sabato 5 novembre 2016

il manifesto Alias 5.11.16
Dylan Thomas, un’esclusiva
I documenti. Troppi elementi oscuri si sommano in quella notte al Chelsea Hotel. Il nipote del grande poeta gallese apre per il manifesto la valigia di documenti e foto. Dylan Thomas scomparve il 9 novembre a 39 anni ma la moglie Caitlin non riconobbe quel corpo
di Alessandro Puglia, Lorenzo Tondo

Il fantasma di Dylan Thomas si aggira, inquieto e solitario, per le strade di Catania, chiuso in una vecchia valigia di cuoio, zeppa di lettere e segreti. Dentro ci sono foto, nomi, appunti e poesie, una missiva scritta di pugno dall’allora presidente Jimmy Carter e un enigmatico codice che rimanda ad un dossier top secret. Li ha raccolti e custoditi Francesco Fazio, figlio di Caitlin Macnamara, moglie di Thomas, il bardo più celebre della letteratura contemporanea inglese che ha influenzato cantanti, scrittori e artisti del calibro di John Lennon, De André, Tiziano Sclavi e di un certo Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, che scelse quel nome in onore proprio di Dylan Thomas.
IL MISTERO
La scomparsa prematura di Thomas, morto a soli 39 anni, ancora oggi, rimane un mistero. Chi o cosa ha ucciso il poeta più celebre del XX secolo? Sbronze e sigarette o l’invidia di un giovane e rampante «collega»?
La vedova Thomas non aveva dubbi. Così, 63 anni dopo la sua morte, Francesco Fazio, unico erede di Thomas – nato dal matrimonio di Caitlin Macnamara con il regista catanese Giuseppe Fazio – decide per la prima volta di aprire quel bagaglio e svelare in esclusiva a il manifesto i dubbi che attanagliavano l’esistenza di sua madre, sollevando più di un sospetto sulle cause della morte del poeta.
A partire dal giorno del «presunto» decesso. Quel 9 novembre che non mette d’accordo biografi ed esperti. Che non convinceva nemmeno la moglie Caitlin, lei che in lacrime davanti alla salma del marito disse: «Questo non è il mio Dylan».
Era il 1953 e da qualche tempo Thomas (nato a Swansea in Galles) risiedeva a New York, dove contava di racimolare un po’ di quattrini accettando di leggere le sue poesie in giro per gli States. La storia ufficiale racconta di un poeta soffocato dal whiskey e da una strana cappa di smog che in quei giorni opprimeva la Grande Mela.
Imbottito di farmaci e alcol, Thomas trascorreva il tempo chiuso tra le quattro mura della stanza numero 205 del celebre Chelsea Hotel, storico rifugio di altri geni maledetti come Charles Bukowsky e Janis Joplin.
A distanza di oltre 60 anni, non è ancora chiaro se ad ucciderlo furono i problemi respiratori aggravatisi negli ultimi giorni o la negligenza più o meno volontaria di alcuni oscuri personaggi che in quel tempo ruotavano attorno alla vita del poeta. Quando arrivò in ospedale, Thomas era già in coma.
Per le autorità morì il 9 novembre del 1953. «Una polmonite», dissero i medici, «o forse il fegato che non aveva retto l’alcol». Poco importa. Dylan Thomas non c’era più. Il resto non contava.
CHI LO UCCISE?
Francesco Fazio vuole far luce su quel mistero. In quella valigia di cuoio, imbottita di immagini e documenti, ha conservato tutto. Le foto di Caitlin e Dylan, le poesie che sua madre dedicò alla Sicilia, fogli ingialliti con su scritti appunti e nomi. Come quello di Milton Felteinstein, il misterioso medico che ai primi di novembre del 53’ iniettò al poeta una robusta dose di morfina. Così robusta che in tanti ritennero fatale.
O Elizabeth Reitell, segretaria e amante di Thomas. Lei che stette accanto a Thomas in quei drammatici, ultimi giorni del poeta prima di sparire nel nulla.
Ma l’indiziato numero uno è senza dubbio il suo agente americano, il poeta John Brinnin. A lui, David N. Thomas, autore del romanzo Who killed Dylan Thomas? dedicherà interi capitoli. «John Brinnin è conosciuto per tante cose – scrive David Thomas – Eppure, è riuscito a non farsi mai conoscere come l’uomo che spedì un famoso poeta a una morte evitabile e che grazie a questo riuscì a metter su una montagna di soldi».
Fazio vuole delle risposte. Da chi è ancora in vita. Da chi ricorda quel dannato novembre che rovinò l’esistenza di sua madre Caitlin. «Dopo che mia madre non riconobbe Dylan in quel letto d’ospedale – racconta Fazio – in preda al dolore, divenne incontrollabile. Dissero che aggredì Brinnin come pretesto per rinchiuderla in manicomio».
Dopo quella sfuriata, Caitlin fu infatti portata nell’ospedale psichiatrico di River Crest a New York e rinchiusa per dieci giorni. Il certificato di detenzione portava, guarda caso, la firma del dottor Feltenstein.
I GUANTI BIANCHI
E ancora Fazio solleva i mille interrogativi legati alle misteriose circostanze in cui venne effettuata l’autopsia sul cadavere di Thomas. «Perché Dylan è stato sottoposto a un processo d’imbalsamazione? E perché se il cadavere è stato imbalsamato non è stato esposto al pubblico?», si domanda il figlio di Caitlin Thomas, che oggi vive a Catania, luogo dove la madre, ballerina, poetessa ed esperta di equitazione, dopo la morte del marito, ha deciso di trascorrere gran parte della sua vita con il regista siciliano Giuseppe Fazio da cui nacque Francesco. «Perché gli sono state nascoste le mani con dei guanti bianchi? E perché al tempo stesso gli è stata posizionata sul viso la maschera di ferro come a William Shakespeare senza nemmeno consultare la vedova?».
LA MASCHERA DI FERRO
Già, la maschera. David Slivka, scultore americano, in una conferenza tenuta in Galles nel 2001, raccontò i dettagli di quell’opera da lui stesso realizzata «in gran segreto».
«Fu un’esperienza surreale – disse Slivka – ricordo che prendemmo le misure sul corpo nudo di Thomas. Il Chelsea Hotel gli aveva sequestrato i vestiti dopo la sua morte e non vollero restituirli». E ancora, nessuna analisi del sangue, non sono citate le cicatrici che Dylan aveva sui polsi e nessun esame del Dna.
«Oggi ci sono persone ancora vive che sanno – dice Fazio – ed è venuto il momento di raccontare a tutti la verità». La verità su un uomo a suo modo scomodo in un’America travolta dalla Guerra Fredda.
Thomas frequentava comunisti, socialisti ed anarchici. Condivideva con loro il vino, ma soprattutto le idee. Dopo la sua morte, la salma fu trasferita dal molo di New York a Southampton in Inghilterra con la nave americana S.S. United States, con Caitlin costretta a viaggiare dentro la stiva e con camicia di forza.
Ad attestare quella terribile esperienza, il manifesto è in possesso in un documento sulla lista di passeggeri dell’imbarcazione che trasportava il feretro di Thomas e dove spunta il nome della Macnamara.
Ad attenderne l’arrivo in porto non c’erano giornalisti, né fotografi. «Strano trattamento per uno dei più celebri poeti della letteratura inglese», commenta Fazio.
Tanti gli assenti nel giorno del suo funerale. Su tutti, il solito, misterioso John Brinnin che preferì rimanere a New York.
Già, sempre lui, Brinnin. È lui infatti l’indiziato numero uno, lui che da tempo era a conoscenza delle condizioni di salute del poeta e che non aveva mosso un dito per aiutarlo.
«Mia madre Caitlin lo sapeva bene – racconta Fazio – sapeva che dietro la morte c’era la mano di Brinnin». Lui, Brinnin, che da tempo scherzava ambiguamente su come avrebbe voluto sbarazzarsi di Thomas, invidioso della sua fama che ostacolava la sua carriera di scrittore rampante. Che Brinnin abbia in qualche modo sperato se non addirittura complottato per lasciarlo morire, è una ipotesi che in tanti, studiosi e storiografi, non sentono di escludere. A partire dal rapporto tra il dottor Feltenstein, sospettato di aver iniettato nel sangue del poeta una dose fatale di morfina, e lo stesso Brinnin. I due, infatti, si conoscevano molto bene.
Di «negligenza medica» parlerà in una lettera l’allora presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter indirizzata allo stesso Fazio dopo la morte della madre Caitlin e pubblicata per la prima volta in esclusiva su il manifesto. «Mi ringraziava perché gli avevo spedito il libro Double Drink Story, scritto da Caitlin, e mi chiedeva di non essere severo nei miei commenti sulla morte di Dylan».
Eppure tra i fascicoli segreti del governo inglese, raccolti sul sito internet degli archivi di stato, il manifesto ha scovato un dossier segreto intitolato a Thomas Dylan Marlais, ad oggi mai menzionato. Il numero di riferimento è IR 59/918. Il contenuto è top secret e lo sarà fino al primo gennaio 2036 quando verrà desecretato e reso ispezionabile al pubblico.
«Mia madre sapeva c’erano cose che non era tenuta a conoscere sulla morte di suo marito – racconta Fazio – Lo aveva scritto su un bigliettino pochi giorni prima di morire: Niente non è percepibile, niente non è intenzionale, tutto è inevitabile».
IL FILM MAI FATTO
«Voleva che fosse il suo epitaffio – continua – ma i miei fratelli, sotto pressioni esterne, non vollero farlo incidere perché mi dissero che toglieva luce all’immagine di Dylan».
Da quando sua madre, a luglio di tredici anni fa, si è spenta a Catania, Francesco ha sempre continuato a cercare. E ha persino rifiutato un contratto milionario dalla casa cinematografica di Mick Jagger dei Rolling Stones interessato a girare un film sulla vita di Thomas. «Ho detto di no perché non mi facevano prendere visione della sceneggiatura e non potevo svilire l’immagine di mia madre».
Francesco intanto continua a scavare. Il suo sogno è quello di riportare la salma di sua madre a Catania. «Qui, ai piedi del vulcano, dove mi insegnò a ballare. E io le insegnai a nuotare. Qui dove si chiacchierava sulla nostra vita e ci si confrontava sulla poesia. Qui a Catania, in riva al mare, dove mia madre Caitlin contemplava il fantasma di DylanThomas».
il manifesto Alias 5.11.16
Tiziano Sclavi, dopo il silenzio
Intervista. Il creatore di Dylan Dog, un grande appassionato di Dylan Thomas, pronto a un lungo silenzio stampa concede l'intervista al manifesto per aver votato comunista tutta la vita
di Alessandro Puglia, Lorenzo Tondo

A tratti Dog ricorda Thomas. Entrambi dannati e donnaioli. Tutti e due affascinati dal mistero e dalla morte. Entrambi, soprattutto, di nome fanno «Dylan». E almeno quest’ultima non è una coincidenza. Ne parla al manifesto Tiziano Sclavi, fumettista e scrittore, papà dell’ «investigatore dell’incubo» e grande appassionato delle poesie e della vita di Dylan Thomas. Al punto che era solito attribuire a tutte le bozze dei suoi personaggi il nome «Dylan» in onore, appunto, del poeta gallese.
«L’unico poeta che riuscivo a leggere – ammette – le poesie in genere non le capisco. E poi lo sentivo vicino perché era alcolizzato». E non è forse un caso che, a differenza di tutti gli altri personaggi di Sclavi, per il celebre Old Boy di Craven Road, quel nome, all’inizio provvisorio anche per lui, rimase per sempre. Dylan, Dylan Dog.
Dalla sua grande villa, eclissata tra i boschi di Venegono in provincia di Varese, dove vive con la moglie Cristina, e raramente mette il naso fuori casa, Sclavi parla di Dog e Thomas. Merce rara le interviste, roba in via d’estinzione per il fumettista, restìo a farsi vedere in pubblico e a parlare con i cronisti e tornato da poco alla penna dopo quasi dieci anni di buio con un libro proprio su Dylan Dog dal titolo più che significativo: Dopo un lungo silenzio (Sergio Bonelli Editore, 144 p).
«A proposito di silenzio. Pensi che qualche giorno fa avevo deciso di proclamare un altro lungo silenzio stampa – confessa Sclavi, appena rientrato a casa dal veterinario dove ha accompagnato uno dei suoi 7 bassotti – Ma ho votato comunista per tutta la mia vita, fino a qualche anno fa, e a voi del manifesto non potevo dire di no».
Dunque in principio c’era Dylan Thomas…
Premetto che io non vado matto per le poesie. Anzi, devo confessare che non le capisco. Soprattutto quelle in rima sciolta. Son fatto così, non le capisco. Ma con Thomas è diverso. Thomas ha fatto saltare in aria tutte le categorie della letteratura. Uno scrittore inclassificabile. Attenzione, non sono un esperto di Thomas, ma un semplice appassionato. Iniziai a leggere le sue opere 50 anni fa. Mi piaceva lo stile sagomato dei versi. È forse l’unico poeta che riuscivo a leggere e a capire. Per il resto la poesia preferivo ascoltarla dai testi dei cantautori. De André e Guccini ad esempio, due grandissimi.
Ecco, ne ha giusto nominati due che hanno tratto ispirazione proprio dalle poesie di Thomas per le loro canzoni. Guccini lo ha fatto per il testo de «La Collina». De André per «Dolce Luna». Ne manca però uno. Uno bello grosso. Anche lui adora Thomas. Si chiama Robert Allen Zimmerman e diventò in arte «Bob Dylan» proprio in onore del poeta. E lo stesso si dice abbia fatto lei con il suo Dog…
Esattamente. In tanti pensavano avessi scelto quel nome per Bob Dylan. In realtà entrambi lo abbiamo fatto per via di Thomas. Bob Dylan è andato addirittura oltre, al punto che scelse di cambiar il suo di nome. Io attribuivo a tutte le bozze dei miei personaggi il nome provvisorio «Dylan». Mi piaceva anche come suonava quel nome. Dog invece viene dal titolo di un libro, Dog, figlio di Mickey Spillane. Lo vidi in vetrina ma confesso di non averlo mai letto.
Cos’altro le piaceva di Thomas?
Mi piaceva soprattutto la sua vita. Il fatto che vivesse fuori dalle regole. Dannato. Un poeta dei pub. Ecco, mi piaceva anche il fatto che fosse alcolizzato. Lo sentivo vicino anche per questo motivo. E poi nelle sue poesie ricorreva spesso il tema della morte, un tema che mi ha sempre affascinato. Come in Edgar Allan Poe, che adoravo. Penso di aver letto quasi tutto di Poe.
Thomas era un gran bevitore, poeta maledetto, un impareggiabile donnaiolo e adorava la musica. Ricorda un po’ Dylan Dog…
(sorride, ndr) Dite? Sai non c’avevo mai pensato. Vi giuro che non è stata una cosa voluta. Però a pensarci bene in effetti qualcosina c’è. Poeta dannato Thomas, dannato anche il mio Dylan.
C’è un mistero attorno alla morte di Thomas che sembra fatto apposta per quel tizio di Craven Road. Il medico che gli avrebbe iniettato una dose fatale di morfina ha un nome da fumetto: si chiamava Felteinstein. A Thomas saldarono addirittura una strana maschera di ferro sul volto dopo il decesso. Si è parlato di complotto.
No, non ne sapevo nulla. Pensavo lo avessero accoppato le sbronze.
Può darsi. Ma da alcune testimonianze non è da escludere che ad ucciderlo fossero state le sue idee. Thomas, in piena Guerra Fredda, frequentava socialisti, anarchici e comunisti. Compagni di bevute con i quali il poeta condivideva il whiskey e anche le idee. Frequentazioni pericolose per uno che veniva acclamato come una rockstar…
Sì, avevo sentito dire. Ma in questo caso non cercate un parallelismo con il mio Dog. Il mio Dylan è apolitico. È vicino ai problemi sociali, vicino alle classi più emarginate. Quello sì. Ma la politica non gli interessa. E poi vive a Londra, in un contesto politicamente diverso dal nostro. Non è che il comunismo c’entrasse molto con l’Inghilterra. Io invece…
Lei invece?
Io ho votato comunista per tutta la mia vita fino a qualche anno fa. E vi dico un’altra cosa: forse avrete letto in giro alcune mie interviste negli ultimi mesi. Io non sono notoriamente un animale mediatico e sono spesso molto restìo a rilasciare dichiarazioni. Qualche giorno fa avevo scelto di proclamare un altro silenzio stampa. Ma mi sarebbe dispiaciuto non fare un’intervista per voi. Con gli altri no, non me ne frega un tubo. Ma a voi del manifesto non potevo dire di no.
Il Sole 5.11.16
L’Europa e le elezioni Usa
La risposta cattiva e l’alternativa peggiore
di Carlo Bastasin

Ad occhi europei, la prima apparizione di Donald Trump tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, deve aver ricordato la comparsa all’orizzonte di TurTur, il gigante della favola tedesca, che da lontano sembra enorme, ma che si rimpicciolisce tanto più si avvicina. È un’immagine letteraria per convincere i bambini che le loro paure sono esagerate e che saranno sempre in grado di confrontarsi con ogni realtà. Anche quello europeo era in fondo un pensiero infantile. Una certa ingenua fiducia nella democrazia spingeva a credere che, alla fine, un elettorato maturo come quello americano avrebbe espresso una scelta razionale, di auto-conservazione, o una preferenza utilitaristica.
Ma Trump fa parte di un altro mondo della fantasia diventato reale anche in Europa. Un sociologo tedesco individua nelle motivazioni dei nuovi elettorati anti-sistema, o xenofobi, un “desiderio di punizione”, una pulsione che è al tempo stesso protezione di valori e castigo, e che si esprime tra i più forti e al tempo stesso tra i più deboli. Trump è la figura che convoglia le paure e le ritorsioni, il secondo emendamento e le pallottole, ingrandendo se stesso passo dopo passo, inglobando valori e vittimismo, modificando il linguaggio e il paesaggio che attraversa.
Solo in parte il voto sarà deciso da argomenti razionali e dal giudizio degli elettori sulla globalizzazione o sulla disuguaglianza. La potente liturgia della sfida presidenziale non ha disperso, bensì rafforzato, un equivoco originario che ha corroso la scelta raziocinante: tra pochi giorni gli Stati Uniti voteranno candidati i cui profili sembrano tratti dai cliché sull’America Latina, la moglie di un ex presidente contro un populista caricaturale. Per quanti talenti entrambi possano avere, e certamente Clinton ne ha, un sistema politico iper-polarizzato, un sistema mediatico isterico e la sconvolgente trasformazione dei social media in camere ad eco, li hanno resi parodie di se stessi o puri bersagli antagonistici.
È tuttora probabile che la maggioranza dei collegi finisca alla candidata democratica, che il Senato cambi di mano e che la maggioranza repubblicana alla Camera si riduca.
Ma i sismografi elettorali paventano che l’esito dipenda da dettagli di solito irrilevanti: lo sciopero dei mezzi pubblici a Philadelphia, il rischio di uragani in North Carolina e in Florida, vecchi filmati su Trump o nuove e-mail di Hillary. Poco più di un soffio su un castello di carta, e il 2016 passerà alla storia come l’anno in cui per la prima volta una donna sarà l’individuo più potente del pianeta, o invece come l’anno in cui finirà l’ordine globale retto dai valori della Costituzione americana.
Di questo ordine globale fanno parte elementi come il destino della Nato, i rapporti con la Russia e il futuro del commercio mondiale, che vedono l’Europa più esposta di chiunque altro, qualunque sia il futuro presidente.
Trump ha messo in questione la funzionalità della Nato e perfino i suoi principi. Ha vantato una grande sintonia con Vladimir Putin e ostentato disprezzo per l’Unione europea. Infine ha attaccato il libero scambio. Non è necessario assecondare le teorie cospirative, secondo cui il voto di martedì è stato influenzato da un arco oscuro che include Mosca e Riad e che condivide l’interesse per prezzi del petrolio più alti e per assetti violenti in parti del Medio Oriente, per capire come la capacità di intervento europeo sullo scacchiere globale sia inadeguata, senza l’appoggio di Washington e nella confusione mentale di Londra. Molti Paesi europei si stanno chiudendo al mondo esterno nel momento stesso in cui le minacce stanno crescendo e l’alleato tradizionale è meno in grado di aiutarli. Il caso Brexit è certamente esemplare. La paralisi elettorale franco-tedesca non aiuta. Bruxelles è sempre più indebolita.
A Washington, l’Europa viene descritta come un continente che ha perso il controllo dell’immigrazione e ha fallito nell’integrazione. L’idea europea secondo cui il perdono, non il castigo, è la radice etica della giustizia, non ha più potere di convinzione ora che Barack Obama abbandona la scena. Trump crede piuttosto nei muri e negli oceani e nel fatto che popolazioni europee che si sentissero fragili, invocherebbero l’uomo forte, proprio come molti americani impauriti hanno risposto con cieca gratitudine alle sue suggestioni. Normalizzando atteggiamenti che prima di lui erano per lo più intollerabili, Trump sta abbattendo i tabù delle culture democratiche: il rispetto per le donne, la promessa di incarcerare l’avversario politico, il discredito sulle procedure elettorali, il richiamo ai propri supporter a non accettare pacificamente il risultato.
Obama aveva accettato che la crisi europea dei rifugiati fosse una priorità anche per gli Usa, ha sostenuto la missione Nato contro i trafficanti nel Mediterraneo orientale pur lasciandone la guida agli europei. Infine ha annunciato di voler moltiplicare la presenza di truppe nell’Est Europa. In effetti le presidenze Obama sono trascorse ininterrottamente in stato di guerra.
Nonostante il carattere di alcuni suoi consiglieri, è improbabile che Hillary sia ancora più incline ai conflitti. Da segretario di Stato era favorevole allo sviluppo di uno “smart power”, destinato a diventare sempre più importante ora che le tecnologie informatiche stanno indebolendo – anziché rafforzare – le democrazie rispetto a Russia, Cina e altre potenze autocratiche. Ma anche nel caso di vittoria, Hillary finirà indebolita dalle conseguenze della campagna elettorale. Senza una netta vittoria alla Camera, rischia di trascorrere quattro anni tra “shutdown” del governo, minacce di impeachment, con un voto di mid-term che per ragioni tecniche sarà infernale per il suo partito, e con decine di milioni di repubblicani convinti che sia un presidente illegittimo. Il Congresso non userà il linguaggio di Trump, ma l’idea che gli europei sfruttino l’ordine globale a spese americane è diffusa e inseguirà Hillary per quattro anni. L’Europa deve preparare una risposta unita e convincente e offrire una sponda credibile o il 9 novembre per gli europei non ci sarà una notizia buona o una cattiva. Ma una cattiva o una peggiore.
il manifesto 5.11.16
Fotografie di un paese popolato da maschi, bianchi e arrabbiati
Saggi. «Angry White Men» di Stony Brook
di Guido Caldiron

Tutti i sondaggi sono concordi: se l’8 novembre a votare fossero solo quelli che il censimento degli Stati Uniti definisce come «bianchi caucasici», vincerebbe Donald Trump. Uno dei fantasmi ricorrenti del dibattito pubblico americano sta così definitivamente prendendo corpo.
Il tema dello sviluppo di una sorta di «nuova classe», a metà strada tra l’appartenenza sociale e lo stato d’animo collettivo, indicata con il termine di «maschi bianchi arrabiati», si segnala infatti fin dagli anni Novanta per definire i sentimenti di frustrazione e malessere della working class come del ceto medio bianco.
In assenza, a lungo, di studi e inchieste specifiche, la cultura di massa aveva offerto un ritratto-tipo dei presunti protagonisti di questo fenomeno attraverso la figura di Bill Foster, il protagonista del film Un giorno di ordinaria follia, diretto nel 1993 da Joel Schumacher e interpretato da Michael Douglas: un bianco quarantenne che ha perso il lavoro che nel pieno del traffico estivo di Los Angeles finisce per perdere la testa e distrugge tutto ciò che incontra al suo passaggio.
ALL’EPOCA il personaggio fu considerato il simbolo del disagio tra i bianchi diplomati, il cuore della piccola borghesia del paese, le prime vittime di quella redistribuzione della ricchezza verso l’alto condotta dalle amministrazioni repubblicane fin dagli anni di Reagan che ha favorito i manager delle aziende a sfavore di tutti gli altri. Invece di prendersela con gli yuppie o con la politica della destra, ancora una volta il nemico sono diventate le minoranze, le donne e le istituzioni federali.
L’emergenza di questa componente della società americana torna oggi d’attualità con la corsa di Trump visto che sono stati proprio i «bianchi arrabbiati» a determinare la sua affermazione nelle primarie del Gop. Nel frattempo, il sociologo della Stony Brook University di New York Michael Kimmel, che studia da tempo i vari aspetti della culture maschili e le loro manifestazioni anche estreme, ad esempio nel movimento delle Milizie come tra i sostenitori del II emendamento, i fanatici delle armi, ha cercato di fissare nel volume Angry White Men (Nation Books, pp. 316, $ 16,99) i contorni fin qui incerti del fenomeno parlando di figure maschili che «esprimono in forme sempre più aggressive il loro risentimento nei confronti dei profondi cambiamenti economici, sociali e politici che hanno trasformato il paese nel corso degli ultimi decenni».
Individui che si sentono in qualche modo defraudati, privati senza motivo di qualcosa che apparteneva loro: in particolare di «quei privilegi di razza e di genere che hanno caratterizzato a lungo i membri maschili della working class bianca».
IN QUESTO SENSO, la trasformazione demografica del paese, la fine delle tradizionali gerarchie razziali, i «nuovi» diritti acquisiti dalle donne, da gay e lesbiche, come la precarizzazione lavorativa e la perdita di status, sembrano aver prodotto in questa componente tutt’altro che marginale della comunità bianca un senso di ansia e frustrazione che già durante gli anni di Obama si sono espresse attraverso una radicalizzazione politica a destra, poi assecondata da molti dirigenti del Partito repubblicano. Ma che, suggerisce ancora Kimmel, emerge talvolta anche nelle storie personali dei giovani bianchi del ceto medio responsabili di eccidi apparentemente senza senso in scuole e college. Se qualcuno pensava che il portato della candidatura di Trump si sarebbe arrestato, quale ne sia l’esito finale, al voto, ha ora nuovi argomenti per riflettere.
Il Sole 5.11.16
È in Florida la madre di tutte le battaglie
di Marco Valsania

L’ultimo messaggio rivolto ai sostenitori dal senatore Marco Rubio è un appello urgente e allarmato. Chiede a tutti di scendere in campo, di donare soldi e tempo, soprattutto di recarsi alle urne, durante le ultime ore di campagna elettorale in Florida. Invita a votare per il candidato repubblicano alla presidenza Donald Trump, che ora sostiene dopo averlo osteggiato nelle primarie del partito, e anche per lui, che cerca la riconferma di un seggio al Senato, essenziale alla difesa di una maggioranza conservatrice al Congresso. È un appello accorato perché, avverte, «potrebbe avverarsi il disegno di Hillary Clinton di trasformare la Florida in uno stato davvero blu». Blu, cioè, come il colore dei democratici.
I sondaggi danno ragione a Rubio nel mettere in luce la grande incertezza dello scontro nel Sunshine State, lo stato del Sole. Nel sottolineare che la Florida potrebbe, ancora una volta, diventare uno tra gli stati - e forse lo stato - capace di fare e disfare sogni di conquista della Casa Bianca e di Washington, le più recenti inchieste d’opinione mostrano un testa a testa tra Clinton e Trump, con un leggero vantaggio, ma entro i margini di errore, della portabandiera democratica. Un duello altrettanto duro è in corso tra Rubio e lo sfidante democratico al suo seggio Patrick Murphy, ex repubblicano e uomo d’affari passato ai rivali nel 2011 in protesta contro la deriva a destra del partito.
Segno delle mire di entrambi i partiti, sia Clinton che Trump hanno battuto senza sosta lo stato in lungo e in largo in dirittura d’arrivo delle urne. E, eccezione nazionale, la Florida è stata inondata di pubblicità elettorale in un anno in cui Trump aveva spezzato anche questo tabù, evitando di spendere in spot e trainando al ribasso gli abituali budget televisivi: nello stato i due partiti hanno investito 125 milioni in inserzioni per elezioni generali, un record. Senza la Florida vincere per Trump richiede una conquista quasi impossibile della mappa elettorale, dalla Pennsylvania a tutti gli stati incerti e buona parte del Midwest. Per Clinton, conquistare lo stato la metterebbe al riparo da rischi di sconfitte altrove, in regioni un tempo democratiche e ora sensibili al richiamo dell’avversario.
Le elezioni sono in realtà già cominciate da giorni in Florida, grazie alle regole che permettono il voto via posta e anticipato. Ma restano da vedere le cifre finali dell’affluenza alle urne nelle diverse aree di uno stato con vaste differenze interne, venti milioni di abitanti e il terzo Pil del Paese, per poter anche solo valutare le vere chance di vittoria. Clinton conta su una popolazione sempre più multi-etnica, che ha visto l’ingresso di nuovi elettori soprattutto ispanici e di origine portoricana che tendono a votare democratico. La comunità portoricana ormai rivaleggia per dimensioni con la tradizionale comunità cubana, in passato più conservatrice e anch’essa oggi più aperta a consensi progressisti. In vantaggio netto in questo elettorato, un margine rafforzato dalle polemiche sulle posizioni anti-immigrati di Trump, la candidata democratica spera di rafforzare le possibilità di vittoria mobilitando i suoi sostenitori nelle aree urbane di Miami e cercando di affermarsi nel corridoio a maggior crescita economica, lungo l’autostrada Interstate-4.
Questo corridoio che dagli anni Sessanta taglia in due lo stato da Est a Ovest, tra Daytona Beach nei pressi di Orlando e Tampa, ha fama di essere il luogo che “sceglie i presidenti” per la concentrazione di elettori indipendenti, che in tutto lo stato sono un contingente particolarmente elevato, un quarto del totale di oltre 12 milioni. È soprattutto lungo i 212 chilometri del Corridor della I-4 che l’economia della Florida ha recuperato, trainata da costruzioni, immobiliare e retail, da una recessione particolarmente profonda e durata due anni in più rispetto al resto del Paese. Una ripresa che ha ridotto la disoccupazione al 4,7%, una percentuale stabile ormai da maggio. Ed è qui che è stata riversata la metà del budget della pubblicità elettorale nello stato, 60 milioni, per convincere 5,5 milioni di potenziali votanti aumentati del 52% in 16 anni, 2 milioni di democratici, altrettanti repubblicani e 1,5 milioni di non affiliati.
Trump conta invece di contenere le perdite a Miami, battersi alla pari tra gli indipendenti e stravincere nelle roccaforti conservatrici, bianche e disagiate, nel Sudovest e a settentrione. Qui la elevata partecipazione al voto anticipato lo incoraggia. Intensi scontri sono in atto per la fiducia di altre fasce di elettori. Dalla comunità afroamericana, che si era mobilitata per il “suo” presidente, Barack Obama, spingendolo a vincere la Florida di poche decine di migliaia di voti nel 2012 davanti a Mitt Romney, e che potrebbe invece rimanere più sorda a Clinton. Fino al voto ebraico e a quello degli anziani, che della Florida hanno spesso fatto una nuova patria negli anni della pensione.
Ma a tenere alta la suspense è anche e forse anzitutto la lunga storia di elezioni travagliate in Florida. Nel Duemila il duello all’ultimo voto venne risolto soltanto dalla Corte Suprema a vantaggio del repubblicano George W. Bush contro il democratico Al Gore, per 537 schede tra polemiche su voti annullati e nuovi conteggi. Oggi le tecnologie sono spesso cambiate, prevale il voto elettronico e le schede lette da scanner ottici. Ma la Florida, con il suo bottino di 29 Grandi Elettori per la Casa Banca (sui 270 necessari) a pari merito con New York e alle spalle dei 55 della California e dei 38 del Texas, adesso come allora è lo stato “battleground” per eccellenza, terreno di battaglie politiche decisive.
il manifesto 5.11.16
La debolezza delle élite Usa chiama Europa, e l’Italia insegna
di Michele Prospero

Lo spettacolo del duello tra Clinton e Trump rappresenta il processo degenerativo del potere contemporaneo. Anche l’impero è nudo, per la pochezza della catena di comando. I postmoderni regimi monoclasse mostrano una carenza organica nei processi di selezione della leadership e si consolidano i tentativi di imprenditori che tentano l’assalto al pubblico potere senza trovare intralcio.
Una contaminazione pubblico-privato si presenta con regolarità, così come ricorrente è il doping comunicativo che banalizza la competizione per il potere, a conferma che, se considerato su scala comparata, il caso Berlusconi non era poi una pura bizzarria mediterranea.
Accanto alla ibridazione di politica e interessi che vede nel governo una postazione per proseguire l’accumulazione con altri mezzi, e alla riduzione della politica a chiacchiera, si affaccia il familismo amorale di candidati presidenti che sono mogli, figli di precedenti inquilini della Casa Bianca. Un tempo così incerto, che accentua i segni di anarchia nelle relazioni internazionali, con il comandante in capo Obama più volte rimpicciolito dalle mosse tattiche di Putin, vede sgretolarsi la capacità di governo basata sul Washington consensus.
L’altra sponda dell’oceano non pare più rassicurante nel controllare le dinamiche del potere di quanto non appaia la vecchia Europa che è alle prese con un ceto politico ovunque aggredito dalla protesta. Dall’Austria, che annuncia la costruzione di muri e commette errori procedurali pacchiani per la elezione del presidente, alla Francia, che mostra il precipitare dell’Eliseo nella mediocrità, dalle nuove democrazie dell’est in preda a spinte reazionarie al più antico costituzionalismo inglese che disarciona l’apprendista stregone Cameron, tutti i sistemi politici vagano alla ricerca di simulacri di statisti, e devono rassegnarsi alla resa dinanzi al vuoto.
I nuovi ceti politici europei, per non essere da meno a quelli della Casa Bianca, trascurano di «leggere le istorie», si affidano a guru e marketing, e così misconoscono le maniere efficaci per la gestione di organizzazioni complesse di potere. Dinanzi alle emergenze non sanno che decisioni prendere secondo la weberiana dimensione tragica della politica. La pochezza dei ceti politici reclutati in occidente fa risplendere le severe procedure formative e selettive delle classi dirigenti adottate in sistemi illiberali come quello cinese.
Anche la leadership che in terra europea è più forte, quella della Merkel, mostra un deficit di strategia. Gli imperativi assoluti del Berlino consensus impongono agli altri paesi un dominio di pura potenza, senza apertura all’egemonia che prevede strumenti più complessi di direzione. In un momento decadente di elitismo senza grandi élite, il progetto europeo naufraga.
E così la formazione delle classi dirigenti, in un’età del pubblico passivizzato, obbedisce a canoni di superficialità, gioco, fuga. Se il sistema non dispone di altri centri di potere e influenza, cui demandare le scelte più strategiche, o non si avvale della tradizione di governo garantita da una solida amministrazione, il re appare davvero nudo. Il politico cattura la massa di cittadini consumatori con i ritrovati scenografici di una rappresentazione deviante e la capacità di governo evapora.
Con la politica data in appalto alle potenze economiche, che esprimono un politico che recita e gioca, la dittatura del capitale è totale ma anche acefala e priva di ogni capacità di piano. Il capitalismo tende a soffocare la democrazia, a renderla un puro gioco insignificante. Paga a caro prezzo il suo dominio: con l’espulsione del grande nemico comunista, il capitale non dispone di strumenti correttivi. L’anarchia del capitale, che conquista il governo come un angolo di mercato, più il poliziotto, che reprime e sorveglia sui corpi, è lo scenario del tardo capitalismo, che si trova dinanzi a un bivio: rinascita del conflitto di classe o suicidio per la follia intrinseca del mercato.
il manifesto 5.11.16
America ai confini della realtà
di Luca Celada

L’evento che è riuscito a scalzare brevemente la campagna elettorale dall’attenzione nazionale è stata la finale al cardiopalma fra i Cubs di Chicago e gli Indians di Cleveland, un elettrizzante «game seven» finito ai supplementari con la vittoria per un punto della squadra di Chicago, che non vinceva le World Series dal 1908. Ma alla fine anche l’eclatante evento sportivo è stato risucchiato nel vortice politico di questi ultimi giorni convulsi e il baseball non è sfuggito alla forza gravitazionale delle elezioni. Si dà il caso che la settimana scorsa, quando i Cubs erano in svantaggio per 1-3 nella serie al meglio di sette partite, Nate Silver avesse accostato le loro probabilità di rimonta a quelle di un successo elettorale per Donald Trump. Così è riuscito a rovinare la festa a molti tifosi democratici, che accanto al trionfo dei propri beniamini si è trovata poco scaramanticamente preconizzata la vittoria della nemesi politica.
Anche lo stesso Silver, massimo oracolo statistico, con un’invidiabile percentuale di gare azzeccate, d’altronde ammette che la sondaggistica è al massimo una scienza inesatta, tantopiù in questo anno caratterizzato da una «ribellione»” populista ostile a stampa e demoscopisti e ingerenze esterne come quelle di Wikileaks e dell’Fbi.
In assenza di affidabili pronostici il risultato rischia di essere plasmato da paure e emotività – come ben sanno gli stessi strateghi delle campagne. Le ultime bordate di spot elettorali che ingorgano l’etere americano in questi ultimi giorni tralasciano ormai ogni argomento politico a favore di appelli viscerali. Trump batte sulla «corruzione» della avversaria dipinta come donna di casta, fautrice di un potere dinastico predicato su illeciti seriali e patologiche menzogne. Gli appelli di Hillary per la maggiore sono stralci di discorsi ed interviste delle stesso Trump che si esprime su donne, eterodotati, stranieri ed immigranti, montati con controcampi – soprattutto di bambini, che ascoltano le affermazioni con l’espressione di cavie da laboratorio esposte a sostanze tossiche.
I democratici sembrano aver calcolato – probabilmente non a torto – che la migliore motivazione per le rimanenti esigue scorte di elettori indecisi sia la paura e, a poche ore dall’apertura dei seggi, la visualizzazione di una presidenza Trump. La strategia è evidente in un piccolo capolavoro di persuasione «social», il video Youtube per scuotere le schiere di millennial ed ex-sostenitori sanderisti ancora restii a marcare la scheda Clinton. Il filmato di cinque minuti circa è interpretato da James Carville, decano degli advisor democratici, architetto delle vittorie di Bill Clinton negli anni 90 e ospite fisso dei talk show come analista. Nel video, Carville si rivolge ad un gruppo di ragazzi che lo fissano intenti mentre lui dice con aria professoriale di averli convocati per spiegare che le elezioni «hanno conseguenze» precise. «Immaginate di accendere il televisore martedì sera», esordisce Carville col suo forte accento della Louisiana. «Ecco cosa potreste vedere».
Lo one-man show prosegue con una geniale micro-fiction di fantapoliticia degna di un episodio di Black Mirror, un mini sceneggiato in cui Carville interpreta tutte le parti, a partire dal mezzobusto di un edizione speciale delle news….: «Scusate… prego la regia di ripassare la linea allo studio perché abbiamo un notizia appena arrivata …la Cbc è in grado di confermare che stando agli exit poll, Donald J Trump si è aggiudicato l’Ohio. Ripeto: l’Ohio coi suoi 19 voti elettorali vanno ai repubblicani che raggiungono così 271 voti e con questo possiamo proiettare ufficialmente che Donald J Trump sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti…».
Nella diretta immaginaria seguono una serie di collegamenti, con lo stesso Carvile nei panni di se stesso, che non riesce a capacitarsi dell’accaduto ed è costretto ad ammettere che probabilmente i democratici «hanno dato per scontato il risultato e non sono riusciti mobilitare i ragazzi di Sanders». Un altro ‘corrispondente’ (sempre Carville) spiega le prossime tappe che attendono il paese: nomina immediata di un giudice reazionario alla corte suprema che con maggioranza conservatrice abolisce aborto e matrimoni gay. Costituzione di reparti speciali per la deportazione e primi rastrellamenti nei quartieri messicani «entro l’estate». L’immediata sospensione della sanità pubblica e poi sul fronte estero annullamento dei trattati internazionali di commercio e di norme ambientali, a partire dagli accordi di Parigi. Annuncio della fuoriuscita dell’America dalla Nato.
Tutta la distopia di un tiranno autoritario e imprevedibile oscillante fra isolazionismo, militarismo e un neoreaganismo improvvisato.
Dulcis in fundo: Carville imita il corrispondente da Mosca che racconta trafelato della celebrazione di Putin che, acclamato dalla folla nella Piazza Rossa, esulta e annuncia il risorgere di un impero russo, ormai senza più nemici, mentre crollano i mercati internazionali. Chiusura con stacco sulle facce sbigottite dei giovani e conclusione di Carville: auguri per una buona notte! Infine dissolvenza a nero nella speranza che almeno l’angoscia possa indurre gli ultimi americani a votare Hillary.
Il Fatto 5.11.16
Scalfari, Di Battista e le domande carbonio14
di Daniela Ranieri

L’esperimento tentato a Otto e mezzo giovedì, mettere insieme Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e 92 anni di altre cose, e Alessandro Di Battista, il Che Guevara del M5S, è stato a cavallo tra il test di laboratorio di fisica delle particelle e il dibattito alla facoltà di Sociologia di Trento. Come invitare l’intero catalogo Einaudi contro un graphic novel e restare a guardare l’effetto che fa. Esplosione? Repulsione? Incompatibilità? Eccoli, venerato maestro e brillante promessa; in mezzo, ad aleggiare per lo studio, lo spirito del solito stronzo, passaggio inevitabile di tante carriere e fantasma inquieto in cerca di pace. Inizia Scalfari: “È la prima volta che vedo un grillino in carne e ossa”, ed è già Incontri ravvicinati del terzo tipo, col “grillino” che scende dall’astronave talmente pettinato e benvestito che Scalfari deve ricalcolare il percorso dal format “saggio e sincero democratico vs facinoroso estremista plagiato da un comico”. Allora: “Volete fare piazza pulita” (non “rottamare”, che invece senti come suona dolce), “Non fate il bene del prossimo” (non hanno nemmeno abolito l’art. 18). Di Battista attua tutta una sua strategia di programmazione neurolinguistica per sembrare umile e ricettivo, ma Scalfari ha un cruccio: perché invece di entrare nel M5S “non si è messo a favore della classe operaia? ” (come si sa gli operai non votano M5S, gli 8 milioni di voti che ha preso sono tutti di imprenditori, lavoratori di concetto, poeti). E giù di “triangolo produttivo”, Fiat, Di Vittorio. Manca solo la scala mobile. Mentre a casa si sta facendo il Carbonio14 alla domanda di Scalfari e si danno botte al televisore perché riprenda il colore, Di Battista cita l’intervista di Scalfari a Berlinguer sulla questione morale, e qui, improvvisamente, Ionesco: “Poteva scegliere Berlinguer”, fa Scalfari. “Era morto”, fa Di Battista. Esperimento riuscito.
Il Sole 5.11.16
Roma Metropolitane verso il fallimento
Dossier trasporti in Campidoglio. Chiuderà la stazione appaltante del Comune, a rilevarne il ruolo potrebbe essere l’Agenzia della mobilità
Raggi e Meleo: «La Linea C andrà avanti almeno fino ai Fori-Colosseo, poi il nodo-risorse»
di Manuela Perrone

ROMA  Alt alla ricapitalizzazione di Roma Metropolitane. E prosecuzione della linea C sicura soltanto fino alla stazione Fori Imperiali-Colosseo. Poi si vedrà. La maggioranza pentastellata che guida la capitale ha inaugurato ieri la scure sulle partecipate più disastrate, sotto la regìa dell’assessore Massimo Colomban e della titolare dei Trasporti Linda Meleo.
Il consiglio straordinario convocato ad hoc ha approvato con 25 sì e 7 no un ordine del giorno, più volte rivisto durante la seduta fiume, che impegna la giunta e la sindaca Virginia Raggi a «non procedere alla ricapitalizzazione di Roma Metropolitane», nata nel 2005 per progettare e realizzare la rete metropolitana, dalla linea C alle linee B1 e D, ancora agli albori. Proprio sui lavori della linea C - piagati da ritardi, «sperperi vergognosi» e ben 46 varianti - si sono concentrati gli strali di Raggi e Meleo. «Ci siamo trovati una metro - ha sottolineato la sindaca - che, da un costo preventivato di 3 miliardi per 25 chilometri, è arrivata a costare 3,7 miliardi per 19 chilometri. Non solo abbiamo mangiato tutta la somma ma abbiamo speso di più (1,7 miliardi) per due terzi del tracciato, la parte più facile, quasi tutta in superficie. Immaginiamo il costo per la parte successiva». Delle trenta stazioni previste, ne sono state completate 21 al costo record medio di 135 milioni a chilometro (contro i 30 di Madrid e i 65 di Parigi). L’opera, ha assicurato Raggi, «continuerà fino alla stazione Colosseo, magari anticipando la data di apertura del 2021 e poi si ragionerà su come proseguire». Le ha fatto eco Meleo: «Tutti i contratti in essere saranno rispettati. Ci riserviamo del tempo per capire se, come e con quali risorse proseguire. Convocheremo un tavolo con ministero e Regione, co-finanziatori del progetto, per individuare le soluzioni più idonee innanzitutto per evitare che l’Anac e la Corte dei conti possano muovere nuovi rilievi critici». Il danno erariale ipotizzato soltanto per la prima tratta Pantano-Centocelle è di 368 milioni.
La rivisitazione complessiva del trasporto in città sarà comunque contenuta nel Pums, il piano urbano per la mobilità sostenibile al quale si sta lavorando. E il ruolo di stazione appaltante per la linea C potrebbe essere rilevato dall’Agenzia della mobilità. L’esito del voto sull’odg, cui seguirà una delibera, è stato accolto dai lavoratori presenti in Aula con proteste vivaci contro i Cinque Stelle. Che hanno rifiutato la richiesta, arrivata da tutte le opposizioni, di riscrivere l’atto (in cui non compare la parola “liquidazione”) e trovare una formulazione diversa dallo stop alla ricapitalizzazione. Che, secondo Pd, Fdi e Lista Marchini, significa «condannare l’azienda al fallimento» e i suoi 172 lavoratori al «rischio altissimo» di licenziamenti senza possibilità di essere «riassorbiti» da Roma Capitale, come ha denunciato la capogruppo dem Michela Di Biase. Sul futuro dei dipendenti, l’odg si limita a impegnare la giunta ad «avviare un doveroso avvicendamento di quanti risulteranno responsabili, nell’ottica di una piena valorizzazione del personale impiegato» e nei limiti delle norme Madia sulle partecipate. I sindacati, dalla Cgil alla Uil Trasporti, sono sul piede di guerra.
il manifesto 5.11.16
Referendum, anche il rinvio è rinviato
Onida: "Ci potrebbe essere un problema di sospensione e nel caso la Corte costituzionale avrebbe i poteri per disporla"
di Andrea Fabozzi

La Corte costituzionale può sospendere il referendum. Valerio Onida lo aveva scritto nel suo ricorso presentato al tribunale civile di Milano, lo ha argomentato in udienza e lo ha ripetuto ieri a margine di un convegno a Milano. Secondo il giurista, che è stato presidente della Consulta nel 2004, se la giudice milanese Loreta Dorigo dovesse accogliere i dubbi di costituzionalità sul quesito unico – che costringe i cittadini a esprimersi con un solo sì o un solo no sul complesso della riforma – «ci potrebbe essere un problema di sospensione ed eventualmente i poteri li avrebbe la stessa Corte costituzionale».
Allungandosi i tempi della decisione della giudice ordinaria – dieci giorni almeno, è stato comunicato giovedì – questo descritto da Onida resta l’unico scenario ancora in piedi per chi spera nel (o lavora per il) rinvio del referendum. A metà novembre, infatti, se Renzi volesse davvero allontanare le urne del 4 dicembre, potrebbe farlo solo con un blitz: una deliberazione del Consiglio dei ministri e su quella base un nuovo decreto del presidente della Repubblica per fissare la data a fine gennaio e dare tempo alla Consulta di esprimersi sulla costituzionalità della legge 352 del 1970 che disciplina il referendum. La politica, cioè, dovrebbe prendersi la sue responsabilità, come hanno spiegato sempre ieri due degli avvocati protagonisti del primo ricorso contro il quesito unico a Milano (Onida è arrivato dopo e il suo è un procedimento d’urgenza che precede la causa nel merito), Claudio Tani e Aldo Bozzi. «Il referendum non è “appeso a una toga”», hanno scritto, anche in risposta a quei sostenitori del No che, consultati i sondaggi, cominciano a mostrare timori per la «strategia giudiziaria» di attacco alla riforma costituzionale che può risolversi in una dilazione. In ogni caso, hanno spiegato Tani e Bozzi, se il problema del quesito unico sarà portato davanti alla Consulta, sarà il governo a dover «decidere di confermare la data del voto, con potenziale grave lesione del diritto dei cittadini, oppure rinviarlo».
Eppure è davvero molto difficile che il governo vorrà prendersi questa responsabilità. Renzi è stato molto netto nel negare ogni slittamento (seppure in relazione al terremoto) e soprattutto c’è l’intero fronte delle opposizioni all’attacco. Quella del presidente del Consiglio apparirebbe inevitabilmente una fuga (dai sondaggi negativi) e nessun precedente si potrebbe richiamare. Perché gli unici due casi di referendum spostati dalla scadenza legale riguardano referendum abrogativi. E sia nel 1987 (nel passaggio tra il governo Fanfani VI e il governo Goria) sia nel 2009 (governo Berlusconi) il rinvio passò dal parlamento e c’erano ragioni tanto solide da essere accolte anche dalle opposizioni. La soluzione Onida, con l’intervento autonomo della Consulta, toglierebbe palazzo Chigi dall’imbarazzo. Ed è il caso di notare come questo suggerimento ai giudici delle leggi sia l’unico punto di sostanziale differenza tra il ricorso Onida e quello, precedente, di Tani e Bozzi.
Per conoscere l’esito di entrambi bisognerà aspettare la metà di novembre. Sarà allora che verranno a soluzione le ben sei offensive giudiziarie contro il referendum che restano ancora in piedi (tre sono state chiuse). Oltre ai due ricorsi ordinari di Milano di cui si è detto, il 16 novembre si dovrà pronunciare il Tar su tre ricorsi (Onida, Codacons e adesso anche quello del professor Lanchester e del radicale Staderini, che si sono rivolti anche all’Ufficio centrale per il referendum). Ma soprattutto si attende il 15 novembre il giudizio delle Sezioni unite della Cassazione, sollecitate dal Codacons ancora sul quesito referendario, ritenuto ingannevole. È possibile che anche la giudice di Milano stia aspettando questa autorevole decisione.
il manifesto 5.11.16
C’è la Leopolda, cortei vietati. Ma il No disobbedisce
Leopolda. La questura consente solo un presidio, motivi di ordine pubblico. Gli organizzatori: non rinunceremo a manifestare
di Riccardo Chiari

Ancor prima di aprire le porte nella tarda serata di ieri, la “Leopolda del Sì” ha già provocato polemiche. Il divieto della Questura al corteo messo in cantiere da una serie di realtà di movimento, dall’Assemblea per la Piana contro le nocività (No inceneritore) ai No tunnel Tav, ha fatto arrabbiare parecchio le pur variegate forze della sinistra fiorentina: «Viene negata a Firenze la possibilità di manifestare liberamente nei giorni della Leopolda», tira le somme il consigliere comunale Tommaso Grassi di Firenze a sinistra (Sì-Sel, Prc, Perunaltracittà), «una scelta senza precedenti, visto che lo scorso anno era stata data la possibilità ai ’truffati’ dalle banche di arrivare in corteo nei pressi della Leopolda. Possiamo capire che qualcuno possa aver paura delle contestazioni, ma non è ancora stato cancellato il diritto costituzionale di manifestare liberamente».
La decisione di vietare il corteo pomeridiano «per motivi di ordine pubblico», lasciando la sola possibilità di un presidio in Santissima Annunziata a chilometri dalla Leopolda, muove anche le parlamentari Alessia Petraglia e Marisa Nicchi alla denuncia: «Non siamo tra i promotori , ma troviamo scandaloso che sia vietato, di fatto, svolgere un corteo in città perché alla Leopolda ci sono esponenti del governo».
Va da sé che gli organizzatori del corteo, come spiegato nella pagina facebook “Firenze dice No”, non hanno alcuna intenzione di obbedire: «Non rinunceremo sabato 5 novembre a manifestare le tante ragioni che compongono il nostro no al governo e alla sua riforma costituzionale». In piazza San Marco, storico luogo d’avvio dei cortei studenteschi e di movimento, ci sarà fra i tanti anche Paolo Ferrero con la Rifondazione fiorentina, per una manifestazione che si annuncia sicuramente bagnata: l’allerta, addirittura con codice arancione, è stato emesso dal centro funzionale della Regione per l’intero week end.
Al riparo dalla pioggia, la Leopolda “minimal”, così come è stata presentata nei giorni scorsi dallo stesso Matteo Renzi, è stata allestita senza gli effetti speciali delle scorse edizioni: palco più sobrio che in passato; slogan alle pareti meno enfatici del solito, immancabile «E adesso il futuro» su sfondo bianco con pennellate di azzurro e arancio; dolorosa rinuncia alle comparsate musicali modello Jovanotti, e la promessa presidenziale di dare spazio alla “gente normale”.
Ad aprire ieri sera il recuperato Matteo Richetti (a Palazzo Chigi hanno apprezzato le sue apparizioni in tv a sostegno del Sì referendario), che ha anticipato: «Cercheremo di non allontanarci dalla realtà complicata di queste ore». Quindi si parlerà di terremoto, Protezione civile, terzo settore, leggi sociali e volontariato. Anche dell’alluvione di Firenze, di cui ieri cadeva il cinquantenario, con una bella sfilata di angeli del fango. Maria Elena Boschi è in scaletta oggi pomeriggio, domani a mezzogiorno, more solito, toccherà a Renzi, ministri parlamentari e sindaci faranno da coordinatori dei tavoli tematici.
Il Sole 5.11.16
Cuperlo verso il sì ma i bersaniani attaccano
Riforme. L’esponente della minoranza firmerà oggi l’accordo sull’Italicum
Lo stop di Bersani e dei suoi: la legge va cambiata dopo la vittoria del No
Al via la Leopolda con Renzi e Boschi
Speranza organizza un’anti-Leopolda a Lecce
di Emilia Patta

FIRENZE La Leopolda numero 7, la terza del governo Renzi, si apre a Firenze con le parole del renziano della prima ora Matteo Richetti, vecchio compagno di strada ritrovato dopo mesi di freddezza grazie al suo impegno in favore del Sì alla riforma Boschi. E anche se il tema del terremoto nel Centro Italia e della difficile ricostruzione è al centro di questa prima serata nella vecchia stazione ottocentesca divenuta negli anni il simbolo del renzismo, è naturalmente il referendum sulla riforma del Senato e del Titolo V ad essere il vero protagonista. E mai come quest’anno la Leopolda si tiene con un Pd diviso nelle piazze: proprio mentre Richetti apre i lavori dal palco, Roberto Speranza manda le foto della sua iniziativa a Foggia, assieme al governatore anti-Renzi Michele Emiliano, in favore del No. L’anti-Leopolda, la chiama l’ex presidente del gruppo Pd e leader si Sinistra riformista.
Eppure la notizia viaggia ancora sotto traccia, in questa prima serata leopoldina: la commissione interna al Pd incaricata dallo stesso Matteo Renzi di trovare la quadra sulle promesse modifiche all’Italicum in modo da togliere dal tavolo della campagna referendaria il famoso “combinato disposto” ha chiuso positivamente i suoi lavori. E Gianni Cuperlo - il rappresentante della minoranza (anche di quella bersaniana) che ha partecipato in queste settimane alla trattativa con Lorenzo Guerini, Matteo Orfini e i capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda – è pronto allo strappo con Pier Luigi Bersani. Stamattina arriverà con ogni probabilità la sua firma al documento messo nero su bianco dalla commissione, e quindi arriverà anche il suo pronunciamento per il Sì al referendum.
Qualche ora in più è stata presa sia da Cuperlo per fare un ultimo disperato tentativo di convincere i bersaniani ormai sulla strada del No, e anche dallo stesso Renzi che vuole valutare bene tutti i pro e i contro del passaggio politico. Perché Cuperlo, rispetto alla bozza che abbiamo descritto ieri su queste colonne, ha ottenuto qualcosa di importante: sono sparite tutte le forme ipotetiche, e dunque il Pd non si limita a «valutare l’ipotesi» di eliminare il ballottaggio ma si esprime in favore dell’eliminazione del ballottaggio «purché» sostituito da un sistema che «garantisca» comunque «la governabilità». E così per gli altri punti: sì senza periodo ipotetico all’introduzione del premio alla coalizione invece che alla lista e sì alla soluzione dei collegi per eliminare i tanto criticati capilista bloccati. Quanto alla vidimazione da parte almeno della direzione del Pd (inizialmente Cuperlo chiedeva la presentazione di un Ddl in Commissione), ci sarà solo dopo il referendum. Per la minoranza bersaniana, a partire da Speranza, è solo un accordo scritto sull’acqua, e che comunque verrà utile dopo l’auspicata vittoria del No come base di partenza per rifare la legge elettorale.
Le posizioni non potrebbero essere più distanti: la minoranza bersaniana ha ormai scelto la strada del referendum per indebolire Renzi e la sua leadership nel partito, mentre Cuperlo – pur con tutti i tormenti personali – crede che la bocciatura della riforma costituzionale voluta dal Pd (e a onore del vero votata in tutti i suoi passaggi anche dalla minoranza, compreso Bersani) potrebbe essere altrettanto devastante del ribaltone del 1998, quello con cui D’Alema sostituì Prodi a Palazzo Chigi: gli elettori del Pd, che secondo i sondaggi sono nella stragrande maggioranza a favore della riforma Boschi, non capirebbero come non capirono allora allontanandosi dal partito. Altro che riconquista della “ditta”.
Dal momento che Renzi sembra propenso ad accettare tutte le modifiche proposte nel tempo dalla minoranza, il sì di Cuperlo avrebbe un senso proprio e soprattutto il senso di far risaltare le contraddizioni di chi è rimasto fuori. «Voglio vedere poi Bersani e Speranza che dicono, come giustificano il loro No al referendum», ripete il premier e segretario del Pd ai suoi in queste ore. Ma il si ufficiale arriverà solo questa mattina. E, si sa, le notti portano sempre consiglio, buono o cattivo che sia.
La Stampa 5.11.16
Jostein Gaarder, l’autore di “Il mondo di Sofia”
“Siamo soli nonostante i social. L’unico conforto è ascoltare una bella storia
La youtuber-scrittrice incontra il suo “maestro”: a ruota libera su scrittura, web, e “Il mondo di Sofia”
intervista di Sofia Viscardi

Esistono scrittori con i quali si ha un legame particolare e io ho avuto l’opportunità di parlare con uno dei miei: Jostein Gaarder. E così, in occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo,
Il consolatore, mi sono tolta qualche curiosità su uno dei miei libri preferiti da sempre, Il mondo di Sofia, che ha ispirato e continua a ispirare generazioni di teenager, me compresa. Letto al momento giusto è uno di quei libri capaci di allargare in modo repentino i tuoi orizzonti, una volta finito riesci ad avere uno sguardo nuovo e a pensare in modo diverso da come eri abituato.
Mister Gaarder, quando ha scritto il libro, aveva già in mente questa funzione quasi «didattica»? Si rivolgeva volontariamente ai ragazzi che si stanno formando?
«Quando mi mettevo davanti alla tastiera mi dicevo: “Scrivo per un pubblico doppio: per gli adulti e per i teenager”».
Il mondo di Sofia inizia con due domande rivolte alla protagonista: «Chi sei tu? Da dove viene il mondo?». Sono dilemmi universali che credo si pongano tutti gli esseri umani. Quanto sono cambiate le sue risposte a queste domande dal 1991, anno in cui è stato scritto il libro, ad oggi?
«Sicuramente oggi, a 64 anni, conosco me stesso più a fondo rispetto a 25 anni fa. Inoltre, ho lavorato a lungo per migliorare i miei strumenti di lettura dell’universo e del mondo in cui vivo grazie allo studio dell’astrofisica e dell’astronomia. Ho sviluppato una comprensione più profonda di ciò che mi circonda. Le domande rimangono le stesse, ma sono in grado di comprenderle meglio».
Secondo lei la filosofia ci può aiutare a trovare nuovi approcci? È possibile trasformare quelle domande in una maniera più «moderna»?
«“Chi siamo? Da dove viene il mondo? Esiste Dio” sono domande la cui importanza è rimasta immutata. Ma ciò non significa che la filosofia debba riflettere sempre e soltanto su queste questioni. Ci sono domande che alcuni filosofi contemporanei, e non solo loro, hanno cominciato a porsi e sono ugualmente importanti, ad esempio: “Come possiamo preservare la nostra vita sulla terra? Come possiamo salvare il nostro pianeta?”. Sono interrogativi rilevanti di cui stiamo acquistando una consapevolezza sempre più diffusa. Oserei dire che sono diventati prioritari per l’intera umanità».
Io ho scritto un romanzo, «Succede», una storia che parla della mia generazione. Per me è stata una sfida raccontare qualcosa in un modo diverso rispetto a quello, molto più familiare, del web. Ora, dato che ho ancora molto da imparare, avrei voglia di misurarmi con qualcosa di nuovo, studiare nuove tematiche. Lei ha scritto moltissimo dopo «Il mondo di Sofia»: in che modo l’enorme successo ha cambiato, se lo ha fatto, il suo approccio alla scrittura e quanto?
«Beh.. Quando ho scritto “Il mondo di Sofia” mi immaginavo un pubblico di lettori ristretto, non avrei mai pensato che potesse trasformarsi in un successo mondiale. Mentre altri miei libri che pensavo fossero più “facili” per il vasto pubblico, al contrario, non sono diventati bestseller. Questo significa non solo che è quasi impossibile prevedere l’accoglienza che le nostre parole riceveranno, ma anche che uno scrittore non deve pensare ad altro che a scrivere, seguire la sua ispirazione. Le storie mi nascono dentro, non faccio altro che ascoltarle e tradurle in scrittura».
C’è un argomento su cui vorrebbe continuare a scrivere perché lo sente ancora come non esplorato?
«Sì, e sono proprio gli argomenti di “ecologia planetaria” che le citavo prima. Salvare il mondo nel quale viviamo e che stiamo uccidendo con comportamenti scellerati è un obbligo civile, morale, e in fondo anche estetico. Sono temi che ho affrontato nel Mondo di Anna, altro libro conosciuto dal pubblico italiano. L’ho scritto ubbidendo a una specie di necessità, come Il mondo di Sofia, per una causa. Non mi era mai capitato, prima scrivevo romanzi solo per divertire il lettore e me stesso».
Nel mio romanzo una delle principali ispirazioni è stata la città in cui abito, Milano. Nel suo,Il consolatore, mi è sembrato di vivere un pezzo di Norvegia. Quanto sono stati determinanti nel mood della storia il suo Paese, i paesaggi e la gente norvegese?
«Penso che questo sia il libro più propriamente norvegese che abbia mai scritto. Sono stato molto ispirato dalla Norvegia, dai paesaggi ma soprattutto dalla lingua. Le confesso che quasi tutti i posti descritti esistono realmente nel mio paese, ai quali mi sento molto attaccato».
Una delle cose che mi ha affascinato di più di questo libro è ovviamente la figura del protagonista: non solo il fatto che si rechi ai funerali degli sconosciuti, che già di per se è davvero intrigante, ma anche che si intrattenga con gli altri partecipanti inventandosi finti ricordi con il defunto e nel frattempo ci sveli la sua passione per la linguistica. L’impressione è che in questo libro lei provi a restituire un enorme peso alle parole. Crede che anche nella società attuale questa considerazione possa essere apprezzata?
«Credo che dare peso e storia alle parole dimostri come le persone e le lingue siano tutte legate tra loro. Facciamo un piccolo esercizio: se prendiamo la parola italiana “giardino” è la stessa del mio cognome “gaarder”. Jakop, l’uomo di cui scrivo, è interessato alle diverse etimologie delle parole all’interno delle lingue indoeuropee. Le parole di voi italiani sono legate alle lingue germaniche, slave, indiane. Le lingue che parliamo ci ricordano che gli esseri umani sono imparentati in modo più profondo di quanto la politica, la storia, le guerre, ci vogliono far credere».
La storia di Jakop, il protagonista, è stata influenzata in qualche modo dalla sua vita?
«Io e Jakop abbiamo molte cose in comune. Prima di tutto ha la mia stessa età, dunque il suo rapporto con la società è uguale al mio. Inoltre proviene da una vallata norvegese nella quale c’è la nostra baita di famiglia, conosco alla perfezione quell’ambiente, quell’atmosfera, l’ho respirata da quando ero bambino. Jakop però è anche diverso da me: è una persona molto sola, mentre io non lo sono affatto, anche se sono capace di comprendere certi aspetti della solitudine che lui prova. Perchè tutti gli esseri umani in fin dei conti sono “soli”: nasciamo nudi e ce ne andiamo uno alla volta. C’è però una differenza sostanziale nell’essere soli e nel sentirsi soli. In inglese esistono due parole: “Solitude” e “Loneliness”, ed esprimono due sfumature diverse della solitudine, una come “scelta”, l’altra “come stato d’animo”. Jakop sceglie la “solitude”. Ma la “loneliness” è una condizione che tutti gli uomini, me compreso, affrontano».
Ho fatto un giro su internet e ho notato che non usa i social network: posso chiederle come mai?
«Oh, i social network! Sì, è vero. Assolutamente non uso Facebook, Instagram o cose del genere. Non ne sento il bisogno e penso che ci rubino troppa attenzione senza che ce ne accorgiamo. È come guardare la televisione: lì per lì può essere una bella esperienza, ma quando ti rendi conto della quantità di tempo che ti sottrae... rischiamo di diventare come un vecchio alcolista che diceva: “Un tempo bevevo dalla bottiglia ma ora è la bottiglia che beve da me”. E questo perché il vino è buono ma berne troppo ti toglie molto più di quanto non possa darti. Capita la metafora? Però uso moltissimo le mail».
Quindi è con le mail che si tiene in contatto con il pubblico?
«Esatto. Prima non avevo internet e ricevevo moltissime lettere. Ora sono “connesso”. E il dialogo passa attraverso le mail. Non c’è più il piacere di aprire la vecchia, amatissima, busta di carta e scoprirne il contenuto segreto. Ma dialogare con i lettori è piacevole. Vitale, direi, per non sprofondare nella “solitude”».
La Stampa TuttoLibri 5.11.16
“Vi porto nel mondo degli schiavi dove erano le donne a ribellarsi”
La cospirazione di una bambina nera dagli occhi verdi e delle sue compagne contro violenze e stupri dei padroni nelle piantagioni della Giamaica
intervista di di Giuseppe Culicchia

Marlon James, giamaicano, già autore dell’imponente e acclamato Breve storia di sette omicidi, torna in libreria in Italia ancora per i tipi di Frassinelli con Le donne della notte
(traduzione di Paola D’Accardi), romanzo epico che prende le mosse dalla nascita in una piantagione di canna da zucchero alla fine dell’Ottocento di Lilith, una bambina negra colpevole di essere venuta al mondo con due occhi verdi capaci di illuminare la notte. Le donne che assistono al parto tremano letteralmente di paura, e da subito Lilith viene emarginata. Schiava tra gli schiavi, è ultima tra gli ultimi: quei suoi occhi dicono che in realtà è figlia di un bianco, e dunque di uno di quei padroni razzisti, violenti e sadici che incarnano l’orrore sulla Terra. Uno di questi, Jack Wilkins, è il sovrintendente della piantagione, ovvero di quel campo di concentramento ante litteram, e ha i suoi kapò, negri chiamati johnny-jumper che a colpi di frusta spronano i loro simili sulla via della produttività per arricchire la Montpelier Estate. E dato che nessuno vuole prendersi cura della neonata, Wilkins deve ordinare a una schiava di farsi carico della piccola. Così, Lilith cresce a modo suo, di fatto isolata dal resto dei dannati che tra fatica e torture accrescono le fortune dei bianchi, fino a che un giorno non s’imbatte nelle «Donne della Notte»: un gruppo di schiave decise a ribellarsi una volta per tutte e liberarsi da una vita fatta di lavoro forzato, punizioni corporali, stenti, stupri. Ma lei si reputa superiore a quelle schiave ribelli. Dopotutto i suoi occhi dicono che nelle sue vene scorre il sangue dei padroni. E cresciuta com’è in quel clima di violenza e soprusi ed esclusione, porta dentro di sé una ferocia insospettabile. Tra gelosie, cospirazioni, segreti, Lilith da voce «all’inesprimibile e all’impensabile», come ha scritto la
New York Times Book Review. E Marlon James, nato a Kingston nel 1970, professore di letteratura e scrittura creativa a St. Paul, Minnesota, riesce a portare a termine un’impresa come sappiamo assai difficile, ovvero a scrivere un secondo romanzo che non delude le aspettative suscitate dal primo.
Mr. James, le è riuscita un’impresa non facile dopo un libro di successo come «Breve storia di sette omicidi»: scrivere un romanzo assai diverso dal precedente senza farsi condizionare dalle aspettative dei lettori e della critica. Da dove nasce l’idea di «Le donne della notte»?
«In realtà ho iniziato a scrivere un romanzo che aveva per protagonisti dei rapinatori di banche giamaicani. Sono andato avanti per un po’, ma a un tratto ho capito che non era quella la storia che avevo urgenza di scrivere. Volevo scrivere un libro che raccontasse l’epoca dello schiavismo in Giamaica. Così ho messo da parte le pagine a cui avevo cominciato a lavorare, e mi sono tuffato in questa nuova avventura. In principio non sapevo nemmeno che Lilith sarebbe stata la protagonista, ma poco per volta il suo personaggio ha preso il sopravvento».
Come si è calato nella voce di una ragazzina cresciuta in una piantagione all’epoca dello schiavismo? A me ha ricordato per certi versi quella di Huck Finn.
«Ah, Le avventure di Huckleberry Finn è uno di quei romanzi che mi hanno davvero segnato: avevo quindici anni quando l’ho letto per la prima volta e ho scoperto che esistevano libri scritti in un inglese che non era quello standard che ci insegnavano a scuola, ma una lingua piena di parole gergali, presa letteralmente dalla strada. Da parte mia sono cresciuto tra ragazzi che parlavano quel broken English che mi ha aiutato a ricreare sulla pagina la voce di Lilith. In realtà la difficoltà maggiore non è stata sintonizzarmi con lei, ma raccogliere il maggior numero di informazioni sul suo mondo. Ho fatto un mucchio di ricerche sullo schiavismo, sul colonialismo, sulla condizione femminile all’epoca in cui si svolge la vicenda».
Quello schiavismo ottocentesco, oggi musealizzato, per certi versi sembra riaffacciarsi nella nostra contemporaneità ultra-liberista.
«Sì, gli abiti a poco prezzo che indossiamo sono prodotti in paesi come il Bangladesh da minorenni che vivono in condizioni di semi-schiavitù. Credo che il nostro sia un problema di domanda e di offerta, e naturalmente di costi e ricavi: c’è bisogno di una manodopera in grado di produrre a ritmi forsennati grandi quantità di capi di vestiario o di componenti per i nostri gingilli tecnologici, e per una paga da fame. Ma lo schiavismo era già praticato al tempo degli antichi Romani».
In Lilith, nata schiava ma con gli occhi verdi, c’è a un certo momento un sentimento di superiorità nei confronti dei suoi simili. Come se in un certo modo fosse stata contagiata dai bianchi.
«Il razzismo è uno stato mentale. Prima dell’arrivo dei bianchi, in Africa non esisteva. Credo si stato l’uomo bianco a inventare il razzismo».
E però, all’interno di un romanzo che ha pagine assai dure, segnate dalla violenza che si respira nella piantagione, c’è anche una storia d’amore.
«Sì. Quando sono arrivato a quel punto, per un istante mi sono detto che c’era il rischio di cadere nel sentimentalismo. E però la storia di Lilith mi spingeva lì. Ho deciso di affrontare il rischio».
Lilith è una vera forza della natura. Questa sua caratteristica ha qualcosa a che fare col fatto che appartiene al genere femminile?
«No, non penso. Lilith è allo stesso tempo molto forte in certi passaggi, capace di affermare la sua indipendenza, e tuttavia anche fragile in altri. In questi casi viene aiutata dalle sue compagne di schiavitù: la solidarietà scatta nel momento in cui si tratta di lottare per sopravvivere».
In una sua intervista, rilasciata all’uscita di «Breve storia di sette omicidi», ha dichiarato che per scrivere quel romanzo su un gruppo di uomini decisi ad assassinare Bob Marley era stato influenzato da autori com Faulkner e Bolano, ma anche Talese e Pahmuk. Sono questi i suoi modelli letterari?
«Beh, se devo pensare a dei veri modelli allora penso agli autori con cui sono cresciuto: il già citato Mark Twain, e con lui Jane Austen, e William Wordsworth, e Shakespeare. Li ho letti molto prima di capire che nella vita volevo scrivere, ma mi hanno formato. E mi hanno aiutato a fuggire dalla realtà quotidiana in cui vivevo. Ma tra le mie fonti di ispirazione ci sono l’hip hop e i fumetti, e la letteratura africana. Tutte queste cose mescolate hanno contribuito a fare di me quello che sono. E poi già che ci siamo citerei Bob Dylan: sono felice che abbia vinto il Nobel».
Che libro ha ora sul comodino?
«Sto leggendo War Music, un libro straordinario di Christopehr Logue, un poeta che ha deciso di avventurarsi con le sue parole nell’Iliade di Omero E’ un testo uscito nel 1987, che ho scoperto solo ora. Logue è scomparso nel 2011, e per me si è trattato di una vera rivelazione».
La Stampa 5.11.16
Marco Paolini
“La tragedia è parte della nostra identità ma la gente ormai vuole solo ridere”
L’autore portabandiera del teatro di denuncia: “Il mio modello? Paolo Poli, non Dario Fo”
intervista di Fulvia Caprara

Il tono schivo da teatrante impervio, con l’espressione pensosa e le rughe sulla fronte come solchi sulla corteccia di un albero, è mitigata da continui colpi di tosse. L’influenza colpisce ancora, e perfino Marco Paolini, autore, attore e regista nato a Belluno nel ’56, portabandiera del teatro politico di strada e di denuncia, appare un po’ più fragile. Impetuoso e ipnotico come sempre, ma con un sospetto di vulnerabilità che ne accresce il carisma.
Questione di contrasti. Come quello che salta agli occhi nella sua ultima prova cinematografica, il film dell’esordiente Marco Segato La pelle dell’orso (tratto dal romanzo omonimo di Matteo Righetto) in cui Paolini, di mestiere affabulatore, interpreta Pietro, «uomo più di mani che di parole», consumato, nel cuore delle Dolomiti Anni 50, dalla solitudine, dal vino e dalla caccia a un orso feroce.
Il suo lavoro in palcoscenico si basa sull’uso delle parole. Come è riuscito a calarsi nei panni di un personaggio che ne farebbe quasi a meno?
«Si fa si fa... In questo caso tutta la mia esperienza teatrale non mi è servita a niente. Mi sono ispirato all’orso, d’altra parte sono il primo della mia famiglia a non fare un mestiere che richieda l’uso delle mani. Tutti i miei antenati erano dediti al lavoro manuale: mio padre ferroviere, altri parenti commercianti di legname, anch’io, in fondo, sono un manovale dell’era digitale, il mio approccio alle cose è sempre materico».
Nella storia Pietro è un genitore perduto e ritrovato. Le è capitato, interpretandolo, di ripensare a suo padre, al vostro legame?
«Mio padre, che persona straordinaria. Quando, al quarto anno di università, gli ho detto che volevo fare teatro non ha battuto ciglio, mi ha risposto “se questa è la tua strada, seguila”. Nel suo ambiente era importante dire che suo figlio frequentava l’università, risultava più difficile spiegare che, a un certo punto, aveva deciso di fare l’attore».
E poi come è andata?
«L’occasione vera di riscatto è arrivata quando è stato trasmesso in tv lo spettacolo sul Vajont. Allora, finalmente, tutti hanno capito che lavoro si era messo a fare il figlio del ferroviere».
Della sua biografia artistica fa parte Dario Fo. È stato un suo modello?
«Rifarsi a lui sarebbe stato come compiere una sorta di plagio. Ogni spettatore ha un debito nei suoi confronti, tra Fo e il suo pubblico c’era una sintonia poetica. Ma come attore io non mi sento in debito. Anzi. Guai a partire da lì, come voler fare il cantante partendo da Bruce Springsteen. Se devo partire da qualcuno, dico Paolo Poli».
Molti dei suoi spettacoli, e ora anche il film di Segato, hanno la natura come personaggio principale. Lei che rapporto ha con questo co-protagonista?
«Non vesto “outdoor” e non sono l’uomo dei boschi, però vado in montagna, mi arrampico, faccio le ferrate. La mia relazione con la natura non si può vendere, è una cosa che tengo per me. Ogni volta che mi ritrovo in certi luoghi mi lascio guidare e l’insieme dei sentimenti che sento affiorare è enorme».
La natura può incutere anche tanta paura. Le è capitato di sentirsi sovrastato, intimorito?
«La paura, quando arriva, deve trasformarsi in senso di responsabilità e autocontrollo, bisogna conoscere i propri limiti, non farsi prendere dalla vertigine. So che certe volte, in montagna, bisogna tornare indietro. Quelli che muoiono sulle vette sono quasi sempre quelli che sanno bene cosa fare, poi però c’è l’imponderabile, e allora non si può nulla. Un adulto certe cose deve saperle, sui monti, ma anche altrove».
Detto da lei, che è uomo di sfide per antonomasia...
«Le sfide si possono affrontare, ma sapendo bene dove mettersi. L’età anagrafica, per esempio, ti impone dei limiti. L’Amleto a Gerusalemme fatto con Vacis, ecco, quella è una sfida importante».
Ha ancora senso, nell’Italia di oggi, il suo teatro di denuncia?
«Il problema è che in Italia le autocensure sono più potenti delle censure vere e proprie. Il rischio maggiore di quel tipo di teatro non sta nelle querele, ma nel fatto che, se continui a praticarlo, puoi morire di fame. Il punto non sta nella mazzata del potere che ti mette in prigione, ma nella domanda di fondo: “Quanto gliene frega alla gente di quello che fai?”, “Quanti sono disposti a pagare per piangere invece di ridere?”. Comunque non mi sento solo, anzi, da noi il teatro di memoria è più presente che in altre comunità europee».
Lo spettacolo sul Vajont è stato un enorme successo.
«Eppure il nostro resta un Paese che si identifica con la commedia all’italiana. Io stesso sono un ammiratore di Crozza, però non sono d’accordo con chi pensa che il genere comico svolga una funzione molto più importante di quello drammatico. Con il Vajont ho capito che la tragedia fa parte della nostra identità. E poi basta pensare alla Traviata, a Rigoletto, alla Forza del destino, opere che hanno fatto l’unità d’Italia. Vedendole si piangeva, e si usciva dal teatro con la voglia di vivere meglio la propria vita. Mi torna in mente anche La grande guerra, un film pazzesco, ti diverti per tutto il tempo e alla fine capisci di aver visto un dramma».
NellaPelle dell’orsoc’è una donna, Sara (Lucia Mascino), che se ne va da sola in giro per i monti. Negli Anni 50. La forza femminile non è mai stata abbastanza raccontata, ma esisteva, anche allora.
«Di donne forti ce sono state un sacco, da Tina Merlin, la giornalista che raccontò il Vajont, a Tina Anselmi, che ho conosciuto, e che considero una figura eccezionale del Novecento italiano. Ma ce ne sono tante altre, nel campo della ricerca e anche del cinema».
Non ha mai desiderato di passare dietro la macchina da presa?
«No, non ho attitudine al comando, e non avverto il fascino dell’opera filmica dal punto di vista della tecnica, che ne è un aspetto importante. Preferisco lavorare con un’altra materia. Quella dei corpi, e delle parole».
Corriere 5.11.16
Il dilemma sunnita e le incognite del «dopo»
di Lorenzo Cremonesi

La battaglia per Mosul e la sconfitta dell’Isis potrebbero diventare la base di lancio per la ricostruzione di un Iraq pacificato, sovrano e unito; oppure rivelarsi un fallimento con il trionfo del settarismo. Il dilemma è aperto: riuscirà il premier sciita Haider al Ebadi a reintegrare la minoranza sunnita nella gestione dello Stato e nella società civile?
Il pessimismo è giustificato. Troppi gli interessi in campo e le forze straniere coinvolte. Tanto dipende dalla buona sorte, ma soprattutto dalla volontà del governo centrale di superare una volta per tutte lo scoglio della marginalizzazione dei sunniti. Un problema esploso dopo l’invasione americana del 2003, seguita dalla defenestrazione della dittatura baathista del sunnita Saddam Hussein e quindi accresciuto dalla politica antisunnita imposta dall’ex premier al Maliki sino al 2014. Una politica suicida, che ha facilitato il radicamento di Al Qaeda, fomentato la guerra civile, il terrorismo e l’adesione di larga parte delle masse sunnite all’Isis. Al Ebadi sembra aver imparato la lezione. Anche grazie alle pressioni Usa, le unità migliori che attaccano Mosul si presentano come «non settarie». Promettono che impediranno a ogni costo le angherie ai danni dei sunniti che hanno caratterizzato le battaglie di Tikrit, Ramadi e Falluja. Eppure, le tradizionali milizie sciite restano sul campo. Seguendo la Nona divisione blindata presso Qaraqosh, che si presenta come super partes, abbiamo verificato che la stragrande maggioranza dei suoi soldati sono sciiti, tanti originari di Bassora, Karbala e Najaf. Su gipponi e tank hanno le bandiere con le immagini di Hussein e Alì, gli imam venerati degli sciiti. Più le sventoleranno, più la popolazione di Mosul, pure esasperata dal fanatismo Isis, li vedrà come invasori.
Repubblica 5.11.16
Wanda pigliatutto Anche Miss America e il Golden Globe diventano cinesi
Il gruppo di Pechino compra Dick Clark Operazione da un miliardo di dollari
di Angelo Aquaro

PECHINO. Miss America ha già un nome e il suo nome è Wanda. Solo che Wanda è cinese e di americano non ha più niente tranne l’indirizzo: Michigan Avenue, Atlantic City, New Jersey. Addio ai sogni sexy lunghi quasi un secolo di fantasie yankee. Addio anche al mito tutto americano dei Golden Globe, l’anticamera degli Oscar, e pure e degli American Music Awards: anche loro finiti nelle braccia di miss Wanda insieme con l’intera, o quasi, Dick Clark Productions. E anche qui: è un altro piccolo grande pezzo della storia dell’Occidente che viene rapito a Oriente. Perché Dick Clark è stato il presentatore da leggenda della tv americana, l’uomo che lanciò sul piccolo schermo da Tina Turner ai Talking Heads. Fu lui, disse Paul Anka, il cantore di “Diana”, a inventare la “youth culture”, la cultura giovanile.
Ed è per questo che il miliardo in dollari che Wang Jianlin, l’uomo più ricco di Cina, ha messo sul piatto di Eldridge Industries più che di un buon affare ha il sapore di un’offerta che non si può rifiutare: prendere o prendere. Un atto di guerra: per di più combattuto con le armi di distruzioni di massa. Solo tre anni fa la stessa Dick Clark era stata acquistata dal fondo Guggenheim per 380 milioni di dollari. Oggi trasloca per un prezzo quasi tre volte tanto. Senza considerare che fuori dal deal restano ancora due gioiellini targati come Billboard e The Hollywood Reporter, cioè la bibbia rispettivamente di musica e cinema: fino a quando a piede libero?
L’amministratore delegato Allen Shapiro e il presidente Michael Mahan non potevano che benedire l’affare: «Abbiamo fiducia nel nostro piano di sviluppo e Wanda condivide la nostra visione e il nostro entusiasmo». E come no. Wanda già condivide un bel po’ delle visioni del popolo americano: nel senso che possiede la catena cinematografica Amc e una bella stecca di una società che non per niente si chiama Legendary Pictures e ha prodotto cultissimi tipo Godzilla e Jurassic World. Normale che laggiù al Congresso Usa qualcuno cominci a chiedersi se lo shopping cinese nei media non metta a rischio la sicurezza nazionale. Del resto lo shopping orientale negli Stati Uniti non accenna a fermarsi.
Mister Wang, dall’alto dei 32 miliardi di valore che gli assegna Forbes, costruiti prima grazie all’edilizia e poi alle avventure nei media, è imprenditore più che accorto, e poche settimane fa ha avuto anche il coraggio di alzare la voce sottolineando al governo i rischi della bolla immobiliare. Però è un anche un membro ascoltatissimo del comitato centrale del partito comunista cinese e la sua fortuna è schizzata nel giro di una decina d’anni da quando alle sue spalle sono apparsi un paio di investitori riconducibili al potentissimo Politburo: o così almeno ha ricostruito il New York Times mica per caso costretto a sloggiare da Pechino.
Anche per ingraziarsi gli americani adesso il signore di Wanda ha invitato le major a venire a girare in Cina: a prezzi ovviamente da offerta. E chissà che ne sarà dell’ultima produzione Legendary Pictures, quella “Grande Muraglia” con Matt Damon accusato qui di impersonare il solito colonialista bianco. Sì, in quel miliardo staccato per Dick Clark c’è molto di più che il senso per gli affari.
Dopo aver comprato i diritti di mezzo sport attraverso Infront, oggi Wanda completa la conquista del nostro immaginario. Per la cronaca, è sempre il solito mister Wang ad aver lanciato l’attacco al più rappresentativo dei loghi d’America, Walt Disney, aprendo in Cina una serie di città dell’intrattenimento. E indovinate chi ha chiamato a dirigere i suoi parchi da divertimento? L’ex capo di Disneyworld. Altro che Miss America: Miss Wanda sì che sa come far girare la testa all’Occidente.
Repubblica 5.11.16
Franzen: “Io sto con Hillary ma ci sarà una guerra civile”
I timori dello scrittore di fronte all’avanzata del tycoon: “Incita alla violenza come faceva Hitler”
intervista di Wieland Freund

Jonathan Franzen, 57 anni, è uno dei principali scrittori americani contemporanei Nel 2002 con “Le correzioni” ha vinto il prestigioso National book award. Il suo ultimo libro è “Purity” (Einaudi 2016)

L’otto novembre si vota. Abbiamo alle spalle un anno di campagna con protagonista Trump. Come è stato per Lei?
«La campagna mi ha disgustato. Mi sono autoinflitto la tortura di seguire il secondo dibattito presidenziale e dopo avevo la sensazione che mi avessero puntato contro un idrante spruzzandomi addosso acqua di fogna per un’ora e mezza. Sono nauseato dalla quantità delle infami menzogne di Trump. E ora, dopo il disgustoso comportamento del direttore dell’FBI sono terrorizzato e nauseato al pensiero che Trump trovi il modo di vincere».
Trump ha attirato tutta l’attenzione.
Sorprende che invece si parli pochissimo del fatto che, stando ai sondaggi, l’America sarà governata da una donna. Come mai?
«Non sappiamo cosa succederà, ma io penso che sia arrivato il momento di un presidente donna, come era arrivato il momento di un presidente afroamericano. Molte delle mie amiche più anziane sono entusiaste di Hillary perché è donna. Se Hillary non riscuote un favore più universale è perché non rappresenta solo un genere — rappresenta i Clinton, e agli occhi di molti americani è più una Clinton che una donna. Si ha la sensazione che non sia arrivata in alto con le sue sole forze e per questo le femministe fanno fatica a tifare per lei».
Quando Hillary Clinton si è sentita male non ho potuto fare a meno di ricordare una frase che ha detto 8 anni fa, durante le primarie: “Nessuno dice che Obama non è adatto al ruolo perché è nero, ma si sente ancora dire che una donna alla presidenza non è una buona idea”. E’ così ancora oggi?
«Sono solo i sostenitori di Trump a dirlo. Il nucleo del suo elettorato è rappresentato da uomini bianchi non laureati, ossia proprio la fascia demografica che nutre una visione più tradizionale dei ruoli di genere. Se il tuo posto di lavoro è a rischio, il tuo reddito in calo, se ti senti sempre più una minoranza in un Paese un tempo bianco, tendi a compensare facendo uno sfoggio esagerato di virilità. Per questo tipo di americano la misoginia di Trump, i suoi abusi sulle donne non sono colpe. Sono virtù positive».
All’epoca ha vinto Obama. Gli ha fatto leggere in anteprima il suo romanzo “Libertà” e lui l’ha invitata alla Casa Bianca. Che ricordo avrà di lui?
«Non dimenticherò mai la facilità di dialogo. Avevamo a disposizione solo venti minuti ma dopo avrei voluto che il colloquio fosse durato cinque ore. Non approvo tutto quello che ha fatto, ma sono certo che nella mia vita non avrò più occasione di vedere un altro presidente così compatibile con me sotto il profilo sia culturale che intellettuale ».
Obama è stato presidente in un periodo difficile. Ha agito bene? Nonostante i raid dei droni? Nonostante la Siria?
«Obama è stato il primo presidente — ma, temo, non sarà l’ultimo — a dover governare il Paese in società con un partito che rifiuta sempre più il concetto stesso di governo. Tutto considerato penso che abbia fatto staordinariamente bene. E’ vero, la Siria è un disastro e la guerra dei droni è disgustosa ma non credo a nessuno che dica di avere in tasca una soluzione chiara».
Il fenomeno Trump sarebbe stato immaginabile senza Obama?
«Il fenomeno Trump è inimmaginabile senza Internet e i social media. Internet ha creato un mondo in cui si può vivere immersi nella la propria realtà virtuale senza doversi mai confrontare con la realtà nel vecchio senso del termine. E Twitter non fa che peggiorare le cose, perché non consente sfumature né complessità. Verrebbe da pensare che postare dei tweet detestabili su una ex Miss Universo alle tre di notte squalifichi un candidato alla presidenza, ma nel mondo di Twitter non esiste distinzione tra pubblico e privato. Se si vive in quel mondo il tweet di Trump, carico d’odio nel cuore della notte, sembra perfettamente normale. Si apprezza Trump perché è “vero”».
In che cosa consiste il fenomeno Trump?
«Consiste in parte nel rimpiazzare i valori politici con quelli dell’intrattenimento, in parte nell’eliminare la distinzione tra pubblico e privato, e in parte nel disprezzo crescente per i fondamentali processi di governo. Sono convintissimo che il motivo per cui questo fenomeno si manifesta proprio ora, nel 2016, ha carattere tecnologico; senza Twitter non ci sarebbe Trump. Ma va anche notato che questo tipo di populismo rispecchia una reale e giustificata frustrazione nei confronti delle élite di ogni genere. A disgustarmi non sono i frustrati dei ceti popolari, bensì il mezzo che hanno scelto per esprimere la loro frustrazione: un sociopatico narcisista, rampollo di una ricca famiglia di costruttori».
Lei conosce bene la Germania: vede paralleli fra Trump e l’estrema destra dell’AfD?
«Non so se sia utile paragonare Trump a Frauke Petry (leader dell’AfD ndr.). Sono seriamente convinto che il paragone più valido sia con Hitler. Trump incita alla violenza, è esplicito nel suo disprezzo per il sistema elettorale e si è scelto il motto “Io solo posso salvare l’America”. E’ molto lontano da Petry che, con tutte le sue pecche, non ha un atteggiamento messianico».
In “Forte movimento“, il suo secondo romanzo, descrive il clima che portò alla nascita del Tea Party. In ”Libertà“, 20 anni dopo, racconta di una famiglia che oggi senza dubbio voterebbe Trump.
Che cosa è successo al partito repubblicano?
«Ormai è il partito di Lincoln solo di nome. Una casualità storica. I repubblicani sono diventati il partito della Confederazione americana a cui Lincoln dichiarò guerra. Oggi assistiamo alla recrudescenza del grave conflitto in seno alla società americana che diede origine alla Guerra Civile. In ultima analisi riguardava la schiavitù, ma non va dimenticato che prima della guerra i sudisti formulavano la loro difesa della schiavitù rivendicando i “diritti degli Stati”. A centocinquant’anni di distanza una consistente minoranza di americani, degli Stati che vanno dalla Georgia all’Idaho, non ha mai accettato l’idea di un governo federale. Per evitare l’oblio elettorale il partito repubblicano prese ad allinearsi con questi americani ai tempi della candidatura di Richard Nixon. La conclusione logica di questo allineamento è l’ostinazione del partito a definire ipso facto illegittima la presidenza di Obama. Ora temo che la candidatura di Trump abbia danneggiato in maniera così grave il tessuto della nostra nazione che Hillary, se verrà eletta, probabilmente dovrà passare il primo anno del suo mandato a sedare ribellioni armate da parte di gruppi che negano la legittimità della sua elezione. Credo che il problema potrebbe porsi a livello grave soprattutto negli Stati rurali occidentali. Anche se non si arriverà alla ribellione armata, prevedo che Hillary combatterà una sorta di infinita guerra civile a difesa del nostro sistema di governo».
( © Die Welt / Lena, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Emilia Benghi)
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IL PUNTO DEBOLE
Agli occhi di molti è più una Clinton che una donna: come se non fosse arrivata da sola. Ma oggi siamo pronti per una presidente
La Stampa 5.11.16
Sicurezza, privacy e segreti di Stato
Cos’è lo scandalo delle mail di Hillary?
di Francesco Semprini

Cos’è l’email gate?
A undici giorni dal voto generale per il rinnovo della Casa Bianca il Federal Bureau of Investigation ha riaperto il caso sul controverso utilizzo della posta elettronica privata da parte di Hillary Clinton nell’esercizio delle sue funzioni di segretario di Stato.
Come ha originelo scandalo?
Poco dopo aver giurato da segretario di Stato nel 2009, Hillary installa un server nella sua abitazione di Chappaqua nello Stato di New York. Il sistema che gestisce il suo indirizzo personale hdr22@clintonemail.com usato per inviare e ricevere messaggi personali e di lavoro. Sullo stesso server apre un indirizzo anche a Huma Abedin, fedele braccio destro, e al capo del personale di Foggy Bottom Cheryl Mills. Clinton non attiverà mai l’indirizzo @state.gov gestito dal governo e predisposto per essere usato obbligatoriamente per le mail di lavoro.
Come scoppia il caso?
Nel marzo del 2015 il «New York Times» pubblica in prima pagina la storia delle mail avanzando l’ipotesi di «violazione delle norme federali in materia». Ipotesi che rappresentava un elemento di «allarme» per la sicurezza di archivi e banche dati governativi. Hillary spiega di aver usato la propria mail per praticità: «Non volevo avere due Blackberry». Il sospetto però è che volesse mettersi al riparo da qualsiasi controllo, specie su questioni scottanti come risulterà ad esempio per l’attacco di Bengasi del 12 settembre 2012. Diversi suoi collaboratori rivelano infatti che Hillary temeva il rischio di intrusione. L’ex capo della diplomazia Usa avrebbe usato inoltre diversi smartphone privati, contravvenendo ancora una volta al regolamento. Secondo il suo staff i telefoni sarebbero stati distrutti a martellate.
Di quante email si parla?
Secondo la stessa Clinton durante la sua direzione della diplomazia Usa lei ha ricevuto e inviato circa 62.320 messaggi. Lei e i suoi legali hanno dichiarato che almeno la metà di questi - circa 30.490 per un totale di 55 mila pagine - sono stati «girati» al dipartimento di Stato per le necessarie procedure di archiviazione. Gli altri no perché, sempre secondo Hillary, erano messaggi privati, riguardanti ad esempio il matrimonio della figlia, il funerale della madre passando per le sedute di yoga. Ad agosto 2015 la Clinton conferma di aver girato tutte le mail di lavoro al governo, ma l’Fbi scopre che ne mancano alcune migliaia. L’ex First Lady dice di averle cancellate prima del 2014, ovvero prima dell’inchiesta.
Qual è l’esito dell’indagine?
Il 5 luglio il direttore James Comey spiega che non ci sono i presupposti un procedimento a suo carico e si limita a definire il comportamento della Clinton e del suo staff «estremamente imprudente», ma non meritevole di incriminazione. Il dipartimento di Giustizia archivia il caso.
Perché viene aperto un nuovo fascicolo?
Il 28 ottobre 2016 Comey rende noto al Congresso che il Bureau ha iniziato a indagare su altre email. Sono messaggi intercettati in un portatile del marito della Abedin, Anthony Weiner coinvolto nello scandalo sui messaggi a sfondo sessuale. Sono circa 3 mila le email in questione, ma molte non potranno essere esaminate prima dell’8 novembre.
Repubblica 5.11.16
I giochi sporchi nel castello dell’Fbi
di Vittorio Zucconi

È AL NUMERO 935 di Pennsylvania Avenue, a soli quattro isolati dalla Casa Bianca, che il filo della possibile vittoria di Donald Trump conduce diritto dentro il castello di quell’Fbi che da centootto anni manovra nell’ombra le manopole segrete della politica, fingendosi neutrale. L’irruzione nella campagna elettorale del direttore James Comey, che ha rivelato a sette giorni dal voto l’esistenza di altre, possibili email sul conto di Hillary Clinton, ha proiettato Trump in una rimonta nei sondaggi che sembrava impossibile. Ha fatto gridare all’invasione di campo i sostenitori dell’ex segretaria di Stato e il presidente Obama, di fronte alla scoperta che i G-Man giocano sporco, e ha illuminato come dentro quel massiccio palazzo nel centro di Washington lavori una cabala spregiudicata e segreta disposta a far di tutto per fermare colei che, nel giudizio di una “gola profonda” dentro lo stesso Fbi, è vista come “l’anticristo”.
Ma se lo shock per la mossa del direttore, repubblicano di antico pelo, sottosegretario alla Giustizia sotto George W. Bush, finanziatore di John Mc-Cain e Mitt Romney e scelto da Obama in un gesto di malintesa conciliazione bipartisan, ha mobilitato gli elettori repubblicani riattizzando la “sindrome anti-Clinton” pur senza nessun indizio nuovo, la storia delle interferenze della massima, e unica, polizia federale nella vita politica americana è antica quanto la sua esistenza. Comey, il direttore che si è schierato — o è stato costretto a farlo sotto minaccia di fughe di notizie da parte della fazione “trumpista” — contro Clinton è nel solco tracciato dal Padre Fondatore e Santo Patrono del Federal bureau of investigation, G. Edgar Hoover.
Non c’è stato partito, non c’è stato presidente, da Woodrow Wilson al prossimo, chiunque sia fra Clinton e Trump, che non abbia dovuto subire, o abbia cercato di usare, la potenza investigativa dell’Fbi contro avversari politici, per influenzare l’opinione pubblica o per difendersi. In un rapporto alternativamente di succubo e incubo, la politica utilizza, e subisce, la colossale burocrazia investigativa del governo, con i suoi 35 mila dipendenti.
Franklin Roosevelt, che detestava Hoover e a ogni elezione minacciava di sostituirlo e poi si doveva rimangiare la minaccia, lo usava per tenere sotto controllo le organizzazioni di estrema destra e sinistra brulicanti negli anni ‘30. Dai G-Men ottenne la distruzione di un oppositore, un predicatore populista con grande seguito, padre Coughlin, utilizzando un classico della disinformatsia del tempo: l’accusa di essere omosessuale. Partita da un uomo, il direttore stesso, sul quale circolavano e continueranno a circolare ipotesi di omosessualità nascosta.
Hoover lavorò segretamente per silurare la campagna elettorale di Truman, appoggiando il repubblicano Dewey, ma servì poi a Truman per contenere il maccartismo, esibito come prova della propria battaglia anticomunista. E quando arrivò il momento dei Kennedy, il dossier privato del boss sui due fratelli si gonfiò di intercettazioni e di ricatti. Hoover aveva le prove di tutte le avventure amorose dei due fratelli, che quindi poteva ricattare, odiandoli odiato. Ma i Kennedy, soprattutto Bob diretto superiore al Ministero della giustizia, lo usava per sorvegliare il movimento per i diritti civili e Martin Luther King.
Nella House of Cards del potere washingtoniano, oscillante fra i due capi opposti di Pennsylvania Avenue, il Campidoglio sede del Parlamento e la Casa Bianca, il castello dell’Fbi sta esattamente, fisicamente nel mezzo, tenendo le chiavi dei segreti più impronuciabili e di tutti. Fu lì che il vicedirettore, Mark Felt, sussurrò dalla propria Gola Profonda gli sporchi trucchi di Richard Nixon ai reporter del Washington Post nel 1973-74, portando alle dimissioni del presidente. Ed è lì che oggi si è formata la “Trumpland”, la terra dei funzionari pro Trump che comunicano in anticipo ai media di estrema destra e agli uomini vicini a Donald come Rudy Giuliani a New York, già avvocato della associazione dei funzionari Fbi, le notizie di indagini su Hillary.
Furono necessari decenni perché la reputazione del Bureau, passato dal mito glorioso della lotta al gangsterismo alla vergogna delle interferenze politiche, si ristabilisse dopo la morte di Hoover nel ’72 e le azioni del direttore in carica, incomprensibilmente piombato sulle elezioni a sette giorni dal voto senza neppure offrire elementi nuovi, torneranno a intossicare l’immagine dell’Fbi, proprio nel momento della massima domanda di sicurezza nazionale. Se la mattina del 20 gennaio 2017, viaggiando nel percorso trionfale fra il giuramento in Campidoglio e l’ingresso alla Casa Bianca, il passeggero della “Bestia”, della-Cadillac presidenziale blindata, sarà Trump, dovrà rivolgere uno sguardo di gratitudine verso quel palazzaccio dell’Fbi e quel direttore che potrà dirgli: io ti ho fatto re.