sabato 23 giugno 2018

Segni dei tempi /1
il manifesto 23.6.18
L’Unità torna in edicola. Con l’addetto stampa direttore
Quotidiani. La proprietà - il gruppo Pessina, lo stesso che ha chiuso il giornale assieme al Pd e deve ancora pagare stipendi arretrati ai giornalisti e tipografi - ha deciso di tornare in edicola e di nominare direttore il responsabile dell’ufficio stampa del gruppo, tal Luca Falcone. Che nel curriculum può annoverare al massimo l’aver seguito Roberto Giachetti nella fallimentare campagna elettorale come sindaco di Roma nel 2016.
di Marina Della Croce


Immaginate il capo ufficio stampa di Confindustria – sconosciuto ai più – nominato direttore del Sole24Ore. È quello che sta per succedere a l’Unità, lo storico giornale fondato da Antonio Gramsci che ha cessato le pubblicazioni nel giugno 2017.
La proprietà – il gruppo Pessina, lo stesso che ha chiuso il giornale assieme al Pd e deve ancora pagare stipendi arretrati ai giornalisti e tipografi – ha deciso di tornare in edicola e di nominare direttore il responsabile dell’ufficio stampa del gruppo, tal Luca Falcone. Che nel curriculum può annoverare al massimo l’aver seguito Roberto Giachetti nella fallimentare campagna elettorale come sindaco di Roma nel 2016.
La stranezza del progetto è totale. Solo un mese fa la testata de l’Unità doveva andare all’asta proprio perché la proprietà non aveva pagato due mensilità ai giornalistici che per ottenere i soldi erano riusciti a pignorare l’unico bene di valore – i conti correnti dell’Unità Srl erano tutti in rosso. In extremis la proprietà ha pagato il dovuto ritornando in possesso della testata. Ha fatto uscire un numero unico per evitare che la testata decadesse – la legge sulla stampa la prevede che dopo un anno di lontananza dalle edicole – e ora tenta di rilanciare il marchio, forse in vista di una vendita per rientrare dei debiti accumulati in questi anni.
Giovedì negli uffici della Federazione nazionale della stampa la proprietà ha incontrato il Comitato di redazione per illustrare il piano editoriale della nuova iniziativa editoriale: numeri settimanali prima e da settembre il ritorno in edicola sei giorni su sette. L’idea è quella di riaprire prima con numeri settimanali e da settembre di tornare in edicola sei giorni la settimana. Per farlo però serve cambiare la causale della cassa integrazione: passare da «cessazione delle pubblicazioni» a «ristrutturazione» con una riduzione dagli attuali 28 giornalisti. Un cambio che necessita di un accordo sindacale che visto i burrascosi precendenti con l’azienda – minacce ai sindacalisti – si annuncia tutt’altro che semplice.

Segni dei tempi /2
La Stampa 23.6.18
La crisi delle vocazioni fa chiudere il convento del Beato Angelico, di Savonarola e La Pira
Deserto l chiostro del convento domenicano di San Marco
di Maria Vittoria Giannotti


Firenze perde un altro pezzo della sua identità: l’antico convento domenicano di San Marco, nel centro storico, è davvero pronto a chiudere i battenti.
Dopo sei secoli di storia, le stanze che videro passare Beato Angelico e Girolamo Savonarola (e più recentemente un suo storico sindaco, Giorgio La Pira)resteranno vuote: gli ultimi sei frati rimasti all’interno della struttura, dal prossimo settembre saranno costretti a trasferirsi, spostandosi negli altri due conventi dell’ordine presenti in città, Fiesole e Santa Maria Novella. Rimarranno aperte solo la parte del museo statale e la chiesa, e anche per la biblioteca è allo studio una soluzione, ma la comunità dei religiosi non ci sarà più. E senza frati, fanno notare con rammarico gli estensori della petizione online lanciata per evitare la drastica decisione, «un convento non è più tale».
L’agonia
Quella del convento, voluto da Cosimo dei Medici agli albori del Rinascimento, è stata una lunga agonia. L’annuncio della chiusura da parte del Capitolo provinciale dei Frati Domenicani dell’Italia risale ad alcuni anni fa, ed è stata accolta con sgomento e incredulità. Con il passare del tempo, è stato sempre più chiaro che il destino di San Marco era segnato. Ma fino all’ultimo la città ha sperato in un ripensamento. Gli appelli, anche illustri, si sono moltiplicati e la raccolta di firme, che ha raccolto adesioni da tutto il mondo, ha raggiunto quota diciottomila.
Anche il cardinale e arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori è intervenuto chiedendo un ripensamento, ma non è servito: il generale dell’ordine Bruno Cadorè ha firmato il decreto di soppressione. Sui motivi che hanno determinato questa scelta, sicuramente sofferta e dolorosa, non si sa molto. Si parla genericamente di riorganizzazione, ma sicuramente la crisi delle vocazioni che interessa tutto il mondo religioso e la necessità di razionalizzare la gestione del patrimonio dell’ordine – che in città ha altre due strutture altrettanto cariche di storia e significato - hanno avuto un peso non certo trascurabile. «Si prende atto che nella città di Firenze non è possibile mantenere le attuali presenze di Santa Maria Novella e di San Marco» si legge negli Atti del Capitolo in cui si affronta la spinosa questione.
Nel documento si prospetta che i frati appartenenti a una sola comunità, quella di Santa Maria Novella, si occupino di entrambe. Di fatto, per quanto edulcorata nella forme, si tratta nella sostanza di una vera e propria annessione.
L’ultima speranza
Ora l’unica autorità in grado di impedire la chiusura è quella del Pontefice: l’ordine dei domenicani è infatti indipendente dalla Curia e dalla Diocesi. E il Papa è l’unico che può compiere davvero il miracolo. I fiorentini sono pronti a una mobilitazione che va aldilà del loro credo religioso.
Gli studiosi temono che la scomparsa dei frati, o la loro presenza “a mezzo servizio”, possa rendere meno fruibile la ricchissima biblioteca, preziosa fonte di volumi altrove introvabili. I credenti sono dispiaciuti al pensiero che non avranno più vicino a casa un punto di riferimento con interlocutori di alto livello.
Anche i laici sono consapevoli che con la chiusura di San Marco la città perde un tassello importante della sua identità. Nel corso dei secoli, infatti il convento ha rappresentato una fucina di idee per l’Umanesimo, un vero e proprio punto di incontro tra arte, fede e storia. Nel secolo scorso l’antico convento ha dato anche ospitalità al sindaco santo Giorgio la Pira, terziario domenicano e francescano, appartenente all’istituto secolare dei Missionari della regalità di Cristo. E negli ultimi anni, nessuno, quando ha bussato, ha trovato la porta chiusa.

La Stampa 23.6.18
Consiglio d’Europa: “La magistratura non è più indipendente”
di Monica Perosino


Il principale organo europeo per i diritti umani e la democrazia ha ammonito Varsavia per l’ormai avanzata erosione dell’indipendenza della magistratura. Il Consiglio d’Europa sostiene che l’indipendenza giudiziaria è una condizione essenziale per combattere la corruzione perché «i giudici devono essere in grado di prendere decisioni prive di influenza indebita reale o potenziale, anche da altri rami dello Stato». Tutta colpa delle leggi volute dal partito di Jarosław Kaczyński, Diritto e giustiza (PiS) che da quando ha preso il potere nel 2015, ha assunto il controllo diretto dei pubblici ministeri e dell’organo giudiziario che nomina, promuove e disciplina i giudici, nonché il potere di licenziare e nominare i presidenti delle Corti di giustizia, che esercitano un notevole potere nel sistema polacco. Non solo, il 3 luglio entrerà in vigore una controversa legge sulla Corte suprema che costringe alla pensione anticipata il 40% dei suoi giudici.
Il rapporto Greco
«I cambiamenti introdotti tra il 2016 e 2018 alle leggi sulla giustizia consentono al parlamento e all’esecutivo di influenzare in modo grave il lavoro dei giudici indebolendo quindi pesantemente l’indipendenza della magistratura». È quanto rileva il Greco, organo anti-corruzione del Consiglio d’Europa, nel suo rapporto sulla Polonia basato sull’analisi della legislazione vigente, informazioni fornite dalle autorità e il materiale raccolto durante la visita condotta il 15 e 16 maggio scorso.
«L’indipendenza della magistratura è un prerequisito essenziale per una lotta efficace contro la corruzione e uno dei pilastri dello Stato di diritto» evidenzia il Greco, che come prima misura urgente domanda alla Polonia di «non applicare le nuove norme sull’età pensionabile ai giudici che ora siedono alla Corte Suprema». Il Greco «critica duramente» questa misura che se implementata porterà alla fine del mandato di quasi il 40% dei giudici della Corte Suprema il 3 luglio. «Faccio appello alle autorità polacche perché diano seguito rapidamente alle raccomandazioni di Greco. Questo è nell’interesse della Polonia, dei suoi cittadini, e dell’Europa nel suo insieme» ha dichiara il presidente di Greco, Marin Mrcela. Anche l’Unione europea ha minacciato di privare la Polonia dei suoi diritti di voto in Europa, ma Varsavia è protetta dall’alleanza con l’Ungheria che non voterà mai contro l’alleata.

Repubblica 23.6.18
Le testimonianze
Le parole che Rodotà direbbe oggi
di Simonetta Fiori


Un anno fa moriva il grande giurista. Gustavo Zagrebelsky e Gaetano Azzariti raccontano “la mancanza della sua voce, mentre si assiste alla frantumazione nazionalistica di quei diritti per cui lui aveva combattuto”
Che avrebbe detto oggi Stefano Rodotà? Come avrebbe reagito il giurista che teorizzava il diritto a protezione dei più deboli in un’Italia che fa la voce grossa con gli ultimi? Quale bussola morale ci avrebbe indicato al cospetto di un ministro dell’Interno che respinge i migranti, minaccia censimenti etnici, dileggia esseri umani devastati da guerre e miseria?
Raramente un anniversario si rivela nella sua drammatica attualità: a un anno esatto dalla scomparsa, niente sembra più lontano dall’eredità civile e culturale di Rodotà del Paese sovranista che maltratta i più fragili.
«La mancanza della sua voce ci appare ogni giorno più grave e pesante», dice Gustavo Zagrebelsky, che gli è stato affianco in molte battaglie ideali.
«Rodotà ha dedicato il suo impegno culturale a valori quali dignità, umanità, libertà, tolleranza, giustizia, solidarietà: tutti temi provvisti di una portata universale, che non si prestano a essere declinati per nazionalità. I diritti umani sono per tutti — italiani, senegalesi, rom — senza esclusioni. Oggi stiamo assistendo a una frantumazione nazionalistica di questi valori, che non vengono negati in sé ma parcellizzati, reclamati da alcuni a danno di altri. Una pretesa particolaristica che si traduce in compressione dei diritti altrui». È la fine di un mondo, continua Zagrebelsky, il tramonto di principi sanciti dalla dichiarazione dei diritti universali, stelle polari conquistate dalla storia dopo le catastrofi del XX secolo. «Si blindano i confini esterni e se ne costruiscono di nuovi all’interno, al fine di separare quelli che stanno con noi ma non sono parte di noi: oggi migranti e nomadi, domani chissà chi altri». Non si tratta di ignorare i problemi che possono derivare dalla presenza dei rom nelle grandi città, «ma il passaggio alle ruspe implica un salto culturale enorme». E allora bisogna trovare soluzioni «senza violare quei principi che sono al centro della ricerca intellettuale di Rodotà».
Una sua parola chiave è “dignità”, il rispetto della persona nella sua integrità, termine a cui attribuiva maggiore immediatezza rispetto a parole storiche come “eguaglianza”, “libertà”, “fraternità” proprio perché più direttamente evocativa dell’umano. «Come tutti i classici, Rodotà ha anticipato le risposte alle domande ora più urgenti», interviene Gaetano Azzariti, il costituzionalista che ne è stato allievo. «Un punto essenziale della sua costruzione teorica è l’antropologia dell’homo dignus, che considerava il grande lascito della Costituzione. Non è un caso che i primi articoli della Carta europea, a cui Stefano diede un contributo essenziale, siano dedicati alla dignità. È una chiave fondamentale per tutti i problemi di ordine politico, economico e sociale, inclusa la questione della sicurezza. La dignità non ha prezzo, come diceva Kant. E non si può barattare con niente. La dignità degli uomini viene prima di qualsiasi cosa. Questo vale per il lavoro, il mercato e l’impresa. O l’impresa è degna o non è. O al lavoratore si garantisce un’esistenza libera e dignitosa — l’articolo 36 della Costituzione che gli stava tanto a cuore — o quel lavoro non è degno.
Tutte le grandi questioni si possono risolvere solo sulla base di principi quali dignità e solidarietà perché l’egoismo, ammoniva Rodotà, non può fornire la soluzione dei problemi del mondo».
Quello che ci ha lasciato è un’impalcatura teorica solida, oggi più che mai preziosa per una sinistra politica smarrita. Una costruzione fondata sul “diritto di avere diritti” – è il titolo mutuato da Hannah Arendt per un suo lavoro fondamentale –, sulla tutela dei diritti inviolabili dell’individuo, in un ampio raggio che spazia dal terreno dell’identità sessuale allo spazio virtuale. Sterminata era la sua capacità di studio, senza confini disciplinari. «Oggi Stefano sarebbe capace di comporre in un’unica cornice tutti gli elementi particolari che ci travolgono ogni giorno», dice Zagrebelsky.
«Saprebbe dare un significato generale a episodi apparentemente lontani: ieri la minaccia di chiudere le frontiere, oggi l’idea che la scorta di Saviano sia ingiustificata. Le grandi tragedie storiche nascono dalla sommatoria di tante piccole vicende di abusi, ingiustizie e pressioni. Io temo il momento in cui questi frammenti possano raccogliersi in un quadro preciso perché ci troveremo dinnanzi a una cosa che non vorremmo vedere. Stefano ci avrebbe aiutato a comprenderla per tempo».
Insieme hanno difeso il diritto dalle intromissioni della politica.
Zagrebelsky ricorda una fotografia molto affettuosa a un convegno di Libertà e Giustizia. «Era un uomo tenero e al contempo rigoroso, con una faccia che sembrava scolpita nella corteccia». La sua serietà scientifica rifletteva una serietà esistenziale. «Oggi reagirebbe a questo bollire a fuoco lento della nostra impotente indignazione. Si chiederebbe cosa si può e si deve fare. Non c’è più lui a mobilitare le coscienze. E molti di noi si domandano se ci sarà e chi sarà un nuovo Stefano Rodotà».
Sempre più rare sono le figure intellettuali capaci di coniugare rigore scientifico e lotta per i diritti, competenze e impegno civile.
«Siamo in pochi e disgregati», dice Zagrebelsky. «Mi colpisce che di fronte alle sortite del ministro dell’Interno l’associazione dei costituzionalisti non abbia detto una parola: come se la nostra Costituzione non ci indicasse una strada maestra nelle relazioni sociali».
Per uscire dalla confusione e dalla regressione di oggi, interviene Azzariti, si dovrebbe tornare al suo pensiero forte e sistematico.
«È stato l’abbandono di queste bussole a determinare l’impoverimento della cultura critica e convintamente democratica». Anche a sinistra, aggiunge l’allievo, Rodotà non è stato sempre compreso.
È difficile coltivare grandi ideali senza essere intimamente liberi.
Zagrebelsky ne sottolinea un aspetto rimasto finora nell’ombra.
«Stefano non ha mai svolto attività professionale.
Non ha mai messo la sua scienza di civilista al servizio di interessi estranei alla ricerca o all’impegno.
Sicuramente uno come lui, con la sua dottrina, sarà stato sollecitato molte volte a prestare consulenza o a fornire pareri pro veritate nei processi i cui si muovono enormi interessi economici. Non l’ha mai fatto. E anche questa scelta indica quanto tenesse all’autonomia della sua professione».

Repubblica 23.6.18
Il ricordo dell’editore
La sua battaglia civile è ancora in atto
di Giuseppe Laterza


Dalla laicità alla privacy, dall’acqua alla costituzione europea, i suoi interventi e i saggi pubblicati hanno tracciato una strada verso il riconoscimento della persona umana che resta tutta da percorrere
Le buone azioni civili devono essere fatte senza preoccupazioni, senza badare alla convenienza.
Quando illegalità e abusi vengono documentati, c’è sempre la speranza che qualcuno almeno se ne vergogni; e che altri comincino a rendersi conto che proprio da qui deve iniziare una reazione e che la ricostruzione della moralità pubblica è oggi il più ricco dei programmi politici e la più grande delle riforme».
Così scriveva Stefano Rodotà nella prefazione a Milano degli scandali di Gianni Barbacetto ed Elio Veltri. Un libro che – un anno prima dell’arresto di Mario Chiesa – documentava il vasto sistema di corruzione e concussione di Tangentopoli.
A quell’epoca Rodotà era presidente del Pds, coinvolto attraverso alcuni suoi esponenti milanesi. Ciononostante mio padre si era rivolto a lui, perché ne conosceva l’autonomia di giudizio (e la serenità, costruita insieme a Carla, compagna della sua vita).
L’episodio mi torna alla mente quando penso al ruolo di un intellettuale, libero dai condizionamenti partitici e che parte sempre dalla sua competenza, a differenza dei “tuttologi” che imperversano oggi.
Nei tanti libri che ha scritto sugli argomenti più diversi e nelle sue battaglie pubbliche — dalla laicità ai diritti sociali, dall’acqua al Teatro Valle, dalla privacy alla costituzione europea — Rodotà è sempre partito dalla sua profonda conoscenza del diritto e dei diritti. Un sapere che voleva condividere con tutti. Come quando una folla di persone lo avvolgeva dopo una lezione al Festival del diritto e lui si fermava tutto il tempo necessario per rispondere a ogni singola domanda. La gentilezza di Stefano gli tornava indietro sotto forma di affetto corale. Un sentimento che si manifestò in modo clamoroso quando, nella primavera del 2013, fu candidato dal Movimento 5Stelle a Presidente della Repubblica (non eletto solo per la miopia del Partito Democratico).
Di quei giorni mi ricordo l’emozione di quando lo accompagnai al Petruzzelli di Bari per un incontro organizzato da Repubblica e i mille presenti al suo ingresso si alzarono in piedi per un lunghissimo applauso.
D’altra parte, dell’affetto per Stefano e dell’incidenza delle sue idee abbiamo avuto la prova nelle decine di incontri che quest’anno in suo nome sono stati promossi dai più vari soggetti in tutta Italia.
Stefano non mollava mai. Fino all’ultimo: pochi giorni prima della morte mi chiamò per rassicurarmi che avrebbe partecipato alla successiva riunione del Consiglio di amministrazione in cui con mio cugino Alessandro gli avevamo proposto di entrare insieme a Tullio De Mauro.
Come altri grandi intellettuali prima di lui, Rodotà vedeva nella Laterza uno dei fronti dove condurre la sua battaglia culturale e civile. Anche per questo veniva a trovarci spesso e si fermava con i collaboratori della casa editrice per parlare non solo della sua prossima opera ma anche dei fatti del giorno, per suggerirci un’idea o commentare un libro straniero che aveva appena letto...
Era convinto che la strada per realizzare il “diritto di avere diritti” sia la condivisione della conoscenza. Un cammino che la nostra classe dirigente da molto tempo sembra aver smarrito. Per fortuna Rodotà oltre che un grande intellettuale è stato anche un maestro. E oggi siamo in tanti a camminare sulla strada che ha tracciato.

Il Fatto 23.6.18
Il pensiero di Rodotà salva la democrazia
di Ugo Mattei


Da un anno Stefano Rodotà non è più con noi. Meglio, come ha detto Guido Alpa, il più autorevole fra i suoi allievi aprendo un seminario in Suo onore tenutosi mercoledì alla Sapienza, presente Carla, non è più qui fisicamente, ma è più che mai presente con il suo pensiero ed il suo magistero. Da quando è finito sono stati curati due suoi volumi postumi, (uno dei quali Vivere la Democrazia, sarà presentato sempre alla sua Alma Mater il prossimo 28 giugno), gli sono stati dedicati altri due volumi, (uno del Suo amico e Giudice Federale Usa Guido Calabresi, ed uno del sottoscritto con Alessandra Quarta), nonché convegni scientifici a Torino, Roma e Cosenza.
Altri Suoi amici e compagni si sono mobilitati per ricordarne il magistero. Magistratura Democratica è stata infatti convenuta a Roma da Rita Sanlorenzo per discutere del suo impatto sulla giurisprudenza, mentre la Fiom si riunirà, su iniziativa di Gabriele Polo, per discutere delle battaglie di Stefano per i diritti dei lavoratori il 29 giugno a Roma.
Da questo fervore di studi, sono assenti le forze politiche. Da tempo Rodotà svolgeva la sua attività politica, lontano dai partiti. Egli preferiva una politica genuinamente democratica, fatta di prossimità ai movimenti sociali e alle persone (aveva attraversato licei e luoghi occupati) e soprattutto di orizzontalità e rispetto per le opininioni diverse dalle proprie, due caratteristiche che sono completamente assenti negli attuali partiti, malati di leaderismo e verticalità. Del resto, quale Partito potrebbe onestamente dirsi portatore del messaggio di Stefano?
Certo non il Pd i cui vertici e quadri lo tradirono, con variazioni dipendenti solo dal tasso di ipocrisia individuale. Non L&U, che Stefano avrebbe senza dubbio scoraggiato in quanto tentativo velleitario e verticale volto a salvare lo scranno a qualche notabile della precedente legislatura, per di più dimenticando di inserire “in ditta” la fraternità, il solo valore giacobino davvero di sinistra che tanto gli stava a cuore.
Né direi oggi il M5S, che pure cercò con onestà e trasparenza di proporlo come Presidente della Repubblica ma che oggi è alleato con una forza politica che a Stefano ha sempre fatto semplicemente orrore. Eppure sono certo che gran parte della base di questi tre soggetti politici appoggerebbe con entusiasmo un progetto politico fondato sul Diritto di avere diritti, (dal titolo, mutuato da Anna Arendt del più fortunato fra i suoi saggi poilitici). Dal Referendum sull’acqua (2011) a quello costituzionale del 2016 si è verificata un’immedesimazione fra la base elettorale dei partiti che ho menzionato e Stefano Rodotà che costituisce un dato politico importantissimo per chi cerca un cambiamento di egemonia nel sistema politico.
Milioni di italiani autentici democratici disattesero le indicazioni del Pd. Sono questi gli stessi elettori che da anni hanno capito che il neoliberismo rappresenta un micidiale dispositivo di sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente che ha trasformato la vita delle democrazie occidentali in un barbaro tutti contro tutti irrispettoso di ogni valore costituzionale.
Il diritto di avere diritti, i beni comuni, il costituzionalismo dei bisogni, che Stefano ha reso prassi nella sua straordinaria avventura civile, sono prima di tutto un antidoto contro quel disastroso dispositivo di forza verso i deboli e debolezza verso i forti che è la cifra della “politica” attuale. Il pensiero di Stefano ha la forza di farsi oggi ideologia alternativa capace di salvare la democrazia.

Corriere 23.6.18
Il divario che spinge a muoversi non si colmerà neanche tra 50 anni
In Europa redditi 11 volte maggioriche in Africa. Dove la popolazione cresce ancora
di Federico Fubini


In Europa redditi 11 volte maggiori che in Africa. Dove la popolazione cresce ancora
C’è chi sceglie le offese e chi si tiene sul filo dell’ipocrisia. Chi parla poco per apparire inflessibile e chi non resiste alla tentazione di lanciarsi in lezioni. Forse solo il neo premier di Madrid Pedro Sánchez mantiene il sangue freddo, finora evitando di cadere nelle provocazioni. Ma nessuna differenza di stile è così marcata da camuffare il tratto che accomuna i leader europei oggi: stanno fallendo, tutti. Di fronte agli sbarchi dal Mediterraneo, ciascuno di loro è dominato dall’ansia di eludere il problema delocalizzandolo al Paese vicino. Finché quest’ultimo si rivolta, in un nuovo giro di ritorsioni.
Almeno in pubblico, i governi europei non si sono neppure avvicinati a una riflessione realistica sul problema com’è oggi e come sarà nei prossimi anni. Non lo fanno, perché dovrebbero trarne conclusioni opposte alla loro retorica: non hanno alcuna probabilità di governare questo fenomeno senza cooperare in buona fede fra loro; alla lunga, ne hanno poche di preservare per i loro stessi elettori la possibilità di viaggiare senza ostacoli nel resto dell’Unione europea, se continuano a illudersi di scaricare gli stranieri verso qualche Paese di là di un confine di montagna o di fiume.
Eppure un’occhiata ai redditi e alla demografia suggerisce il contrario. I migranti dall’Africa subsahariana hanno solo iniziato la loro grande spinta verso Nord. Lo ha scritto di recente Branko Milanovic della New York University, uno dei grandi studiosi mondiali delle diseguaglianze: lo scarto di reddito medio per abitante fra africani subsahariani e europei occidentali era di un dollaro a sette nel 1970 ed è oggi di uno a undici in «dollari internazionali». Significa che anche tenendo conto degli alimenti, degli abiti o della superficie abitabile in più che un dollaro può comprare in Gambia o Nigeria rispetto a Italia o Germania, noi europei in un anno guadagniamo in media undici volte di più. Dunque un giovane africano non si fa scoraggiare da una probabilità di meno del 2% di affogare al largo della Libia. Si chiede Milanovic: «Un olandese che guadagna 50 mila euro l’anno sarebbe indifferente alla possibilità di guadagnare mezzo milione in Nuova Zelanda?».
È sulla base di queste differenze che il Corriere cerca di mostrare la natura del problema in una proiezione (vedi grafico). Agli attuali tassi di crescita dell’economia dell’Europa occidentale (2%) e dell’Africa subsahariana (3,5), tra dieci anni noi europei guadagneremo in media dieci volte di più, tra trent’anni oltre sette volte di più (come nel 1970) e tra mezzo secolo guadagneremo 5,5 volte di più. Solo fra 40 anni i subsahariani si avvicinano a una soglia di reddito medio alla quale stanno arrivando oggi centinaia di milioni di cinesi. In altri termini, di fronte alla speranza di moltiplicare per sette o per cinque il proprio reddito, nel prossimo mezzo secolo milioni di giovani continueranno a cercare l’Europa.
Anche perché la demografia non lascia dubbi. La popolazione a Sud del Maghreb e del Mashreq oggi è di un miliardo e 50 milioni di persone ed ha raggiunto un tasso di crescita record del 2,64% l’anno. Anche immaginando un rallentamento graduale delle nascite, sarà triplicata a 2,9 miliardi tra mezzo secolo. Durante questo periodo gli abitanti della Ue saranno rimasti mezzo miliardo: le proporzioni passano da un europeo ogni due subsahariani a uno ogni 6, e molto di più se si contano solo i giovani. Se poi l’Africa accelerasse a una crescita al 5% l’anno, nel 2048 il reddito pro-capite europeo sarebbe sempre di quasi cinque volte superiore. Questa è una spinta secolare di popolazione che non sparirà con un divieto d’attracco a Pozzallo, un muro di barche davanti alla Libia o un respingimento alla frontiera bavarese.
Non resta che governarlo, se non lo si può cancellare dalla mappa del mondo. Michael Clemens (Princeton e Iza) ha dimostrato che più aiuti all’Africa servono solo se mirano rigorosamente a creare lavoro per i giovani. Ma alla lunga sarà inevitabile fissare quote e settori di fabbisogno di manodopera in Europa, quindi concedere visti selezionando le persone nelle ambasciate Ue in Africa. Giovanni Peri dell’Università di California a Devis ha dimostrato, conti alla mano, che un immigrazione gestita così aumenta — non riduce — il reddito dei lavoratori locali.

Il Fatto 23.6.18
Salvini ci fa orrore. Ma chi l’ha creato?
di Antonio Padellaro


Quando tratta gli esseri umani come pacchi senza valore Matteo Salvini è una vergogna, ma chi ha consentito al signor Paolo Di Donato “re dei rifugiati di Benevento” le truffe sui centri di accoglienza, con i migranti trattati come bestie mentre lui girava in Ferrari? Salvini? Quando il leghista annuncia il censimento dei Rom, si ode chiaro e forte il grugnito dell’homus salvinianum, che gli “zingari” li vorrebbe cacciare tutti (e magari anche sopprimerli). Però non è stato certo Salvini a permettere alla famiglia Casamonica di impadronirsi di interi pezzi della periferia romana e di imperversare indisturbati fuori da ogni legalità. Così ricchi e potenti da farsi beffe del ministro degli Interni e del presidente della Regione Zingaretti andati l’altro giorno a sequestrare una villa del clan.
Evento – leggiamo – festeggiato dai Casamonicas nel villone accanto con uno scatenato piscina-party tra libagioni, canti e schiamazzi. Salvini specula sul dolore per lucrare nuovi consensi, ma lui al Viminale sicuramente non c’era quando negli ultimi 15 anni in 34.361 (trentaquattromilatrecentosessantuno) sono annegati nel Mediterraneo. Come da elenco pubblicato dal manifesto di giovedì, documento che pesa come un gigantesco macigno tombale sulla coscienza di noi tutti. Ma soprattutto dei tanti governanti, bravi e buoni, italiani ed europei, che per 15 anni, salvo rare eccezioni, hanno preferito girare la testa dall’altra parte. Lista che – come scrive il quotidiano di Norma Rangeri – dovremmo tutti “provare a leggere ad alta voce”. Ogni nome è una vita andata a fondo, nella stessa indifferenza di un sasso gettato in acqua. Non udiremo mai, ringraziamo Iddio, i pianti e le invocazioni di quegli uomini, di quelle donne, di quei bimbi: una sola voce sarebbe sufficiente a farci impazzire.
No, non si può più fingere che, in Italia, il pre-Salvini fosse quotidianamente ispirato alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Così come frignare giaculatorie su quanto siamo caduti in basso è intollerabile ipocrisia. In basso c’eravamo già con i Buzzi e i Carminati, piacevolmente immersi nei fondi per l’“accoglienza”.
Con i mercanti di schiavi, con le paghe da fame, con le Ferrari frutto del latrocinio. Con le istituzioni che hanno tollerato le baraccopoli perché “se vogliono vivere come bestie, cazzi loro”. Con i nomadi nullatenenti e i rubinetti d’oro in bagno. Forse che tutte le cooperative e le associazioni che lavorano per l’accoglienza sono piene di farabutti? Certo che no: nella stragrande maggioranza si tratta di persone che meritano gratitudine e sostegno.
Ed è falso che i nomadi vivano tutti di accattonaggio e di usura. Certo, la spinta a una maggiore integrazione dovrebbe venire dalle stesse comunità (soprattutto per tutelare i minori spesso sottratti alla scuola dell’obbligo). Colpirne alcuni per criminalizzarli tutti: così funziona la collaudata semplificazione salvinista. Conseguenza riprovevole, disgustosa ma inevitabile della politica vuota e declamatoria praticata dai ministri dei i governi precedenti (con l’eccezione, purtroppo breve, di Marco Minniti). Che hanno lasciato marcire e marcire e marcire i problemi. Fino al punto d’aver generato nella testa di tante brave persone un tumore dell’anima e una parola diventata urlo collettivo: basta! A che serve deplorare il cinismo di Salvini se poi gli vanno dietro dieci milioni di concittadini (e forse molti di più). Tutti fascisti e razzisti?
Qualcuno dice: è un lavoro sporco ma qualcuno deve pur farlo. Falso, perché il capo cattivista è ben felice di sguazzare tra le folle che lo invocano come il santo patrono che riscatta i penultimi dai presunti torti subiti dagli ultimi (prima gli italiani). Il vendicatore che ricaccia in gola alla cosiddetta sinistra-chic i belati sulla pietà che l’è morta mentre (così l’immaginano) pasteggiano a champagne a Porto Rotondo. Vero, perché, in quel lavoro sporco, Salvini non è neppure il peggio che poteva capitare. In fondo, lui è uno sparafucile (con passato bamboccione) che non viene certo dalla cancelleria del Reich. Matteo II è un raccoglitore di paure che altri hanno seminato. È il sintomo della malattia, una febbre virulenta che si può ancora curare. A patto di prendere atto della devastazione creata dai non Salvini e di piantarla con i finti appelli umanitari e con l’antifascismo da parata. Che va tenuto semmai di riserva. Perché dopo i clown, quasi sempre tocca alle bestie feroci.

Repubblica 23.6.18
L’Ue e il governo populista
Verso la resa dei conti
di Andrea Bonanni


Matteo Salvini si tranquillizzi. «Nel giro di un anno si deciderà se esisterà ancora un’Europa unita oppure no», ha dichiarato il leader leghista a Der Spiegel.
Preoccupazione francamente mal riposta. Tra un anno l’Europa, con tutte le sue pecche, esisterà ancora, che a Salvini piaccia o meno. Quello che si deciderà, nei prossimi mesi, è se l’Italia a guida populista continuerà a farne parte. Viste le premesse di queste settimane, la risposta non appare scontata. Il ribaltamento della prospettiva e la perdita del senso di realtà, tipici di alcune sindromi psicotiche, sembrano essere un tratto caratteristico dell’infelice esordio del governo a trazione leghista sulla scena europea.
Prima c’è stato il miserabile episodio dell’Aquarius.
Episodio che, secondo Salvini e i suoi esegeti, era un colpo di genio politico destinato a riaprire i giochi europei sulla questione dei migranti. Il risultato è stato il totale isolamento dell’Italia e un’occasione d’oro offerta alla Spagna per ridorare la propria immagine offuscata dalla vicenda catalana.
Poi c’è stato l’annuncio dell’ « asse » tra il medesimo Salvini e il suo collega tedesco Horst Seehofer, destinato a cambiare le carte sul tavolo europeo. Il risultato è che Seehofer, esponente della destra bavarese, ha deciso di chiudere le frontiere e rimandare in Italia i migranti irregolari trovati sul suolo tedesco. Se non lo ha ancora fatto, è perché Angela Merkel si è messa di mezzo a rischio di far saltare la coalizione di governo in Germania. Ma certo anche questo “ asse” italo- tedesco non si è dimostrato un gran successo per l’Italia, giustificando le ironie di Macron.
Il risultato di tanto attivismo italiano è stato la convocazione di un vertice europeo straordinario domenica prossima a Bruxelles sui temi dell’immigrazione, boicottato dai Paesi del Gruppo di Visegrád che sono i referenti politici di Salvini. La bozza del comunicato finale, preparata da Francia, Germania e Commissione, prevedeva che l’Italia si riprendesse tutti i migranti irregolari che in questi anni ha lasciato partire per il resto d’Europa violando le regole di Dublino. Alla fine il premier Conte è riuscito in extremis a rinviare la conclusione, che però sarà ripresentata al vertice formale di fine mese. E intanto Angela Merkel prende atto che la Convenzione di Schengen è sostanzialmente morta, e lancia l’idea di « accordi bilaterali o trilaterali » tra i Paesi membri. Che ruolo pensa di ritagliarsi Salvini in questo quadro? Starà con la Merkel, o con Orbán e Seehofer?
In poche settimane di “ cura Salvini” l’Italia è riuscita a collezionare una serie impressionante di insuccessi europei sul dossier che sta più a cuore al titolare dell’Interno. Il ministro Tria ha per ora evitato l’accerchiamento del nostro Paese anche sul fronte dei conti pubblici. Ma pure qui la resa dei conti è solo rinviata a settembre con la presentazione del Def. Il problema è che, nel ribaltamento della realtà che affligge questo governo, i populisti non sembrano rendersi conto che la loro vittoria elettorale ha fatto scattare un campanello d’allarme in tutta Europa. Al di là delle preoccupazioni oggettive per un governo che prende in ostaggio i naufraghi dell’Aquarius e minaccia di non rispettare gli obblighi di Dublino rifiutando di riprendersi i migranti che ha registrato, al di là dei timori dei mercati per una coalizione che ha messo in programma oltre cento miliardi di spese non coperte, la cosa che fa più paura ai nostri vicini è proprio il contagio populista.
È questa « la lebbra » di cui parla Macron. E se il presidente francese usa toni insolitamente duri lo fa perché, da vero europeista, ha capito che la politica europea è ormai indivisibile. La marea nera che ha travolto l’Italia è la stessa che domani può travolgere la Francia o la Germania. Del resto Angela Merkel sta mettendo a rischio il proprio governo e il proprio futuro politico per tenere testa al populismo di Seehofer.
Ovunque, in Europa, la classe politica democratica si sta preparando alla resa dei conti con l’infezione ideologica che ha ormai conquistato l’Italia. E mette da parte il guanto di velluto della diplomazia per impugnare il bastone della lotta politica. Successe, del resto, già negli anni Trenta del secolo scorso di fronte all’ondata montante del fascismo che minacciava dall’interno le democrazie europee. L’Italia si trovò isolata e sotto sanzioni. Allora le frontiere avevano ancora un senso e non esisteva l’Unione europea. Oggi il cordone sanitario che si sta stringendo contro l’infezione italiana rischia di scattare con grande anticipo. Ma anche quella lezione della Storia, come tutto ciò che attiene al principio di realtà, non sembra penetrare i muri mentali dei populisti nostrani.

Repubblica 23.6.18
I conti pubblici
Tria gela Di Maio sul reddito “Solo interventi a costo zero”
Il Tesoro: nel 2018 niente fondi. Il leader M5S: per averlo 8 ore di lavoro gratis a settimana
di Alberto D’Argenio


BRUXELLES Giovanni Tria frena gli entusiasmi di Luigi Di Maio: il reddito di cittadinanza non potrà partire già nel 2018. Al termine della sua prima due giorni europea, il ministro delle Finanze nel Lussemburgo dove ha partecipato a Eurogruppo ed Ecofin si muove nel solco del suo predecessore, Pier Carlo Padoan. Rispetto degli impegni europei, impegno a ridurre il debito e negoziati sotterranei per ottenere qualche sconto sul risanamento dei conti. Dunque stop alla voglia di spesa della sua maggioranza. Intanto l’Italia si posiziona anche nel negoziato continentale sulla trasformazione del meccanismo salva- stati (Esm) in un Fondo monetario europeo e sulla creazione di un bilancio dell’eurozona, piazzando i suoi “no” al documento franco-tedesco negoziato dai ministri Le Maire e Scholz e battezzato da Macron e Merkel a Meseberg.
L’altro ieri, anch’egli a Lussemburgo per il debutto europeo con i ministri del Lavoro, Di Maio aveva annunciato che il reddito di cittadinanza sarebbe partito già a fine anno. Chi se ne gioverà - ha ricordato ieri il ministro - dovrà in cambio garantire otto ore di lavoro nel proprio comune mentre lo Stato investe nella sua riqualificazione.
Ma Tria, pur con modi garbati, durante la sua prima conferenza stampa ha tirato il freno a mano. « Per il 2018 i giochi sono fatti, da qui a fine anno ci muoveremo solo su interventi strutturali che non hanno costi » . Insomma, in cassa non ci sono risorse per realizzare la principale misura da campagna elettorale dell’M5S, mediaticamente marginalizzato dall’attivismo di Salvini sui migranti. D’altra parte l’Italia deve centrare una correzione dello 0,3% per l’anno in corso, circa 5 miliardi, e Tria ieri ha ribadito che « l’intenzione è rispettare il target». Il Tesoro – ha spiegato - sta rifacendo tutti i calcoli, alla fine potrebbe esserci « qualche deviazione » ma la Commissione Ue non dovrebbe punirci. Tuttavia non è possibile spendere altri soldi per l’anno in corso. Anche perché « il nostro vincolo sono i mercati » , che non vanno fatti innervosire.
Intanto nelle bilaterali con i responsabili Ue Dombrovskis e Moscovici il nuovo ministro italiano lavora a definire la correzione per il 2019, con Bruxelles che a maggio aveva chiesto uno 0,6%, circa 10 miliardi. Tria negozia nuova flessibilità, che però non ama chiamare in questo modo preferendo parlare di «traiettoria» su più anni all’interno della quale trovare dei « margini » . Insomma, anziché negoziare flessibilità anno su anno, Tria punta a un accordo di lungo periodo in modo da dare certezza ai mercati e poter spalmare gli interventi previsti dal contratto di governo sulla legislatura con una cadenza da fissare nella manovra di ottobre. A valle di questo approccio, si comprende lo stop a Di Maio: « Con lui non sono mai entrato in questi dettagli » . Come dire, niente fughe in avanti.
Al suo esordio, Tria ha schierato Roma nel negoziato in vista del summit Ue della prossima settimana affermando che Roma – come Bruxelles e diversi altri governi - è contraria all’idea di Macron e Merkel che il nuovo Fondo monetario europeo emetta pagelle sui conti nazionali che si sovrapporrebbero a quelle della Commissione, limitandone i margini politici nell’applicazione delle regole in favore del rigore. Contro il documento di Parigi e Berlino, che ha spaccato i governi, è arrivata anche una lettera di 12 paesi capitanati dall’Olanda contrari a un bilancio comune della zona euro che invece piacerebbe all’Italia perché spingerebbe crescita e riforme. Non solo sui migranti, ma anche sul rilancio della zona euro il vertice dei leader di giovedì appare in salita.

La Stampa 23.6.18
“Mancano le coperture
Il reddito di cittadinanza nel 2018 non si può fare”
Il ministro Tria smentisce Di Maio: per quest’anno i giochi sono fatti Il vicepremier Cinquestelle: lavori socialmente utili per chi ne beneficerà
di Marco Bresolin


Meno di ventiquattrore dopo, nello stesso palazzo, un ministro smentisce nettamente un suo collega su una proposta-cardine del governo. Il reddito di cittadinanza? Nel 2018 non si può fare. Parola di Giovanni Tria. Il ministro del Tesoro lo ha spiegato al termine della due giorni di Eurogruppo-Ecofin, un doppio appuntamento durante il quale ha assicurato ai sui colleghi che l’Italia rispetterà tutti i vincoli economici imposti dalla Ue. E dunque non può permettersi misure di spesa come questa.
Le parole di Tria smentiscono e ridimensionano drasticamente l’annuncio fatto da Luigi Di Maio il giorno precedente. «Non mi è stata mai espressa questa idea» dice il titolare di via XX settembre. Eppure il vicepremier aveva annunciato il suo piano proprio nello stesso edificio di Lussemburgo, dove era arrivato per partecipare al primo Consiglio Ue: «Introdurremo il reddito di cittadinanza entro il 2018, spero di lavorare notte e giorno per questo obiettivo».
Mancanza di coperture
Ma il problema non sembrano essere le notti insonni del leader M5S, piuttosto la mancanza di coperture. Per l’anno in corso, infatti, Tria ha spiegato che «i giochi ormai sono fatti». E soprattutto che bisogna rimanere all’interno dei paletti fissati da Bruxelles.
Il ministro ha confermato che nel 2018 l’Italia intende rispettare la richiesta Ue di riduzione del deficit strutturale dello 0,3% (uno «sforzo» che vale più di cinque miliardi). Forse l’obiettivo sarà leggermente rivisto a causa del rallentamento della crescita, di questo - ha detto Tria - la Commissione è consapevole. Ma si tratterà di margini minimi. E comunque «ci muoveremo su interventi strutturali che non hanno costi» per esempio nel sostegno «agli investimenti pubblici».
Di Maio però non lascia e anzi raddoppia, aggiungendo nuovi dettagli alla sua proposta. Davanti alla platea della Uil ha detto che «il reddito di cittadinanza è uno strumento che può muovere tante obiezioni, ma io ci credo e dobbiamo farlo insieme». Così è entrato nel merito, spiegando che i disoccupati che ne beneficeranno avranno obblighi ben precisi: non solo i corsi di formazione, ma anche «otto ore settimanali di lavori di pubblica utilità» per il proprio Comune. Una novità che in campagna elettorale non era stata mai sbandierata, ma che in ogni caso non basta per risolvere il vero nodo dei «saldi invariati» su cui Tria sembra irremovibile.
Il nodo dei mercati
Del resto il ministro ha spiegato che il problema principale non sono tanto le istituzioni di Bruxelles e i parametri da rispettare, ma i mercati. In particolare la necessità di (ri)guadagnare la loro fiducia: «Questo è il vero vincolo». E infatti Tria non sembra intenzionato a ingaggiare chissà quale battaglia per avere maggiore flessibilità. Nella due giorni a Lussemburgo ha incontrato prima il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, e poi il commissario agli Affari Economici Pierre Moscovici. A entrambi ha ribadito la promessa di lavorare per ridurre il debito, anche se le discussioni non sono scese nel dettaglio sui margini di flessibilità che Roma potrebbe strappare. «Prima di parlare di margini - ha spiegato Tria - dobbiamo vedere se abbiamo bisogno di margini».
Un approccio estremamente rigoroso che sembra cozzare con le promesse contenute nel programma di governo. E che certamente rischia di far venire i nodi al pettine quando ci sarà da scrivere la prossima legge di Stabilità. Ieri l’Ecofin ha approvato le Raccomandazioni-Paese stilate il mese scorso dalla Commissione. E come ha ricordato Dombrovskis, l’Italia nel 2019 dovrà ridurre il proprio deficit strutturale di uno 0,6% del Pil. Il che vuol dire che il governo dovrà migliorare il disavanzo di oltre dieci miliardi di euro «in termini strutturali», ossia al netto delle misure una tantum. Tutto ciò è compatibile con la promessa Cinque Stelle del reddito di cittadinanza e con quella leghista della flat tax? A Bruxelles sono convinti che sia molto difficile, ma aspettano di vedere numeri e proposte nero su bianco prima di dare un giudizio. Che comunque, assicurano fonti Ue, potrebbe essere preceduto da quello espresso dai mercati.

La Stampa 23.6.18
Reddito e vaccini lite fra ministri
Lega e grillini sono ai ferri corti
Nuovo stop di Tria: salario di cittadinanza non nel 2018 Uscita No Vax di Salvini irrita la titolare della Sanità
Doppia tensione nella maggioranza. Il ministro Tria smentisce Di Maio: «Il reddito di cittadinanza nel 2018 non si può fare, mancano le coperture». Ma il leader grillino tira dritto: «Lavori socialmente utili per chi ne beneficerà». Salvini intanto irrita la titolare della Sanità Giulia Grillo con una frase anti-vaccini: «Dieci sono inutili. Garantisco l’impegno preso di permettere a tutti i bambini di andare a scuola». La replica: «Sono strumento di prevenzione». E ancora: «Le valutazioni di tipo scientifico non competono alla politica». 

Corriere 23.6.18
Il dominio leghista
La debole resistenza dei 5 stelle
di Antonio Polito


I leghisti vengono da Marte, i Cinque Stelle da Venere. Per comprendere il dominio di Salvini, quasi un premier ombra se non ce ne fosse già uno, e per spiegare la debole resistenza di Di Maio, si può forse usare la metafora che Robert Kagan applicò agli americani e agli europei dopo l’11 settembre: i primi sono i discendenti del dio della guerra, i secondi della dea dell’amore.
La Lega vive in un mondo hobbesiano basato sulla forza. Conosce il potere per averlo già praticato. Dispone dunque di un ceto di professionisti capaci di maneggiarlo, nei governi locali e a Roma. Gente come Giorgetti e Calderoli si muovono tra leggi, regolamenti e burocrati come a casa propria. Soprattutto sanno che farsene del potere: lo mettono al servizio di una lista di obiettivi da raggiungere. La Lega è nata come un one-issue-party, e per molti aspetti lo è ancora. Si preoccupa solo di consegnare ai suoi elettori ciò che essi chiedono, è un «deliveroo» della politica. Tutto il resto viene dopo, e conta poco. Se servisse a ridurre gli immigrati, Salvini non esiterebbe a far saltare l’Unione Europea. La Lega ha una visione del mondo e un’ideologia, il sovranismo; dispone dunque di una rete di collegamenti internazionali, da Putin a Le Pen. La Lega ha un «capo», anzi un «capitano», si muove come una falange macedone e rade al suolo le correnti. Tutta la strumentazione della vituperata politica, che dicevano morta e sepolta, nella Lega è messa al servizio di una politica. E si vede.
I Cinque Stelle vivono invece in un mondo rousseauiano, che immaginano governato dalla volontà generale. Non sono abituati né a convivere né a competere con un alleato, perché credono di rappresentare il 99% del popolo: rimossa la casta del restante 1%, il popolo si autogovernerà. Non formano dunque un personale politico, ma solo portavoce della volontà generale; e così finiscono nelle mani dei Marra e dei Lanzalone. Hanno una visione utopica del potere: per loro non serve a fare, ma a disfare, va usato per dissolverlo. Sono i discendenti della «fantasia al potere», o del «fate l’amore non la guerra». La democrazia diretta, cuore della loro straordinaria ascesa elettorale, si propone di consegnare un giorno lo scettro all’agorà, togliendolo a governo e Parlamento. Nel frattempo, visto che il potere non ammette vuoti, provano a trasferirlo su una piattaforma on line.
Così i Cinque Stelle oscillano tra un’utopia rivoluzionaria e una pratica conservatrice. Il Movimento che per primo ha «visto» il futuro digitale con Gianroberto Casaleggio, ora si muove contro la sharing economy e il lavoro domenicale. Il reddito di cittadinanza con otto ore di lavoro a settimana ricorda molto da vicino i «lavori socialmente utili», inventati a Napoli tanti anni fa per sussidiare la disoccupazione fingendo di non farlo, e Di Maio assomiglia sempre più a Vincenzo Scotti, giovane ministro del lavoro degli anni 80, oggi mentore di molti «tecnici» grillini. Un po’ alla volta, il programma cinquestelle è diventato tutto un abolire: il jobs act, la Fornero, le liberalizzazioni di Monti, una decisa marcia indietro verso il futuro.
Entrato finalmente nella stanza dei bottoni, il M5S non ha trovato i bottoni. Legiferare è un lavoro lungo e complesso, comporta tecnica e competenza. Il governo Conte ha finora prodotto un solo decreto legge: misure urgenti per il tribunale di Bari. La settimana prossima arriva alle Camere quello sul terremoto, che risale ancora a Gentiloni. La sensazione è che i ministri non abbiano ancora capito come tradurre gli intenti in fatti (non è facile per nessuno: Renzi fu recordman di decreti legge, ma molti rimasero sulla carta).
A Salvini può bastare la dichiarazione di guerra all’Europa sui migranti, resa ancora più popolare in Italia dalle risposte di Macron; o una dichiarazione di guerra al Fisco sulle cartelle esattoriali; o a Saviano sulla scorta; o al ministro pentastellato della Sanità sui vaccini. Salvini viene da Marte, dunque è marziale: prima o poi si farà troppi nemici, però per il momento funziona. Ma Di Maio viene da Venere, quelli del «vaffa» sono spariti con Grillo e Di Battista, i due maestri del genere; e dunque non gli resta che il governo, il luogo dove ha condotto con successo un movimento che era nato come un meetup di stravaganti. La sfida del fare è perciò tutta sua, e per il momento la sta perdendo.

La Stampa 23.6.18
Lifeline ancora al largo, Malta rifiuta lo sbarco
di Francesco Grignetti


Un’altra estenuante giornata in alto mare. E la situazione non si sblocca. Per la «Lifeline», la nave umanitaria che ha recuperato 230 migranti in mare davanti alle coste libiche, si ripropone lo stesso braccio di ferro che si era verificato per la «Aquarius». L’Italia ritiene che li debba sbarcare a Malta; loro rifiutano perché «non stavamo coordinando le operazioni, né eravamo l’autorità competente». E così la nave è sostanzialmente ferma al largo dell’isola-Stato.
«La disumanità di Malta - scrive a sera il ministro Danilo Toninelli, Infrastrutture, responsabile delle operazioni della Guardia costiera - è lo specchio dell’atteggiamento dell’Europa. La “Lifeline” è ferma nelle acque dell’isola e in grande difficoltà, con un carico di oltre 230 migranti a fronte di una capacità di accoglienza in sicurezza di circa 50 persone. Nessun altro Paese sta coordinando le operazioni, dunque le responsabilità maltesi sono ancora maggiori. Eppure il centro di coordinamento dei soccorsi di La Valletta ha rifiutato qualsiasi tipo di intervento».
Il rimpallo di responsabilità stavolta pare destinato a durare a lungo. Nel frattempo la Guardia costiera italiana ha inviato una comunicazione a tutti i mercantili, perché, qualora si trovino a dover soccorrere qualcuno in acque libiche, si rivolgano alla Guardia costiera d Tripoli. Non a quella italiana, che ha ricevuto ordini di fare il meno possibile.
C’è infatti Matteo Salvini che ruggisce di più ad ogni comizio. «Immigrati non ne possiamo prendere uno di più. Non c’è lavoro per gli italiani, figuriamoci per mezzo continente africano». L’ordine del Viminale è stato tassativo: per questa Ong, «colpevole» di non avere lasciato il soccorso alle motovedette libiche, non ci sarà mai un approdo in Italia. O forse sì. Ma soltanto per verificare se i documenti di bandiera sono a posto e con la prospettiva di seri guai penali per l’equipaggio.
Non meraviglia, allora, che «Lifeline» abbia adottato un basso profilo. Anche perché si tratta di una Ong tedesca giovanissima, che non ha grande esperienza.
Più che Malta, però, è l’Europa che il governo giallo-verde chiama in causa. Prevedibilmente il caso della «Lifeline» entrerà di prepotenza nella discussione che i capi di governo avranno domani a Bruxelles, per il vertice convocato sull’immigrazione da Francia e Germania. Sarà la rappresentazione plastica della nuova postura italiana, mai così aggressiva con i partner della Ue.
«È l’Europa - scrive ancora Toninelli - che deve intervenire per rimediare alla disumanità di Malta, per salvare ora i migranti di “Lifeline” e in futuro per scongiurare le partenze dei barconi della morte. Anche in sede Ue, sul tema non accetteremo soluzioni pre-confezionate che vanno a scapito dell’Italia».
Salvini, poi, ci mette di suo la vis polemica. «Siamo lì da appena quindici giorni e nella prima settimana ho fatto quello che i miei colleghi prima di me non hanno fatto, ovvero un barcone è andato altrove». Oppure: «Nel mondo hanno notato che qualcosa in Italia è cambiato, ora la Merkel telefona, prima erano abituati che l’Italia diceva sempre sì». Per concludere: «La “Lifeline” è una nave illegale, con una bandiera illegale, e un equipaggio che mi dà del fascista, con finanziatori che vorremmo conoscere, che ha un carico di esseri umani in acque maltesi».

Il Fatto 23.6.18
Scorta, le 3 lettere di Ingroia: “Così lo Stato mi lascia solo”
Ai ministri - L’ex pm, rimasto senza protezione a maggio, ha scritto a Minniti e Salvini ricordando le molte minacce, anche recenti, ricevute dalla mafia
di Gianni Barbacetto


Dopo 27 anni di vita sotto scorta. Dopo due settimane dalle sentenze di condanna al processo sulla trattativa Stato-mafia. Antonio Ingroia, che dell’indagine sulla trattativa è stato l’iniziatore, è lasciato senza protezione. Lo ha denunciato il magistrato Nino Di Matteo. “Ingroia è in pericolo, perché Cosa nostra non revoca le sue condanne a morte”.
A decidere la soppressione della scorta all’ex magistrato, oggi avvocato difensore di collaboratori di giustizia, è stato agli inizi di maggio l’Ucis, l’ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, d’intesa con le prefetture di Roma e di Palermo. Ingroia ha reagito in silenzio, cercando di spiegare le sue preoccupazioni con alcune lettere inviate al ministero dell’Interno.
La prima lettera, del 16 maggio 2018, è per il ministro Marco Minniti e il capo della Polizia Franco Gabrielli. “Lo scrivente, pur nel rispetto delle competenze e della responsabilità degli Organi preposti alla verifica e alla valutazione della sussistenza dei presupposti per il mantenimento o la revoca del sistema di protezione già disposto, non può nascondere di essere rimasto sorpreso”. Ingroia ricorda che “nel 2009, Domenico Raccuglia, il boss allora latitante, vicino a Matteo Messina Denaro”, venne arrestato “nei pressi della mia casa di campagna, a Calatafimi, mentre stava preparando un attentato nei miei confronti”.
Più recentemente, “appena cinque anni fa, il collaboratore di giustizia Marco Marino ha riferito al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo di Reggio Calabria che Cosa nostra e la ’Ndrangheta nel 2011 stavano preparando un attentato per uccidermi in relazione alle indagini sulla trattativa Stato-mafia, facendomi saltare in aria con venti chili di esplosivo”.
Non solo le indagini del passato come magistrato, ma anche l’attività presente come avvocato mettono a rischio Ingroia. Per esempio, la difesa “del collaboratore di giustizia Armando Palmeri” nel processo di Reggio Calabria sulla ’Ndrangheta stragista.
La seconda lettera, del 4 giugno, è mandata al nuovo ministro dell’Interno, Matteo Salvini. “Il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico ha riferito di specifici e concreti progetti omicidiari concepiti nei confronti dello scrivente e del pm Di Matteo, temporaneamente accantonati solo in quanto all’epoca di difficile realizzazione”.
Ecco che cosa dichiarava D’Amico nel 2015: “I servizi segreti volevano morto prima il dottore Ingroia, poi non ci sono riusciti. Questo lo hanno trattato i servizi segreti, hanno mandato l’ambasciata a Provenzano, non ci sono riusciti. Perché Provenzano non voleva più le bombe e quindi il dottore Di Matteo o prima il dottore Ingroia dovevano essere uccisi tramite, tanto per dire, agguati, solo con un agguato, non con le bombe. E quindi aspettavano questo, praticamente questo, da un momento all’altro”.
Quanto a Totò Riina, continua Ingroia, “faccio riferimento all’intercettazione ambientale registrata il 26 agosto 2013 nel carcere di Milano-Opera. Riina, parlando con un altro detenuto, definiva la mia persona il Re dei cornuti, espressione gergale di ostilità, molto diffusa nel mondo criminale, con la quale si manifestava il disprezzo e l’odio del Capo dei capi nei miei confronti”.
La terza lettera, del 21 giugno, è ancora per il ministro Salvini e per il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia (del Movimento 5 Stelle). Chiede “una rivalutazione aggiornata della situazione di pericolo cui lo scrivente ritiene di essere attualmente ancora esposto”. La “improvvisa e totale rimozione di ogni dispositivo di protezione potrebbe essere interpretato dalle organizzazioni mafiose e in particolare dai boss che ho più perseguito in questi anni – da Matteo Messina Denaro ai fratelli Graviano agli stessi corleonesi facenti capo a Leoluca Bagarella, nonché ai capi della ’Ndrangheta – un segnale di abbandono e di isolamento da parte dello Stato nei confronti di chi per almeno 25 anni è stato percepito, a torto o a ragione, come un simbolo della lotta alla mafia, quale uomo delle Istituzioni e servitore dello Stato”.
“Paradossale e grottesca”, conclude Ingroia, la nuova misura di protezione decisa il 20 giugno: un “controllo dinamico a orari convenuti che consiste nell’assistenza, da parte dell’equipaggio di una volante della polizia, in occasione della mia uscita e rientro da casa, misura intuitivamente del tutto inutile”.

Il Fatto 23.6.18
Vertici Rai, l’asse gialloverde con B. escluderà il Pd
Incastri. Salvini vuole togliere il Copasir a Renzi e darlo a Fi assieme ad un posto nel Cda della tv pubblica. Ai Dem neanche un consigliere
di Carlo Tecce


Il Partito democratico sta per sparire dai vertici Rai. Da troppo a niente in poche settimane.
Il Cda di Viale Mazzini va rinnovato entro luglio e, per la nomina dei quattro consiglieri tra Camera e Senato, lo schema – approntato dai collaboratori di Matteo Salvini e Luigi Di Maio – prevede due consiglieri in quota Cinque Stelle, uno per la Lega e uno per Forza Italia.
Il criterio per la votazione è semplice, a ciascun partito spetta una preferenza in ciascuna aula parlamentare: il Movimento indica i propri candidati, leghisti e forzisti giocano assieme.
Oltre al rappresentante dei dipendenti dell’azienda, restano altri due posti – sempre condivisi dal governo gialloverde – di competenza del ministero dell’Economia, azionista al 99,56 per cento di Viale Mazzini. Lo stesso ministero seleziona pure l’amministratore delegato. Il presidente, scelto tra i membri del Cda, deve ottenere la maggioranza dei due terzi in commissione di Vigilanza Rai e lì l’asse tra il Movimento e il “vecchio” centrodestra è ancora necessario per escludere i dem. Così il Pd è condannato all’irrilevanza da un’applicazione scientifica della riforma che, appena tre anni fa, Matteo Renzi ha plasmato per soffocare le opposizioni nella televisione pubblica.
Il metodo per sottrarre Viale Mazzini al Nazareno è ispirato dall’ultima strategia di Salvini per blandire l’alleato a giorni alterni Silvio Berlusconi. Il ministro dell’Interno ha proposto all’ex Cavaliere di rinunciare alla guida della Vigilanza Rai e puntare sul Copasir, che l’ingenuo Pd ha prenotato all’indomani della batosta elettorale di marzo.
La commissione bicamerale che sorveglia Viale Mazzini e il comitato di controllo sull’operato dei servizi segreti spettano alle minoranze, ma l’unica minoranza riconosciuta dai leghisti – con l’assenso dei Cinque Stelle – è proprio Forza Italia. Per convincere Forza Italia e lo scalpitante Maurizio Gasparri che ambisce alla Vigilanza, il capo dei leghisti ha offerto a Berlusconi – il proprietario di Mediaset, interessato a non lasciare la televisione pubblica dopo un quarto di secolo – almeno una poltrona in Viale Mazzini e un coinvolgimento sul presidente. Salvini risolve due problemi con una mossa: evita ai Cinque Stelle l’imbarazzo di sostenere Gasparri a San Macuto e scippa ai renziani uno strumento, il Copasir, per infastidire il governo.
Il Nazareno fa ostruzionismo, non presenta l’elenco dei delegati per il Comitato sui servizi segreti, ma il tempo sta per scadere – si decide martedì – e il modesto risarcimento dei gialloverdi è la Vigilanza Rai, un luogo svuotato, parecchio periferico dopo la feroce riforma di Renzi, utile a chi la presiede per ottenere qualche intervista e qualche passerella.
Anche il Cda di Viale Mazzini è un orpello, l’amministratore delegato – che potrebbe andare ai Cinque Stelle – ha un potere immenso: firma contratti fino a 10 milioni di euro e per cambiare i direttori di testata e canali chiede un parere consultivo al Cda, una formalità con una maggioranza solida, quella che i gialloverdi stanno organizzando.
Il futuro di Viale Mazzini, in sintesi, dipende dal Copasir: Paolo Romani – già bruciato per la presidenza di Palazzo Madama – è il forzista favorito. Stavolta il Copasir, per prassi, dovrebbe toccare a un deputato e la Vigilanza a un senatore. Romani è un senatore. E la prassi si adegui.

Repubblica 23.6.18
Tre mesi di proteste
Ancora un venerdì di sangue a Gaza decine di feriti
di Gabriele Rizzardi


Un altro venerdì di violenze e sangue sul confine fra la Striscia di Gaza e Israele. Questa volta almeno 89 palestinesi, compresi tre minori, sono rimasti feriti o intosssicati dai gas lacrimogeni lanciati dai militari israeliani. I feriti da colpi di arma da fuoco sono 20 tra cui un giornalista.
Gli scontri sono avvenuti lungo la barriera al confine tra l’enclave palestinese e lo Stato ebraico. Il ministero della Salute della Striscia, controllata da Hamas, accusa i soldati israeliani di essere intervenuti contro i manifestanti. Le proteste di ieri si sono tenute sotto lo slogan “Venerdì dei feriti” a 85 giorni dall’inizio della “Grande Marcia del Ritorno” voluta da Hamas. Secondo il portale Middle East Eye sarebbero almeno 7000 le persone che ieri hanno partecipato alle proteste. I militari israeliani sarebbero intervenuti con gas lacrimogeni e proiettili veri, mentre i dimostranti avrebbero incendiato copertoni e lanciato palloncini con i nomi delle vittime di questi tre mesi di proteste. Ma non solo. Da Gaza sono partiti aquiloni incendiari che ieri hanno provocato nei campi del Negev occidentale almeno 14 incendi, causando ulteriori danni oltre a quelli che già si sono avuti nelle ultime settimane. Il bilancio degli scontri è pesantissimo. Dal 30 marzo, sono almeno 133 i palestinesi rimasti uccisi e 14.600 quelli feriti.

il manifesto 23.6.18
Valzer di colloqui tra Usa, Israele e paesi arabi: palestinesi non invitati
Usa/Israele/Palestina. L'Amministrazione Trump prosegue le trattative con Israele e gli alleati arabi nonostante il rifiuto palestinese del cosiddetto "Accordo del secolo". Tra gli obiettivi la separazione definitiva di Gaza dalla Cisgiordania
di Michele Giorgio


GERUSALEMME In attesa dell’arrivo, all’inizio della prossima settimana, in Israele e Territori ‎palestinesi occupati del principe ‎William in rappresentanza del regno britannico, ‎tutt’oggi accusato di aver gettato i ‎semi del conflitto che dal secolo scorso devasta il ‎Medio oriente, a caratterizzare la scena diplomatica è l’iniziativa americana per ‎israeliani e palestinesi. Donald Trump la chiama “Accordo del secolo”. La ‎‎”soluzione” che il presidente, il suo vice Mike Pence e il Segretario di stato Mike ‎Pompeo hanno in mente è stata tracciata dal riconoscimento fatto lo scorso 6 ‎dicembre da Trump di Gerusalemme come capitale di Israele. Le indiscrezioni ‎riferiscono di un “accordo” largamente favorevole a Israele, sul piano territoriale e ‎politico, e che prevede il riconoscimento di alcuni diritti dei palestinesi ma solo ‎con il pieno consenso dello Stato ebraico malgrado siano sanciti dalle risoluzioni ‎dell’Onu. Ai palestinesi non verrebbe assicurata l’indipendenza. Non sorprende che ‎da parte palestinese sia arrivato un secco rifiuto dell'”Accordo del secolo”, anche in ‎reazione della decisione presa da Trump di assegnare Gerusalemme a Israele ‎disconoscendo i diritti dei palestinesi sul settore arabo della città sotto occupazione ‎dal 1967.‎
 Se i palestinesi rifiutano l’iniziativa Usa e respingono la mediazione ‎dell’Amministrazione Trump schierata con Israele, perché gli Stati uniti vanno ‎avanti e, si dice, si preparano ad annunciare le loro proposte ad agosto? La risposta è ‎semplice. Il processo in atto esclude, senza affermarlo esplicitamente, un ruolo ‎attivo per i palestinesi. La questione palestinese, pensano Trump e i suoi uomini, ‎sarà risolta nel quadro di un accordo di pace tra Israele e le petromonarchie del ‎Golfo, con la partecipazione di Egitto e Giordania. Ad imporre l’eventuale ‎soluzione ai palestinesi ci penseranno i “fratelli” arabi desiderosi di chiudere questo ‎capitolo aperto da decenni e di vivere alla luce del sole l’alleanza con lo Stato di ‎Israele che già hanno dietro le quinte in funzione anti-Iran. Un esito anticipato dalle ‎parole pronunciate di recente negli Stati uniti dall’erede al trono saudita Mohammed ‎bin Salman che ha addossato ai palestinesi la responsabilità del mancato accordo ‎con Israele. Senza dimenticare che nessuno crede alla smentita fatta dal Bahrain ‎sulla sua disponibilità ad avviare relazioni diplomatiche con Tel Aviv riferita da ‎media regionali. ‎
 Ieri il premier israeliano Netanyahu ha incontrato per quattro ore Jared Kushner, ‎consigliere e genero di Donald Trump, e Jason Greenblatt, inviato speciale del ‎presidente americano, provenienti da un tour in Giordania, Arabia Saudita, Qatar ed ‎Egitto. A sua volta Netanyahu martedì si era recato in Giordania per un colloquio ‎con re Abdullah. I colloqui sul piano americano perciò vanno avanti ed riguardano ‎anche il futuro di Gaza. Sul tavolo, dopo la recente conferenza su Gaza tenuta negli ‎Stati Uniti con israeliani e arabi, c’è un programma di aiuti da un miliardo di dollari ‎per infrastrutture e progetti d’emergenza. I palestinesi lo respingono scorgendo in ‎tanta generosità americana, israeliana e araba, il tentativo di fare di Gaza un entità ‎separata dalla Cisgiordania, un carcere a cielo aperto con un Hamas al comando ma ‎prigioniero e addomesticato dai “fratelli” arabi, e un’Anp esclusa dal suo controllo, ‎quindi più debole e “costretta” ad accontentarsi di qualche porzione di Cisgiordania. ‎
 I palestinesi però non cedono. A Gaza ieri si sono svolte nuove manifestazioni per ‎la Marcia del Ritorno. Almeno 35 dimostranti sono stati feriti dal fuoco dei soldati ‎israeliani. ‎

Il Fatto 23.6.18
Non è un salvataggio: la Grecia distrutta e ancora prigioniera
Otto anni - Il bilancio disastroso del governo della Troika ad Atene mentre il Paese s’avvia a uscire dal cosiddetto “programma di aiuti”
di Marco Palombi


Come si racconta su un giornale il “giorno storico” di cui parlano a Bruxelles, quello in cui Atene esce dal “programma di aiuti” della Troika? Certo, esistono le frasi a effetto: forse, parafrasando, hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato Grecia. Ma un aforisma può ancora essere una verità e mezza (K. Kraus)? Può illuminare le vite spezzate, le lacrime, il senso di impotenza, l’avvilimento di un intero popolo nel cuore d’Europa? Può raccontare la sequela di menzogne su cui s’è basato questo spaventoso esperimento sociale durato otto anni (and counting)? Possono farlo i numeri o la ricostruzione storica se non sono i cuori a sentire l’ingiustizia? La risposta non c’è, ma la Grecia dal 20 agosto è fuori, come si dice “torna sul mercato”: nelle cancellerie europee si festeggia, nel governo di Atene pure, giusto un po’ meno.
Il fatto in sé è questo: Tsipras incassa gli ultimi 15 miliardi di euro e la fine del programma di aiuti, rectius “prestiti”, e un allungamento delle scadenze (dal 2022 al 2032) per ripagare i 110 miliardi avuti dal fondo salva-Stati, ma non il taglio nominale del debito necessario secondo il Fondo monetario internazionale, uno dei membri della Troika insieme a Ue e Bce. In cambio la Grecia sta realizzando l’ultima tornata di 88 misure di austerità, dovrà dare conto ogni tre mesi di quel che fa per i prossimi cinque anni e s’impegna ad avere un avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi sul debito) del 3,5% fino al 2022 e di oltre il 2% fino al 2060: tecnicamente si prendono soldi ai cittadini per darli ai creditori internazionali per i prossimi 42 anni. Austerità sempiterna, un suicidio.
Inizia nel 2010, La crisi greca, e diventa quel che vediamo oggi a ottobre, quando Merkel e Sarkozy chiariscono sul lungomare di Deauville, indicando le prede agli speculatori, che nell’Eurozona i singoli Stati non sono garantiti dalla Bce: un problema che poteva essere arginato con investimenti di relativa entità diventa un’odissea di otto anni, oltre 800 provvedimenti economici imposti dai creditori e un esborso finale di oltre 300 miliardi di euro.
Com’era iniziata? Quella greca, come le altre di quegli anni (Irlanda, Spagna, etc) non è una crisi di debito pubblico, non è dovuta alla natura truffaldina e pigra dei greci, né ai problemi pur esistenti nell’economia di quel Paese. Come ha spiegato nel 2013 l’allora vicepresidente della Bce, Vítor Constâncio, quella fu una classica crisi da debito privato: “Il principale fattore scatenante è da ricercarsi nel settore finanziario, in particolare in quelle banche che hanno fatto da intermediari per l’immenso flusso di capitali verso i Paesi periferici, che ha creato sbilanciamenti divenuti insostenibili a seguito del sudden stop causato dalla crisi internazionale (quella di Lehman Brothers e soci, ndr) e dalla brusca revisione delle valutazioni del rischio che questa ha causato”.
Quegli squilibri si sono poi scaricati sui conti pubblici greci, peraltro assai meno solidi di quanto si era voluto credere a Bruxelles grazie a operazioni di maquillage realizzate con la regia di grandi istituzioni finanziarie internazionali: i vari prestiti di Bce, Ue e Fmi (l’Italia ci ha messo 40 miliardi) sono serviti anche ad attenuare le perdite che sarebbero state sofferte dalle banche francesi e tedesche, esposte nel 2009 sulla Grecia per circa 90 miliardi. I creditori, per questa via, hanno preso possesso del Paese conducendolo in questi anni alla rovina, nonostante nel 2013 il Fmi avesse ammesso che le politiche imposte ad Atene erano sbagliate: “Abbiamo sottovalutato” l’effetto che l’austerità avrebbe avuto. Dopo, però, la Troika ha comunque continuato come prima, arrivando a chiudere i rubinetti alle banche quando, nel 2015, i greci votarono contro un nuovo ciclo di austerità.
E com’è la Grecia oggi e come sarà domani visto che questa tarantella dovrebbe durare 40 anni? Ogni ricordo del passato in termini di diritti del lavoro e presenza dello Stato nell’economia è stato cancellato; il patrimonio pubblico svenduto al miglior offerente (estero); la disoccupazione è ancora oltre il 20% nonostante l’emigrazione abbia ridotto di un terzo le forze di lavoro; il potere d’acquisto è crollato del 28,3% in dieci anni; le famiglie che vivono in estrema povertà sono il 21% (Eurostat), il doppio di otto anni fa; la mortalità infantile è salita del 26% (London Imperial College); le pensioni sono state tagliate del 14% e a inizio 2019 arriverà l’ennesima sforbiciata, la quattordicesima per la precisione; il debito pubblico è passato dal 109% del Pil del 2008 al 180% attuale. C’è un piccolo numero, però, che racconta davvero tutto: nel 2017 ben 133 mila greci hanno rinunciato a un’eredità perché non potevano pagare le tasse di successione. Intanto chi ha prestato i soldi alla Grecia incassa gli interessi: almeno non chiamatelo salvataggio.

Repubblica 23.6.18
La vita ai tempi dell’austerity
“Noi greci vediamo la luce ma per sopravvivere abbiamo ucciso i sogni”
di Ettore Livini

ALONISSOS Lo spread della vita, purtroppo, non mente.
La crisi della Grecia, assicurano politici e tv, è ufficialmente alle spalle.
Ma tra i vecchi mappamondi e gli oggetti d’antiquariato di Gorgona, il negozio di Dimitris Fragoulis nella Chora di Alonissos, l’allarme è tutt’altro che finito. «Il peggio è forse alle spalle – prova a consolarsi lui con l’incoscienza dei suoi 28 anni Quest’anno gli affari vanno meglio». Gli incassi, magari, torneranno quelli di una volta.
La sua esistenza – rivoluzionata dallo tsunami che ha travolto il paese - no. «Otto anni fa ero uno studente di economia gestionale che pensava a tutto tranne che a preoccuparsi del futuro – racconta mentre sistema bacheche e rastrelliere prima della pausa di mezzogiorno - Ero sicuro di trovare un lavoro ben pagato subito dopo l’università, come capitava a tutti quelli che frequentavano il mio corso e di poter girare il mondo». Quei sogni sono rimasti nel cassetto: «Né io nè i miei compagni siamo riusciti a trovare un posto – spiega - Chi ha rimediato un impiego, malgrado la laurea, prende tra i 400 e i 500 euro al mese». E Dimitris è stato costretto a rimettere in valigia vestiti e ambizioni e a tornare alle Isole Sporadi ad aiutare la madre a gestire il negozio di casa. La sua è una storia normale. Meno tragica delle tante vite massacrate dall’austerity in un paese dove i redditi delle famiglie si sono ridotti di un quarto dal 2010 e i suicidi sono cresciuti del 35%.
«Io sono stato fortunato – ammette – perché avevo le spalle coperte». Ma proprio il racconto degli ultimi otto anni della sua ordinaria quotidianità è lo specchio di una crisi che ha macinato le esistenze dal basso e i cui effetti dureranno anche quando il rapporto deficit/pil di Atene sarà sotto controllo.
«All’inizio né io né chi vive attorno a me avevamo davvero capito la gravità della situazione», dice tornando con il ricordo all’inizio della crisi.
Quando nell’autunno del 2009 il premier George Papandreou ha annunciato nello storico discorso dall’isola di Kastellorizo che i conti erano stati truccati e il paese era sull’orlo del crac, la Grecia viveva ancora in una sorta di bolla da autostima collettiva.
Gonfiata dall’ingresso nell’euro, dal successo delle Olimpiadi di Atene, dalla vittoria negli europei di calcio e all’Eurovision Song contest del 2005. «Tutto allora sembrava possibile – ricorda Dimitris - Mai e poi mai avrei pensato che si sarebbe potuti tornare indietro». E invece è andata così. «Finita l’università mi sono guardato in giro e ho inviato decine di curriculum - spiega - Sapevo pianificare campagne web, gestire la comunicazione digitale, parlo inglese. Ero disposto anche a fare lavoretti sottoqualificati». Risposte zero.
E quando la troika è arrivata ad Atene e lui ha capito che di entrate per garantirsi vitto e affitto («circa 600 euro al mese») non se ne parlava ha alzato bandiera bianca.
«In fondo sapevo che prima o poi sarei tornato a casa – minimizza Mia madre ha questo negozio da 38 anni, c’era bisogno di svecchiarlo lavorando a una strategia digitale. E sulle isole turistiche, dicevano tutti, la crisi non era arrivata». Aveva fatto i conti senza l’oste. «Appena arrivato mi sono accorto che la realtà era diversa da come la dipingevano - racconta - Tra il 2012 e il 2015 gli incassi sono calati del 35% e noi siamo stati costretti a rivedere l’assortimento, riempiendo la vetrina di oggetti da 5-10 euro perché nessuno aveva soldi da spendere». Poi, tanto per gradire, ha iniziato a piovere sul bagnato: sono arrivati i controlli sui capitali e la terza austerity targata Troika ha dato la mazzata finale. «L’Iva è aumentata dal 13 al 23%, le spese per assicurare il personale sono cresciute del 15%, le tasse sul negozio del 22%». Risultato: «Guardi il cartello sul bar qui di fronte», suggerisce ridendo.
«Chiudo perché non ho più i soldi per pagare le bollette», recita il foglietto ingiallito appeso sulla serranda, abbassata da fine 2017.
Eppure Dimitris, come molti in Grecia, non molla: si alza ogni mattina, si rimbocca le maniche e riapre il negozio. E d’inverno si trasferisce ad Atene per arrotondare lo stipendio con qualche lavoretto volante. «Che sacrifici ho fatto? Ho rinunciato a viaggiare, ho dovuto rimandare il matrimonio perché non ho abbastanza soldi. Mi è andata di lusso rispetto a molti altri greci che hanno perso tutto». I sogni e la speranza – beata gioventù – resistono ancora. «Qualcosa sta cambiando nel paese – dice – non ho votato Tsipras, ma ammetto che negli ultimi due anni le cose vanno meglio, si pagano un po’ di più le tasse, c’è più ordine e forse si vede la luce alla fine del tunnel». Sperando, visto il debito rimasto sulle spalle della Grecia, non sia il treno che arriva dalla direzione opposta.

La Stampa 23.6.18
Ad Ankara fra Corano e i russi
Gli assi nelle mani di Erdogan
reportage di Giordano Stabile


I ritratti di Mustafa Kemal Ataturk vegliano ancora sui viali e sui palazzi di Ulus, il quartiere amministrativo di Ankara, dominato dalla grande statua equestre del condottiero. La città al centro dell’Anatolia, l’antica Ancira greca e romana, venne scelta come capitale dal fondatore della Turchia moderna, lontana dalla Istanbul e dai fasti decadenti ottomani. Una città severa come il generale che in pochi anni ricostruì dalle macerie di un impero uno Stato moderno. Domani sera Recep Tayyip Erdogan saprà se la sua scommessa lo avrà portato allo stesso livello. «Rifondatore» della Turchia trasformata in una «monarchia repubblicana», con tutti i poteri nelle mani del presidente e una data all’orizzonte, il 2023, centenario della rinascita turca.
Erdogan non è apparso mai così stanco, ma al 2023 vuole arrivarci alla guida «di una nazione e di un popolo» di nuovo in grado di decidere i destini del Medio Oriente, e anche più in là. Vede una nazione più grande, con pezzi di Siria e forse Iraq di fatto annessi lungo quella linea a Sud dell’attuale confine che era stata tracciata dallo stesso Ataturk. Non è fantapolitica perché nelle siriane Afrin, Idlib, Al-Bab e presto Manbij, i cartelli sono già scritti in turco e i programmi scolastici adeguati a quelli della Turchia. Una annessione strisciante, tanto che un osservatore come Joshua Landis già non esclude che la Siria Nord-Occidentale possa diventare «un’altra Hatay», la provincia siriana annessa nel 1938 con il consenso della Francia.
I progetti di conquista
Erdogan ha già allargato i suoi piani all’Iraq, dove «400 chilometri quadrati di territorio» sono stati occupati dalle truppe speciali che danno la caccia al Pkk e assediano il quartiere generale dei guerriglieri curdi sui Monti Qandil. Tutto nel nome della «lotta al terrorismo», un’etichetta che ormai include le operazioni nei Paesi confinanti e gli arresti di massa, cinquantamila persone ancora in carcere (e 140 mila licenziate), seguiti al fallito golpe del 15 luglio 2016, la data della svolta in senso sempre più autoritario. La nuova Turchia che presto, nei progetti del presidente, dovrà contare «cento milioni di abitanti» con le famiglie invitate a «fare almeno tre figli» si allarga a macchia d’olio nei vicini Stati arabi, ma è stata anche capace di accogliere tre milioni e mezzo di profughi siriani, più della metà del totale, contro il milione scarso di tutta l’Unione europea.
Circa 50 mila sono diventati cittadini turchi e domani voteranno. Altri saranno «spostati» nelle province siriane sotto controllo turco. Ma il gigantesco sforzo è stato fatto pesare sui tavoli della trattative europee. Erdogan vede la Turchia, non diversamente da Ataturk, come un ponte fra Europa e Asia, solo che adesso ha lo sguardo fisso a Est. Il reiss non vuole però chiudere la porta europea. Come nota il Carnegie Europe, se Erdogan vincerà «ci sarà un rilancio per l’adesione alla Ue, anche per consolidare la legittimità del nuovo regime in tutti gli strati della popolazione». Ma i proclami «difficilmente convinceranno i leader europei». Il nuovo presidenzialismo spinto «metterà Ankara e Bruxelles su due orbite differenti» e il probabile veto dei Paesi dell’Est «impedirà ogni progresso reale verso l’adesione».
I sistemi anti-aerei di Mosca
Questo spiega, in parte, lo sguardo a Est, con le relazioni con la Russia di Vladimir Putin che «rimarranno forti, se non altro per controbilanciare le travagliate relazioni con i Paesi occidentali». Anche se è difficile capire quanto Erdogan giochi la carta russa o quanto invece Putin giochi la carta turca, contro la Ue e contro la Nato. Per strappare Ankara dall’Alleanza, lo Zar ha offerto il meglio della tecnologia militare russa, i sistemi anti-aerei S-400, gli aerei invisibili Su-57, ha promesso la «condivisione delle tecnologie», a partire dal nucleare civile e poi chissà, creato un solco con Washington, che ora vuole fermare la vendita alla Turchia dei suoi super cacciabombardieri, gli F-35. Ma l’abbraccio dell’orso ha i suoi limiti, proprio in Siria, dove Erdogan resta il nemico numero tre, dopo Arabia Saudita e Israele, di Bashar al-Assad, e le visioni neo-ottomane cozzano con il nazionalismo arabo del raiss.
La nuova Turchia iper-presidenziale sarà forse in grado di scavalcare l’ostacolo. Erdogan ha toccato il tasto più emotivo dell’orgoglio arabo-musulmano quando si è autoproclamato «difensore di Gerusalemme» ed è andato allo scontro frontale con l’America, Israele, persino l’Arabia Saudita, nel rivendicare la «linea rossa» a difesa della Città Santa, dopo il trasferimento dell’ambasciata americana. La retorica , notano gli stessi osservatori israeliani, non si è tradotta in fatti concreti. Erdogan ha respinto la proposta dell’opposizione nazionalista del Mhp che voleva rompere gli accordi del dopo Mar Marmara, tagliare le relazioni diplomatiche e ridurre gli scambi commerciali con Israele. Gli atteggiamenti da «sultano», custode dei luoghi santi islamici come fu l’Impero ottomano per 400 anni, hanno soprattutto un risvolto interno. L’Akp, l’ultimo e il più riuscito dei partiti di ispirazione islamica, con un occhio al modello dei Fratelli musulmani, si fonda anche sull’alleanza Stato-religiosi. La propaganda è martellante. «Il mese scorso – racconta un giovane – l’imam della mia moschea ci ha chiesto di mettere le mani sul Corano e giurare che avremmo votato per l’Akp». Una promessa che nessun musulmano oserebbe rompere. Con queste promesse, e un controllo capillare dei media, il successo al primo turno sembrava scontato. Finché, nelle ultime settimane, il candidato repubblicano Muharrem Ince, ha cambiato gli umori con una serie di comizi travolgenti, in cui compariva una marea di ritratti di Ataturk. Il figlio di un agricoltore della povera provincia di Yalova, si sente il vero erede del Fondatore, nel nome della «repubblica» e della «laicità».

La Stampa 23.6.18
5 domande a Pervin Buldan
“Questo è diventato uno stato di polizia”
intervista di Marta Ottaviani


Pervin Buldan è l’attuale leader curda dopo che Figen Yukseldag è stata arrestata quasi due anni fa.
1 Se la sente di fare un pronostico sull’esito delle elezioni?
«I nostri sondaggi interni ci dicono che per i curdi ci sarà un’affermazione molto positiva, nonostante i parlamentari in carcere, gli attacchi durante la campagna elettorale e il silenzio dei media».
2 Che clima si respira in Turchia oggi?
«Non siamo più uno stato di diritto, questo è diventato uno stato di polizia. Si sta votando quando è ancora in vigore lo Stato di emergenza, la situazione nelle carceri è critica. Ormai in Turchia è diventato difficile vivere per molti».
3  La società turca si è radicalizzata molto negli ultimi anni. Effetto Erdogan?
«La società turca è sempre stata ampiamente conservatrice. Erdogan li ha fatti tornare al centro della vita politica ed economica del Paese con un potere e una forza che prima non avevano. Molto è colpa anche dell’opposizione, è stata inefficace per troppo tempo. Per la Turchia è venuto il momento di intraprendere una cammino verso la piena democrazia».
4 Qual è l’obiettivo del presidente sul fronte siriano?
«Erdogan sta usando la guerra civile per eliminare i curdi dalla regione che occupano storicamente, dopo che questi si sono opposti all’avanzata dello Stato Islamico. C’è una vera e propria emergenza umanitaria che coinvolge 150mila persone e davanti alla quale il mondo si è girato dall’altra parte.
5 Cosa vogliono i curdi?
«Vogliamo semplicemente vivere in un Paese democratico. Il nostro è un programma molto inclusivo. Parla a tutti quelli che sentono di essere stati privati dei diritti più elementari. E in Turchia sono tanti».

Repubblica 23.6.18
I baby migranti e l’America
La pedagogia punitiva di Trump
di Massimo Ammaniti


Nonostante la grande tradizione pedagogica americana che si rifà al grande filosofo John Dewey e più recentemente allo psicologo Jerome Bruner, Donald Trump propone una sua pedagogia punitiva. È probabile che Trump ignori che la pedagogia nasce nella Grecia antica con Platone, una disciplina su come crescere i bambini, come accompagnarli fino all’età adulta e come sviluppare le loro attitudini per farli diventare cittadini responsabili.
Fin dall’alba dei tempi gli uomini hanno compreso che è necessario proteggere i bambini e farli sviluppare nel modo migliore, perché potessero aiutare il clan familiare e la società ad avere un futuro non solo con braccia forti, ma anche con risorse mentali brillanti per affrontare i difficili compiti della vita.
Le stesse parole di Cristo riportate nei Vangeli, «lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite; a chi è come loro appartiene il Regno di Dio » non valgono più nella pedagogia di Trump che ribalta la stessa tradizione cattolica.
E mentre Cristo parla dei bambini senza distinguere se sono bianchi o neri, Trump crea la nuova categoria, i bambini dei migranti che provengono dai confini meridionali degli Stati Uniti per i quali non valgono i principi fondamentali sanciti dalla Convenzione dei Diritti dell’Infanzia approvata nel 1989 dalle Nazioni Unite. Nella Convenzione si ribadisce “ il superiore interesse” dei bambini in ogni legge che li riguardi, principio questo utilizzato in molte sentenze.
Ma i provvedimenti di Trump non hanno nulla di pedagogico, sono delle condanne che colpiscono indiscriminatamente bambini addirittura di pochi anni.
Abbiamo tutti visto i bambini con occhi atterriti, chiusi nelle gabbie separati dai genitori e abbiamo ascoltato i loro pianti disperati e impotenti.
E qual era la loro colpa? Aver attraversato illegalmente coi loro genitori il confine americano, nella maggior parte dei casi senza rendersi conto di commettere un reato. Forse era lo stesso reato che avevano commesso San Giuseppe e la Madonna quando erano fuggiti in Egitto per salvare il piccolo Gesù dalle persecuzioni.
E non solo devono pagare i bambini, i provvedimenti colpiscono duramente anche i genitori che si sono visti strappare i figli dalle braccia affidati ad agenti che li hanno portati via senza sapere dove sarebbero stati reclusi. Abbiamo tutti i ricordi drammatici dei campi di concentramento nazisti dove ugualmente i bambini venivano strappati ai genitori mentre venivano avviati alle camere a gas.
Per fortuna in molti, anche all’interno del Partito Repubblicano americano, hanno alzato la loro voce perché è intollerabile assistere a questo scempio, che ci riporta ad un passato troppo doloroso. La stessa moglie del presidente Melania Trump ha preso la parola per esprimere il suo dissenso, lei che si è sempre occupata con attenzione e affetto del proprio figlio. L’esecrazione di gran parte dell’opinione pubblica mondiale ha spinto Trump a dire che a lui non piace allontanare i bambini dalle famiglie, ma ancora oggi più di 2000 bambini si trovano ancora in centri di reclusione.
Questo moderno Erode, pur non sopprimendo fisicamente i bambini, ne causa col distacco dai genitori gravi sofferenze fisiche e mentali, che come ha mostrato, addirittura negli anni ’ 40, il grande ricercatore René Spitz a volte possono portarli a morte perché rinunciano a vivere.
Ma anche noi abbiamo le nostre colpe. Il governo si è preoccupato di allontanare la nave Aquarius dai nostri porti, ma nessuno ha speso una parola sui bambini che stavano con le madri a bordo e sui minori non accompagnati che hanno inevitabilmente risentito del clima di paura e di incertezza che si respirava sulla nave. Possiamo chiederci perché non si è tenuto conto del superiore interesse dei bambini, come sancito dalla Convezione dei Diritti dell’Infanzia?
Una politica di controllo della migrazione non può dimenticare che i migranti non sono malfattori e galeotti, perlomeno fino a prova contraria, sono bambini, adolescenti e adulti con storie drammatiche alle spalle che sono disposti a correre rischi e pericoli per sfuggire ad un destino difficile. In Africa circa un bambino su 10 muore nel primo anno di vita, con un tasso di mortalità 15 volte superiore a quello europeo. Se tu fossi un padre o una madre africana non cercheresti un luogo più sicuro dove far vivere tuo figlio?

il manifesto 23.6.18
Una vita tra antimateria, collisioni e polemiche
Ritratti. Addio al fisico Carlo Bernardini. Aveva 88 anni. Al lavoro strettamente scientifico, Bernardini ha sempre affiancato un impegno civile su diversi fronti, dal disarmo nucleare alla divulgazione e alla difesa della laicità del sapere
di Andrea Capocci


Tra i pionieri della ricerca italiana nella fisica delle alte energie, Carlo Bernardini, nato a Lecce ma per molti anni docente al dipartimento di fisica della Sapienza di Roma, è morto all’età di 88 anni. Al lavoro strettamente scientifico, Bernardini ha sempre affiancato un impegno civile su diversi fronti, dal disarmo nucleare alla divulgazione e alla difesa della laicità del sapere. Tale impegno lo portò fino in Senato nel 1976, dove fu eletto come indipendente nelle liste del Pci. I funerali si terranno oggi a mezzogiorno a Roma, al Tempietto Egizio del cimitero del Verano.
LAUREATOSI A ROMA nel 1952, e reclutato giovanissimo da Enrico Persico, tra il 1953 e il 1959 Bernardini lavorò alla realizzazione dell’elettrosincrotrone presso i laboratori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare a Frascati. Poi, con Bruno Touschek, Giorgio Ghigo e Gianfranco Corazza fu tra i fisici che realizzarono il primo collisore al mondo tra elettroni e positroni (le particelle di antimateria «speculari» agli elettroni) denominato «Anello di Accumulazione», o AdA. Nei primi anni sessanta, a Orsay, AdA permise di rivelare per la prima volta le collisioni tra elettroni e positroni. Con AdA, e il successivo acceleratore «Adone» sempre a Frascati, nacque l’era degli acceleratori ad anello, di cui l’Lhc del Cern di Ginevra (quello del bosone di Higgs) è l’ultimo esemplare.
Carlo Bernardini
DAGLI ANNI ’60, Bernardini fu protagonista di tutte le battaglie civili che animarono la comunità scientifica italiana, con un’autonomia di pensiero che non gli risparmiò scontri anche con colleghi della sua stessa sponda politica. Nel 1982 fu uno dei fondatori dell’Unione scienziati per il disarmo impegnata contro rischio delle armi nucleari, che diede un contributo autorevole dal punto di vista scientifico nel dibattito internazionale che portò ai trattati internazionali di non-proliferazione.
MA ALLO STESSO TEMPO, come ricorda lo storico della fisica italiana Giovanni Battimelli, Bernardini fu un acceso fautore dell’uso dell’energia nucleare a scopi civili. Negli anni ’60 si schierò con Felice Ippolito, il principale responsabile del programma nucleare italiano, accusato di malversazioni in un’inchiesta giudiziaria che a molti sembrò manovrata dalla lobby petrolifera, «una lezione data a scienziati e tecnici che tentano di inserire l’Italia nella strada della grande evoluzione tecnologica» secondo Bernardini.
Nel decennio successivo Bernardini si scontrò con i movimenti contrari alla centrale nucleare di Montalto di Castro, una battaglia che non abbandonò fino ai due referendum del 1987 e del 2011.
Con i movimenti, Bernardini aveva avuto un rapporto difficile già negli anni ’70, quando la critica ai saperi scientifici e alle loro ricadute sociali, animata da Marcello Cini e dal suo gruppo di marxisti eterodossi, arrivò sin dentro i laboratori di Fisica. Per Bernardini, quella protesta sfociava nell’antiscientismo, nonostante provenisse da fisici di ottimo livello. Ma la sua era la posizione dominante nel Pci, secondo cui sviluppo scientifico progresso sociale erano indissolubilmente legati.
Le polemiche continuarono anche quando in ambito scientifico si fecero strada le «scienze della complessità» di Gregory Bateson, Ilya Prigogine, Edgar Morin e dello stesso Cini. Per Bernardini, si trattava di «scarichi letterari pseudoscientifici». Forse pensando proprio a quel periodo, in un’intervista ad Antonio Gnoli nel 2014 disse: «Sono 60 anni che ribadisco che occorrono più fatti e meno interpretazioni. La mia vita si compone di queste certezze».
MOLTI ANNI DOPO, Bernardini e Cini si trovarono invece dalla stessa parte della barricata, a difesa della laicità dell’università. Successe nel 2007, quando (con altri 65 colleghi fisici) protestarono con una lettera su il manifesto contro l’invito a Joseph Ratzinger, allora Benedetto XVI, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università La Sapienza. Secondo i fisici, si trattava di «un salto indietro nel tempo di trecento anni». Alla fine, vinsero gli scienziati e Ratzinger rinunciò alla lectio magistralis.
Bernardini conosceva però il valore del dialogo tra le culture. Come ricorda Battimelli, difese fino all’ultimo la necessità di insegnare la storia della fisica ai futuri scienziati e diresse la rivista interdisciplinare Sapere dal 1983 al 2014. E seppe collaborare con colleghi autorevoli: con Tullio de Mauro ebbe un sodalizio fecondo, poi condensato nel libro Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture (Laterza), scritto nel 2005. Ma più che alla divulgazione, era interessato alla didattica. Oltre ai manuali universitari, Carlo Bernardini scrisse libri di testo scolastici (anche insieme alla moglie Silvia Tamburini) e animò un laboratorio permanente con gli insegnanti al fine di innovare la pedagogia della fisica.

Corriere 23.6.18
Dagli archivi di Mosca 1941
Ordini tardivi e confusi. E Stalin non fermò i nazisti
Spuntano i documenti originali: i sovietici sorpresi dall’invasione
di Fabrizio Dragosei


MOSCA Gli storici ne erano convinti, ma adesso il ministero della Difesa russo ha declassificato i documenti originali che lo dimostrano: l’Alto comando sovietico diede ordini contraddittori e tardivi alle truppe nelle ore cruciali dell’attacco tedesco all’alba del 22 giugno 1941.
A mezzanotte e mezza, meno di tre ore prima che Hitler scatenasse l’operazione Barbarossa, il Commissariato della Difesa mise in allerta l’esercito, ma lo invitò a non rispondere a «provocazioni». Un ordine ambiguo che molti comandanti in prima linea nemmeno ricevettero. Alle quattro del mattino tre milioni di uomini dell’Asse attaccarono su tutto il fronte con 3.500 carri armati e 600 mila veicoli. Ma i sovietici ancora non risposero nel timore di contravvenire alla volontà di Stalin. Solo alle 7 e 15 partì la disposizione di «contrattaccare». E anche in questo caso Mosca non sembrò capire la situazione reale. Il documento, reso noto per i 77 anni di quegli eventi, intimava alle truppe di «lanciarsi sui nemici e distruggerli». Ma aggiunge di «non avanzare oltre frontiera». In quel momento i sovietici erano già in rotta, con 1.200 aerei distrutti prima di alzarsi in volo.
Stalin aveva fatto preparare l’ordine inviato a mezzanotte e mezza dopo aver ricevuto innumerevoli segnalazioni sui preparativi segreti dei nazisti. Come in altre circostanze «delicate», lo aveva fatto firmare ai suoi sottoposti, per non assumersi responsabilità per iscritto: i generali Timoshenko e Zhukov, commissario alla Difesa e capo di Stato maggiore. Le carte rese note ci fanno sapere che anche i due ufficiali lo fecero a loro volta firmare a due collaboratori. Il documento fa capire la lentezza della macchina sovietica. Emanato a mezzanotte e mezza, venne ricevuto dal centro di cifratura dello Stato maggiore del distretto ovest dopo un’ora e 15 minuti. Poi fu girato ai comandanti delle armate alle 2,35.
In testimonianze rese successivamente, almeno tre comandanti dissero di non averlo mai ricevuto. Pyotr Sobennikov, capo dell’ottava Armata, aggiunse di aver avuto disposizioni contraddittorie: «Iniziarono ad arrivare ordini. Poi, da un’altra parte, contro-ordini; quindi riconferma dell’ordine iniziale e, ancora, annullamento della disposizione. A un certo punto mi dissero di ritirare i soldati dalle trincee. Ma io rifiutai».
Mentre i tedeschi accerchiavano intere armate, incendiando e facendo centinaia di migliaia di prigionieri, Stalin cercava di fermare quella che credeva una «provocazione» per aprire una trattativa. Solo alle 7,15 partì il comando di reagire, scritto a mano da Timoshenko. Nel caos, soldati e ufficiali combatterono con eroismo, fronteggiando un nemico inarrestabile. Stalin, sconvolto per la mossa dell’ex alleato, non si fece sentire dai russi per 10 giorni. Affidò al fedele Molotov il compito di informare l’Urss a mezzogiorno del 22: «Le truppe tedesche hanno attaccato il nostro Paese… La nostra causa è giusta. La vittoria sarà nostra».