla Libia. Ma in realtà dietro la linea della fermezza si nascondono malumori, dissapori e dubbi. La stessa Rosy Bindi non ha nascosto le sue perplessità ai vertici del partito. «Ci sono dei problemi e delle difficoltà che non possiamo fare finta di non vedere» , è la sua riflessione ad alta voce, che ha finito per coinvolgere tutti i big di Largo del Nazareno. Anche perché le perplessità sollevate dalla presidente del partito sembrano confermare le paure del gruppo dirigente del Pd. La preoccupazione è una sola e si può riassumere in questo interrogativo: può il Partito democratico dimostrarsi più realista del re? Certo, la chiara presa di posizione di Giorgio Napolitano e la risoluzione dell’Onu coprono abbondantemente le spalle del Pd. Ma fino a quando? Se infatti i bombardamenti dovessero continuare senza un apparente sbocco positivo della situazione, o se il governo dovesse marcare la differenza e assumere la linea della prudenza, il partito di Bersani rischierebbe di trovarsi troppo esposto sul fronte della guerra. Questo quando la maggior parte del «popolo» della sinistra è palesemente contro l’offensiva in Libia. Talmente contro che Nichi Vendola è stato costretto a cambiare la sua posizione e dal sì (con tanti se e tanti ma) all’intervento è passato al no secco per non scontentare i suoi elettori. Ma anche nel Pd c’è chi ritiene che i bombardamenti non siano la risposta giusta. E non si tratta dei pacifisti di sempre, come l’ex presidente di Legambiente Roberto Della Seta, che, anzi, è schieratissimo con la linea interventista. A macerarsi fra i dubbi sono i cattolici come Enrico Gasbarra, Gero Grassi e Andrea Sarubbi (deputati) e Lucio D’Ubaldo e Roberto Di Giovanpaolo (senatori). Alcuni di loro in Aula voteranno «no» , altri si conformeranno alla linea del partito, ma sabato saranno tutti in piazza, con Vendola, per manifestare la loro ostilità alla guerra. Lo stesso Beppe Fioroni, leader degli ex popolari del Partito democratico, ha molti dubbi. Voterà senz’altro a favore dell’intervento, come deciso dalla dirigenza, però non riesce a nascondere perplessità e timori: «Mi preoccupo per il dopo: che sarà della Libia? I Paesi che fanno parte della coalizione dei volenterosi hanno un piano o vanno avanti secondo la logica del giorno per giorno?» . Fioroni sa che i cattolici del Pd sono in sofferenza e perciò ha convocato per oggi un incontro di ex ppi: sarà un modo per ascoltare le ragioni e i timori dei renitenti alla guerra. Anche la sinistra del Pd è alquanto tiepida. I senatori Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi tirano il freno a mano e il loro leader, Sergio Cofferati, rimugina sul da farsi. Persino l’ala ulivista preferisce la linea della cautela. Come spiega Mario Barbi: «Al momento non è chiaro quale sia l’analisi che sta a monte dell’azione in corso e sarebbe bene che l’Italia non nascondesse la testa sotto la sabbia ma ponesse le questioni politiche che non possono essere risolte dall’azione militare» . Stamattina Pier Luigi Bersani riunirà il caminetto del Pd per evitare strappi e tentennamenti: un lusso che il partito, di fronte a una maggioranza così sfilacciata, non può certo permettersi. M. T. M.

Repubblica 23.3.11
Tutti i dubbi dei pacifisti
di Tzvetan Todorov


L´intervento militare in Libia ha suscitato in Francia un coro di consensi, provenienti sia dai partiti rappresentati in Parlamento, come già per la guerra in Afghanistan, sia dai commentatori. Sentiamo dire che la Francia ha messo a segno un colpo da maestro. Il capo nemico è designato solo in termini superlativi: è diventato il demente, il pazzo, l´aguzzino, il tiranno sanguinario, o addirittura descritto, con riferimento alle sue origini, come «astuto beduino». Si fa scialo di eufemismi: anziché di uccidere a freddo si parla di «assumersi le proprie responsabilità»; non si raccomanda di limitare il numero dei cadaveri, bensì di procedere «senza eccesso di forze dirompenti». Per giustificare l´entrata in guerra si adducono paragoni azzardati: non intervenire equivarrebbe a ripetere gli errori commessi nel 1937 con la Spagna, nel 1938 a Monaco, nel 1994 in Ruanda…
Chi traccheggia è stigmatizzato. La Germania non è stata all´altezza, l´Europa ha dato prova di una sorprendente ritrosia, se non addirittura della sua abituale pusillanimità. I Paesi emergenti sono colpevoli di non voler correre rischi - come se a rischiare grosso fossero i guerrafondai della capitale francese!
È vero che a differenza della guerra in Iraq, l´intervento in Libia è stato approvato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ma legalità è sinonimo di legittimità? Alla base della decisione si trova un concetto introdotto di recente: la responsabilità di proteggere la popolazione civile di un Paese dalle minacce provenienti dai suoi stessi dirigenti. Ora, dal momento in cui questa "protezione" non ha più il significato di assistenza umanitaria, ma quello dell´intervento militare di un altro Stato, non si vede cos´abbia di diverso dal "diritto d´ingerenza" che i Paesi occidentali si erano arrogati qualche anno fa. Se ogni Stato potesse decidere di avere il diritto di intervenire sui suoi vicini per difendere una minoranza maltrattata, numerose guerre scoppierebbero all´istante. Basti pensare ai ceceni in Russia, ai tibetani in Cina, agli sciiti nei Paesi sunniti (e viceversa), ai palestinesi nei territori occupati da Israele… Certo, dovrebbero essere autorizzate dal Consiglio di Sicurezza. Il quale ultimo ha però una particolarità, che è al tempo stesso il suo peccato originale: i suoi membri permanenti dispongono di un diritto di veto su tutte le decisioni, e ciò li pone al disopra della legge che lo stesso Consiglio di Sicurezza dovrebbe incarnare: non potranno mai essere condannati, come non lo saranno i Paesi che scelgono di sostenere! E quel che è peggio, per sottrarsi al veto intervengono senza l´autorizzazione delle Nazioni Unite, come nel caso del Kosovo e in quello dell´Iraq. L´invasione armata di quest´ultimo Paese, fondata su un pretesto fittizio (la presenza di armi di distruzione di massa) è costata centinaia di migliaia di morti; eppure i Paesi invasori non hanno subito la benché minima sanzione ufficiale. L´ordine internazionale incarnato dal Consiglio di Sicurezza consacra il regno della forza, non del diritto.
Ma almeno stavolta, si dirà, si interviene in difesa dei principi, non degli interessi. Ne siamo proprio sicuri? La Francia ha continuato per molto tempo a sostenere le dittature al potere nei Paesi vicini, quali la Tunisia e l´Egitto. Scegliendo oggi di dare il suo appoggio agli insorti libici, Parigi spera di ripristinare il proprio prestigio. E al tempo stesso dà una dimostrazione dell´efficienza delle sue armi, ponendosi così in una posizione di forza nei futuri negoziati. Sul piano interno, condurre una guerra vittoriosa - e per di più in nome del Bene - serve sempre a risollevare la popolarità dei dirigenti. Considerazioni analoghe si possono fare nel caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Si insiste molto sulle dichiarazioni di sostegno (prima che avesse incominciato a cambiare parere) della Lega araba, le cui opinioni peraltro sono raramente tanto apprezzate in Occidente! A ben guardare, nel caso presente gli Stati che ne fanno parte hanno vari interessi in gioco. L´Arabia Saudita e i suoi alleati sono pronti a sostenere gli occidentali nel confronto con il rivale libico, dato che ciò consente loro di reprimere impunemente i movimenti di protesta all´interno dei propri confini. I sauditi, non proprio esemplari in fatto di istituzioni democratiche, hanno incoraggiato la repressione nello Yemen e sono già intervenuti militarmente nel Bahrein, scegliendo, in questi due Stati vicini, di "proteggere" i dirigenti contro la popolazione.
Il colonnello Gheddafi massacra la sua gente: non sarebbe giusto rallegrarsi di poterglielo impedire, quali che siano le giustificazioni addotte o i motivi reconditi di questa scelta? L´inconveniente sta però nel fatto che la guerra è un mezzo tanto potente da far dimenticare il proprio obiettivo. Solo nei videogiochi si possono distruggere gli armamenti senza toccare gli esseri umani; nelle guerre reali, neppure gli "interventi chirurgici" più precisi riescono ad evitare i "danni collaterali", cioè i morti, le sofferenze, le distruzioni. A questo punto ci si addentra in una serie di calcoli dall´esito incerto: senza l´intervento, le perdite umane e materiali sarebbero più o meno gravi? Davvero non esistevano altri modi per impedire il massacro della popolazione civile? Una volta incominciata, la guerra non rischia di procedere secondo la sua propria logica, anziché obbedire alla lettera della risoluzione iniziale? È il caso di incoraggiare la guerra civile nel Paese, o la sua spartizione? Non si rischia di compromettere lo slancio democratico della popolazione rendendola dipendente dagli ex Stati colonizzatori?
Non esistono guerre pulite né guerre giuste, ma solo guerre inevitabili, come lo è stata la seconda guerra mondiale combattuta dalle forze alleate. Non è però il caso dell´attuale conflitto armato. Prima di intonare inni alla gloria di quest´impresa, veramente migliore di tutte le altre, forse sarebbe bene meditare sulle lezioni che Goya trasse duecento anni fa da un´altra guerra combattuta in nome del Bene: quella dei reggimenti napoleonici che portavano i diritti umani agli spagnoli. I massacri commessi in nome della democrazia non addolciscono la vita più di quelli perpetrati per fedeltà a Dio o ad Allah, alla Guida o al Partito. L´esito è sempre lo stesso: I disastri della guerra.
(Traduzione di Elisabetta Horvat) L´ultimo libro di Tzvetan Todorov, storico e saggista, pubblicato in Italia è "La bellezza salverà il mondo" per Garzanti

Repubblica 23.3.11
Pacifisti senza se e qualche ma...
Molti sì all´intervento in Libia arrivano da sinistra. E il fronte del no fa adepti a destra. La nuova guerra ha trasformato la galassia "no war". Così
di Anais Ginori


Colombe a destra, falchi a sinistra. Davanti all´attacco alla Libia, in Europa (e in Italia) il fronte degli antimilitaristi cambia assetto Politici e intellettuali giocano in ruoli differenti dal passato, quando giudicarono la missione in Iraq. Il movimento ora scende in piazza. E intanto cerca un´altra identità. Così è cambiata la mappa dei "no war"
L´ex sessantottino Daniel Cohn-Bendit ha modificato la sua posizione: oggi è interventista
In un decennio le opinioni pubbliche occidentali hanno dovuto affrontare quattro conflitti

«L´uso della forza è legittimo, necessario». A parlare così non è un guerrafondaio, ma anzi il capo di governo occidentale che per primo si è sfilato dall´Iraq. Il discorso del socialista José Luis Zapatero davanti al parlamento spagnolo ben rappresenta lo straniamento del popolo pacifista in queste ore. L´intervento in Libia è stato approvato ieri a Madrid con appena tre voti contrari e un´astensione, contestato solo da uno sparuto gruppo di pacifisti. Anche il premier spagnolo entra a far parte dei nuovi interventisti di sinistra mentre nelle destre europee, non solo in Italia, avanzano i pacifisti realisti, accodati al niet della Germania di Angela Merkel. L´intervento militare in Libia cambia le posizioni, inverte le parti solitamente assegnate, impone nuovi distinguo, forse archivia categorie del passato.

Come ai tempi della guerra in Kosovo, poi dell´Afghanistan e dell´Iraq, il fronte "no war" è attraversato da proclami ma anche dubbi e affronta in ordine sparso la sua quarta guerra in poco più di un decennio. Il movimento pacifista, che il New York Times ha definito la "seconda potenza mondiale", si scopre fragile al suo interno. Questa volta la mobilitazione stenta a partire, forse perché molti hanno ancora negli occhi le immagini alla tv di Gheddafi che tratta gli oppositori come «ratti» da sterminare in un «bagno di sangue». A complicare il quadro c´è oggi il mandato dell´Onu, che mancava per l´Iraq e in qualche modo legittima la «responsabilità di proteggere» le popolazioni civili, anche con l´uso della forza. Esitazioni che hanno scatenato immancabili ironie degli americani, che hanno visto scendere in piazza gli europei contro le "loro" guerre. "Che fine hanno fatto i pacifisti?" si chiede l´Atlantic Monthly.

I pacifisti tout court
«Quando comincia un conflitto c´è sempre un momento di tentennamento e riflessione, anche per l´Iraq è stato così» racconta il militante britannico Andrew Burgin di Stop the War Coalition che ha appena organizzato presidi a Londra. «Ma presto la gente inizierà a chiedersi qual è il vero motivo per cui stiamo bombardando la Libia e allora capiranno che le vittime civili sono solo un pretesto per sporchi interessi economici». Il pacifismo puro e duro ha reagito con appelli che circolano online. L´Italia sarà il primo Paese a rappresentare in piazza l´ala più intransigente alla guerra con la manifestazione di sabato, capeggiata da Emergency, l´associazione Libera di don Luigi Ciotti e Pax Christi. «Il tema della pace è stato cancellato dalla politica e dall´informazione - spiega Flavio Lotti della Tavola della Pace - ma questo non significa che non sia radicato nella coscienza di milioni di persone. Se la guerra dovesse scoppiare sul serio, sono certo che si faranno sentire». Non è un conflitto, come gli altri, questo è certo. E allora, anche da noi, avvengono saldature di persone portatrici di storie molto differenti tra loro. «Noi, che siamo cittadini di un Paese che porta grandi responsabilità per la situazione che storicamente si è creata in Libia, ci dichiariamo disponibili a sostenere ogni azione legittima che contribuisca a fermare lo spargimento di sangue e a trovare una soluzione politica alla crisi, mentre dichiariamo la nostra ferma contrarietà a ogni azione bellica condotta dall´esterno contro un Paese sovrano». È l´incipit di un appello lanciato da Giulietto Chiesa, giornalista, ex eurodeputato, comunista, che non a caso lo definisce «parere comune di privati cittadini» e lo titola "Uniti ma diversi". Perché a firmarlo, tra gli altri, sono pacifisti a tutto tondo come padre Alex Zanotelli, accanto ad Angelo Del Boca, scrittore e storico del colonialismo italiano, e un saggista come Massimo Fini, non proprio ascrivibile al movimento Arcobaleno.

Come la Spagna del ´36
Ad ogni guerra si riproducono le lacerazioni nel popolo di sinistra. Ma oggi tutto è diverso. Per alcuni l´appoggio ai ribelli di Bengasi, con la speranza di un avvenire democratico per la Libia, è doveroso. «Hanno i nostri stessi valori, vogliono libertà e democrazia. Bisogna impedire a un tiranno di spezzare la rivoluzione» dice Jean-Luc Melenchon, nuova stella dell´estrema sinistra in Francia. Ed ecco quindi il paradosso dei pacifisti Verdi tedeschi che criticano la Cancelliera per non aver partecipato alla coalizione che sta bombardando Tripoli. «È scandaloso essersi chiamati fuori» dice l´ex ministro degli Esteri Joschka Fischer. Per l´altro esponente di spicco del partito, Daniel Cohn-Bendit, intellettuale condiviso con la Francia, si rischia di ripetere l´errore del 1936, quando la Madrid democratica fu lasciata sola contro il putsch di Franco. L´esempio dei nuovi interventisti di sinistra viene proprio dalla Spagna, con Zapatero l´ex pacifista convertito alla guerra in Libia.

La destra non bellicista
Per convenienza, perché al primo posto vengono gli interessi nazionali. È la vera novità di questa guerra. L´astensione della Germania all´Onu durante il voto per la risoluzione sulla Libia ha fatto scuola. Angela Merkel ha diviso il suo stesso schieramento. «La nostra discussione per il voto sulla Libia mi rattrista» ha commentato ieri la Cancelliera nel corso di un incontro della Cdu. «È stata una scelta fatta con argomenti ponderati». Più che un pacifismo etico, è una scelta dettata da interessi materiali e non ideologici, a cui si richiamano in Italia anche la Lega e alcuni giornali di destra. Non è un´opposizione alla guerra tout court, ma il rifiuto di questa guerra.

Diversamente interventisti
È il pacifismo "realista", che prevede l´intervento umanitario per fermare ulteriori massacri di civili e liberare il popolo libico dal Nerone di Tripoli. La condizione per tutti è il mandato dell´Onu che ha coniato appositamente un nuovo principio, inaugurato con questa guerra: la responsabilità di proteggere i civili. È una posizione a cui si richiamano diverse associazioni umanitarie straniere, tra cui Medecins du Monde. È una scelta senza "se" e con alcuni "ma", come quella del presidente delle Acli, Andrea Olivero. «Il comando delle operazioni in Libia deve passare il prima possibile all´Onu: solo le Nazioni Unite possono garantire la trasparenza e la legittimità internazionale di un intervento che sia davvero e solamente a scopi umanitari».

Repubblica 23.3.11
Il crimine dell’indifferenza
di Barbara Spinelli


Non è mai cosa semplice giustificare una guerra, per chi è mandato al fronte ma anche per chi ha l´incarico di iniziarla, di deciderne i fini e la fine. Non è facile neanche per chi, sui giornali, cerca di dire la verità della guerra, le sue insidie. La più grande tentazione è di rifugiarsi nei luoghi comuni, nelle frasi fatte, nelle menzogne. Frasi del tipo: nessuna guerra è buona; nessun politico ragionevole s´impantana in paesi lontani; nessuna guerra, infine, va chiamata guerra.
Il governo italiano è specialista di quest´ultima menzogna: la più ipocrita. Né si limita a mentire: un presidente del Consiglio che si dice «addolorato per Gheddafi» senza sentir dolore per le sue vittime non sa la storia che fa, né perché la fa.
A questi luoghi comuni sono affezionati sia gli avversari incondizionati delle guerre, sia i governi che le guerre le fanno senza pensarle, o pensandone i moventi (petrolio e gas libici) senza dirli. I luoghi comuni sempre rispondono al primo istinto, più facile. Memorabile fu quel che disse il premier Chamberlain, nel ´38, quando Hitler volle prendersi la Cecoslovacchia: «Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla». Sono frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale, nazionale) sia disgiunto dal mondo. Non c´è solo la banalità del male. Esiste anche la banalità dell´indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Hermann Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell´indifferenza.
L´Onu nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1,7, ma nello stesso paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza «non pregiudica l´applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7»: capitolo che chiede al Consiglio di sicurezza di accertare «l´esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione», e gli consente (se l´aggressore non è dissuaso) di «intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite» (articoli 39 e 42 del capitolo 7).
Le Nazioni Unite hanno commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente nel ´94. Nonostante ciò l´Onu è l´unico organismo multinazionale che possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi usciti dal nazifascismo come l´Italia e la Germania. Non è lontana, pur mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell´Unione europea: l´assoluta sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. D´altronde l´Onu ha imparato qualcosa dal Ruanda. Nel 2005, su iniziativa dello stesso Kofi Annan, ha approvato il principio della «Responsabilità di proteggere» le popolazioni minacciate dai propri regimi (Responsibility to Protect, detto anche RtoP), anche se è imperativa l´approvazione del Consiglio di sicurezza. È il principio invocato in questi giorni a proposito della Libia.
A partire dal momento in cui questa responsabilità viene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che «la prima vittima delle guerre è la verità», e quest´antica saggezza va riscoperta. Se l´Italia «non è in guerra», cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch´essi per Gheddafi? È questo, ministro Frattini, quel che dice agli aviatori? Frattini riterrà la domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio, in un´intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l´ha estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri Michèle Alliot-Marie?
Ma forse c´è un motivo, per cui le parole vane si moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all´esperienza. In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l´Onu è di continuo invocata, ma quando agisce e l´America di Obama sceglie la via multilaterale molti perdono la bussola. In parte è l´Onu, prigioniera dei protagonismi nazionali, a evitare parole chiare. Di qui le tante ambiguità della risoluzione sulla Libia: un testo che vuol accontentare tutti e in realtà non sa quello che vuole, né quello che non vuole. Perfino sulla questione cruciale regna il buio: non si vuol spodestare Gheddafi, e però non pochi chiedono proprio questo. Il primo a tentennare è Obama: stavolta non vuole cambi di regime alla Bush, ma il risultato è che ciascuno nell´amministrazione dice la sua come in un giardino d´infanzia. Il 18 marzo il Presidente annuncia che «il cambiamento nella regione non sarà e non può esser imposto dagli Usa né da alcuna potenza straniera: in ultima istanza, sono i popoli del mondo arabo a doverlo compiere». Tre giorni dopo, il 21 marzo in Cile, ripete che la missione è proteggere i civili ma aggiunge: «La politica degli Stati Uniti ritiene necessario che Gheddafi se ne vada: tale politica sarà sostenuta da mezzi aggiuntivi». Ben altro aveva detto domenica il capo di stato maggiore Michael Mullen: l´obiettivo è di «limitare o eliminare le capacità del dittatore di uccidere il proprio popolo e di sostenere lo sforzo umanitario», non di provocare un cambio di regime. Per lui, Gheddafi può anche restare al potere.
Non è l´unica ambiguità: gli interventisti proclamano di non volere occupazioni né attacchi terrestri, ma nutrono parecchi dubbi in proposito. Anche perché con la sola aviazione e gli spazi aerei interdetti si ottiene poco, o peggio ancora: in Bosnia-Erzegovina, la no-fly zone fra il ´93 e il ´95 non impedì il massacro di 8000-10000 musulmani bosniaci a Srebrenica, città sotto tutela dell´Onu.
Non meno equivoco è il ritardo con cui l´Onu interviene. Il divieto di sorvolo poteva essere imposto prima, quando Gheddafi non aveva ancora riconquistato città e creato una spartizione di fatto della Libia. Uno dei difetti dei cieli interdetti è la scelta dei tempi. Le no-fly zone in Iraq (1991-2002) furono istituite dopo che a Nord l´orrore era già avvenuto (3.000-4.000 villaggi curdi distrutti da Saddam con armi chimiche, nell´88, più di 1 milione di morti), e nel Sud il divieto restò inascoltato.
L´Europa non solo è inesistente, ma pericolosa nella sua frantumazione: la scommessa fatta da Obama sulla sua autonomia è fallita, e non per sua colpa. Uno dei motivi per cui Lega araba è incollerita pur volendo l´intervento è la fretta di Sarkozy, che ha fatto partire i propri aerei senza mai consultare gli arabi. Non basta qualche aereo del Qatar per riempire il vuoto, abissale, di politica. Sarkozy interventista pensa ai suoi casi elettorali non meno della Merkel anti-interventista: di qui il litigio sulla guida o non guida della Nato. Quanto all´Italia, vale la pena ricordare quel che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di Crispi: «La politica internazionale attuale dell´Italia non è che politica di rimorchio. L´Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai d´iniziare un affare o un´impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre al parere altrui. E neppure osa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e ubbidisce».
Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. La settimana scorsa, la Bbc ha diffuso un dibattito organizzato dalla Fondazione Qatar (il Doha Debate) in cui una platea di giovani arabi discuteva dell´Egitto. La maggioranza ha votato una mozione in cui si chiede di non indire subito le elezioni, perché la democrazia «non si esaurisce nelle urne»: è fatta di infrastrutture democratiche, di costituzioni garanti delle minoranze, di separazione dei poteri. Ha detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: «La democrazia fast-food può solo creare indigestioni». Non lascia spazio che ai ricchi, agli organizzati come i fondamentalisti islamici.
Pensando all´Italia, ho avuto l´impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi, come Gheddafi, politicamente immortali.

Repubblica 23.3.11
Così rischiano i gioielli dell’Unesco "Facili bersagli di bombe e scontri"
Gli archeologi: da Cirene a Tolemaide, patrimonio immenso senza difese
di Pietro Del Re


Che cosa accadrebbe se un precisissimo missile diretto contro un radar di Gheddafi deviasse di un pelo la sua virtuosa traiettoria e centrasse il teatro o le terme o il mercato delle rovine romane di Leptis Magna? O se un razzo katiuscia sparato dalla controffensiva del Colonnello in Cirenaica colpisse il tempio di Zeus o il santuario di Apollo della splendida città ellenistica di Cirene? «Quello che preoccupa e che stupisce è che non siano state prese precauzioni per tentare di salvaguardare uno dei patrimoni archeologici più preziosi del pianeta», dice la professoressa Barbara Barich dell´Università La Sapienza, che insegna Etnografia preistorica dell´Africa e che scava da circa quattro decenni in Libia, dove prima della rivolta del 17 febbraio lavorava una dozzina di missioni archeologiche italiane. «Tutti i siti più importanti sono costieri, perciò sono tutti a rischio. I miei timori non nascono soltanto dalle bombe intelligenti che possono sbagliare bersaglio. Penso anche ai numerosi siti archeologici che potrebbero diventare il palcoscenico del conflitto. Mi chiedo perché nessuno ne parla e perché nessuno ha ancora dato l´allarme. Se Roma fosse bersagliata da caccia militari, credo che ai piloti sarebbe espressamente vietato di colpire luoghi come San Pietro. In Libia, ciò non accade».
Le minacce gravano anche sui giacimenti preistorici del Paese. Sempre in Cirenaica, a Jebel Akhdar, c´è un enorme sito che per decenni è rimasto chiuso per motivi militari e che è stato riaperto agli scavi solo 2007 grazie all´Università di Cambridge: «È un luogo essenziale per capire il popolamento del Mediterraneo dell´Homo sapiens proveniente dall´Africa. Ora, pur non trattandosi di una città greca, è una splendida grotta che si vede dalla costa e che spero venga risparmiata dai bombardamenti». All´inizio della rivoluzione libica, le bombe di Gheddafi non hanno invece risparmiato la città occidentale di Nalut, che è stata pesantemente colpita con i suoi castelli medioevali.
I dubbi della professoressa Barich sono condivisi da molti suoi colleghi. Dice il professor Savino Di Lernia, responsabile della missione italo-libica nell´Acacus e nel Messak: «Ciò che temo di più per il patrimonio archeologico della Libia è che venga usato come forma di pressione e di rivendicazione. Basti pensare alle statue dei Budda abbattute in Afghanistan dai taliban. Non mi sorprenderebbe se ora, di fronte ad una vasta propaganda contro l´Italia, ci fosse un gesto dissennato contro i siti».
Le vestigia monumentali del paese sono concentrate nel nord del Paese. Sono città fenice, puniche, greche e romane. Nel corso della Storia recente, queste ultime sono state utilizzate per sottolineare alternativamente l´amicizia o l´inimicizia tra la Libia e l´Italia. Spiega ancora in professor Di Lernia: «Penso, nella fattispecie, a Sabratha, che si trova vicino a Tripoli dove si sono verificati alcuni scontri. O anche a Leptis Magna che si trova a metà strada tra Tripoli e Misurata e a Cirene, nel cuore della Cirenaica. Siti inseriti nella lista dell´Unesco e che potrebbero nuovamente essere usati strumentalmente contro di noi».
Rientrato in Italia in fretta e furia il 25 febbraio con un aereo militare, Di Lernia sottolinea che «il primo problema per molti di questi siti è che sono stati inglobati nelle città e delle periferie urbane: da questo punto di vista Sabratha e Cirene sono due punti critici».
C´è poi un altro tipo di ritorsione possibile, che potrebbe avere conseguenze nefaste a lungo termine. Consiste, per esempio, nel distruggere un sito archeologico in Cirenaica, annullando i futuri introiti turistici della regione. In situazioni di conflitto il patrimonio artistico può diventare merce di scambio. Ma può anche essere impiegato per affermare o negare l´identità libica.
Se i siti a rischio sono tutti sulla costa, quelli nel sud-ovest e del sud-est, famosi per un´archeologia molto antica e per l´arte rupestre preistorica sono più al sicuro. «Tuttavia, proprio ieri le forze delle coalizione hanno bombardato la città di Saba, nel sud del Paese, vicino agli scavi della missione che dirigo».
Un dato appare certo, spiega infine il professore. «Gli occidentali non potranno salvare il patrimonio artistico dell´Unesco, poiché nessun intervento può essere messo in cantiere se non richiesto dal paese che ospita i beni archeologici».

il Fatto 23.3.11
Chi odia la Costituzione
È in libreria “Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquiste e conflitti. 1861-2011” di Stefano Rodotà (Donzelli, pagg. 166, 15 euro). Ecco una parte del capitolo sugli ultimi 15 anni
di Stefano Rodotà


Si sono avuti casi in cui le norme europee hanno consentito di eliminare violazioni dei diritti presenti nella legislazione italiana, com’è avvenuto nel 2011 per i diritti degli immigrati. E questo è, per molti versi, un esito paradossale, perché nella Costituzione italiana già sono presenti i principi che possono consentire la tutela di libertà e diritti vecchi e nuovi, come testimoniano molte sentenze della Corte costituzionale proprio nella materia dell’immigrazione. Il paradosso nasce dal fatto che negli ultimi anni si è passati da una delegittimazione della Costituzione nel dibattito pubblico a un suo abbandono nel momento in cui si legiferava proprio su libertà e diritti. Non ci si è limitati, come si era cominciato a fare negli anni Ottanta, a disprezzare la Costituzione definendola “minestra riscaldata” o “ferrovecchio”, anche se proprio queste parole sono tornate nella discussione più recente. La maggioranza di centrodestra ha cominciato a comportarsi come se la Costituzione non esistesse, come se fosse un intralcio o un ostacolo di cui era giusto liberarsi nel momento della legislazione e dell’azione di governo. Mai come in questi anni, per reagire a quest’orientamento, si sono moltiplicati gli appelli al presidente della Repubblica perché rinviasse al Parlamento leggi per le quali esistevano ragionevoli dubbi di costituzionalità. In alcuni casi il rinvio vi è stato, ad opera del presidente Ciampi in materia di informazione e del presidente Napolitano in materia di lavoro. Ma ben più numerose sono state le situazioni nelle quali i presidenti della Repubblica hanno esercitato la loro “persuasione morale” o un vero e proprio potere di interdizione preventiva per evitare che si giungesse all’approvazione di norme palesemente incostituzionali. Si è così determinata una situazione di conflitto prima strisciante, poi sempre più palese. È divenuto fatto costante nella vita istituzionale un agire di governi e maggioranze di centrodestra “ai margini della Costituzione”. Questa è una constatazione, visto che, oltre al ricordato esercizio da parte dei presidenti della Repubblica delle loro legittime prerogative, la Corte costituzionale è dovuta intervenire per ristabilire la legalità violata da leggi particolarmente espressive degli orientamenti di queste maggioranze (i vari “lodi” a tutela di Berlusconi, la legge sulla procreazione assistita). Ma le sentenze della Corte costituzionale e le decisioni dei presidenti della Repubblica non sono state percepite come l’esercizio di legittimi poteri di controllo, volti a garantire eguaglianza tra i cittadini e diritti delle persone, ma come indebite invasioni di campo. In più occasioni, governi e maggioranze di centrodestra hanno polemizzato aspramente con il presidente della Repubblica e con la Corte costituzionale, in particolare con quest’ultima, presentata come un organo politicizzato, orientato “a sinistra”, invasivo delle competenze parlamentari, e per ciò continuamente minacciato di riforme che ne ridimensionerebbero la funzione. Un conflitto istituzionale, senza precedenti nella storia della Repubblica, ha così caratterizzato gli ultimi anni. Si sono riaffacciate proposte di riforma costituzionale che, a parte ogni valutazione di merito, modificherebbero radicalmente il sistema, con incidenza profonda proprio sulle garanzie di libertà e diritti. Questioni generali e temi specifici si sono intrecciati, e considerando più da vicino alcuni di questi è possibile cogliere meglio quali caratteristiche sia venuta assumendo la società italiana, quali siano i soggetti in campo, quali gli interessi più o meno visibili. (...)

l’Unità 23.3.11
Dopo le promesse Sindacati e associazioni non si accontentano: una settimana per dire no
Da sabato a lunedì le giornate nazionali per lo spettacolo con incontri, dibattiti e proiezioni
La cultura dice basta. È sciopero generale
I sindacati nazionali Cgil, Cisl e Uil il 25 marzo lanciano una giornata di sciopero generale della produzione culturale e di spettacolo insieme all’Agis. Poi ci sono le «giornate nazionali» e molto altro ancora.
di Luca del Fra


«Molti hanno ricordato in questi giorni come l’unità del paese è stata viva nella cultura prima ancora che a livello politico: oggi la cultura, con le sue proteste, ci indica che il paese sta morendo». Così Cecilia D’Elia, rappresentante dell’Unione Provincie Italiane e assessore alla cultura della provincia di Roma, sintetizza le ragioni della mobilitazione che attraverserà l’Italia durante per un’intera settimana.
Dopo le promesse dei giorni scorsi del ministro dell’Economia Giulio Tremonti e di Silvio Berlusconi di reintegro degli investimenti alla cultura, venerdì il Ministero ha fatto richiesta al governo di circa 400 milioni di euro per il 2011 da ripartire tra i Beni e Attività Culturali: richiesta che, come al solito, non è calendarizzata in Consiglio dei ministri.
La novità tuttavia è che sindacati e associazioni di categoria non sembrano accontentarsi delle «promesse»: infatti, negli ultimi due anni a seguito delle reiterate decurtazioni ai fondi per la cultura, ci sono state numerose proteste e scioperi che, puntualmente, si sopivano per gli impegni di reintegro delle risorse più volte presi dal ministro Sandro Bondi e da altri rappresentanti dell’esecutivo, impegni mai mantenuti.
Stavolta a pochi giorni dalle promesse ecco invece ripartire gli scioperi, le giornate di sensibilizzazione, una campagna di comunicazione, i flash mob che attraverseranno moltissime città italiane a cominciare da oggi. Stamane a Roma, l’Agis infatti porta in piazza Montecitorio ballerine e ballerini, coreografi,
compagnie, maestranze in difesa della danza, tra le arti più penalizzate nel nostro paese.
Domani sarà invece il turno del ministero dell’Economia, per un sit in di protesta dei lavoratori del teatro di prosa. I sindacati nazionali Cgil, Cisl e Uil il 25 marzo lanciano una giornata di sciopero generale della produzione culturale e di spettacolo unitamente all’Agis che promuove una serrata dei teatri. Da Bolzano a Catania, in ogni città in cui c’è un teatro o un luogo di cultura ci saranno presidi, manifestazioni proteste. Solo a Roma e provincia –ha ricordato il presidente dell’Agis Paolo Protti–, «aderiranno alla protesta ben 40 teatri», che vanno dal celeberrimo Argentina fino al Velly di Formello. «A causa dei tagli e delle dichiarazioni contraddittorie del Governo –ha insistito Protti– l’intero settore produttivo si sta fermando, con effetti sia da un punto di vista socio-culturale che economico». Nelle stesse ore a Cinecittà si terrà una assemblea pubblica sul futuro del grande centro cinematografico e di tutto il settore audiovisivo e, a dimostrazione della capillarità dello sciopero, incroceranno le braccia anche le troupe di fiction come Provaci ancora prof. e Rex stagione quinta.
Dal 26 al 28 marzo, mentre nel resto del pianeta si festeggerà la giornata mondiale del teatro, in Italia Agis, Associazione nazionale comuni italiani, Fai, Federculture, Unione delle Province, Confederazione delle province e delle regioni autonome all’unisono lanciano le giornate per la sopravvivenza del teatro. Le hanno intitolate le giornate nazionali per lo spettacolo e la cultura e, come ha spiegato il presidente di Federculture Roberto Grossi: «È soprattutto una campagna di comunicazione, il cui slogan “Divieto di cultura”, la dice lunga sul suo significato». L’iniziativa prevede incontri nei luoghi della cultura, auditoria, teatri, biblioteche, musei, con distribuzione di materiale informativo, la proiezione di un filmato ad anello.
«Ancora oggi troppe persone non sanno quello che sta accadendo –ha spiegato Andrea Ranieri dell’Anci–, quindi non faremo una manifestazione d’opposizione, anche perché molti comuni che aderiscono sono retti dal centrodestra. La nostra intenzione è invece parlare alla gente e far capire come la cultura italiana sia oramai al collasso».
Il 27 marzo il Piccolo di Milano, dopo il successo del Flauto magico di Peter Brook e in attesa del nuovo spettacolo di Patrice Chéreau, darà vita a una non stop di 12 ore nel chiostro del teatro Grassi a via Rovello, dove sarà distribuita una cartolina preaffrancata con il logo di «divieto di cultura», da rispedire al governo presso Palazzo Chigi. Un’iniziativa che verrà imitata da molti altri in tutto il paese. La giornate nazionali per la cultura e lo spettacolo termineranno il 28 marzo al teatro Regio di Torino con un incontro pubblico dove i promotori stenderanno un bilancio e lanceranno nuove iniziative.

Corriere della Sera 23.3.11
Bobbio: la linfa vitale di ogni democrazia è il diritto al dissenso
Da socialista difese le libertà borghesi
di Antonio Carioti


Conviene leggere direttamente i testi di Norberto Bobbio (1909-2004), perché su di lui circolano molte leggende. Prima fra tutte quella che ne fa il santone di una sfuggente ideologia «azionista» , a volte esaltata, più spesso esecrata. In realtà nel Partito d’Azione, effimero incontro di variegate correnti antifasciste, Bobbio non ebbe gran peso. Vi militò durante la Resistenza, fu candidato nelle sue liste alla Costituente, scrisse sulla stampa azionista. Ma negli atti dei tre congressi svolti dal Pd’A, raccolti in volume anni fa da Giancarlo Tartaglia, il nome del filosofo torinese non figura mai. Ha poco senso anche metterne in dubbio la caratura liberale, rinfacciandogli il costante dialogo con i comunisti. Bobbio si collocò sempre nella sinistra, che identificava con il valore dell’eguaglianza. Ovvio che si ponesse come interlocutore del Pci, la forza maggiore del movimento operaio. In altre parole, Bobbio era socialista ed è ozioso dargli lezioni di liberalismo classico. Del resto non nascondeva la sua distanza dai fautori più accesi del mercato: nel volume Il futuro della democrazia, in edicola domani con il «Corriere» , si trova, per esempio, un saggio in cui Bobbio presenta l’offensiva neoliberista degli anni Ottanta come un’insidia per la democrazia, che a suo avviso non può fare a meno dello Stato sociale. Vero è invece che, all’interno di una sinistra italiana a lungo dominata dal marxismo, Bobbio si distinse per una difesa strenua della libertà individuale, cui attribuiva un «valore universale» , non riducibile alla sua origine storica di prodotto delle rivoluzioni borghesi. Non concepiva un socialismo che sacrificasse i diritti del singolo e su questo incalzò ostinatamente i comunisti, dimostrando in modo inoppugnabile che il pensiero di Karl Marx non conteneva affatto una teoria valida della politica e dello Stato. Bobbio, insomma, era nella sostanza un socialdemocratico, refrattario però alla collaborazione governativa con i democristiani. Sperava invece nell’alternativa di sinistra (lo scrive anche in un passo del libro in edicola con il «Corriere» ) e perciò si sforzava di indurre il Pci ad accettare i valori dell’Occidente. Quando il comunista Giorgio Amendola, nel 1964, propose di creare un partito unico della sinistra, Bobbio si disse d’accordo, ma aggiunse che la nuova ipotetica formazione avrebbe dovuto necessariamente svolgere una politica socialdemocratica. Più tardi il filosofo torinese appoggiò il nuovo corso del Psi di Bettino Craxi. Ma non ne condivise mai le tendenze presidenzialiste e plebiscitarie. Convinto fautore del «governo delle leggi» , Bobbio era assai diffidente verso ogni forma di potere personale carismatico, anche sotto spoglie socialiste. Logica, di conseguenza, la sua profonda avversione per Silvio Berlusconi. Se poi il cosiddetto «azionismo» s’identifica, nella caricatura corrente, con una forma di giacobinismo proteso alla rigenerazione morale dell’Italia, da compiersi magari per via giudiziaria, Bobbio c’entra ben poco. A parte le sue critiche, che pure non mancarono, ai magistrati di Mani pulite per l’uso eccessivo della custodia cautelare in carcere, lo studioso piemontese guardava alla politica con malinconico realismo. Lungi dall’affidare alle istituzioni un ruolo pedagogico, aveva una visione procedurale della democrazia, come insieme di norme che permettono di cambiare i governanti senza spargimento di sangue. E tra le regole del gioco considerava fondamentali quelle volte a garantire il diritto al dissenso. Maestro del disincanto e non certo dell’utopia, Bobbio era sordo alle sirene rivoluzionarie. Molti suoi allievi avevano militato nel movimento studentesco, ma lui considerava il Sessantotto una stagione tutto sommato «ingannevole» . La sua disillusione, però, non era mai sfociata nel cinismo. Non si stancava di deplorare la qualità «men che mediocre» della democrazia italiana, continuava a denunciare l’ipoteca minacciosa (e spesso omicida) dei «poteri invisibili» sulla vita pubblica. Per questo coloro che nel cinismo amano crogiolarsi proprio non lo sopportano. Nemmeno adesso che è morto.

La Stampa TuttoScienze 23.3.11
Intervista «Troppi medici stanno alimentando il mito che tutto dipenda solo da una mancanza di serotonina»
“La malinconia è un diritto”
La denuncia dello studioso: ora smettete di divorare antidepressivi
di Massimiliano Panarari


«Libri di successo come la Pillola della Felicità hanno fornito alibi illusori»
Gary Greenberg Psicoterapeuta

La società della competizione estrema ha rimosso il «diritto alla malinconia», trasformandola nel «male oscuro», da eliminare a tutti i costi; o, per meglio dire, costringendoci a pagare i costi sempre più salati di un'enorme gamma di farmaci antidepressivi che hanno reso sempre più ricche le multinazionali farmaceutiche e hanno trasfigurato l'esistenza di una parte di noi.
Questo «j'accuse» è contenuto in un saggio che descrive (non senza essere, a volte, persino ironico) passato, presente e futuro della depressione: «La storia segreta del male oscuro» è stata scritta dallo psicoterapeuta e scrittore statunitense Gary Greenberg, che è una firma anche di una serie di riviste prestigiose come «New Yorker», «Harper's» e «Wired». Uno che di depressione se ne intende, avendola vissuta nella duplice veste di paziente che ne ha sofferto e di psicologo «vecchio stile» che la cura. Dottor Greenberg, quali sono le origini di questa specie di «ideologia della felicità» a tutti costi che governa le nostre società? «La felicità è stata concepita come un obiettivo dell'esistenza almeno a partire dall'Età dell’Oro di Atene, ma l'idea che questo scopo sia sempre giusto, e il dovere di perseguirlo da parte di ogni cittadino, si rivela relativamente nuova. Si tratta di uno sviluppo dell'Illuminismo, che sposta l'attenzione dalla Chiesa all'individuo, e dal paradiso alla Terra. E, naturalmente, qui in America, è stata custodita all'interno della Costituzione come uno dei diritti inalienabili dell'uomo». Che cosa non la convince degli psicofarmaci? Perché è così critico? «Una delle cose più strane nella rivoluzione degli antidepressivi - e un indizio del fatto che non si tratta di pura biochimica - è negli stessi farmaci che l'hanno scatenata, vale a dire gli SSRI, gli “inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina” che fecero la loro prima apparizione negli Usa nel 1988: questi non sono più efficaci di quanto lo fossero quelli appartenenti alla generazione di medicine inventate all'indomani della scoperta della serotonina stessa da parte di Betty Twarog nel lontano 1952. Il più delle volte, anzi, negli esperimenti clinici non danno risultati migliori dei placebo. E allora viene da pensare che, se la depressione fosse davvero un fatto biochimico e se i farmaci fossero realmente mirati sulle cause responsabili, funzionerebbero molto meglio». Qual è il ruolo di «Big Pharma» in questa abolizione della tristezza dalla vita quotidiana di noi occidentali? C'è qualcuno che ne parla addirittura in termini di un «Grande complotto». «Non so di un complotto, né posso dire nulla a riguardo, ma, una volta stabilito che la ricerca della felicità rappresenta lo scopo principale della vita, risulta piuttosto facile vendere alla gente prodotti destinati ad aiutarli in questo obiettivo. E il fondamento della vendita di un prodotto - non importa di che genere o di quale natura sia - consiste, come si sa, nel convincere le persone di tre cose: che sono scontente, che i loro problemi derivano da certe mancanze e che il prodotto in questione sopperirà a tali carenze».
E nel caso specifico degli antidepressivi? «In questo caso l'insufficienza corrisponde alla scarsità o alla mancanza di serotonina e il prodotto è il farmaco che la fornisce. L'idea che l'infelicità corrisponda a una carenza di serotonina che le medicine possono curare, nella migliore delle ipotesi, è chiaramente un mito. Ma si tratta di un mito assai potente, alla cui creazione ha contribuito molto anche il libro di Peter Kramer, “La pillola della felicità”, che è andato a ruba negli Anni 90, più o meno nello stesso periodo in cui le prescrizioni di Prozac cominciavano a invadere i ricettari. E non credo si tratti di una coincidenza. Kramer diede voce a qualcosa di cui tutti noi - pazienti, parenti e amici, oltre che medici e industrie farmaceutiche - avevamo bisogno: una giustificazione credibile per l'assunzione di farmaci il cui effetto principale era farci stare meglio con noi stessi. E non solo: ha anche scritto un libro che ha fatto tantissimo per anticipare quel “clima di opinioni” nel quale pensiamo alla nostra infelicità come a una malattia». Quanto ci costa il business globale degli psicofarmaci? «Su scala mondiale vengono spesi, ogni anno, oltre 20 miliardi di dollari in antidepressivi e nei soli Stati Uniti ne fanno uso almeno 30 milioni di persone». Come ci si può liberare dalle forme più eccessive di dipendenza dagli psicofarmaci? E come si può guarire dalla depressione? «Penso che soltanto la verità ci renderebbe davvero liberi. Se i medici smettessero di dire alle persone che la loro sofferenza deriva da squilibri biochimici, e che la loro depressione è - come se si trattasse del diabete - una malattia cronica che necessita di un trattamento farmacologico, tutti questi individui potrebbero finalmente compiere scelte più informate rispetto all'eventualità e al tipo di medicine da prendere. I dottori dovrebbero anche dire di più ai pazienti in merito agli effetti collaterali e alle conseguenze derivanti dall'interrompere l'assunzione di antidepressivi. E, infine, anche una serie di limiti alla facoltà di fare pubblicità da parte delle aziende farmaceutiche aiuterebbe i consumatori a effettuare delle scelte più consapevoli».

La Stampa TuttoScienze 23.3.11
Noi, gli irrequieti cacciatori che tradirono le scimmie
“Ecco come le prime tribù rivoluzionarono i rapporti sociali”
di Gabriele Beccaria


GLI SCIMPANZE’ Ogni maschio ha contatti con non più di una decina di propri simili
GLI UMANI Il nomadismo permette a chiunque di conoscere un migliaio di individui

Sono i relitti del nostro passato più remoto ed ecco perché sono così preziosi. Forse custodiscono la risposta a una delle domande più appassionanti: perché, a un certo punto della storia, intorno a 5 milioni di anni fa, abbiamo cominciato a separarci dalla scimmie e a prendere la strada che ci ha reso umani?
I resti variopinti di quell’era oscura trascinano oggi nomi bizzarri, su cui spesso la nostra pronuncia scivola: sono le tribù Gunwinggu, Ladrabor Inuit, Mbuti, Apache, Aka, Ache, Agta e Vedda. Custodiscono gli ultimi «selvaggi», i parenti derelitti e impresentabili, messi da parte dalla civiltà globale e di cui i nuovi popoli dell’iPhone e dell’iPad si vergognano, ma rappresentano un tesoro per gli antropologi. Per esempio per due professori americani, Kim Hill della Arizona State University e Robert Walker della University of Missouri: hanno studiato il loro presente e, spiando le esistenze e le storie di non più di 5 mila individui, sono sicuri di avere aperto uno spiraglio sui meccanismi che hanno trasformato la nostra specie. Il mistero svelato (così pensano) adesso sta scritto sulla prestigiosa rivista «Science».
Si parte da un dato incontestabile. Tra il 90 e il 95% della nostra storia collettiva si è perpetuato in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, composti, probabilmente, da una trentina di individui alla volta. Il resto, l’agricoltura, le città, gli imperi, le auto, i computer e le astronavi occupano un arco cronologico breve come un battito di ciglia e, quindi, a chi possiede lo sguardo dell’antropologo molto meno significativo. Se si vuole decifrare il perché delle nostre caratteristiche - quelle che ci hanno reso la specie invasiva per eccellenza - bisogna addentrarsi nel tempo lontanissimo degli agguati alle renne e degli inseguimenti dei bisonti.
Finora la teoria più accreditata sosteneva che la vita di quegli antenati (per alcuni decisamente grama e per altri tutto sommato oziosa) fosse cementata da legami di tipo scimmiesco. Come accade per gli scimpanzé - si ripeteva - erano le donne a lasciare il gruppo, mentre i maschi rimanevano attaccati al luogo di nascita, costruendo e disfando fragili rapporti, costantemente sospesi tra gli estremi della sottomissione e dell’aggressività. Hill e Walker sono arrivati alla conclusione che non è affatto così. Perché - ragionano - se avessimo replicato gli stessi modelli sociali degli altri primati, non ci saremmo evoluti. Saremmo rimasti molti passi indietro rispetto a come siamo diventati o, addirittura, non avremmo nemmeno cominciato la nostra corsa darwiniana.
In realtà - osservando 32 tribù attuali - i due hanno dedotto che le prime società dovevano essere strutturate più o meno allo stesso modo. Se in alcuni clan sono spesso le ragazze ad andarsene, in altri sono perlopiù i ragazzi, mentre è frequente che fratelli e sorelle rimangano insieme anche durante l’età adulta. In generale non ci sono regole fisse e immutabili e - fatti i calcoli - si è scoperto che non oltre il 10% dei componenti è formato da parenti di vario grado. La maggioranza ècomposta da «sconosciuti», che costruiscono coppie e reti di relazioni e che (anche questa è una differenza fondamentale rispetto alle scimmie) possono andare e venire, incarnando un nomadismo da tribù a tribù. Nessuno di questi micromondi è chiuso. Al contrario è in perenne mutazione e consanguinei e amici compongono affreschi mutevoli che si propagano anche molto lontano rispetto ai luoghi d’origine. Se li si dovesse rappresentare, non sarebbero alberi, ma reti che ricordano quelle internettiane.
L’effetto, quindi, è straordinario, instillato da un meccanismo che moltiplica all’infinito le opportunità. Un dato parla per tutti: uno scimpanzè maschio interagisce nel corso della vita con una decina di propri simili e si accontenta. Un cacciatore, grazie alla perenne mobilità che lo caratterizza e ai vari livelli di relazioni interpersonali, anche con un migliaio di individui. Si crea così un social network ante litteram, segnato - spiegano Hill e Walker - da due caratteristiche-chiave (e qui si arriva al punto fondamentale): la cooperazione e l’apprendimento sociale.
Le tante tribù antiche (come le poche attuali) hanno fatto di sicuro le loro guerre, ma meno di quanto si pensi. Erano troppo legate da fili invisibili di conoscenze, affetti e amori e impegnate a scambiarsi notizie e informazioni, oltre ad abbondanti dosi di gossip. Chiacchiere e saperi hanno infranto barriere, stimolato la curiosità, acceso la creatività. In una parola, hanno pungolato le nostre capacità cognitive e reso sofisticato il linguaggio. Dagli scambi è nata l’accumulazione e da questa i germi di tante metamorfosi. I vantaggi della collaborazionee dell’insegnamento reciproco - ipotizzano i professori - ci hanno fatto imboccare un percorso evolutivo unico.
Controprova: quando un gruppo diventa troppo piccolo e perde i contatti, si imbarbarisce, smarrendo ciò che già sapeva. E’ accaduto agli Ache del Paraguay, che a un certo punto hanno dimenticato come si accendesse un fuoco.

La Stampa TuttoScienze 23.3.11
Il super-occhio è italiano
Astrofisica. Il progetto per spiare i buchi neri: l’Esa l’ha scelto tra 47 arrivati da tutta Europa Battezzato «Loft», il satellite verificherà le implicazioni della teoria della Relatività di Einstein
di Barbara Gallavotti


E’ una giungla là fuori e un giovane esperimento di astrofisica deve lottare duramente per conquistarsi uno spazio in orbita, là dove volteggiano quelli che ce la hanno fatta, come il telescopio spaziale Hubble o il satellite Planck. L'Agenzia Spaziale Europea ha appena finito di selezionare quattro candidati destinati a contendersi il diritto di essere realizzati nel prossimo decennio e, tra questi, c'è «Loft» («Large Observatory For x-ray Timing»), un progetto guidato da ricercatori italiani dell' Istituto Nazionale di Astrofisica, con la collaborazione di numerosi altri enti di ricerca italiani ed esteri. I quattro protagonisti sono stati scelti fra 47 progetti concorrenti. Ora i loro programmi di ricerca saranno approfonditi e fra due anni l'Esa li valuterà nuovamente, portando il numero dei possibili candidati a due. Poi seguiranno altri due anni di studio e quindi, nel 2015, si arriverà alla scelta definitiva. Alla fine solo uno dei quattro giovani talenti otterrà un posto fra le stelle, ma in fondo non capita lo stesso anche agli aspiranti divi del cinema?
Quello che conta, per ora, è che «Loft» abbia superato la prima prova. Ad ammaliare i giudici deve essere stato il suo grande occhio: 12 metri quadri pensati per guardare verso buchi neri e stelle di neutroni e svelare i segreti della loro natura. È un occhio che ha un fratello, una sorta di gemello diverso già all'opera lontano dagli spazi cosmici. Nelle grotte del Cern di Ginevra, infatti, si trova l'esperimento «Alice», e qui le particelle prodotte nell'acceleratore Lhc vengono registrate da strumenti sviluppati dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: i medesimi che sono serviti da modello per donare a «Loft» uno sguardo imbattibile. In fondo, anche se in maniera diversa, sia i fisici del Cern che gli astrofisici cercano di dare risposta ai grandi interrogativi sull'Universo, e i due occhi lontani sono un esempio di come nella Grande Scienza lo yin e lo yang di competizione e collaborazione si fondano incessantemente l'uno nell'altro.
«Uno dei principali obiettivi del nostro progetto è studiare come si comporta la luce, quando si trova molto vicina a un buco nero», spiega Marco Feroci, il fisico che con Luigi Stella è alla guida di «Loft». I contorcimenti della luce sono uno dei pochi indizi su cui possiamo contare per comprendere la struttura intima dei buchi neri. Inoltre, osservare il comportamento della luce in condizioni tanto particolari è essenziale per verificare la correttezza di tutte le implicazioni della teoria della Relatività di Albert Einstein: basterebbe una piccola contraddizione fra le previsioni teoriche e i dati forniti da strumenti come «Loft» per far crollare alcune delle più radicate certezze della fisica moderna. Un altro dei grandi misteri dell' astrofisica riguarda il tipo di particelle che compongono la materia, quando si trova a densità estreme, come avviene nelle stelle di neutroni. «Al loro interno potrebbero esserci quark del tipo chiamato "strano" o particelle ancora più esotiche e “Loft” ci consentirebbe di individuarle grazie alla sua capacità di captare i raggi X. Sappiamo infatti che la radiazione X emessa dalle stelle di neutroni subisce effetti che in ultima analisi sono in relazione con il tipo di particelle che le formano», continua Feroci.
«Loft» sembra avere il talento necessario per diventare un puntino brillante sulle nostre teste. I suoi concorrenti però non sono da meno. Gli altri tre progetti mirano rispettivamente a studiare l'atmosfera di pianeti al di fuori del Sistema Solare, a raccogliere campioni dalla superficie di un asteroide e a effettuare alcune misure di precisione con lo scopo (ancora una volta!) di verificare i particolari della teoria della Relatività. In un modo o nell'altro, tutti puntano a rispondere a una delle grandi domande che l'Esa ha indicato come prioritarie per migliorare la conoscenza dell' Universo e che vanno dalla soluzione dei misteri sulla sua origine alla scoperta delle leggi fondamentali che lo governano, e dalla comprensione dei fattori necessari per la comparsa della vita alla soluzione degli ultimi enigmi sul Sistema Solare. Le regole del gioco sono semplici: scelto il progetto vincitore, l'Esa si occuperà delle spese per confezionare il satellite che porterà in orbita gli esperimenti e del suo lancio: una cifra che nel caso del prescelto fra i quattro concorrenti non dovrà superare i 470 milioni di euro. Il costo degli esperimenti veri e propri previsto per «Loft» è invece un po' più di 100 milioni di euro e dovrebbe essere sostenuto dal consorzio di istituti di ricerca coinvolti, e in particolare dalle agenzie nazionali come l'Agenzia Spaziale Italiana dalla quale dipende il ruolo guida dell'Italia.
Dal punto di vista pratico la sfida è su più fronti. In primo luogo bisogna trovare la giusta alchimia di risorse umane: tra preparazione e presa dati questi esperimenti possono durare anche più di 20 anni e diverse delle persone che partecipano al loro inizio andranno in pensione prima della fine. È essenziale quindi che siano arruolati da subito dei giovani che garantiscano una continuità.
E poi c'è un problema logistico, perché il finanziamento è affidato a istituzioni che dipendono da Paesi differenti. «Un po' come avviene al Cern, anche noi lavoriamo su progetti destinati a durare tempi molto lunghi. A differenza del Cern, però, non abbiamo una sede unica a cui fare riferimento. Ma soprattutto il Cern può contare su finanziamenti garantiti - dice Feroci -. Noi, invece, siamo più esposti a cambiamenti improvvisi».

Corriere della Sera 23.3.11
Hawking e Penrose alla ricerca delle leggi che reggono il cosmo
La sfida è definire la «teoria del tutto»
di Stefano Gattei


«Che cosa sappiamo sull’universo, e come lo sappiamo?» : con questa domanda Stephen Hawking apriva nel 1988 Dal Big Bang ai buchi neri, diventato in poche settimane un bestseller nel campo della divulgazione cosmologica. Lo scienziato occupava la prestigiosa cattedra «lucasiana» di matematica all’Università di Cambridge, che prima di lui era stata, fra gli altri, di Newton, Babbage e Dirac, e arrivò a conquistare milioni di lettori in tutto il mondo, coniugando il rigore espositivo a una prosa accattivante. Al grande successo del volume contribuì non poco anche un’abile strategia editoriale, che sfruttò l’impatto emotivo della malattia — il «morbo di Gehrig» — che da anni costringe Hawking a comunicare con un computer e un sintetizzatore vocale montati sulla sua sedia a rotelle. Oltre a possedere notevoli doti umane, Hawking ha al suo attivo anche una lunga serie di importanti contributi scientifici. In particolare, a partire dal 1965, in collaborazione con Roger Penrose, fisico e matematico di Oxford, lavorò alla teoria dei buchi neri e delle singolarità gravitazionali dello spaziotempo. E nei primi anni Settanta inaugurò un originale filone di ricerca applicando tecniche di meccanica quantistica in un contesto di relatività generale, dimostrando, fra l’altro, che i buchi neri non sono in realtà del tutto «neri» , ma emettono radiazione (la «radiazione di Hawking» , appunto) e sono quindi destinati a «evaporare» lentamente. Dal punto di vista filosofico, Hawking ha da sempre fatto propria una posizione «convenzionalista» : ai suoi occhi, una teoria cosmologica è costituita semplicemente da un modello dell’universo, o di una sua parte limitata, e da un insieme di regole che mettono in relazione le quantità presenti nel modello con l’esperienza. Una teoria, in altre parole, non può né deve aspirare alla verità: è sufficiente che descriva con precisione un ampio numero di osservazioni e faccia predizioni ben definite. In questo senso, e solo in questo senso, Hawking afferma che fine ultimo della scienza è arrivare a formulare una singola «teoria del tutto» , in grado di descrivere l’intero universo in cui viviamo. Se mai vi perverremo essa dovrà diventare, col tempo, comprensibile a tutti, almeno nei suoi aspetti generali. Perciò ognuno dovrebbe essere in grado di partecipare alla discussione di quesiti fondamentali, quali perché noi e l’universo esistiamo. Scienza specialistica e divulgazione «leggera» — nel senso che Italo Calvino diede a questo termine in Lezioni americane: non superficiale e sciatta, tesa soltanto a rincorrere il successo commerciale, ma rigorosa e articolata, pur senza cadere nell’eccessivo tecnicismo— sono dunque alleate e non rivali nella diffusione del sapere scientifico e della consapevolezza critica. Il dialogo fra Hawking e Penrose, raccolto nelle lezioni tenute all’Isaac Newton Institute for Mathematical Sciences dell’Università di Cambridge nel 1994, si muove proprio in questa direzione, documentando una discussione intensa ma accessibile su alcune idee chiave relative alla natura dell’universo. Scriveva Kant, in Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (1784), che il solo modo per attuare il «rischiaramento» tra gli uomini è quello di «fare uso pubblico della ragione in tutti i campi» . Egli invitava gli studiosi a confrontarsi con l’intero spettro dei lettori, evitando di rivolgersi ai soli specialisti, poiché la scienza può salvaguardare la propria libertà soltanto a condizione di rivolgersi a tutti. Lo aveva ben capito Galileo, che scelse il volgare per raggiungere il maggior numero possibile di lettori. Come lui, molti grandi scienziati si sono cimentati in esposizioni divulgative dei propri risultati: se infatti da un lato la comunicazione efficace di idee e scoperte rende la scienza un sapere controllabile perché pubblico, dall’altro lato le restituisce la tipica problematicità che la caratterizza, salvaguardandola tanto da ingerenze esterne quanto dai danni di un’esasperata parcellizzazione specialistica. E contribuisce a rafforzarne i legami con gli altri campi del sapere.

l’Unità 23.3.11
Durante la dinastia Tudor Gli scambi più in voga? Favori e denaro in cambio di prestazioni sessuali
«Wolf Hall» Basta leggere il romanzo di Hilary Mantel per capire che la storia si ripete spesso...
Intrighi di corte e vecchi vizietti. I festini ai tempi di Enrico VIII
«Wolf Hall» di Hilary Mantel (pagine 779, euro 22,00, Fazi) è il ritratto dell’Inghilterra dei Tudor. Protagonista Thomas Cromwell, venuto dal nulla e dedito ai mestieri più disparati...
di Rock Reynolds


Così va spesso il mondo, diceva Alessandro Manzoni mascherando la critica dell’occupazione austriaca di Milano del XIX secolo con quella spagnola del XVII secolo. Lapalissiano, certo, ma il mondo forse era sempre andato così e, a giudicare dalla pericolosa commistione tra sesso e potere e, talvolta, pure religione, non si direbbe che il quadro sia particolarmente cambiato. Ai tempi del Manzoni e a quelli in cui si colloca il suo grande romanzo, I promessi sposi, non c’erano la televisione e Internet, mentre oggi sull’Italia non pesa la dominazione di una potenza straniera, ma pare proprio che certe lezioni non aprano mai gli occhi all’umanità.
Chissà se, oltre alla sete di avventura, è proprio l’anelito di illuminazione a fare del romanzo storico un genere narrativo sempreverde. Wolf Hall (Fazi Editore, traduzione di Giuseppina Oneto, pagine 779, euro 22,00) della pluripremiata Hilary Mantel è certamente un romanzo storico, ma è anche molto di più, a partire dalla mole non indifferente. Attraverso la figura di Thomas Cromwell, assurto al titolo di Conte di Essex pur non essendo di nobili natali e da lì, dopo essere entrato nelle grazie di Enrico VIII, al titolo di vicereggente della chiesa Anglicana di fresca fondazione, Wolf Hall è l’affresco epico di uno dei periodi più controversi e allo stesso tempo rivoluzionari della storia europea, quello della dinastia Tudor sotto il regno di Enrico VIII. Sarà perché il sovrano di turno era uno che con le donne aveva un conto aperto, avendone sposate ben sei, oltre ad essersi accompagnato con innumerevoli concubine, ma può essere interessante leggere tra le righe di questo romanzo intenso e ottimamente scritto per individuare inquietanti analogie con il mondo d’oggi.
Tutto il marciume della politica di oggi affonda, dunque, le radici nelle debolezze maschili e nella consapevolezza femminile di disporre di una merce unica in grado di farle superare il ruolo di subalternità a cui la società ha relegato la donna?
Qualcuno si chiederà se questo è un romanzo oppure se è storia. Ma, se per quello, c’è gente che si chiede se il malcostume dilagante e sbandierato da chi dovrebbe rappresentare un esempio di dirittura morale per il paese non sia in realtà un feuilleton creato dai media a uso e consumo di una fazione politica. Se pensate che certe fragilità maschili siano solo appannaggio del mondo d’oggi, perfezionato dalla chirurgia estetica e ringiovanito dalle pastiglie azzurre, Wolf Hall vi chiarirà le idee. Allo stesso modo, però, gli intrighi di corte, l’abbondanza di lacchè e cicisbei nonché di donne di facili costumi e perbenisti dalla grande propensione al vizio vi farà ripiombare nella quotidianità, a patto che non pronunciate mai la parola «prostituta» ai danni di chi vende il proprio corpo, almeno fintanto che una corte non abbia dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che un meretricio è stato consumato, magari con gli ometti in bianco della polizia scientifica che raccolgono gli assolutamente indispensabili reperti organici. Solo che al tempo di Enrico VIII non c’erano CSI, talent show e grandi fratelli. Ma gli scambi più in voga erano sempre gli stessi: favori e denaro in cambio di prestazioni sessuali. Enrico VIII lo sapeva bene e lo sapeva bene anche Thomas Cromwell, la cui vertiginosa ascesa e altrettanto fulminea rovina furono in gran parte frutto di tale consapevolezza.
E, anche allora, nel mezzo stava la religione. Ovvio che, come magistralmente evidenzia la Mantel, non furono né il sesso né la religione a guidare le scelte del sovrano, ma di certo le due cose ebbero un peso non indifferente nel dipanarsi degli eventi. In questo caso, i vertici religiosi lottarono con il licenzioso monarca, facendo dei suoi comportamenti moralmente non in linea con la decenza del buon cristiano un cardine della propria crociata. Ce ne vorrebbero, vien quasi da dire, di alte gerarchie religiose che prendano posizioni meno sfumate in merito alla morale. Pare quasi che la stirpe vescovile abbia perso una certa verve censoria. E l’abbia persa a senso quasi unico. Di fronte al potente cardinale Wolsey, Cromwell chiede, «Monsignore, come si chiama una puttana quando è figlia di un cavaliere?» Con la classica abilità salomonica, l’alto prelato
risponde: «Davanti a lei, ‘la mia signora’. Alle spalle... be’ come si chiama?». Insomma, pare quasi che la parola puttana, di cui per secoli gli uomini si son riempiti la bocca con grande soddisfazione maschilista, d’improvviso sia diventata sconveniente. Meno male che le parole di Wolsey ci ricordano che non basta fare sfoggio di una laurea col massimo dei voti o di una lingua straniera parlata correntemente o, magari ancora, di qualche sbandierato talento nel mondo dello spettacolo perché una donna che ha determinati atteggiamenti possa a ragione considerarsi al di sopra di certi sospetti. Così come una posizione di potere e prestigio non fa di chi la occupa un uomo automaticamente integerrimo.
I festini non sono certo un’invenzione dei nostri tempi e, di certo, non c’è bisogno di andare in Brianza per trovarne. Anzi, ai tempi di Enrico VIII erano festoni. E, allora come oggi, poteva capitare che il sovrano mettesse a rischio la propria sorte politica pur di placare i propri impulsi. Nel caso del sovrano Tudor, è ancora dibattuta la causa della sua morte, secondi alcuni storici conseguenza di una malattia venerea.
Gli esempi di cadute di tono nella storia del mondo non si contano. C’è sempre un sovrano, più o meno illuminato, e ci sono sempre i vertici di una religione organizzata e una, anzi, tante donne. Nell’Inghilterra dei Tudor non si chiamavano veline e ci piacerebbe che questa parola sparisse dal nostro vocabolario, o meglio, non ci entrasse affatto.
Qualcuno potrebbe dire che dipende sempre dai punti di vista, che tutto è relativo. Vero. Se poteste chiedere a un cardinale inglese del XVI secolo come si chiama una donna che si vende in cambio di favori, la risposta sarebbe inequivocabile. Se volete avere la stessa risposta al giorno d’oggi, forse fareste bene a chiederlo a qualcun altro. Come dice la Bibbia, «Chi si arricchisce in fretta non sarà innocente», ma anche, «Il Signore corregge chi ama». Corregge, dunque, non unge soltanto.

l’Unità 23.3.11
Audio, video, web È la Divina Commedia edita da Zanichelli
Presentata ieri mattina, nella splendica corince del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, una nuova edizione della Divina Commedia pubblicata da Zanichelli (commedia. zanichelli.it).
di Roberto Carnero


occio multimediale al poema dantesco: «un’opera dinamica – spiegano dalla casa editrice bolognese – con la quale abbiamo inteso gettare un ponte tra le architetture narrative medievali e le tecnologie del terzo millennio». Si tratta di una versione del testo di Dante curata da Riccardo Bruscagli e Gloria Giudizi. Accanto al testo e al commento (e a un dvd con un ricco corredo multimediale), la vera novità è la lettura integrale, offerta in un cd audio mp3, dell’intero capolavoro dantesco da parte di un attore di razza come Ivano Marescotti.
Nel panorama editoriale non mancavano certo le edizioni della Divina Commedia. Come mai, dunque, l’idea di una nuova versione? Spiega Bruscagli (docente di Letteratura italiana presso l’Università di Firenze): «Spesso i commenti scolastici alla Commedia dantesca sembrano voler formare, negli studenti, tanti piccoli dantisti. In tal modo il linguaggio degli apparati è troppo tecnicistico e quindi risulta ostico e alla fine respingente. Noi abbiamo voluto proprorre invece un commento semplice, capace di guidare con essenzialità il lettore alla comprensione del testo. La scuola non deve formare dei lettori professionisti, ma dei lettori per passione. E questo è lo scopo del nostro lavoro su Dante. Un autore che ha in sé, appunto, la straordinaria capacità
di appassionare». Ivano Marescotti racconta invece, da attore, la sfida della sua lettura integrale della Commedia: «Un’impresa, come direbbe Dante, da far tremare le vene e i polsi. Mi sono formato sui grandi interpreti vocali di Dante, da Vittorio Sermonti ad Arnoldo Foà. Li ho ascoltati per imparare da loro e li trovo straordinari. Io, però, ho cercato di fare qualcosa di diverso: non restituire Dante in maniera calligrafica, bensì interpretarlo portando nel testo l’ascoltatore attraverso la forza emotiva del racconto. Ho dunque cercato di superare il sacro timore reverenziale che all’inizio provavo, per lasciarmi trascinare dall’enorme potere espressivo dei suoi versi».
Il volume è indirizzato principalmente (ma non solo) al mondo della scuola, dove Dante, per fortuna (almeno finché anche l’istruzione non sarà federalista), continua a rimanere lettura obbligatoria nel triennio delle superiori. Nell’universo dell’editoria scolastica in questi giorni – giorni in cui gli insegnanti sono chiamati a scegliere i libri di testo per il prossimo anno scolastico – c’è grande fermento. Le nuove disposizioni legislative prevedono che a partire dall’anno scolastico 2011-2012 i libri di testo siano prodotti esclusivamente in due versioni: «on-line» (cioè scaricabili da internet) oppure «mista» (ovvero su web e su carta). È prevedibile che i docenti, al momento delle adozioni, si orienteranno su questa seconda forma, perché optare per la prima significherebbe mandare in pensione i tradizionali volumi cartacei. E ciò determinerebbe un evidente impoverimento culturale, che è quanto si vuole evitare. Per questo ben vengano inziative come questa Divina Commedia di Zanichelli, che unisce le nuove metodologie (audio, video, web) alla persistenza del libro di carta.

Corriere della Sera 23.3.11
Padre Pio: non ho mai baciato una donna, neppure mia mamma
di Luigi Accattoli


«Mai ho baciato una donna. Anzi dico davanti al Signore che neppure volevo dare baci alla mamma: la facevo piangere perché non le scambiavo i suoi baci, ma avrei creduto far male» : così giura Padre Pio da Pietrelcina davanti al domenicano Paul-Pierre Philippe (1905-1984) che il 22 febbraio 1961 lo interroga a nome del Papa Giovanni XXIII. Il documento con quel drammatico giuramento era inedito fino a ieri e ne dà conto — insieme ad altri tre o quattro testi mai usciti finora dal segreto degli archivi vaticani — Stefano Campanella nel volume Oboedientia et pax. La vera storia di una falsa persecuzione (coedizione Libreria Editrice Vaticana ed Edizioni Padre Pio, pp. 260, e 15) presentato ieri alla stampa presso la Radio Vaticana. Il teologo domenicano francese, che sarà vescovo e cardinale, non credette al povero frate stimmatizzato che aveva allora 74 anni. «La Chiesa teme e trema per lei» , gli disse e scrisse parole di fuoco nella relazione al Sant’Uffizio che fino a ieri era stata letta solo da una manciata di addetti ai lavori: «Padre Pio è passato insensibilmente da manifestazioni minori di affettuosità (con le sue donne "predilette", ndr) ad atti sempre più gravi, fino all’atto carnale» . Egli è «un falso mistico» e «un disgraziato sacerdote che approfitta della sua reputazione di santo per ingannare le vittime» . Il suo caso costituisce «la più colossale truffa che si possa trovare nella storia della Chiesa» . Il «consultore» del Sant’Uffizio propose drastiche misure repressive: sospensione delle Confessioni e della Messa, «trasferimento in un convento lontano» . Ma le proposte non furono accolte e Padre Pio potè continuare con il regime «controllato» di accesso a lui da parte dei fedeli che era stato stabilito quattro mesi prima a seguito della «relazione» del «visitatore» Carlo Maccari. Perché il severo censore non fu creduto? Perché il buon Papa Giovanni volle sentire l’altra campana, che era l’arcivescovo di Manfredonia Andrea Cesarano, suo coetaneo e già collega in diplomazia, che gli disse che erano «tutte calunnie» . E il Papa: «Hanno persino inciso i baci…» . Attraverso buchi nei muri delle due stanze dove Padre Pio riceveva uomini e donne erano stati piazzati due microfoni collegati «a un registratore di marca Geloso» ed erano state incise «espressioni osate» e suoni di «baci ripetuti» . In uno dei testi fino a ieri inediti — intitolato Relazione Mario Crovini — si riferisce questo dialogo tra una delle donne e Padre Pio: «Cleonice Morcaldi: Io mi sento tutta accalorata…; Padre Pio: Chisto è o guanto mio (Questo è il mio guanto)» . Pare che Cesarano — che era campano e dunque attrezzato per capire le «devote» di Padre Pio — sia stato convincente con Giovanni XXIII: «Per carità, non si tratta di baci peccaminosi. Posso spiegarti (Cesarano dava del tu al Papa, ndr) cosa succede quando accompagno mia sorella da Padre Pio» . Gli raccontò che quando la sorella riusciva a prendere la mano del frate «gliela baciava e ribaciava» rumorosamente. Il Papa ne fu «consolato» e lo mandò dai cardinali Tardini e Ottaviani: «Di’ a loro ciò che hai raccontato a me» . La paranoia su Padre Pio «in pericolo di dannazione per i suoi peccati con le donne» era già documentata nei volumoni della Causa di beatificazione (1999). In essi figura una «testimonianza» resa da tale Fra Celestino di Muro che narra come vi fossero in quel tempo a San Giovanni Rotondo persone che consideravano Padre Pio «posseduto dal demonio» , tanto che «Padre Giustino da Lecce (uno dei confratelli, ndr), con libretto e con segni di croce verso padre Pio che dormiva, faceva gli esorcismi» . Ma ora — dai nuovi documenti — sappiamo quanto in alto fosse arrivata quella paranoia e come sia stata fermata solo dal buon senso di Papa Roncalli soccorso dall’amico Cesarano. Fino alla lettura di questo libro amavo schematizzare così il tormentato rapporto di Padre Pio con i Papi: un Papa lo capiva (Benedetto XV, Pio XII, Paolo VI) e un altro no (Pio XI, Giovanni XXIII). Ora che ho visto i documenti prodotti da Campanella aggiusto il tiro su Roncalli: egli all’inizio non lo capiva, ma infine lo capì e lo protesse dall’esilio e dalla clausura.

Terra 23.3.11
Emergenza infinita: seimila tunisini sull’isola
di Alessia Mazzenga

qui
http://www.scribd.com/doc/51362312