sabato 18 febbraio 2012

l’Unità 18.2.12
Bersani: dopo la destra in Europa tocca ai progressisti e alla sinistra
Il leader dei Democratici al seminario sul tramonto del liberismo: «Rilanciamo il modello sociale europeo con un partito-progetto e un’ambizione culturale». Per Cuperlo le parole chiave sono: diritti e redistribuzione
di Bruno Gravagnuolo


Sarà pure superata la distinzione destra/sinistra... ma sui temi di merito, ogni volta che ci confrontiamo con quelli... non siamo mai d’accordo..., che si tratti di mercato del lavoro, di banche, o di liberalizzazioni...». Lo dice così Bersani in replica a Gad Lerner, Lucia Annunziata e Paolo Gentiloni nel mezzo del suo intervento conclusivo al seminario Pd Il Mondo dopo la destra, nella sala Conferenze di Via S. Andrea delle Fratte a Roma. E cioè: non solo la distinzione non è superata, e non ci sono complessi o ambiguità a riguardo. Ma c’è tutto un lavoro da fare, per recuperare autonomia e «soggettività» di una «forma-partito» progressista e di sinistra. Capace di pensare e agire per il «dopo». Dopo che destra e liberismo hanno generato una «crisi di civiltà», nel cuore dell’«Occidente», e che rischia di realizzare quel che ricorda Bersani è nel suo etimo: «luogo del tramonto».
E però, niente apocalissi, nel segretario e nella giornata di lavori aperta da una relazione di Gianni Cuperlo. Ma al contrario e contro le tesi di Latouche sulla «decrescita» tentativo a più voci di individuare punti fermi di programma e identità culturale. Per capire ciò che è accaduto negli ultimi decenni. E quel che andrà fatto «domani». Dopo la Grecia e dopo Monti. Ecco la diagnosi di Cuperlo, davanti a una platea di quarantenni e personalità, da D’Alema a Reichlin, a Vincenzo Visco. Fino all’ottobre 2008 «ha dominato un racconto ideologico stregato». Col mito dell’autoregolazione dei mercati che si tramuta in potenza finanziaria, a servizio di una globalizzazione virtuosa.
Poi, con il crollo, si cominciano a fare due conti. «La liquidità, tra titoli e denaro, dieci volte più alta del Pil mondiale. E la quota in salari del Pil scesa di nove punti, a fronte dei profitti nelle economie avanzate. E nel mondo, su tre miliardi di lavoratori, solo uno e duecento milioni gode di un contratto. Certo, il tasso di povertà è sceso: 600 milioni di cinesi strappati alla miseria...». E però le differenze sono cresciute in modo stratosferico. Proprio mentre la «tecnica» sprigiona potenziale mai visto e socializza a livello planetario il processo produttivo («l’I Pod della Apple è americano, cinese, indiano, giapponese e coreano»).
Dunque, la crisi: delocalizzazione, flessibilità, concorrenza impossibile, che preme da est. E soprattutto: finanza e «derivati». A sostegno, dice Cuperlo, di «una domanda di beni insufficiente», coi trucchi del credito al consumo e del debito, pubblico e privato. Su cui s’avventa la speculazione (fatta di pescicani e piccoli risparmiatori). È «l’autunno del capitalismo» per dirla con Braudel quel che evoca Cuperlo: il Capitale si indebita, per competere e ristrutturare. Si mescola con la finanza, e scarica il tutto sullo stato, che a sua volta ha gonfiato il debito sovrano: «al culmine del ciclo keynesiano». Qui sta la lunga stagione della destra, culminata in catastrofe («peggiore di quella del 1929», per Visco). E ora che fare?
Ecco le parole chiave di Cuperlo, variamente declinate al seminario: «beni comuni, libertà umane, valore sociale del lavoro a base della persona e del cittadino». E poi: eguaglianza, redistribuzione, sostegno pubblico alla domanda, senza sprechi o gigantismi. Nel senso dirà Bersani di un Welfare sobrio e mutualistico. Con il ruolo del «privato sociale» e dei corpi intermedi esaltato. Ma, per rilanciare tutto questo, servono anche, una nuova «Bretton Wood», analoga al sistema di regolazione monetario che sorresse nel dopoguerra il «Piano Marshall e l’età dell’oro keynesiana post-bellica». È la proposta di Vincenzo Visco. E un fronte progressista coeso in Europa. Per rovesciare le politiche neoconservatrici colpevoli del disastro. Come? Con «un ruolo forte e portante dello Stato» dice D’Alema, che cita “l’ultimo Clinton” in infrastrutture, ricerca e formazione, ambiente. Che metta le briglie alla finanza. Sicché, per D’Alema, occorre «egemonia, e capacità del potere democratico di convertirsi in politica. E in autonomia della politica, veicolata da un soggetto politico di massa».
Utopia economica? No, perché come ricorda Nicola Cacace, sono i Paesi con più eguaglianza, quelli dove il Pil cresce: 7 in Europa e 3 nel nuovo mondo. E conclude Bersani: lavoriamo al rilancio del «modello sociale europeo», su nuove basi e in vista della crescita. Perciò ci vuole un «partito-progetto», e una «macchina culturale forte», egemonica. Monti? «Merito anche nostro, che sia venuto dopo Berlusconi. E stiamo lì, in presa diretta con le nostre idee. Ma intanto ci prepariamo alla sfida alternativa».

il Riformista 18.2.12
Reichlin a Macaluso
di Alfredo Reiclin


Caro Macaluso,
è vero. Io scrivo tra i 20 e i 25 articoli all’anno e l’argomento è quasi sempre il Pd. Ma non per farne l’apologia quanto per cercare di dire quello che, a mio modesto parere, dovrebbe fare per rafforzare il suo ruolo. Lo so, è un vecchio vizio. Io non penso che basti essere un elettore della sinistra ma che è necessario militare. Sentirsi parte dell’esercito che bene o male sta in campo.
Tu invece scrivi tutti i giorni, ma ogni tuo articolo (piuttosto belli, in verità) finisce quale che sia l’argomento con una critica pesante, anzi sprezzante verso questo povero partito. È nel tuo pieno diritto, e io non lo contesto affatto. Noto solo che non guasterebbe un po’ meno di supponenza da parte di chi in tutti questi anni non è stato un distaccato osservatore ma un protagonista politico. Il quale si è dannato l’anima per fondare e rifondare e poi fondare ancora nuovi partiti socialisti (la costituente di Bertinoro, ecc. ecc.). Però senza successo. Mentre, con tutti i suoi errori, tutte le sue divisioni e tutte le sue pochezze, il povero Pd è diventato il primo partito italiano.
Io quindi qualche interrogativo, fossi in te, me lo porrei. E la risposta la cercherei non tanto nei nomi quanto nelle cose, le grandi cose che stanno sconvolgendo il mondo. I fatti di cui io parlo da anni (anche troppo), sono ormai talmente evidenti per cui diventa un po’ ridicola certa ironia contro gli “acchiappanuvole” come il sottoscritto.
Perché vedi, caro Emanuele, ciò che è in discussione non sono le glorie del movimento socialista alle cui radici, e alla cui storia, io come te appartengo. Non è nemmeno in discussione il fatto che non il Komintern ma la socialdemocrazia europea ha fatto quella cosa grandiosa che fu lo Stato sociale e il compromesso democratico con il vecchio capitalismo industriale.
Il fatto è che la base storica materiale di quel grande compromesso (una civiltà) è stata spazzata via dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia. Dobbiamo quindi porre su basi nuove il riformismo, il suo necessario ridefinire il “con chi, contro chi, e come”, la sua capacità reale di schierare le forze di progresso. È il problema che si pone il Pd e che si stanno ponendo, in modi diversi, i partiti socialisti europei. Per cui è fuori luogo il tuo pesante sarcasmo. Siamo diversi. Il Pd nasce anche da altre forze e intende rappresentarle. Ma questa barriera tra il Pd e i socialisti europei non esiste. Hollande, che spero diventerà presidente della Repubblica francese, è venuto a Roma ma ha incontrato Bersani e ha discusso con lui, non con Macaluso. Quindi, calma ragazzi.
Può darsi che le forze progressiste falliranno nel loro disegno europeo unitario. Ma questo è il nostro sforzo. È con sfide molto grandi che ci dobbiamo misurare. Tutti. E sta qui, semplicemente qui, la ragione per cui io parlo tanto di nuove alleanze, nuove culture politiche, nuovi strumenti e soggettività politiche. Perché credo non basti agitare le vecchie bandiere.
Del resto, tu ed io siamo stati dirigenti di un partito, che si chiamava comunista. Non credo (io no, certamente) che abbiamo tanto lottato perché volevamo dare all’Italia un regime comunista. Il nome non corrispondeva alle cose. Il programma del Pci era ci spiegò Togliatti la Costituzione. È anche per questo che io molti anni dopo accettai di cambiare il nome di quel partito. Non per opportunismo o per cancellare una storia, ma perché il Pci era stato una grande cosa in quanto era quel luogo, quel complesso di cose, di uomini, di culture, di speranza, di strumenti organizzativi che inveravano il bisogno del cambiamento. Ma a un certo punto non lo era più. Ma non lo era nemmeno Craxi.
Dov’è oggi quel luogo? Vedo tutti i limiti enormi del Pd. Ma non vedo altri luoghi. Di ciò sarebbe utile discutere.
Con la vecchia amicizia

il Riformista 18.2.12
Macaluso a Reichlin
di Emanuele Macaluso


Caro Reichlin,
grazie per la tua replica a un mio articolo in cui ti chiamavo in causa. Vorrei anzitutto darti un’informazione: io non ho mai fondato e rifondato partiti socialisti, né a Bertinoro (dove ero ospite) né altrove. Ho fatto per 15 anni una rivista, Le nuove ragioni del Socialismo, molto impegnata a capire cos’è oggi il socialismo europeo, e ora scrivo sul Riformista seguendo quella ispirazione.
Per la verità, un tentativo di fare un partito socialista nel 1997 lo fece D’Alema con il contributo di Giuliano Amato e altri autorevoli esponenti socialisti ed ex comunisti, fra cui tu. In quella occasione io, un pò scettico, scrissi un libretto con Paolo Franchi, Da cosa non nasce cosa. L’altro tentativo fu fatto da Piero Fassino al Congresso di Pesaro, sempre con Giuliano Amato, che svolse un grande intervento sull’attualità del socialismo democratico. Dopo pochi anni quel socialismo viene definito vecchiume del secolo scorso. Non io ma il gruppo dirigente dei Ds e tu, che l’hai autorevolmente e onestamente sostenuto, vi siete impegnati a fare un partito socialista. E dovresti spiegare le ragioni per cui, come scrisse Scalfari, i Ds si sono trovati al capolinea con la Margherita e insieme fondarono il Pd. Sul quale, caro Alfredo, non ho mai avuto una posizione distruttiva, ma seriamente critica. Sulle ragioni per cui, dopo la svolta della Bolognina e la crisi esistenziale del Psi, non è stato possibile fare un partito socialista, ho scritto molto.
L’ultimo tentativo lo feci con Giorgio Napolitano e tutta l’area riformista, insieme a Rino Formica e tanti socialisti, promuovendo il “movimento per la sinistra di governo”: alla grande assemblea del Capranica venne anche Antonio Giolitti. La crisi del Psi determinò anche quella di quel movimento.
Riassumo in poche righe la mia posizione di oggi. Non credo che il Pd così com’è, non come dovrebbe essere, possa assolvere alla grande, necessaria funzione che tu gli assegni. Mi sbaglierò, ma il Pd, lo si capisce da cos’è in ogni luogo e da come opera, può invece attraversare una crisi profonda. Ho già scritto che in questo caso spero che si tratti di una crisi virtuosa, non distruttiva, che sposti il Pd in avanti, e con i caratteri che ha segnato la storia della sinistra italiana, si ritrovi nella grande famiglia del socialismo europeo. Tutto qui.
Caro Alfredo, che Hollande incontri Bersani e non me, che rappresento nessuno se non me stesso, è nell’ordine delle cose. Considero quell’incontro importante. È importante, per quel che mi riguarda, non soffrirne e non soffrirne anche se non sono a fianco di Bersani.
La vecchiaia può essere una risorsa se vissuta combattendo ma serenamente. Infine, sono d’accordo con te, il tema è grande, ed è un bene continuare a discuterne.

il Riformista 18.2.12
In Lazio primarie Pd anche per il segretario
Partito commissariato. Un anno speso inutilmente, l’assemblea degli iscritti non trova il capo regionale del partito. Tre candidati, favorito Gasbarra, che deve misurarsi con il traguardo del 50 per cento.
di Ettore Maria Colombo


Sarà anche una “grande festa democratica”, come dicono orgogliosi di loro stessi al Nazareno, quartier generale democrat, quella che si attende il Partito democratico del Lazio e che si svolgerà domenica 19 febbraio, in occasione delle primarie per l’elezione del segretario del Pd Lazio. Dalle 8 alle 20, infatti, tutti i cittadini residenti nella Regione governata da Renata Polverini (Pdl, ma anima di un movimento tutto suo, Città Nuove e in rotta di avvicinamento all’Udc) e, soprattutto, nella città di Roma, Capitale stressata dal sindaco Gianni Alemanno (Pdl, ex An, ma in rotta di collisione con tutti), nonché nella Provincia di Roma, una delle ultime roccaforti laziali in mano al Pd e sula quale il presidente, Nicola Zingaretti, punta per partire all’assalto del Campidoglio e riconquistarlo alla sinistra.
Per votare, spiega Francesco D’Ausilio, coordinatore della commissione Regionale per il Congresso, che si aspetta «una partecipazione importante» cinque-diecimila? Si vedrà «basterà esibire il documento d’identità e la propria tessera elettorale», aggiungendo un contributo di due euro «per le spese organizzative». Presentando la carta d’identità o il permesso di soggiorno potranno esprimere la loro preferenza anche i cittadini immigrati ed extracomunitari. Purché abbiano compiuto almeno sedici anni, tutti i laziali potranno presentarsi negli oltre cinquecento seggi della regione, distribuiti tra circoli del partito, associazioni e gazebo.
La scelta è tra tre candidati.
Primo, Giovanni Bachelet: cattolico, oggi di rito bindiano, figlio del magistrato ucciso dalle Brigate rosse, nessuna possibilità di vincere, anzi molte di arrivare ultimo.
Secondo, Enrico Gasbarra: cattolico e pacifista, braccio sinistro di Beppe Fioroni, capofila degli ex-popolari nel Pd, ma soprattutto ex presidente della Provincia di Roma, dove fece benissimo, e supportato da praticamente tutti i big (da Veltroni a D’Alema, da Marini che tiene al Lazio, quasi quanto al suo Abruzzo a Franceschini) e da quasi tutte le anime del Pd. Insomma, è lui, Gasbarra, il candidato da battere, anche se le poche opposizioni interne rimaste in vita in Lazio sperano di tenerlo sotto il 50 per cento per rimproverargli di non essere stato capace di fare l’en plein nonostante i big in campo per lui. Tra i quali va annoverato pure Zingaretti. Il presidente della Provincia, infatti, ha stabilito con Gasbarra un asse di ferro, oltre che un ticket generazionale.
Terzo, Marta Leonori: giovane, timida, dalemiana di formazione, appoggiata dalla Sinistra interna e, soprattutto, dall’area che fa capo a Ignazio Marino e, in Lazio, a Michele Meta, ex pezzo forte del Pd ingraiano prima e veltroniano poi, allievo di Bettini. Per lei anche aiuti sottaciuti e inaspettati, come quello del tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, o come quelli di pezzi gloriosi della sinistra ex-ingraiana ed ex-bertinottiana (Renato Nicolini, Pietro Folena, pezzi di SeL di Nichi Vendola, dei Verdi, eccetera). Potrebbe essere lei, la Leonori, la sorpresa delle primarie.
Certo è che, a memoria d’uomo democrat e “primarista” (sostenitore, cioè, delle primarie in quanto tali sempre e comunque, veltroniani in testa, per capirsi), non s’era mai visto che per l’elezione del segretario regionale del partito si dovesse ricorrere alle primarie. Di solito il compito spetta agli organi statutariamente preposti. E cioè, in teoria, all’assemblea regionale degli iscritti laziali al Pd. Solo che, dopo più di un anno di commissariamento affidato a un toscano, il vicepresidente del Senato Vannino Chiti, la suddetta assemblea non è riuscita a venire a capo, nonostante «lunghe e cordiali discussioni», del busillis di chi mettere a capo di un partito che registra, dal 2009 al 2010, un tracollo verticale di iscritti e una preoccupante afasia nel fare opposizione alla Pisana come sul Campidoglio. Ecco il perché delle Primarie. Le vincerà Gasbarra, resta solo da saper come, e dice: «Il Pd Lazio è in salute». Si vedrà.

Corriere della Sera 18.2.12
Svolte. L’economista democratico
E Papa Ratzinger ispira il neo-laburismo del pd Fassina

di Dario Di Vico

P er questa stagione la politica scelta dal Pd è quella del doppio binario: con Monti, oltre Monti. Ma si avvicina la battaglia che porterà alle elezioni del 2013 e in casa democrat si cominciano a impostare discorsi più lunghi, piattaforme politico-culturali sulla base delle quali contendere al centrodestra governo e consenso. È questo lo scenario in cui si iscrive il libro che uno dei dirigenti di punta del Pd, Stefano Fassina, ha ultimato per l'editore Donzelli («Il lavoro prima di tutto») e che sarà in libreria dal 29 febbraio. Duecento pagine che hanno come motivo conduttore la lotta al liberismo e come parola d'ordine il «neoumanesimo laburista» ma, e qui sta in qualche maniera la novità, si rifanno più all'elaborazione di Papa Ratzinger che alla tradizione socialdemocratica comprese le varianti introdotte nel nuovo secolo dai vari Hollande, Miliband e Gabriel. Per Fassina, il governo Monti chiude il periodo della Seconda Repubblica e apre il cantiere della ricostruzione della politica. Il responsabile economico del Pd parla esplicitamente di una Terza Repubblica che dovrà nascere «lungo l'asse del bipolarismo mite, animato da partiti dotati di autonomia culturale e forza organizzativa, in grado di formare e selezionare classe dirigente adeguata». Il sostegno del Pd al governo Monti è pertanto un passaggio «strumentale» (le virgolette sono dell'autore, ndr.), subito dopo il partito dovrà costruire «uno schieramento largo, tra progressisti e moderati, con Sel e Idv per andare oltre i confini del centrosinistra». Ma al di là degli schieramenti e delle formule che non sembrano appassionarlo, la Terza Repubblica di Fassina si caratterizza per l'obbedienza a quelli che l'autore chiama «gli spread sociali e democratici». Nell'operazione di riposizionamento culturale del Pd all'epoca della Grande Crisi, Fassina scommette su una prorompente vitalità del cattolicesimo sociale e di conseguenza individua la più importante fonte di ispirazione nell'enciclica papale Caritas in veritate, definita in un passaggio «l'analisi più lucida della fase» e in un altro «il riferimento più alto e profetico per leggere e per poter traguardare con fiducia l'inedita congiuntura mondiale». Ma oltre al testo di Papa Ratzinger Fassina elenca almeno altri due interventi imperdibili della Chiesa, come il documento predisposto per il G20 di Cannes e la prolusione del cardinale Bagnasco al convegno della pastorale del lavoro di Rimini. Il dirigente del Pd si stupisce che entrambi non abbiano avuto nel dibattito economico il rilievo che avrebbero meritato per aver messo al centro del discorso pubblico «una visione dell'uomo incompatibile con l'impianto dell'individualismo metodologico, ossia con la visione fondativa del liberismo». Per dirla in parole povere se Fassina individua il morbo assoluto nel liberismo ci spiega che il vaccino lo si trova in Vaticano. E forse solo lì. Gli untori del nostro tempo sono i Marchionne e i Giavazzi rei di «modernità unidimensionale e deterministica», mentre è dalle parole del cardinale Bagnasco che possono venire suggerimenti utili a chi si occupa full time di ricostruire una politica della sinistra. Fassina fa propria persino la critica che il cardinale rivolge alla cultura socialista che avrebbe fallito non tanto sul piano delle teorie economiche quanto nella mancata dimensione antropologica. Aver messo su di un piedistallo la classe operaia e non la persona che lavora. Un errore che il Pd bersaniano, a detta di Fassina, non perpetuerà, convinto di poter riuscire a mettere assieme Cattolicesimo sociale e cultura laburista.

Corriere della Sera 18.2.12
Il peso delle regole e lo spread legale
di Luigi Ferrarella


In Germania il capo dello Stato si dimette appena i magistrati chiedono al Parlamento di revocargli l'immunità, in Italia il Parlamento vota che Ruby è la nipote di Mubarak. Lo spread vero tra i due Paesi, oltre che nei titoli di Stato, sta forse tutto qui.
Tanto più che in Germania il presidente della Repubblica Christian Wulff, protetto da un'immunità che i politici italiani si sognano, si è dimesso appena la Procura di Hannover ha domandato al Parlamento federale di revocarla per poter aprire un'indagine su un prestito controverso e sul successivo tentativo di impedire che la notizia fosse pubblicata dal quotidiano popolare Bild. In Italia invece 314 parlamentari, molti dei quali gravati da sentenze definitive o indagini serie, hanno votato che Ruby potesse davvero essere creduta la nipote di Mubarak, hanno contestato con delibere alla Consulta che indagini su premier e ministri (Berlusconi, Matteoli, Mastella) non potessero essere svolte dalla magistratura ordinaria, e hanno più volte sottratto alla custodia cautelare parlamentari (Milanese, Cosentino, Tedesco) di destra e sinistra.
Ancor più impressionanti in Germania, per il divario con gli standard italiani, sono poi le motivazioni di chi ha dato le dimissioni, i commenti di chi le ha ricevute, e le reazioni della società tedesca che ne ha preso atto.
«Ho fatto errori in buona fede ma sono sempre stato onesto e questo alla fine verrà dimostrato, ma intanto la fiducia in me è stata compromessa», ha infatti spiegato Wullf, dimettendosi per il solo sospetto di un credito a condizioni di favore e del tono minaccioso di un messaggio lasciato nella segreteria telefonica del direttore del giornale.
Benché Wullf fosse stato imposto alla presidenza della Repubblica nel 2010 da Angela Merkel, ieri proprio la Cancelliera, dopo aver espresso rispetto per la convinzione di Wullf di «essersi sempre comportato bene», ha aggiunto: «Nonostante tutto, ha abbandonato la sua carica perché non poteva più servire il popolo. È realmente una forza del nostro Stato di diritto» il fatto che «tratti tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla posizione di ciascuno».
Ciò che in Italia sarebbe stato un terremoto, nelle cui macerie il politico-Sansone di turno avrebbe trascinato tutto il Paese tra pretese di impunità e speculari strumentalizzazioni politiche, in Germania è stato talmente ammortizzato da lasciare quasi indifferente la Borsa di Francoforte, da non determinare sensibili variazioni nell'andamento dei titoli di Stato, e da comportare soltanto l'ovvio rinvio ieri del viaggio di Merkel in Italia per consentirle di fare il punto con i leader dei partiti della sua coalizione.
Strani questi tedeschi? Parrebbe di no, a giudicare dal fatto che un mese fa il presidente della Banca centrale svizzera, Philipp Hildebrand, si è dimesso appena gli è stato fatto notare che, tre settimane prima che la banca ancorasse il franco all'euro e determinasse così un apprezzamento del dollaro, sua moglie aveva investito in dollari che poi le avevano fruttato un non colossale guadagno di 62.000 euro. «Io non lo sapevo — ha giurato — ma sono giunto alla conclusione che non potrò mai fornire la prova che l'operazione fu ordinata da mia moglie: le mie dimissioni consentiranno alla Banca di recuperare la sua credibilità, che è il suo asset più importante».
E dopo tedeschi e svizzeri, sono stati gli inglesi pochi giorni fa a registrare le dimissioni del ministro dell'Energia, il liberaldemocratico Chris Huhne, perché sospettato di aver fittiziamente addebitato alla moglie una propria infrazione di velocità allo scopo di non perdere punti sulla patente: «Lascio perché voglio evitare interferenze con la carica che ricopro».
È proprio vero: nel ventennale di Mani Pulite, riemerge «l'anomalia» del presunto «conflitto tra politica e magistratura». Solo che l'«anomalia», al cospetto dell'Europa, sta tutta in Italia.

Corriere della Sera 18.2.12
L’immagine del potere
di Sergio Romano


Se coinvolgono uomini delle pubbliche istituzioni, gli scandali possono suscitare reazioni diverse. Quando il cancelliere tedesco Helmut Kohl fu accusato di avere utilizzato un finanziamento illecito per creare la rete del suo partito nella Germania dell'Est, molti provarono pena e simpatia per l'uomo che aveva brillantemente unificato il suo Paese. Quando un ex primo ministro francese, Dominique de Villepin, fu processato (e alla fine assolto) per un affare di tangenti che aveva sfiorato Nicolas Sarkozy e provocato un duro scontro fra due protagonisti della V Repubblica, fummo meno sorpresi. Qualcuno ricordò il caso dei diamanti di Bokassa che oscurò la carriera politica di Valéry Giscard d'Estaing, allora presidente della Repubblica. Altri pensarono agli affari africani del figlio di François Mitterrand e alle inchieste giudiziarie che pendevano sulla testa del presidente Jacques Chirac (condannato dopo la fine del suo mandato). Molti italiani decisero che Francia e Italia sono davvero «cugine». Quando il governatore dell'Illinois, Rod R. Blagojevich, è stato condannato per la vendita di un seggio senatoriale, la notizia non ha stupito nessuno. Sapevamo che negli Stati Uniti vi è sempre stata una classe politica spregiudicata, corrotta, venale, e che il Paese deve essere giudicato soprattutto per la severità con cui riesce a eliminare le sue mele marce.
Abbiamo reagito diversamente, invece, quando abbiamo appreso che il presidente della Banca nazionale svizzera Philipp Hildebrand era stato costretto a dimettersi da un'operazione valutaria della moglie, apparentemente favorita da notizie riservate apprese in famiglia. Dalla Svizzera, e soprattutto da una persona che appartiene al vertice della sua vita pubblica, non ce lo aspettavamo.
Questi episodi dimostrano che il nostro giudizio dipende in ultima analisi dalla reputazione di un Paese e soprattutto dall'immagine che vuole dare di sé al mondo. È questa la ragione per cui il caso del presidente della Repubblica federale tedesca ci sembra più grave delle clamorose vicende accadute in altre democrazie. Christian Wulff ha negato di avere avuto rapporti finanziari con un impresario della Bassa Sassonia, ma le indagini di un giornale, la Bild, lo hanno costretto ad ammettere l'esistenza di un prestito (500.000 euro) concesso a un tasso agevolato dalla moglie dell'imprenditore. Non è tutto. Una intercettazione telefonica (accade anche in Germania) lo ha colto mentre cercava d'impedire che il giornale continuasse a pubblicare articoli sulla vicenda. Avrebbe dovuto dimettersi, ma ha tentato di resistere grazie al sostegno di Angela Merkel, desiderosa soprattutto di mantenere al vertice dello Stato una persona amica. Abbiamo visto di peggio. Ma tutto questo accadeva mentre il Cancelliere e i suoi ministri davano lezioni di pubblica moralità alla Grecia e ad altri Paesi dell'eurozona.
Intendiamoci. È giusto che la Germania richiami i suoi partner all'obbligo di gestire i conti pubblici con rigore; ed è giusto ricordare ai greci che i loro problemi non sono soltanto finanziari. Alle origini della crisi vi sono i guasti di un sistema clientelare, la corruzione diffusa, l'evasione fiscale, le bugie che hanno nascosto per molto tempo la gravità del male. Ma nel modo in cui i tedeschi hanno trattato l'affare vi è stata una arroganza che nascondeva un sentimento di superiorità. Un bagno d'umiltà favorirebbe la soluzione della crisi greca e renderebbe l'aria dell'Europa più respirabile.

l’accordo per le riforme istituzionali fra Pd Udc Pdl
Corriere della Sera 18.2.12
Volontà di accordo sulla quale pesa la fragilità dei partiti
di Massimo Franco


I punti in comune sono tre: l'esigenza di ridurre il numero dei parlamentari; quella di cambiare la legge elettorale; e la disponibilità a riformare la Costituzione. È già molto, per i tre partiti che sostengono il governo di Mario Monti. E la volontà di procedere, riaffermata ieri mattina dopo il vertice fra Angelino Alfano del Pdl, Pier Luigi Bersani del Pd e Pier Ferdinando Casini dell'Udc, rappresenta una spinta oggettiva. Significa che l'«asse dell'ABC», come è stato chiamato dalle iniziali dei tre protagonisti, per il momento regge e tende a proiettarsi nel tempo. Vuole dire anche che il governo dei «tecnici» può confidare su forze intenzionate a assecondare il tentativo di tregua del premier e del Quirinale. Ma all'interno di ognuno dei capitoli dell'intesa si annidano potenziali contrasti.
Il primo, che in realtà è esterno, riguarda le elezioni amministrative di primavera. Sembrano tutti d'accordo nel considerarle la coda di schieramenti datati, validi nel 2008 ma politicamente moribondi oggi. Basti pensare al paradosso di un Pdl alleato localmente con una Lega che bersaglia Monti quotidianamente. E, sul versante opposto, di un Pd che ha come compagni di strada l'Idv e un'estrema sinistra ugualmente nemici giurati del governi dei «tecnici». Il problema è, al di là della consapevolezza di una fase da archiviare, quali rapporti di forza emergeranno sia nel centrodestra che nel centrosinistra. L'ipoteca del radicalismo morde entrambi. Per il Pd si profila come un'insidia non solo politica ma numerica, se è vero che l'arcipelago Idv-Sel-Grillo sfiorerebbe il 20 per cento. E la Lega punta ai consensi berlusconiani del Nord, che i sondaggi danno in discesa in tutto il Paese: le elezioni locali da almeno due anni esaltano i limiti organizzativi del Pdl. Con una novità: l'Udc si prepara a sciogliersi e a dare la caccia agli stessi voti.
È probabile che una volta fatti i conti, l'alleanza governativa acceleri; e che magari trovi una soluzione per ridurre deputati e senatori: scelta «popolare», resa necessaria dall'insofferenza dell'opinione pubblica nei confronti della politica. Ma se a questa concessione non si abbina una revisione della legge elettorale, il rischio è l'annullamento del suo effetto positivo. E qui spunta il secondo intoppo. Pdl e Pd, infatti, hanno interessi e visioni diversi dall'Udc. E il partito di Casini, da sempre proporzionalista, vorrebbe una modifica che permetta ai partiti di contarsi dopo la chiusura delle urne; e di indicare il presidente del Consiglio non prima ma dopo il voto, in Parlamento.
La logica di questo schema è che Monti non si candiderà con nessuno nel 2013; ma che sarebbe saggio puntare ancora su di lui, o su un personaggio simile a lui, per la legislatura successiva. L'idea di Casini sarebbe di continuare sulla strada di un'unità nazionale di fatto come unica soluzione in grado di portare l'Italia fuori dalla crisi economica; e nel frattempo di dare «segnali forti» ad un Paese che rischia di abituarsi ad una classe di governanti non eletti. Per questo cerca di convincere i due partiti maggiori a rinunciare al bipolarismo. Si tratta di una riforma che però, per ragioni diverse, né Pdl né Pd si sentono in grado di sottoscrivere. Alfano sa che dopo le elezioni probabilmente i partiti potranno contare solo sulle proprie forze, perché alleanze come quelle del 2008 sono improbabili.
Ma sa anche che nel Pdl non si vedrebbe bene «una Terza Repubblica troppo somigliante alla Prima». Per quanto post-berlusconiano, il Pdl vuole l'indicazione preventiva del candidato a palazzo Chigi; e ritiene suicida la prospettiva di un sistema che darebbe all'elettorato l'impressione di andare verso un governo «di tutti» o quasi. Specularmente, Bersani non smette di far presente che quando si incontra con la destra non si trova «mai d'accordo»; e che alle elezioni il Pd «dovrà presentare un programma alternativo non a Monti ma alla destra». Eppure, come è successo con l'esecutivo di Silvio Berlusconi, questi progetti potrebbero essere piegati e sconvolti da fattori internazionali che esulano dal controllo delle forze parlamentari; e che le obbligherebbero a seguire binari obbligati. Come conseguenza, i margini di manovra e i distinguo sarebbero pressoché azzerati.

Corriere della Sera 18.2.12
Una legge sui partiti? Le forze politiche e quei dettagli nascosti
di Michele Ainis


Non è mai troppo tardi, ammoniva una gloriosa trasmissione della tv in bianco e nero. E infatti, eccola: una legge sui partiti, promessa all'unisono da Bersani e Casini. Dopo 64 anni tondi tondi dal battesimo della Costituzione, dopo 54 anni dal primo progetto di legge firmato da don Sturzo. E mentre una disciplina normativa sui partiti ha via via messo radici in Germania, Spagna, Austria, Grecia, Regno Unito, nonché in varie altre contrade. Ora, a quanto pare, è la volta dell'Italia. Dobbiamo crederci? A rigor di logica, sì. L'autoriforma dei partiti per loro è l'ultima scialuppa, prima che li sommerga l'onda del discredito. Ma logica e politica non sono affatto sorelle: ce lo insegnò Aristotele, che per l'appunto ne ha trattato in due opere distinte.
In secondo luogo, il lieto evento era già stato annunciato molte volte, nell'arco di questa legislatura. Per la precisione, 11 volte al Senato e 12 alla Camera: altrettante proposte di legge per un'iniezione di democrazia sul corpaccione dei partiti. Nel caso del Pd, peraltro, si tratta di un annuncio al quadrato, o meglio al cubo. Il 25 ottobre 2010 Ugo Sposetti, in compagnia di altri 55 deputati, aveva depositato un'analoga proposta; il 18 marzo 2011 gli ha fatto eco Veltroni, anche lui circondato da una cinquantina di colleghi.
Ma adesso soffia un vento nuovo. Non per nulla i segretari di partito ci mettono la faccia, convocano conferenze stampa, pigiano sull'acceleratore. Nel frattempo fioccano gli incontri al vertice sulla riforma dello Stato, nonché sulla modifica della legge elettorale. I due vecchi poli parrebbero fusi in un unico cartello: lavori in corso, scusate il disagio. Bene così, per cambiare le regole del gioco tocca coinvolgere tutti i giocatori. E infatti Pdl e Pd hanno appena presentato, sotto la firma congiunta di Quagliariello e Zanda, una bozza di riforma del regolamento del Senato; non succedeva dai tempi della Bicamerale. Tuttavia, affinché i buoni propositi possano generare ottimi fatti, è necessario rispettare una doppia condizione.
Primo: il metodo. C'è il rischio che affastellando legna s'intasi il camino. Riforma del bicameralismo, del numero dei parlamentari, della forma di governo, del sistema elettorale, del finanziamento pubblico ai partiti, infine della loro vita associativa. Riforme costituzionali, legislative, regolamentari. Con quale ordine? Cominciando dai rami alti dell'ordinamento, dicono i leader della politica italiana. Ma se l'esperienza significa qualcosa, sarebbe meglio invertire l'agenda dei lavori. Sono trent'anni che i partiti discettano di grandi riforme, senza cavare mai un ragno dal buco. E d'altronde la Costituzione va aggiornata, ma va pure applicata. A partire dall'articolo 49, che fin qui ha evocato invano la democrazia all'interno dei partiti.
Secondo: il merito. Nella proposta del Pd s'incontrano garanzie per le minoranze e per gli iscritti; un regime d'incompatibilità per i dirigenti; la trasformazione dei partiti in associazioni sottoposte al Codice civile; una purga ai finanziamenti dello Stato per chi rifiuti le primarie; trasparenza per i finanziamenti privati; conti certificati; anagrafe pubblica dei militanti. In tutto 9 articoli, che a leggerli ti strappano un bel 9 in pagella. Ma il diavolo s'annida nei dettagli. Uno su tutti: il limite dei mandati. Il progetto Pd tace sulla durata massima, affidandola alla scelta dei singoli partiti. Se decidono che puoi fare il segretario per non più d'un secolo, hanno le carte a posto. D'altronde anche il finanziamento pubblico è tutto in un dettaglio: basta un eletto e s'aprono i cordoni della borsa. E c'è infine una regola non scritta che sarebbe bello rovesciare per iscritto: quella che distribuisce posti, incarichi, prebende. Scriviamo che ci si arriva per competenza, anziché per appartenenza. Una rivoluzione.

La Stampa 18.2.12
Colloquio
“La politica chieda scusa Tangentopoli è stata un’occasione mancata”
L’ex pm D’Ambrosio, oggi senatore del Partito democratico: “Adesso chi ruba gode dell’impunità grazie alle prescrizioni”
di Paolo Colonnello


Gerardo D’Ambrosio fece parte del pool di Mani Pulite, è stato eletto per la prima volta al Senato nel 2006 con i Ds
Mi si chiede a 20 anni di distanza cosa è stata Mani Pulite. Ebbene, posso solo rispondere che è stata un’occasione mancata».

Il senatore «indipendente» Gerardo D’Ambrosio, prima coordinatore del pool di Mani Pulite e poi successore di Francesco Saverio Borrelli a capo della Procura di Milano nell’ultima stagione di Tangentopoli, aggiunge il sorriso di una ruga alle tante che ormai segnano il suo volto. Fu il magistrato che indagò sulla strage di Piazza Fontana, sulla morte di Pinelli, sul terrorismo rosso. E, prima di andare in pensione, su quel sistema trasversale di corruttele che costituì l’ordito dell’inchiesta che terremotò la prima Repubblica. Risultato? «La prima volta che intervenni in Senato si scatenò il finimondo. Tutti in piedi a urlarmi: “Assassino, assassino”. Mi odiavano per Mani Pulite. La politica invece avrebbe dovuto approfittare di quel terremoto per ricostruire dalle macerie un sistema migliore, più pulito. Invece è successo il contrario: non solo hanno fatto della delegittimazione dei giudici uno sport nazionale ma sono state introdotte leggi restrittive sulle indagini o aboliti reati come l’interesse privato in atti d’ufficio o il falso in bilancio, dimezzati i tempi di prescrizione, depenalizzato il finanziamento illecito. Oggi chi ruba ha la quasi certezza dell’impunità grazie alle prescrizioni».
La parola giusta per questo ventennale di Mani Pulite è amarezza. Anche Borrelli, la primavera scorsa, intervenendo alla presentazione di un libro, disse di essersi in fondo «pentito» per quell’inchiesta: «Chiederei scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale». Per D’Ambrosio si tratta di una provocazione: «Io non sono pentito come Borrelli». In compenso, lei è diventato senatore dei Ds: non trova sia una contraddizione con il ruolo svolto da magistrato? «Io mi sono candidato come tecnico e indipendente convinto che avrei potuto essere utile alle istituzioni grazie al mio bagaglio di esperienze. È una cosa in cui credo davvero. Così come credevo veramente, quando cominciarono le indagini su Tangentopoli, che grazie alle nostre inchieste avremmo potuto stroncare una volta per tutte questo fenomeno». Di fatto però tutti gli indicatori dicono che la corruzione è di nuovo aumentata. Qualcosa non ha funzionato.
«È vero: dal sostegno si passò all’insulto. Il confine lo segnò il discorso di Bettino Craxi in Parlamento. Ma fu soprattutto per gli attacchi che arrivavano dalle televisioni, controllate dai partiti più compromessi e da Berlusconi. Io me lo ricordo ancora Vittorio Sgarbi che tutti i giorni compariva in video e ci chiamava assassini. Una campagna di delegittimazione pazzesca, che non credo abbia avuto avuto paragoni». Fu una controreazione dei partiti o era la società nel suo insieme che si era scoperta corrotta e non sopportava più i controlli? In fondo, quando partirono le indagini sulle mazzette alla Guardia di Finanza venne fuori che le bustarelle erano un fenomeno diffuso anche ai minimi livelli. «No, io credo che si trattò semplicemente di una campagna di delegittimazione voluta dai partiti. All’inizio quando si pensava che la faccenda riguardasse solo il Psi e la Dc, gli altri partiti cercavano di approfittarne. Ma quando si accorsero che le indagini coinvolgevano tutti (tranne l’Msi) allora si coalizzarono. E la reazione più forte arrivò quando venne coinvolto Silvio Berlusconi».
Siete stati accusati di non avere indagato a sufficienza a sinistra, sul PciPds che pure veniva chiamato in causa dalle inchieste Enimont e sulla Metropolitana milanese, nell’ambito di quell’agenda delle spartizioni che prevedeva un quarto al Psi, un quarto alla Dc, un quarto al Pds... «Ma noi indagammo eccome anche sul Pds». Non con gli stessi risultati degli altri: lo si è visto poi, vedi il caso Penati, che nemmeno loro erano immuni al finanziamento illecito. «Nel Pds fu indagato a un certo punto anche il segretario amministrativo. Ma certe tangenti erano pagate solo ai partiti di maggioranza che detenevano il potere. Il Pci, quel tipo di potere non lo ebbe mai e dunque si trovarono soprattutto fenomeni di corruzione locale, anche se su larga scala, come appunto dimostrò la vicenda della Metropolitana milanese». Un’altra delle critiche più ricorrenti era per l’eccessivo uso di manette. Ci furono degli eccessi? «Intanto sfatiamo la leggenda che eravamo noi ad arrestare le persone. Prima c’era il vaglio di un gip che infatti, nel primo anno d’indagine, respinse 90 richieste di cattura (di questi poi molti vennero accolti in Cassazione). Si, gli arresti sembravano tanti ma molti si risolvevano in meno di 24 ore. A Milano mediamente si arrestano 20 persone al giorno per svariati reati e nessuno si scandalizza. Non solo: nessuno si è mai scandalizzato che, per esempio, nel 2005 sono stati arrestati 21 mila extracomunitari per non essersi allontanati dall’Italia dopo l’espulsione o per mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Invece all’epoca, ci si scandalizzò perché colpivamo coloro che danneggiavano lo Stato».

l’Unità 18.2.12
Siria, l’intervento umanitario sfida per il pacifismo
di Umberto De Giovannageli


L’Europa come luogo politico di un pacifismo che sa unire idealità e concretezza. Un pacifismo che accetta la sfida di pensare un modello di Difesa in una chiave sovranazionale e, a questo livello, contesta il gigantismo di certe spese militari nostrane (leggi F-35). È il pacifismo che sa «sporcarsi le mani». E lo fa anche in nome di una diplomazia dei popoli che spesso è chiamata a riparare i guasti o i silenzi complici della diplomazia degli Stati. E nel farlo esalta un «europeismo» progressivo, solidale, che non si nutre di spread, di diktat finanziari, ma che cerca di far vivere, qui ed oggi, principi universali. Primo fra tutti, quello di libertà.
Un pacifismo europeo che non crede che con le armi si possa «esportare» democrazia, ma che al tempo stesso sa che lo strumento militare, che non coincide per forza con la «guerra giusta», a volte può essere necessario per mantenere la pace (esempio Unifil in Libano). Questo pacifismo maturo, consapevole, europeo, ha oggi una sfida davanti a sé. Questa sfida si chiama Siria. È un pacifismo che rigetta la logica nefasta dei due pesi e due misure, e che dalla vicenda libica ha saputo trarre le giuste conclusioni: la difesa dei diritti umani non giustifica scorciatoie militariste tanto più se a muovere le armate sono inconfessabili quanto poderosi interessi economici (la guerra di Total e Bp). Ma la vicenda libica insegna anche che dittatori come Gheddafi, e lo stesso vale per il siriano Assad, non possono essere considerati, e per questo a lungo, troppo a lungo, sostenuti e omaggiati, come una sorta di Male minore rispetto allo Spauracchio integralista.
Per questo il pacifismo europeo non può né vuole cancellare nel suo lessico politico «l’ingerenza umanitaria». Per questo è un pacifismo che contesta e contrasta l’idea di una
sovranità nazionale che giustifichi repressioni, pulizie etniche, stupri di massa, torture e bavagli come «affari interni» di uno Stato-nazione.
L’ingerenza non è solo un diritto. È un dovere. Da praticare, senza se e senza ma. È ciò vale oggi per la Siria. Il pacifismo non si chiama fuori, non abdica alla sua funzione di traino di una coscienza collettiva.
«Stragi, massacri, atrocità, torture, sangue, bombardamenti, violenza, morti, feriti. Quello che sta accadendo da quasi un anno in Siria è insopportabile. Fermare la violenza e la sua mostruosa spirale è difficile ma non impossibile, e in ogni caso è la sola cosa che si possa fare se davvero vogliamo evitare il peggio, cioè una lunghissima guerra civile che nessuno riesce a vincere ma che tutti finiscono per combattere. Noi compresi». A sostenerlo è la Tavola della Pace, che ha deciso di aderire a una manifestazione nazionale di solidarietà con il popolo siriano, indetta per domenica prossima a Roma dal Consiglio Nazionale Siriano. «L'intero Medio Oriente è al centro di uno scontro planetario si legge nella nota in cui la voglia di libertà e di giustizia per cui sono già morti tanti siriani si è già persa. A giocare con la vita e la morte dei siriani oggi ci sono tutte le potenze del Medio Oriente e i “grandi” della Terra. A loro non interessano i diritti umani, per loro i diritti umani sono solo un'arma da scagliare contro qualcuno quando serve.
Il regime di Assad va condannato per tutte le atrocità commesse, ma la sua condanna non può diventare il pretesto per altri massacri. Per questo oggi non possiamo che lavorare per fermare gli scontri e le armi». Denuncia e impegno: un mix virtuoso, tanto più quando assume una dimensione sovranazionale. La dimensione giusta: quella europea. Un orizzonte a cui tendere.

Corriere della Sera 18.2.12
La separazione fra Stato e Chiesa farebbe bene al Tibet (e alla Cina)
di Marco Del Corona


Le autorità di Pechino avevano dato prova di coraggiosa liberalità. Settemila cittadini cinesi di etnia tibetana avevano ottenuto il permesso per visitare l'India e il Nepal tra la fine del 2011 e l'inizio di quest'anno. Molti si erano diretti nello Stato indiano del Bihar per seguire, tra il 31 dicembre e il 10 gennaio, gli insegnamenti del Dalai Lama, guida spirituale dei buddisti tibetani ma non più leader politico della diaspora. Un gesto generoso, da parte della Cina, coerente con l'immagine, e con la percezione di sé, di un Paese sicuro, tollerante, autorevole. Ieri, però, la organizzazione non governativa americana Human Rights Watch (Hrw), in concomitanza con le battute finali del viaggio del vicepresidente Xi Jinping negli Usa, ha comunicato che «centinaia» di quei tibetani sono stati arrestati e sottoposti a rieducazione. L'organizzazione aggiunge che non accadeva dagli anni Settanta che la Repubblica Popolare detenesse tanti laici tibetani tutt'insieme.
Se confermato nei termini in cui ne parla Hrw, l'episodio va messo in relazione con la sequenza di autoimmolazioni di tibetani da un anno a questa parte, soprattutto nel Sichuan occidentale. Ciò che fermi e rieducazione mostrano, però, è — più ancora dell'ovvia violazione della libertà di coscienza — l'incapacità della Cina di uscire dall'identità Stato-religione. In un Paese dove le fedi organizzate legali sono cinque e sono controllate dallo Stato, risulta inconcepibile che un atto di devozione nei confronti del Dalai Lama possa essere esclusivamente religioso, senza risvolti politici.
Ovvio, nessuno può escludere che alcuni dei pellegrini in India fossero teste calde del «separatismo», ma è un dato di fatto che il Dalai Lama, Nobel per la Pace, resta un leader religioso che l'anno scorso ha abbandonato ogni incarico politico, ed è un dato di fatto che sia lui sia il «governo in esilio» chiedono per il Tibet autonomia all'interno della Cina, non l'indipendenza. In questo caso una separazione fra Stato e chiesa (buddista) avrebbe fatto bene a tutti. Ai tibetani. E anche alla leadership di Pechino, potenza globale.

il Fatto 18 2.12
“Io, medico arrabbiato nell’inferno del San Camillo
L’inchiesta della Procura, i Nas, un primario sospeso ma il collasso del Pronto soccorso era stato denunciato nel 2008
di Silvia D’Onghia


Io non mi sento sconfitta, mi sento incazzata”. Maddalena Schiano è un medico del Pronto soccorso del San Camillo, il nosocomio romano dove – come il Fatto ha denunciato anche con un video domenica scorsa – i pazienti vengono addirittura curati a terra. La Procura della Capitale ha aperto un’inchiesta, allargando gli accertamenti anche ad altri Pronto soccorso e inviando i Nas a verificare le condizioni delle strutture. Ieri si è scoperto che il primario di chirurgia d’urgenza del San Camillo, Donato Antonellis, è in distacco sindacale dal primo febbraio. L’inchiesta, questa volta interna, è partita dopo le denunce, già nel 2007, per lesioni gravi e gravissime proprio nel reparto da lui diretto.
Ma, mentre il caso mediatico ha messo in moto la macchina della giustizia (e della politica: le dichiarazioni si sprecano), nel Pronto soccorso non è cambiato nulla. “Sono all’inferno”, ammette la dottoressa Schiano, mentre dà indicazioni agli infermieri, risponde al telefono e cerca un posto tranquillo in cui poter parlare. Ha i minuti contati, i pazienti sono sempre troppi. “Faccio i turni al codice giallo/rosso (i più gravi, ndr): mattina, pomeriggio e notte. Quest’ultimo mi capita in media due volte a settimana, dura 12 ore ed è il più difficile. Quando arrivo, prendo la coda della giornata, eredito un numero spaventoso di pazienti che non so dove mettere perchè i posti letto sono finiti. Li devo rivalutare tutti. Ci sono quelli ‘critici’ che rischiano di essere instabili, quelli che hanno bisogno di conforto, quelli arrabbiati perchè sono lì da troppe ore. E nel frattempo arrivano i nuovi. Le ho detto, è un inferno”.
MA PERCHÉ accade tutto questo, e non soltanto al San Camillo? La causa è da cercare nella drastica riduzione dei posti letto operata dalle Regioni per rientrare dal debito sanitario. “Se si raddoppiassero i medici senza aver ripristinato un numero adeguato di letti, non si risolverebbe nulla”, spiega Ruggero Pastorelli, presidente Fadoi Lazio. Nel caso del San Camillo, il sovraffollamento è dovuto anche alla chiusura dei pronto soccorso del Sant’Eugenio e del Cto Alesini, ospedali che smaltivano un ampio bacino d’utenza. “Io ho anche la funzione di team leader – prosegue la dottoressa Schiano –, devo riuscire a risolvere la situazione dei posti letto. A volte sono bloccate anche le camere operatorie, allora dobbiamo riuscire a spostare pazienti, anche di notte, per liberarle”.
Una condizione che, in realtà, è precipitata nell’ultimo anno, ma che al San Camillo denunciano da tempo. Nel dicembre 2008 Sandro Petrolati, cardiologo e componente della segreteria nazionale dell’Anaao (uno dei principali sindacati dei medici), ha firmato personalmente un esposto presentato in Procura. La denuncia era la stessa: pazienti non curati come si dovrebbe, spazi e servizi (anche igienici) inadeguati, personale costretto a lavorare in situazioni al limite. Dal 2008 la causa è ancora in corso, però nel frattempo sono cambiati i numeri: se prima il tempo di attesa era di 24-36 ore, oggi possono trascorrere anche 5 giorni prima che un paziente venga ricoverato. Senza che nessuno faccia niente.
“È UNA QUESTIONE di dignità – spiega Maddalena Schiano – non soltanto per il nostro lavoro, ma per i cittadini. Viviamo, noi e il personale infermieristico e paramedico, in una condizione di perenne frustrazione. Quando i familiari di un anziano si arrabbiano con noi, e hanno ragione, l’unica risposta che possiamo dare è ‘non dipende da noi’. Qualcuno lo capisce, qualcun altro no. Vede, il lavoro in un Pronto soccorso dovrebbe essere stimolante, mai uguale a se stesso. Siamo gli unici medici che a Natale non ricevononeancheunregaloecerto non diventiamo ricchi (lo stipendio medio di un assunto è di 70 mila euro lordi all’anno, ndr), ma chi se ne frega. La cosa più importante è salvare la vita alla gente”. Già, ma come fare a garantire l’assistenza? “La missione di un Pronto soccorso sarebbe quella di accettare un paziente, stabilizzarlo, fare una diagnosi e dargli un posto letto. Invece ci troviamo a dover somministrare antibiotici, che in alcuni casi diventano farmaci salva-vita, a ore diverse, e intanto dobbiamo intervenire su due infarti e un politrauma. Il rischio di errore è elevatissimo”. I riflettori si sono accesi su Roma, ma il dramma riguarda tutta l’Italia. La Funzione pubblica Cgil ha calcolato che nel 2009 ci sono stati quasi 3,8 accessi ogni 10 abitanti e di questi solo il 15% è stato ricoverato.

Repubblica 18.2.12
Se all'Italia l'arte di arrangiarsi non basta più

di Ilvo Diamanti

Quelle differenze che in alcuni casi sono una ricchezza, rischiano ora di trasformarsi in elementi di divisione
Se c´è poca stima nelle istituzioni, lo Stato si indebolisce non solo a livello interno, ma anche internazionale
Un saggio di Ilvo Diamanti spiega perché, per uscire dalla crisi di oggi, sono sempre più necessari solidarietà cooperazione e senso civico

Questo è un paese di "italiani nonostante". Nonostante tutto, italiani (come recita il titolo di un volume di Edmondo Berselli). Il 2011 non è stato un anno come gli altri. Per l´Italia e sul piano globale è stato segnato da una crisi profonda, che ha scosso l´intero sistema delle relazioni e dei riferimenti territoriali, al punto da mettere in discussione le basi stesse della nostra identità nazionale, rendendole meno efficaci e, in una certa misura, più fragili. Vale la pena di riflettere ulteriormente, anche se brevemente, sui mutamenti economici e politici avvenuti negli ultimi mesi, ma soprattutto sulle conseguenze che possono avere sull´identità territoriale degli italiani. E viceversa.
Va detto, in premessa, che la "debolezza" e la frammentazione dell´identità nazionale, che caratterizzano il nostro Paese, non costituiscono necessariamente un problema. Possono, al contrario, costituire anch´esse una risorsa, in quanto rendono più facile l´adattamento culturale, ma anche operativo, in tempi di fluidità dei riferimenti territoriali. In un´epoca, cioè, nella quale sono cambiati e continuano a cambiare le cornici istituzionali, all´interno e all´esterno degli Stati nazionali.
Si pensi, a solo titolo di esempio, alle difficoltà che incontra l´unificazione europea, ma anche al ruolo assunto dagli organismi supernazionali che regolano l´economia, la finanza e i mercati. Si pensi ancora, alle trasformazioni in atto nell´organizzazione territoriale dello Stato, in direzione del decentramento e del federalismo.
Un´identità articolata e flessibile, come quella italiana, è certamente in grado di adattarsi a questi mutamenti molto meglio di altri paesi, dotati di riferimenti di valore e istituzionali forti e definiti, ma caratterizzati, anche per questo, da maggiore rigidità, sul piano sociale e culturale.
La crisi economica e finanziaria globale del 2011, però, ha, in parte, rovesciato questo schema. Ha, cioè, trasformato l´identità "provvisoria" degli italiani in un limite, piuttosto che in un "vantaggio" adattivo e competitivo.
La "sfiducia pubblica" e la bassa densità di "senso civico", in particolare, sono divenuti ostacoli. Vincoli difficili da sostenere, di fronte alla necessità di coesione e di coinvolgimento necessaria ad affrontare non solo i costi economici e fiscali, ma anche il rischio della dispersione "centrifuga" della società. La stessa vocazione a "fare da soli", ad arrangiarsi a livello locale e familiare appare un problema, in una crisi che vede confrontarsi e scontrarsi le economie ‘nazionali´ nel teatro europeo e globale.
Oggi, in altri termini, appare difficile salvarsi da soli, "nonostante" lo Stato. Senza senso di "cooperazione". In altri termini: senza civismo.
Un basso grado di civismo e di fiducia nelle istituzioni, infatti, indebolisce la legittimità dello Stato non solo a livello interno, ma internazionale. A maggior ragione se si accompagna a un atteggiamento di distacco, per non dire disprezzo del sistema politico e dei partiti. D´altronde, in Italia, il sistema partitico è identificato con lo Stato nazionale.
Da ciò derivano conseguenze pesanti, nelle sedi negoziali internazionali: la Ue, in particolare. Ma anche sui mercati, che percepiscono la debolezza del sistema partitico e del governo come un moltiplicatore della crisi economica.
In un certo senso, il famigerato spread, entrato nel linguaggio comune durante la crisi finanziaria degli ultimi mesi, non definisce solo il differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi. È un indice della incredibilità stessa dello Stato (e del sistema politico), garante della nostra economia di fronte alle istituzioni e ai mercati, in ambito internazionale.
Da ciò, una seconda conseguenza, che riguarda – e indebolisce – le radici stesse dell´identità italiana. Infatti, se la nostra capacità di adattamento non ci permette più di reagire alla crisi e alle difficoltà economiche, allora la nostra stessa identità sociale viene messa in discussione.
Perché l´arte di arrangiarsi, di trasformare i problemi in opportunità è costitutiva del nostro "specifico" nazionale. Se non ci aiuta a risollevarci di fronte alle avversità, allora anche la fiducia in noi stessi si sfarina. Di qui il rischio di una spirale viziosa e auto-deleteria. Infatti, se le nostre arti e le nostre virtù nazionali non ci permettono, come in altre fasi, di superare la crisi, la crisi stessa ne corrode l´efficacia e la forza. Ne converte gli effetti: da virtù in vizi.
Lo stesso discorso vale per i nostri particolarismi e per le nostre differenze territoriali, che in questa fase rischiano di diventare fratture, elementi di divisione. Perché i costi della crisi sono elevati e lo Stato non è in grado di mediare, tanto meno, di imporre la propria autorità, ma deve comunque ridurre le risorse e i margini di autonomia degli enti periferici. I localismi rischiano, così, di produrre tensioni, di divenire dissolutivi.
Piuttosto che contro il contesto "nazionale", i contesti locali minacciano di porsi in contrasto reciproco. Tra di loro. Modificando il modello tradizionale e sperimentato, che ci propone come un popolo di e italiani. Milanesi e italiani. Napoletani e italiani. Bolognesi e italiani. Marchigiani e italiani. In direzione di un popolo di milanesi, napoletani, bolognesi, marchigiani. E basta. Non siamo, ovviamente, alla dissoluzione del nostro modello. Tanto meno dell´Italia. Tuttavia, in questa fase assai più che in passato, una società senza Stato rischia di scomporsi. E l´arte di arrangiarsi, senza civismo, non ci salverà.

Repubblica 18.2.12
La civiltà dei feticci
Quando gli oggetti di adorazione diventano creazioni artistiche

di Valeri Magrelli

La dimensione della visualità ora preponderante è indagata e non bollata
Dal vello d´oro degli Argonauti ai film, un saggio di Massimo Fusillo riflette sul valore simbolico delle "cose" tra letteratura e nuovi linguaggi
Tutte le storie di Dickens sono ricche di "installazioni" con suppellettili

Ci sono due maniere per mettersi in rapporto con le cose che popolano il nostro mondo quotidiano. La prima è quella espressa nel primo Novecento dal comico tedesco Karl Valentin: «Gli oggetti sono perfidi. Tutte le difficoltà nascono dal fatto che li si deve affrontare per adoperarli. Una volta usciti dal loro stato di quiete, essi si vendicano perfidamente».
Tale atteggiamento è il lontano erede di una tradizione che, prima delle rivolte degli oggetti descritte da Poe e disegnate da Grandville, riguarda i cicli figurativi delle Tentazioni di Sant´Antonio illustrati da Bruegel, Huys o Bosch. Ebbene, come spiegò uno storico dell´arte quale Jurgis Baltrusaitis, queste bizzarre varianti delle sacre rappresentazioni risalgono in realtà alla civiltà cinese, e hanno il loro archetipo nei tormenti di un martire buddista.
Diventate creature viventi e nemiche, le cose aggrediscono chi tenta di resistere loro. Soltanto un pio orientale o un anacoreta cristiano potranno arginare l´insurrezione. Ma lasciamo la parola a un grande poeta, Rilke: «Là dove c´è uno che raccoglie se stesso, un solitario (...) ecco che quegli provoca la contraddizione, lo scherno, l´odio delle suppellettili degenerate (...) Allora esse si riuniscono fra loro per turbarlo, spaventarlo, confonderlo, e sanno di riuscire a farlo. Allora cominciano, ammiccando l´una all´altra, la tentazione, che cresce poi nello smisurato e trascina tutti gli esseri e Dio stesso contro quell´uno che forse resiste: il santo».
Ci sono due maniere, dicevamo, per mettersi in rapporto con le cose. Se la prima si svolge nel segno dell´antagonismo, sacro o profano, la seconda è al contrario caratterizzata da una passione irresistibile. Proprio sulle infinite forme di un simile amore, si concentra uno studio di Massimo Fusillo, Feticci (il Mulino, pagg. 205, euro 20, con 31 illustrazioni a colori). Come spiega il sottotitolo, la questione investe Letteratura, cinema, arti visive, ma sempre per un unico scopo: esaminare quell´antico fenomeno che porta le cose, investite di valori simbolici ed emotivi, a trasformarsi in feticci, ossia in oggetti di adorazione (come quelli scoperti con l´esperienza colonialista in Africa). L´idea portante del volume consiste nel radicale ribaltamento di senso relativo a tale termine. Quella proposta da Fusillo, insomma, corrisponde a una vera e propria rivoluzione culturale, in linea con alcune fra le più recenti tendenze di ricerca estetica. Di solito, infatti, il concetto di feticcio, elaborato dall´antropologia e dalla psicanalisi, riceve «connotazioni negativi di inautenticità». Tutto il contrario con questo acuto saggio, basato sulla convinzione che esista un nesso privilegiato tra creatività artistica e feticismo. E sull´idea che la dimensione della "visualità" (distinta dalla visione) sempre più preponderante nel nostro tempo vada indagata come fattore culturale e non bollata con la semplice etichetta di "tirannia delle immagini".
Fin qui la parte strettamente teorica del testo, che ha tra i suoi pregi quello di svelare alcune direttrici di ricerca ancora poco note oltre la cerchia degli specialisti. È il caso dei cosiddetti Thing Theory, Object Studies o Rubbish Theory ("teoria delle cose", "studi sugli oggetti", "teoria del pattume"), emersi nell´ultimo decennio come pratiche interdisciplinari che interessano etnografi, archeologi, storici, storici dell´arte, filosofi e critici letterari (nell´ottobre scorso l´Università di Salerno ha dedicato un intero convegno all´argomento). Questo nuovo campo della cultura materiale si interroga su «come gli uomini costruiscono le cose, e come viceversa le cose costruiscono gli uomini». Intellettuali quali Bruno Latour, Alfred Gell, Tim Ingold, Graham Harman, Web Keane, Daniel Miller e W. J. T. Mitchell e Appadurai (che ha parlato di "feticismo metodologico"), indagano cioè quel fenomeno per cui gli oggetti giungono a illuminare il loro contesto umano e sociale.
Ma torniamo a Fusillo, il cui lavoro consiste essenzialmente nel ricostruire la storia e la tipologia dell´oggetto feticcio, spaziando dall´epoca ellenistica (con un magnifico capitolo sulle Argonautiche di Apollonio Rodio), fino agli ultimi esempi narrativi, cinematografici e artistici (magistrale l´analisi di Underworld di Don DeLillo). Dopo una densa introduzione sui rapporti del feticcio con la merce (da Marx a Benjamin) e il desiderio (da Binet a Freud), già il primo capitolo ci scaraventa in una serie di vicissitudini che vertono su oggetti "inestimabili". Vediamo allora scorrere il vello d´oro inseguito da Giasone e la palla d´oro che la dea Afrodite promette a suo figlio Eros, il ventaglio in Goldoni e Oscar Wilde, il bicchiere inciso nelle Affinità elettive di Goethe, le "installazioni" di suppellettili che gremiscono i romanzi di Dickens, su su fino alla sputacchiera nei Figli della mezzanotte di Salman Rushdie, al Museo dell´innocenza (puro inno all´oggetto memoriale) progettato da Pamuk, o all´oggetto porno in Palahniuk. L´elenco degli scrittori esaminati, però, sarebbe troppo lungo. Piuttosto, meritano d´essere segnalati artisti folli come Raymond Isidore, autore di una cattedrale di detriti, o personaggi estremi come i fratelli Colyer (ripresi in un racconto di Doctorow), morti nel 1947 di "disposofobia", una sindrome consistente nell´accumulo compulsivo di oggetti, che li portò a spegnersi in una casa stracolma di ciarpame, rottami e rifiuti.
Resterebbe da dire delle minuziose perlustrazioni artistiche (con Louise Bourgeois e Pistoletto), e cinematografiche (da Elia Kazan a Joseph von Sternberg). A tale proposito si sarebbe potuta citare la leggendaria palla di vetro in Quarto potere di Orson Welles. Ma il libro vive anche della sfida a proseguire il cammino tracciato da Fusillo, in modo da integrare la già ricchissima messe dei suoi documenti. Feticci, amuleti, talismani: la caccia è aperta.


La Stampa TuttoLibri 18.2.12
Cervello. Tre libri raccontano il viaggio nell’organo più misterioso del nostro corpo per scoprire dove nasce la libertà dell’uomo nel prendere decisioni
Nella coscienza c’è un brusio di neuroni
di Piero Bianucci


Margriet Sitskoorn «I sette peccati capitali del cervello» Orme Editori pp. 176, 16,50 Frase chiave: «Grazie all’ossitocina è possibile rendere gli individui più generosi dell’80%»
Arnaldo Benini «La coscienza imperfetta» Garzanti pp. 147, 18 Frase chiave: «Il cervello prima indaga, poi decide che cosa fare. Di queste operazioni non si ha coscienza»
Lamberto Maffei «La libertà di essere diversi» il Mulino, pp. 181, 15 Frase chiave: «La riflessione e lo studio possono far crescere il nostro ambito di libertà?»

L’operaio Phineas Gage ebbe il cranio trapassato da una stanga visse 12 anni, ma perse il senso della morale Ma davvero siamo avari solo per mancanza di ossitocina o lussuriosi per azione della dopamina?

Decidete se leggere questo articolo o voltare pagina. Vi sentite liberi? Certamente sì. Ma con la risonanza magnetica funzionale un neurologo può «vedere» la vostra decisione prima che l’abbiate presa in modo consapevole. Dunque dov’è libero arbitrio? Che merito c’è nel fare il bene anziché il male? Addio etica.
Qualche mese fa la fondazione americana Templeton ha stanziato 4,4 milioni di dollari per chiarire se siete davvero liberi di voltare pagina. Questione antica. Già il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677) spiegava l’illusione della libertà con l’ignoranza delle cause complesse che ci portano a compiere scelte e prendere decisioni. Oggi sappiamo che queste cause sono un vortice di segnali elettrici scambiati tra i 120 miliardi di neuroni che costituiscono il cervello umano. Attenzione però a non ridurlo a una macchina. Il Dna disegna geneticamente il cervello, ma ambiente e cultura ogni giorno lo plasmano, e dai neuroni emerge una personalità unica.
Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei, professore emerito alla Scuola Normale di Pisa, illustre studioso della percezione visiva, nel saggio La libertà di essere diversi riesamina il problema del libero arbitrio alla luce delle conoscenze più recenti. Fu Benjamin Libet nel 1979 a dimostrare con un esperimento che la corteccia motoria si attiva prima dell’atto volontario. Per 8 decimi di secondo non siamo consapevoli di una decisione che è già stata presa. Presa da chi? O da che cosa?
E’ difficile accettare che il libero arbitrio si riduca a segnali elettrici. La libertà forse emerge proprio dalla complessità del cervello. «Teoricamente – dice Maffei – i gradi di libertà del cervello sono pressoché infiniti (...) i possibili stati dei neuroni sono circa 2 elevato a 10 alla 11. Un numero colossale, più grande del numero di particelle dell’universo». Non solo. Il cervello, organo che pesa il 2 per cento del nostro corpo, da solo assorbe un quarto dell’energia che bruciamo, ed è minima la differenza di consumo tra il sonno e la veglia. L’attività neuronale è come un «rumore bianco», cioè casuale, nel quale paradossalmente il segnale significativo assume più evidenza appena supera una determinata soglia. Il continuo brusio dei neuroni – suggerisce Maffei – potrebbe essere all’origine del pensiero e della libertà, o almeno della illusoria percezione che ne abbiamo.
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Chicago ha messo dei ratti di fronte a una scelta: mangiare della cioccolata o liberare un compagno imprigionato in un tubo. L’esito è stato pubblicato nello scorso dicembre: alcuni ratti preferivano liberare il loro simile e poi dividere con lui la cioccolata. Sembra improbabile che sia una scelta etica, la volontà di compiere un’opera buona anziché adottare un comportamento egoistico. Più probabilmente, i neuroni specchio, quelli dell’empatia scoperti nel 1995 da Giacomo Rizzolatti, prevalgono sul desiderio di cibo. Anche da questo esperimento la libertà di optare tra bene e male esce sconfitta.
Arnaldo Benini, docente di neurologia all’Università di Zurigo, in La coscienza imperfetta, invita a non cercare l’introvabile e ricorda che quando si studia il cervello «l’esploratore, per la prima volta nella storia della ricerca, coincide con l’esplorato». In altre parole, per comprendere il cervello, ci vorrebbe un meta-cervello che non abbiamo. La coscienza sarà sempre imperfetta perché non potrà mai abbracciare tutta se stessa. Ed è vano almanaccare sull’enigma dell’emergere del pensiero e della morale: biologicamente «il compito essenziale dei cervelli, quello umano incluso, è di prendersi cura della sopravvivenza del corpo di cui fanno parte». Alla fisicità si riducono anche i prodotti più nobili dell’intelligenza, per esempio quel pensiero distillato che è la letteratura. Rassegniamoci: «Lingue e letterature esistono fin quando ci sono cervelli che le parlano, le scrivono e le leggono». Ce n’è anche per Kant. Tempo e spazio non sono categorie «a priori» della mente ma esperienze apprese, e quanto alla «legge morale che è in noi», Benini ci sbatte in faccia «la banalità del male» (e quindi anche del bene?). «Per compiere un delitto immane – dice Benini – Eichmann non aveva bisogno che di essere un uomo qualunque», «la coscienza del bene e del male è emersa come meccanismo del cervello durante un lunghissimo processo naturale, l’evoluzione, la cui regola è la sofferenza del più debole che soccombe».
E’ così che la neuropsicologa dell’Università di Tilburg (Olanda) Margriet Sitskoorn può aprire I sette peccati capitali del cervello con il caso di Phineas Gage, un bravo capooperaio che il 13 settembre 1848 ebbe il cranio trapassato da una stanga di ferro mentre lavorava alla costruzione di una ferrovia: campò ancora 12 anni, ma aveva perso il senso morale. L’etica stava tutta nei neuroni di cui l’incidente l’aveva privato. Di qui è breve il passo che vanifica ogni colpa. Siamo avari per scarsità di ossitocina, erotomani per eccesso di testosterone, lussuriosi per azione della dopamina. Ma non sarà troppo semplice?

La Stampa TuttoLibri 18.2.12
Storia La rivista fondata sessant’anni fa da Paci: una vasta impronta interdisciplinare
Aut aut, il respiro della filosofia
di Gianni Vattimo


Pier Aldo Rovatti (a cura di) IL CORAGGIO DELLA FILOSOFIA. AUT AUT 1951-2011 Il Saggiatore, pp.533, 25
Un particolare della «Scuola di Atene» (1509-1511) di Raffaello Sanzio

Non conosciamo quasi nessun volume dello stesso genere paragonabile, per valore intrinseco e utilità culturale (non solo specialistica) simile a quello che da qualche settimana è stato pubblicato, a cura di Pier Aldo Rovatti, con il titolo Il coraggio della filosofia. Aut aut 1951-2011. Come si sarà capito, è la storia della rivista filosofica nata sessant’anni fa per iniziativa di Enzo Paci, allora professore di filosofia a Milano, che ha continuato a vivere anche dopo la scomparsa del suo fondatore ad opera di un gruppo tra i più interessanti dei giovani filosofi italiani sotto la direzione appunto di Pier Aldo Rovatti.
Il carattere relativamente straordinario di questo volume è anzitutto di essere bensì nato da un intento commemorativo-celebrativo, trasformandosi però in una specie di enciclopedia del pensiero filosofico italiano ed europeo degli ultimi sei decenni. Lo sottolineiamo perché può capitare che un libro simile venga accolto con benevola ma poco impegnata attenzione: una sorta di omaggio dovuto sia alla memoria del fondatore sia all’impegno con cui, nel corso di più di mezzo secolo, li autori vi hanno collaborato. In fondo, i lettori di Aut aut - che sono rimasti numerosi e costantemente aumentati in questi anni - ritrovano qui una antologia di cose che avevano già letto. Eppure rileggere tanti testi - da quello inaugurale e molto denso con cui Paci iniziava il lavoro della rivista, ai tanti che gli sono succeduti niente affatto caratterizzati da una appartenenza di scuola, è come un ripercorrimento - critico e ancora «inventivo» - della storia del pensiero di una buona metà del secolo passato. Non solo della filosofia, e non solo italiana.
Quando Aut aut comincia le sue pubblicazioni, la cultura italiana è appena uscita dalla lunga parentesi del fascismo e vive anche sul piano politico il clima della ricostruzione, con l’entrata in scena di molte correnti di pensiero che erano rimaste silenti o relativamente ignorate negli anni precedenti: non solo l’esistenzialismo, ma le scuole anglosassoni (filosofia del linguaggio, neopositivismo) e poi, a partire soprattutto dagli anni Sessanta, la fenomenologia. Un orientamento che ha costitutivamente il «vantaggio», rispetto ad altre linee di pensiero, di aprire la filosofia a una vasta gamma di rapporti interdisciplinari: il primo segretario di redazione di Aut aut, leggiamo nella nota iniziale di Rovatti, fu Gillo Dorfles, un filosofo che era, ed è tutt’oggi, anche un grande critico d’arte. Con Paci lavorò pure il musicologo Luigi Rognoni, e costante fu l’attenzione per la critica letteraria (nella raccolta attuale figura un importante saggio di Fortini) e per la psicoanalisi.
Il libro è scandito in decenni, e l’articolazione stessa mostra la connessione del lavoro filosofico con gli eventi della società italiana. I due blocchi più caratteristici della storia della rivista paiono essere quelli degli anni Sessanta e degli anni Settanta: il primo, centrato intorno alla «scoperta» del rapporto tra marxismo e fenomenologia (marcato dall’incontro con La crisi delle scienze europee di Husserl, che nell’antologia si conclude con un importante saggio di Paci sui movimenti studenteschi del Sessantotto) e il secondo messo sotto la categoria dei «bisogni», dove compaiono Agnes Heller, Toni Negri, Cacciari. Il marxismo rimane un interlocutore costante della rivista (che va considerata anche, al di là dei singoli contributi personali in articoli e libri, il vero grande lavoro filosofico del suo direttore, Rovatti) ; ma via via entrano in gioco altre voci, non solo l’ermeneutica ovviamente, anch’essa legata alla tradizione fenomenologica, ma più tardi Foucault, Deleuze, Derrida. Un curioso piccolo articolo di Hans Blumenberg (ripreso da un giornale tedesco del 1987: L’Essere, un MacGuffin) sembra voler prendere le distanze dal primo grande allievo di Husserl, Martin Heidegger. Verso il quale, tuttavia, non ci fu mai alcun ostracismo, in Aut aut, piuttosto una sorta di cauta osmosi che dura anche oggi e che contribuisce a fare della rivista un punto di riferimento indispensabile, non solo italiano, di ogni pensiero militante. "Come interlocutore costante il marxismo, si aprì all’esistenzialismo, alle scuole anglosassoni, alla fenomenologia Primo segretario fu Gillo Dorfles, costante sarà l’attenzione per la psicoanalisi"

Corriere della Sera 18.2.12
La decadenza del capitalismo ridotto come una foglia secca
Vorrebbe dominare il mondo ma è sottomesso alla tecnica
di Emanuele Severino


Durante una crisi come quella che stiamo vivendo si rafforza il fastidio per tutte le forme di cultura che non aiutano a risolvere problemi economici o politici ben precisi. In una nave che affonda, chi non aiuta a chiudere le falle è un peso inutile. Si vuole «ciò che serve», e serva innanzitutto ora, qui.
Ma anche l'estimatore di ciò che serve può capire che in sostanza si agisce a caso, e dunque è un caso che l'agire serva, se non si sa in che mondo si vive, quale sia il suo passato, verso dove esso stia andando. Se si lavora alle falle senza sapere che ci si trova su una nave che affonda, non si sa nemmeno di star lavorando alle falle. Invece di riparare il danno, lo si aggrava.
Accreditate a dire in che mondo ci troviamo sono oggi soprattutto le discipline scientifiche. Dove i metodi e i parametri delle scienze fisico-matematiche tendono a diventare i modelli non solo delle altre scienze, ma anche del modo in cui si organizzano le istituzioni sociali. Non solo, ma sono tali metodi e parametri — molto più omogenei rispetto a quelli delle altre scienze — a stabilire la configurazione dell'apparato tecnico di cui si servono le grandi forze che oggi, dopo la fine del comunismo sovietico, intendono guidare il mondo: capitalismo, democrazia, cristianità, islam, quella specie di simbiosi di capitalismo e comunismo che è venuta a formarsi in Cina.
Queste forze si servono della tecnica; ossia la tecnica è ciò che più serve per realizzare gli scopi, peraltro tra loro contrastanti, che esse intendono realizzare. Nella maggior parte dei Paesi economicamente avanzati, quel che oggi serve per uscire dalla crisi ha lo scopo di rimettere in sesto la forma capitalistica della produzione della ricchezza (una forma che è il quadro, o il contenitore, in cui ricevono senso anche le varie istanze di «rigore», «equità», «crescita»). La tecnica è ciò che più serve per perpetuare tale forma.
Tuttavia si sorvola sulle implicazioni del rapporto tra il mezzo (ciò che serve) e lo scopo (ciò che si vuole produrre), e quindi tra la tecnica e le forze che intendono servirsi di essa per realizzare i loro scopi. Si sottovaluta tra l'altro la circostanza che, servendo, il mezzo si indebolisce, si logora, si consuma; e che è inevitabile che ciò accada affinché lo scopo viva e si mantenga sano e integro il più possibile. Appunto per questo, quando si vuol raggiungere uno scopo, sono i mezzi logorati e consumati a esser sostituiti: non si sostituisce lo scopo (che per il capitalismo è un mondo capitalista, per la democrazia un mondo democratico e così via).
Per perpetuare se stesso — e il discorso vale anche per tutte quelle altre forze che oggi vogliono mettersi alla guida del mondo — il capitalismo si serve di una consistente frazione dell'apparato tecnico-scientifico. Ma proprio perché se ne serve, lo regola. Quindi lo limita. Ad esempio non gli consente di servire altri «padroni» e di attivare forme alternative di potenza; rinchiude la ricerca di innovazioni all'interno di una certa area e ne stabilisce la direzione; la concorrenza impedisce a ogni gruppo capitalistico di render noti agli altri gruppi i propri progressi nella ricerca; non produce merci per chi non ha denaro per comprarle, ecc. Pertanto, anche se ne sostituisce continuamente gli operatori umani, le macchine, i meccanismi e le apparecchiature particolari, il capitalismo frena l'insieme di tale apparato: lo indebolisce, ne logora le potenzialità, lo consuma.
Ma indebolire e consumare l'apparato tecnico di cui il capitalismo si serve allo scopo di tenere in vita se stesso significa indebolire il mezzo che deve realizzare tale scopo, significa cioè impedire la realizzazione dello scopo (in generale — per quanto l'affermazione possa suonare fastidiosa o capziosa — servirsi di un mezzo per raggiungere un certo scopo significa ostacolare la realizzazione di tale scopo. Una contraddizione, questa, che, daccapo, non riguarda soltanto il capitalismo, ma anche tutte quelle altre forze di cui si è detto). Si aggiunga che la tecnica è oggi il mezzo più potente per realizzare scopi e quindi, se i singoli elementi da cui esso è composto possono e debbono esser sostituiti continuamente, l'apparato, invece, nel suo insieme, non può esser sostituito da alcun altro mezzo che abbia la stessa potenza ed efficacia.
Ora, tutto questo va messo in relazione all'ulteriore circostanza che il capitalismo e ognuna di quelle altre forze si trovano tra di loro in conflitto. In questa situazione, lo scopo di ognuna di esse viene a essere costituito non solo da ciò che la definisce e la differenzia, ma anche dalla salvaguardia e dal potenziamento del mezzo — la tecnica — con cui essa intende realizzare i propri scopi specifici prevalendo sugli scopi delle forze antagoniste.
Ad esempio, l'intenzione originaria del capitalismo è di avere come scopo ultimo, unico e specifico l'incremento del profitto privato. Ma di fatto il capitalismo è costretto a tradire le proprie intenzioni. Infatti, se e poiché i suoi avversari — poniamo l'economia cinese o l'integralismo islamico — per prevalere rafforzano le loro tecniche più di quanto il capitalismo non rafforzi le proprie, allora o il capitalismo lascia che l'avversario prevalga, e quindi perisce, oppure, per non perire ed esser lui a prevalere, deve rinunciare ad avere come scopo ultimo e unico l'incremento del profitto, ossia deve assumere come scopo ultimo anche un potenziamento tale, dell'insieme delle proprie tecniche, che sia maggiore di quello messo in atto dall'avversario.
Ma rafforzarle in questo modo è l'opposto di quel lasciarle logorare che è dovuto al loro essere assunte come mezzo che ha il compito di far vivere lo scopo. Nel proprio scopo, il capitalismo viene cioè a dare spazio a quel potenziamento e toglie spazio al proprio scopo specifico e originario (l'incremento del profitto privato). Sì che anche in questo caso il capitalismo, indebolendo il proprio scopo caratterizzante e originario, incomincia a perire. Sia che perda sia che vinca, perisce. Giacché — e questo è uno dei nodi concettuali decisivi sui quali le scienze economiche (ma non solo esse) sorvolano — se lo scopo di un agire cambia, l'agire stesso diventa qualcosa di diverso da ciò che era. Nel caso considerato: l'agire non è più capitalistico, è diventato o sta diventando qualcosa di diverso, che si tratta di decifrare (solo i cattivi osservatori credono che sia rimasto identico).
E ognuna delle forze che oggi si propongono di guidare il mondo è attesa dalla stessa sorte del capitalismo: se non riescono a prevalere sul proprio avversario tecnicamente più potente periscono; ma periscono anche se prevalgono; giacché possono prevalere solo potenziando le proprie tecniche fino a farle diventare la parte preponderante dei loro scopi. Ciò significa che il nostro è il tempo in cui è destinata a prevalere l'organizzazione tecnico-scientifica del mondo (con tutte le precisazioni che da più di quarant'anni vado indicando). Nella sua essenza, il mondo in cui quelle forze credono di vivere è già morto. Come le foglie secche ancora attaccate ai rami.
Molte le diagnosi. L'attuale crisi economica — si dice — è dovuta alla separazione tra capitalismo industriale e quello finanziario; la crisi può essere superata liberando la morale (soprattutto cristiana) o la politica dalla loro soggezione all'economia; può essere superata ritornando a Marx e voltando le spalle all'economia di mercato. Tutte diagnosi (sempre più insistenti, comunque, quelle che, anche senza guardare a Marx, affermano la fine del capitalismo) che non fanno i conti con la sequenza concettuale sopra richiamata, e quindi non possono sapere in che mondo oggi viviamo.
Pertanto, chi è estimatore di ciò che serve alla sopravvivenza del capitalismo — o delle altre grandi forze del vecchio mondo — e agisce sulla base di quelle diagnosi è il servitore di un cadavere. Il che non esclude che le sue azioni possano essere utili, e perfino molto utili, a imbalsamare le foglie secche, tenendole attaccate ai rami ancora per un po', e perfino per un bel po' — ma in tal modo ritardando la trasformazione a cui il mondo è destinato.
L'amatore di «ciò che serve» (ma un abisso si apre sotto i piedi di questa espressione) non deve dunque servire i morti, ma ciò che sta nascendo, ossia quel nuovo, immane e spaesante Leviatano che è l'organizzazione scientifico-tecnologica del mondo e pertanto dell'economia, della politica, della morale. Incommensurabilmente più decisiva di qualsiasi forma di «governo tecnico», questa organizzazione conduce al rovesciamento del mondo: invece di servire le grandi forze sopravvissute che ancora si illudono di padroneggiarla, è essa a servirsi di tali forze per aumentare all'infinito la propria potenza. E se oggi il capitalismo coinvolge sempre di più gli Stati (tradendo la propria vocazione originaria), ciò significa che anche gli Stati stanno diventando, da padroni, servitori dell'apparato scientifico-tecnologico.
Durante questo rovesciamento tutto si trasfigura, tutto diventa ambiguo e disorientante, il mondo sembra incomprensibile. È la crisi del vecchio mondo. Bisogna saperla decifrare (e andando molto più al largo, in mare aperto, rispetto alle stesse considerazioni qui richiamate).

Corriere della Sera 18.2.12
Cosa c'è (di sbagliato) nella testa degli adolescenti
Perché una ragazza che sa tutto sulle nascite si ritrova incinta?
La pubertà precoce e le influenze sul cervello
di Paola D’Amico


Maria Claudia ha tredici anni ma è come se la parte del suo cervello che governa le emozioni ne avesse qualcuno in più e quella dell'autocontrollo qualcuno in meno. «Perché sono salita sul motorino di Ada senza casco sapendo che mi sarei giocata la festa di sabato? Boh, l'ho fatto. Punto». L'alzata di spalle consacra il risultato dell'ennesima zuffa: 1 a 0 per il sistema del suo cervello più sviluppato ma anche più impulsivo e irrazionale. Per spiegare quello che Maria Claudia ignora Ronald Dahl, psicoterapeuta alla University of California, paragona il cervello di un ragazzo a un'auto: «L'adolescente di oggi sviluppa il proprio acceleratore prima di saper sterzare o frenare». «E, visto che oggi si entra prima nella pubertà (perché si mangia di più, parrebbe ndr) e più tardi nell'età adulta le accelerate senza sterzate e/o frenate si moltiplicano», completa la metafora lo psicoanalista Massimo Ammaniti. «Per guidare serve esperienza».
Si chiedeva qualche giorno fa il Wall Street Journal: che c'è di sbagliato nel cervello degli adolescenti? Perché una ragazza che sa tutto sul controllo delle nascite si ritrova incinta? Cosa è successo a quel ragazzo che tanto si è distinto al liceo ma poi ha lasciato l'università e, lavoro dopo lavoro, ora vive nel seminterrato dei genitori? La risposta è la stessa che la neuropsichiatra olandese Eveline Crone ha dato nel suo saggio fresco di stampa Nella testa degli adolescenti (Urra–Feltrinelli): le stranezze di questa età «intrepida» sono figlie dello squilibrio tra diverse parti del cervello. Di quel bombardamento ormonale che va ad attivare l'area di regolazione delle emozioni (tanto sensibile alle ricompense, soprattutto sociali: sovrastimate, rispetto ai rischi) senza che i sistemi di controllo si siano del tutto sviluppati per mancanza di esperienza. Un dialogo imperfetto che dà vita a comportamenti impulsivi e irrazionali.
Niente di diverso rispetto ai ragazzi di un tempo. La shakesperiana tragedia di Romeo e Giulietta lo dimostra: «Questi comportamenti sono tipici dei giovani di tutte le epoche», dice la responsabile del Brain and Development Laboratory dell'Università di Leida. Ma mentre la tredicenne Giulietta sarebbe diventata moglie e madre entro un anno o due, nelle nostre Giuliette (più precoci dei maschi e a rischio sul fronte sesso) il tumulto d'amore si manifesta 20 anni prima di sfociare in maternità. E i nostri Romeo potrebbero restare sotto l'influenza della regina Mab fino alla laurea. Ciò che è davvero cambiato negli ultimi due secoli, e soprattutto rispetto alla generazione passata, sono proprio i tempi di sviluppo dei due sistemi neurali e psicologici che interagiscono per trasformare i bambini in adulti: il primo, il sistema limbico, ha a che fare con emozione e motivazione; il secondo, in particolare la corteccia prefrontale, con controllo delle emozioni, processi decisionali, panificazioni a lungo termine. E dipende molto di più dall'esperienza. «Oggi la pubertà arriva prima e prima entra in gioco anche il sistema motivazionale — spiega Ammaniti —, ma i ragazzi, nella fase del rischio, "decido io", del nessuna regola e del distacco dalla famiglia, hanno anche poca esperienza delle cose dell'età adulta». Non sono più stupidi. Anzi, sono anche più intelligenti (hanno QI più alti, e questo ritarderebbe lo sviluppo del lobo frontale). Il fatto è che c'è il liceo col suo modello di apprendimento a tuttotondo lontano anni luce dall'apprendistato delle società del passato. Ci sono le «n» attività pomeridiane. «Ma compiti come l'apparecchiare o l'accudire i fratellini, il dare ripetizioni o trovare un lavoretto estivo sono ormai un'eccezione. Esperienza e regole (spesso trascurate per paura del conflitto) sono fondamentali».
Il paradosso sottolineato da psicoterapeuti e sociologi è quello evidente in tanti giovani: colti, intelligenti e vivaci ma incapaci si scegliere la propria strada, di impegnarsi in un particolare lavoro o rapporto. Proprio perché la loro area di controllo non è stata modellata dall'esperienza. «È sbagliato credere che un'area del cervello è confinata lì, svolge quel preciso compito ed è inflessibile. Il cervello è potente proprio perché le sue parti interagiscono e sono sensibili all'esperienza» spiega il neuroscienziato Vittorio Gallese, sconcertato dal vedere studenti universitari accompagnati agli esami dai genitori. «Detto questo: tutte le sue parti sono allenabili, a tutte le età».
Ecco così che i genitori («troppo amici») possono imparare ad allenare non solo quello che lo psicoterapeuta dell'età evolutiva Gustavo Pietropolli Charmet chiama il ragazzo creativo («narciso e fragile, troppe aspettative») ma anche il ragazzo apprendista. «Senza paura di rompere quel pacifismo che lo tiene nella famiglia dell'affetto fino ai 30 anni», afferma mettendo in guardia dal consegnare tutto alle neuroscienze. «C'è una vertiginosa anticipazione delle competenze alle quali vanno affiancate più occasioni per apprendere dall'esperienza». Lavoretti in casa (rifare il letto o sparecchiare), ma anche a scuola (ordinare la biblioteca o raccogliere le foglie in giardino). Potrebbe valere così di più un tirocinio differenziato di guida dell'aumento di un anno o due l'età per prendere la patente. Un apprendistato di tante ore di doposcuola. Se per gran parte della nostra storia i bambini hanno iniziato i loro stage di vita a sei anni perché aspettare i 27?
Alessandra Mangiarotti

Corriere della Sera 18.2.12
Cartagine riscoperta
Non fu distrutta ma solo sepolta
Cinquemila metri di mosaici
e palazzi di cinque piani che gli scavi stanno riportando alla luce
di Massimo Nava


La storia, come sempre scritta dai vincitori, racconta che i cartaginesi, antenati degli odierni tunisini, erano barbari, incolti, violenti. E che andavano distrutti — «Carthago delenda est» — essendo una costante minaccia per l'impero romano. L'archeologia spiega una storia diversa. Non fu scontro di civiltà, ma guerra fra due imperi per la supremazia nel Mediterraneo, fra popoli che per molto tempo ebbero importanti relazioni commerciali e culturali, di cui sono rimaste eccezionali tracce nel territorio. L'archeologia smentisce in parte anche la versione epica, secondo la quale la fine di Annibale segnò la distruzione fisica di Cartagine. In realtà i romani non la rasero al suolo, ma la ricoprirono di resti e terriccio per costruire un'altra città. Il paradosso storico è che ad essere distrutte quasi senza più traccia dai vandali di Genserico furono le architetture delle epoche successive, come quelle bizantine.
Oggi i resti dell'antica Cartagine sono ben visibili, attorno all'acropoli che domina la Tunisi moderna, grazie al programma patrocinato dall'Unesco, di cui è responsabile il famoso archeologo Azedine Beschaouch, il quale ha curato anche i lavori alla reggia cambogiana di Angkor prima di accettare l'incarico di ministro della cultura nella nuova Tunisia nata dalla rivoluzione dei gelsomini.
Come molte personalità della diaspora, anche Beschaouch si è messo a disposizione del Paese, entrando a far parte del governo provvisorio che ha l'arduo compito di gestire la transizione dopo le elezioni di domenica scorsa, fra tensioni sociali, crisi economica, rischi di derive fondamentaliste e delusione della gioventù che ha fatto la rivoluzione: altamente qualificata, ma senza prospettive. E il primo obiettivo del governo è proprio il rilancio del turismo che direttamente o meno dà lavoro a un terzo della popolazione e che dopo la caduta del regime ha perso quasi la metà delle presenze. Il suo slogan, che riprende al contrario il detto romano, è «Servanda Cartagine», salvare Cartagine, portare all'attenzione mondiale tremila anni di storia, le radici fenice, romane, cristiane, bizantine e arabe della Tunisia.
La stabilità del Paese dovrebbe facilitare in fretta il recupero, tanto più che il turismo tunisino si avvale d'infrastrutture di alto livello a prezzi ancora piuttosto accessibili. Sotto il regime di Ben Ali si è incentivato il turismo balneare e più recentemente la formula talassoterapia-rimessa in forma. Oggi si punta anche sulla valorizzazione dell'enorme patrimonio archeologico, finora un po' trascurato dal turismo da spiaggia e lasciato in disparte dai circuiti organizzati. «Oltre che violenta e repressiva, la dittatura di Ben Ali ha esaltato la mediocrità culturale, favorito privilegi e saccheggio di risorse», è la diagnosi stringata di Beschaouch, impegnato nel recupero di terreni archeologici su cui i cortigiani del regime avevano avviato speculazioni edilizie e delle opere d'arte trafugate. «Ma ritengo che dopo la rivoluzione almeno tre quarti degli oggetti archeologici siano stati recuperati. E stiamo collaborando con l'Interpol per recuperare il resto».
Acropoli vista mare
«C'è ancora molto da scoprire», dice indicando, dall'acropoli di Cartagine, l'antico porto dei tempi di Annibale: un'ansa naturale, con un'isola artificiale nel mezzo. I nemici si erano convinti dei poteri soprannaturali dei cartaginesi, dato che le navi da guerra davano l'impressione di scomparire all'improvviso, una volta imboccato l'ingresso del porto. «Gli scavi — racconta Beschaouch — hanno confermato l'esistenza di una grande civiltà. C'erano palazzi di quattro o cinque piani, illuminati ad olio (che era l'oro nero dell'epoca). Dalle iscrizioni, sappiamo che qui si insegnavano il latino e il greco». Il foro romano, fatto costruire da Augusto e ampliato da Adriano, copre tutta la piattaforma della collina di Byrsa e domina l'odierna Tunisi.
In un'ala del museo di Cartagine, è stata recentemente allestita la sala del guerriero punico, uno scheletro ritrovato perfettamente intatto in una tomba del VI secolo avanti Cristo. Si trattava probabilmente di un personaggio importante, data la quantità di oggetti ritrovati all'interno del sarcofago. Oggetti che appunto confermano l'alta qualità manifatturiera dell'epoca.
Cinquemila metri di mosaici
Dall'acropoli, ci spostiamo al museo del Bardo, il più antico museo del mondo arabo, restituito all'antico splendore, ampliato e ammodernato dopo anni di lavori che si concluderanno la prossima primavera. La parte nuova, un insieme di parallelepipedi bianchi si sposa perfettamente con lo stile andaluso-moresco dei palazzi che hanno ospitato il vecchio museo. Si tratta della più importante collezione mondiale di mosaici — oltre cinquemila metri quadri — gran parte dei quali qui trasferiti dai luoghi archeologici della Tunisia. È l'eredità della scuola africana che si sviluppa a partire dal secondo secolo avanti Cristo fino all'epoca bizantina.
Ho potuto ammirare quello dedicato a Virgilio, fra le Muse che ispirarono l'Eneide, prima del temporaneo trasferimento a Mantova, nell'ambito delle celebrazioni virgiliane. «Questo mosaico è la nostra Gioconda», dice Taher Ghalia, il curatore del museo. Virgilio non ha mai vissuto a Cartagine, ma il cantore della romanità ha cominciato qui il suo cammino poetico. I mosaici, al di là dell'eccezionale valore artistico, sono anche un'emozionante rappresentazione della vita quotidiana, della mitologia e delle attività attraverso diverse epoche, fino allo sviluppo del cristianesimo. Si racconta che Agostino, arrivato da Cartagine a Milano, si fosse stupito delle strade buie, mentre nella sua Cartagine erano rischiarate dalle lampade ad olio.
Le piccole polis
La più straordinaria scoperta all'interno della Tunisia (bisogna calcolare almeno tre ore di auto, su strade non particolarmente confortevoli) è l'antica città di Thugga, oggi ribattezzata Dougga, spettacolare insediamento che in epoca punica e romana rappresentava il crocevia commerciale del «granaio del Mediterraneo», come spiega il curatore Mustapha Kanoussi. Fra Tunisi e Dougga c'erano almeno una quindicina di piccole «polis». Ciò che colpisce a Dougga sono l'ampiezza delle vestigia e il livello di conservazione delle architetture che permettono di riscoprire l'urbanesimo degli autoctoni e dei successivi dominatori: teatro, templi, colonne, terme, strade, case e il tipico foro romano. Nella storia della città si riflettono le vicende dell'antica e della moderna Tunisia. «La pianta urbana e la collocazione degli edifici pubblici — spiega Kanoussi — raccontano la collaborazione e la convivenza pacifica fra i residenti numidi e i nuovi coloni romani». Ai piedi del bellissimo mausoleo di origine libica, è stata trovata la stele (oggi esposta al British Museum) che ha permesso di decifrare l'alfabeto punico e libico, al pari della più famosa stele di Rosetta che permise di decifrare i geroglifici. Un luogo eccezionale, che merita molto di più dei sessantamila turisti all'anno finora registrati.

venerdì 17 febbraio 2012

l’Unità 17.2.12
L’iniziativa del 1 ̊ marzo
Basta con le parole della destra sulla crisi, serve una base comune
Il pensiero cattolico può aiutare il Pd a vincere il liberismo
di Stefano Fassina


Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche dell’oggetto di un seminario organizzato dal sottoscritto e altri dirigenti del Pd hanno alimentato un dibattito utile, come confermano gli interventi di Pierluigi Castagnetti e Franco Marini su questo giornale. Tuttavia, l’attenzione è stata concentrata su un inesistente documento «da presentare agli organi dirigenti» per una presunta «proposta di trasformare il Pd in un partito socialdemocratico sullo schema del Partito socialista europeo» (Eugenio Scalfari, domenica scorsa).
Chiarita l’assenza dell’uno e dell’altra, sulle ragioni economiche e politiche delle relazioni con i partiti progressisti europei ha scritto bene qui Matteo Orfini e, soprattutto, ha risposto a Scalfari su Repubblica, con saggezza e chiarezza, Pier Luigi Bersani. Mi preme soltanto aggiungere un punto: le forze costitutive del Pd non sono le uniche al mondo consapevoli del «tempo nuovo». I partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei non sono «cani morti». Sono, almeno quanto il Pd, alla ricerca di risposte adeguate, quindi innovative, a sfide inedite. Hanno capito anche loro che il Novecento è finito e, con esso, il fordismo, l’operaio massa, il partito di massa, il consumo di massa e il keynesismo nazionale. Sono, anche loro, ma in modo meno correntizio e personalistico, plurali sul piano delle culture politiche.
È vero, gli altri non hanno cambiato tre o quattro volte denominazione al “contenitore”, come hanno fatto, invece, in continuità di contenuti, i partiti fondatori del Pd dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli. Si continuano a chiamare socialisti, socialdemocratici e laburisti, ma non sono fermi a Bad Godesberg. Rappresentano, in media, un terzo dell’elettorato dei rispettivi Paesi e sono attesi al Governo nelle due più grandi nazioni dell’area euro. Forse, qualche informazione in più sulla realtà effettiva della variegata e dinamica famiglia socialista europea aiuterebbe una discussione meno astratta e fuorviante.
Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche hanno messo in ombra l’oggetto prioritario del seminario del prossimo 1 ̊ Marzo: le letture della «Grande Transizione» in corso, in particolare la lettura data dalla Chiesa di Benedetto XVI. In altri termini, il tentativo di contribuire a dare al Pd «una base politico-culturale comune» della quale lamentano l’assenza, non senza ragioni, Emanuele Macaluso e Paolo Franchi nei loro commenti allo scambio Scalfari-Bersani.
I promotori del seminario sono convinti che il secolare pensiero sociale della Chiesa, aggiornato nell’analisi del passaggio di fase in atto, offre l’opportunità per rianimare e amalgamare in un impasto inedito e adeguato alle sfide del tempo le rinsecchite culture politiche approdate nel Pd. In particolare, considerano che la Caritas in veritate e i documenti vaticani tematici a essa seguiti (ad esempio, il position paper del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace per il G20 di Cannes), definiscono un terreno di confronto straordinariamente fertile anche per chi, contaminato in gioventù dal socialismo europeo, ritiene decisivo per un partito progressista del XXI secolo andare oltre i confini del liberalismo, orientare l’identità del Pd verso la valorizzazione della persona che lavora e recuperare dalla improvvisata soffitta del nuovismo l’ambizione a dare soggettività politica autonoma al lavoro subordinato, in tutte le sue forme, per nutrire una democrazia effettiva.
Oggi è evidente che il neoliberismo ha fallito: la svalutazione del lavoro, incluse le classi medie, come via della competitività è insostenibile sul piano economico e democratico. Tuttavia, la concentrazione di ricchezza e, conseguentemente, potere economico, politico e mediatico sostenuta dal neoliberismo nell’ultimo trentennio continua a imporre l’agenda di policy (vedi il dramma Grecia). Siamo al «trionfo delle idee fallite» anche perché il neoliberismo, seppure in versione light, ha segnato le «terze vie» e, da noi, i derivati del Pci e di parte della Dc (quella di centrosinistra), e, inevitabilmente, i primi passi del Pd. Al punto che, sulla questione cruciale del lavoro, una parte di noi, una minoranza, per fortuna trasversale alle antiche provenienze, persevera: usa il lessico della destra, inventa i «lavoratori iper-garantiti» e accusa di razzismo generazionale i sindacati in quanto responsabili dell’«apartheid» dei precari.
Per il Pd, il consolidamento di una base culturale comune è necessario, oltre che possibile. Senza una lettura condivisa del tornante storico è difficile strutturare un’identità autonoma. Senza sicurezza di sé, si ha paura dell’altro. Così, qualunque movimento rispetto alla famiglia dei socialisti europei è impossibile o forzato e disgregativo. Ma senza un soggetto dei progressisti europei siamo impotenti e perdenti nei confini nazionali.

l’Unità 17.2.12
Il leader Pd: «Il problema non è il finanziamento pubblico ma la mancanza di trasparenza»
Rai «Vertice Monti-segretari? Magari. Ma per parlare di una nuova governance, non di nomine»
Bersani: «La priorità è riformare i partiti Facciamo in fretta»
Depositata dal Pd la proposta di legge sui partiti. Bersani difende il finanziamento: «No al dibattito tra miliardari». E sulla Rai: «Vertice Monti-segretari? Magari ci fosse. Ma se si parla di nomine non sono interessato».
di Simone Collini


«Già cinquant’anni prima di Pericle si discusse il tema e si decise, in polemica con l’oligarchia, che se si voleva una democrazia la politica doveva essere finanziata». E pazienza se 2500 anni dopo la discussione sia ancora tutt’altro che chiusa perché «oggi “partito” è una parola difficile», perché il termine «casta» è ormai di uso comune e perché anche in tempi di governi tecnici il vento dell’antipolitica è decisamente forte. Pier Luigi Bersani difende il finanziamento pubblico ai partiti e spiega che il problema non è la sua cancellazione o riduzione indiscriminata ma la «trasparenza». L’anomalia italiana, dice il leader del Pd, non è che le forze politiche incassino dei rimborsi per le spese elettorali, ma «che non ci sia una legge sui partiti»: «E questa è la priorità numero uno».
DIRITTI E DOVERI
Per questo il Pd ha unificato tutti i testi presentati su questo tema dai suoi parlamentari e depositato una proposta di legge per attuare l’articolo 49 della Costituzione, sollecitando le altre forze politiche a non tirarsi indietro. In sette articoli il Pd chiede che i partiti diventino «associazioni riconosciute dotate di personalità giuridica», che accedano al finanziamento pubblico «esclusivamente i partiti che rispettano i requisiti di democrazia interna e di trasparenza ed abbiano ottenuto l’elezione di almeno un rappresentante sotto il proprio simbolo», che sia fissata a cinquemila euro (e non più 50 mila) la soglia oltre la quale i contributi sono soggetti a dichiarazione, che ci sia una certificazione obbligatoria del rendiconto e che siano decurtati del 25% i rimborsi elettorali «per i partiti che non adottano nel loro statuto in forma stabile le primarie».
Bersani presenta la proposta di legge nella sede del Pd insieme al tesoriere Antonio Misiani, al suo predecessore Mauro Agostini, a Salvatore Vassallo e a Pierluigi Castagnetti, spiegando che su questo tema il suo partito è pronto a una «accelerazione straordinaria per un risultato credibile». E se una convergenza con il testo depositato dall’Udc è possibile, ora, dice Bersani «aspettiamo qualche idea anche dal Pdl».
Il leader del Pd ha deciso di insistere su questo tasto perché se da un lato «dice una fesseria chi sostiene che siamo ancora in tangentopoli» è anche vero che vent’anni dopo Mani pulite non siamo ancora usciti del tutto dalla «transizione» e la storia non deve assolutamente ripetersi come nei primi anni 90. «Allora ne siamo usciti con risposte dalla piegatura populista, quando invece la risposta è un sistema politico efficiente e pulito». Se Bersani difende i partiti e il finanziamento pubblico ad esso assegnato è perché la democrazia non può essere «un dibattito tra miliardari» e perché ormai è fin troppo chiaro che «le scorciatoie ci hanno allungato la strada».
NO A DIBATTITI TRA MILIARDARI
Ora che c’è un governo tecnico ad occuparsi del risanamento economico e finanziario, i partiti possono impegnarsi in una seria «autoriforma» del sistema politico perché l’emergenza non riguarda solo i conti pubblici: «C’è in gioco la democrazia». Dopo questa fase, è il ragionamento di Bersani, non ci dovrà essere una nuova legislatura caratterizzata da larghe intese: saranno i partiti, dotati di autorevolezza e credibilità, a contendersi il governo del paese. «Dopo Monti non ci sarà il Cencelli. Se tocca al Pd lo promettiamo.
Ci sarà un governo ugualmente autorevole, con competenze, ma che avrà una maggioranza parlamentare univoca, solida, compatta, che oggi purtroppo non c’è per motiazioni politiche». Che oggi non ci sia una maggioranza parlamentare viene fuori anche dalla discussione sulla gestione della Rai. Da indiscrezioni si viene a sapere che Monti vorrebbe incontrare i leader delle forze che lo sostengono per affrontare la questione di una legge al riguardo e Bersani, commentando l’ipotesi che a breve ci sia questo vertice, con i suoi dice: «Magari ci fosse».
NUOVA GOVERNANCE RAI
Ma il segretario del Pd dice anche che se verrà chiamato a discutere solo di un «abbellimento» del Cda di viale Mazzini il suo partito si tirerà fuori. «La Rai è un’azienda pubblica in decadenza tecnologica, industriale e di prodotto. Ha un padrone, che non sono i partiti perché io non mi sento pro-quota il padrone della Rai, ma è il Tesoro. Da lì deve venire un’iniziativa per la governance in grado di affrontare il tema industriale. Serve un capo azienda che decida e affronti i problemi, serve una nuova governance. Se non si farà questo e si parla ancora di nomine, per quanto autorevoli, non sono interessato. Fossero pure 5 o 7 premi Nobel, fosse pure Einstein, con questo assetto noi non partecipiamo. Questo dirò al governo».
Il Pdl va all’attacco criticando il fatto che Bersani chieda un intervento del governo su questo tema e chiede di discutere invece la questione in Parlamento. Ma il Pd, che pure ha depositato più di una proposta di legge sul tema (una è a prima firma Bersani) non si fida. Il sospetto è che il Pdl voglia solo prendere tempo per lasciare tutto così com’è.

il Fatto 17.2.12
Pd, “oltre” tutto e il contrario di tutto
di Fabrizio d’Esposito


Cambiare i partiti (Pier Luigi Bersani). Oppure andare oltre i partiti (Goffredo Bettini). Nel frattempo la gente in carne e ossa va a votare alle primarie e sceglie fuori dal mazzo della nomenklatura. Genova, l’ultima frontiera o lezione. Ma la nomenklatura medesima non si rassegna e resiste con il dibattito. A partire dall’oltrismo, moderna malattia infantile della sinistra. Un tempo bisognava andare oltre il Pci, poi oltre il Pds, poi ancora oltre i Ds. Ora è giunto il momento di andare oltre il Pd. O forse solo oltre il povero Bersani.
In un albergo dalle parti della Cristoforo Colombo, a Roma, torna sulla scena Goffredo Bettini, il king-maker del veltronismo, sia quello buono sia quello cattivo. Un seminario che promuove anche il suo ultimo libro dal titolo: “Oltre i partiti”. Il convegno è di due giorni ed è iniziato ieri con un tema chilometrico: “Un solo grande campo del cambiamento: inclusivo, aperto, plurale, democratico”. La passione di Bettini è sempre stata il trasversalismo dialogante (anche con Berlusconi) e così si trova davvero di tutto al raduno organizzato da “Democratici in Rete”: Bertinotti, Fioroni, Latorre, Veltroni, Chiamparino, il finiano Croppi, Zedda, Paola Concia, Leoluca Orlando, Andrea Orlando, Merola, Barbara Palombelli, la Melandri, Migliore, Vitali, Tonini, Tronti, finanche Mar-razzo. C’è la foto di Vasto ma anche l’oltre della foto di Vasto. Il primo intervento è di Bertinotti che incendia il seminario con un’invettiva contro il governo Monti che ha sospeso la democrazia. Orlando (quello dell’Idv) aggiunge che con il Professore sono al potere banche e massoneria ma anche il Vaticano. Oltre Monti, oltre tutto e il contrario di tutto. Sempre Bertinotti se la prende con il capo dello Stato: “Napolitano sostiene che la questione sociale non può essere invocata per bloccare le riforme: una cosa indicibile”. Finalmente, i cronisti delle agenzie di stampa hanno qualcosa da scrivere. L’ex dalemiano, Latorre però non ci sta: “Bertinotti sbaglia su Napolitano”. Sono gli accidenti dell’oltrismo che sposa il “ma-anchismo”.
La ciccia vera, quella che conta, arriva ovviamente da Bettini. Qual è il problema? Fare un congresso del Pd per rilanciare un partito afono e senza coraggio, che assomma i vizi del Pci e della Dc ed è soffocato dal correntismo. Insomma: fare fuori Bersani. L’eterno circolo vizioso dell’ultima generazione del Pci, oggi tutti sessantenni. Veltroni fece il Pd e Prodi cadde, Veltroni stesso si candidò a premier e perse e fu scalzato da Bersani, benedetto da D’Alema. Adesso il tentativo è di ricominciare daccapo, anche se di D’Alema si sono perse le tracce. Nel frattempo, appunto, la gente si mette in fila, al freddo e al gelo, e va a votare Doria alle primarie di Genova. Stordito dallo scandalo Lusi-Margherita, ieri il Pd di Bersani ha proposto di cambiare i partiti, non andare oltre. Sono proposte sulla democrazia interna e sulla trasparenza dei bilanci e dei rimborsi. In pratica l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione (in realtà, uno dei primi che ci provò fu qualche anno fa, da destra, Storace, ma nessuno se lo filò). Ci voleva Lusi, a ridosso del ventesimo anniversario di Tangentopoli. Nella scheda consegnata ai giornalisti, spicca l’ipotesi di regolamentare le primarie per legge. Di fatto una smentita ai dubbi di Bersani dopo la sorpresa di Genova. Il segretario fa una conferenza stampa nella sede nazionale dei democrat a Roma, in via San-t’Andrea delle Fratte. Al terzo piano. Bersani è più Bersani del solito e sembra Crozza: “Mica sono noccioline questa è la democrazia”. Adesso però il suo refrain ossessivo è “ventre a terra”. A Genova con Doria “ventre a terra”. Fare le riforme “ventre a terra”. Circola un sospetto: più si aggiungono riforme al menu dell’inciucione tripartisan con Pdl e Terzo Polo e più si allontana la prospettiva di un accordo veloce sulla legge elettorale. Riforme istituzionali, riforma dei partiti, riforma elettorale. Un po’ troppo. Chi bluffa? Bersani parla, ma neanche una parola sulla polemica che da giorni sta dilaniando molti pensatori illustri della rive gauche di casa nostra: la possibilità di riscrivere il Dna socialdemocratico del Pd. Un passo in direzione opposta all’oltrismo di Bettini. Qual è la via giusta? Per tutta la Seconda Repubblica la sinistra si è interrogata sulla terza di via. Oltre il comunismo e la socialdemocrazia. Alla vigilia della Terza Repubblica la formula ancora non c’è ma Bersani promette: “Dopo Monti non ci sarà il Cencelli, faremo funzionare il Paese”. All’uscita, i giornalisti presenti si accontenterebbero di un obiettivo più modesto: il funzionamento dei due ascensori al terzo piano della sede del Pd. Uno è fuori servizio e l’altro ha un fila chilometrica. Impossibile scendere a piedi. Almeno trenta minuti per guadagnare l’agognata cabina e scendere. Prigionieri del caos. Metafora perfetta per il Pd.

il Riformista 17.2.12
Pd sempre in fibrillazione E torna alla carica Bettini
Bersani vuole riformare i partiti Bettini vuole riformare i democrat
L’ex ideologo veltroniano attacca il Pd: «Afono, balcanizzato, in preda a una degenerazionepersonalistica. Serve un congresso anticipato per allargare il campo»
di Ettore Maria Colombo


Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha convocato telecamere e taccuini al Nazareno, suo quartier generale del Pd, per illustrare la proposta di riforma del finanziamento pubblico ai partiti targata Pd. Arriva, la pdl democrat (scritta da Salvatore Vassallo, Pierluigi Castagnetti e altri), dopo quelle degli altri partiti.

Ma trattasi di una proposta di legge seria e corposa. La illustra Bersani stesso: «Bisogna dare attuazione all’art. 49 Costituzione sui partiti, ma non si può cancellare il finanziamento(aipartiti,ndr)osi rischia che la politica sia fatta sola da miliardari. L’anomalia – spiega – non è il finanziamento pubblico, ma una vera legge sui partiti!». Nell’attesa, Bersani e la sua maggioranza dovrebbero cominciare, però, a guardare un po’ meglio a casa loro. E non solo per il caso Genova o, più in generale, il caos primarie, rispetto a cui, sempre ieri, Bersani ha ribadito che «a Palermo la nostra candidata è la Borsellino (che è di SeL in realtà, ndr)». Succede, infatti, che se veltroniani e fioroniani sono già scesi al piede di guerra e su diversi fronti, anche la sinistra interna, o ciò che ne resta, del Pd è entrata in grande e forte fibrilla-
zione. A Roma e nel Lazio, per dire, la sola candidata che potrebbe dar qualche dispiacere alla fortissima candidatura del popolare e trasversale Enrico Gasbarra per le primarie alla carica di segretario regionale del Pd Lazio (si vota domenica 19 febbraio)è la giovane Marta Leonori. Sostenuta dall’area Meta-Marino, ma cresciuta in orbita dalemiana e appoggiata (a Viterbo e non solo) da Ugo Sposetti e altri ex-Ds, sta raccogliendo consensi insperati mentre l’altro candidato, Giovanni Bachelet, resta fermo al palo.
Ieri, però, la notizia, abbattutasi come un colpo di maglio sull’establishment del Pd, è arrivato da un “arieccolo”, come si usa dire. Goffredo Bettini (ex figiociotto, ex ingraiano negli anni ’80, ex inventore del modello Roma, quello di Rutelli prima e Veltroni, ma pure di Badaloni e Marrazzo), infatti, is back. Dopo anni di esilio volontario, in cui s’è dimesso da tutto (dal Pd, di cui era il numero due, nel Pd di Veltroni, ma anche da senatore) Bettini torna in campo. Ieri pomeriggio, infatti, nelle more di un seminario super-dotto e, all’apparenza, innocuo (“Oltre i partiti”, il titolo, titolo anche dell’ultimo libro di Bettini) promosso da Democratici in Rete, creatura e associazione bettiniana e dalla rivista Democrazia e diritto di Mario Tronti (rivista ieri fucina dell’ingraismo e dell’operaismo, oggi trontiana e basta, ma in piena sinergia con Bettini), Bettini ne ha avute per tutti.
Il parterre de roi, del resto, era notevole: dall’ex-rifondarolo Fausto Bertinotti all’ex-popolare Beppe Fioroni, dall’ex-dalemiano-Lothar Nicola Latorre all’ex-retino Leoluca Orlando, dai sindaci made in casa Vendola come Massimo Zedda di Cagliari ai pochi rimasti in mano al Pd (Torino, Bologna, etc.). Bettini come ha preso la parola, ha tirato il siluro. «Bisogna costruire un unico soggetto democratico e aperto», ha detto, «con una partecipazione deliberante di iscritti e cittadini e un punto di vista autonomo sul cambiamento». Bettinese, si dirà. No, era solo l’inizio. Poi, subito, arriva la stoccata. «Il Pd è un partito afono nella società, dove c’è tanta brava gente, ma senz’anima e balcanizzato: dopo anni di speranze e di promesse si è ripiegato su se stesso, assommando i vizi di Pci e Dc», dice e, poi, spiega: «È sempre più urgente mettersi al lavoro per costruire un grandecampoplurale,inclusivo e democratico che trovi l’essenziale che unisce». «Il Pd – continua il j’accuse bettiniano – è in preda a una degenerazione personalistica, a correnti senza riferimento politico, l’assillo solo per ruoli istituzionali, per l’accaparramento di preferenze». Fin qui siamo nella pars destruens, ma poi arriva pure la pars costruens. «Serve un congresso anticipato del Pd per allargare il campo e, prima delle prossime elezioni politiche, è necessario che il Pd tenga un congresso». Straordinario, cioè. Il cui obiettivo sarebbe uno solo: destituire, di fatto, Bersani, e cambiare linea e volto al Pd.

il Riformista 17.2.12
celentanite
L’annichilito Bertinotti
di Cinzia Leone


Con un exploit di fantasia, a Roma al seminario sul futuro della sinistra “Un solo grande cambiamento”, Bertinotti decide di cambiare le parole di Napolitano: «Ho sentito dire al presidente che la questione sociale è importante ma non può essere invocata per bloccare le riforme: è indicibile». Così indicibile da non essere mai stato detto. Il primo a sollevare il dubbio è il prudente Nicola Latorre: «Napolitano ha detto una cosa ben diversa: la coesione sociale non è immobilismo bensì una massima intesa tra le forze sociali e politiche per obiettivi di cambiamento e riforma».
Davanti a un parterre composto da Bettini, Fioroni, Melandri, Nerozzi, Zedda, Gasbarra e Migliore, un po’ di confusione è da mettere in conto.
«Un’imposizione dall’alto che arriva a chiedere anche modifiche costituzionali. Un annichilimento della democrazia conclude appassionato Bertinotti È bonapartismo. Un governo tecnocrate che riposa nell’idea “o me o il caos”». Meglio il caos del subcomandante “annichilito” e in piena sindrome da Celentano?

l’Unità 17.2.12
A sfidare Gasbarra (70 per cento nei circoli), Leonori e Bachelet
Seggi aperti dalle 8 alle 20. Si vota anche per l’assemblea regionale
Primarie del Lazio. Domenica corsa a tre per la segreteria Pd
Potranno votare tutti i cittadini dell’Ue residenti nella Regione
Domenica parte la corsa a tre per la segreteria del Pd del Lazio. La sfida è tra Enrico Gasbarra (appoggiato da ben quattro liste), Giovanni Bachelet (ulivista) e Marta Leonori (area Marino).
di Mariagrazia Gerina


Speriamo che non vengano a votarci solo parenti e amici», si lascia sfuggire (si fa per dire) Marta Leonori, classe ’77, con una buona dose di polemica. E sperando, ovviamente, di essere smentita dalla partecipazione degli elettori. Domenica il popolo del Pd è chiamato a eleggere il prossimo segretario democratico del Lazio. Con le primarie. E lei, da candidata, avrebbe voluto un po’ più di pubblicità «istituzionale» per l’evento. «Le primarie dovrebbero essere un momento di coinvolgimento: se non le comunichiamo, magari con mezzi non troppo onerosi, diventano uno strumento spuntato», osserva. E invece, niente manifesti, a parte quelli dei singoli candidati. Solo qualche manchette sui giornali e all’ultimo, da ieri, gli sms agli iscritti.
«Gli elettori li stiamo informando noi», concorda l’altro candidato “outsider” Giovanni Bachelet, bindiano doc, mentre volantina davanti alla libreria Feltrinelli di via Appia. «L’informazione istituzionale è stata molto modesta, per usare un eufemismo», spiega. «Peccato, perché a essere indebolito, se ci dovesse essere una scarsa partecipazione, sarebbe l’intero partito».
Già abbastanza sofferente, per altro. Reduce, nel Lazio, da due sconfitte pesanti: prima il Campidoglio nel 2008, poi l’affaire Marrazzo, la vittoria di Renata Polverini nel 2010. E non solo. «Veniamo da un commissariamento di cinquecento giorni», ricorda Enrico Gasbarra, ex presidente della Provincia negli anni del «Modello Roma», che all’appuntamento di domenica si presenta forte di 16.452 voti (pari al 70%), raccolti nei congressi di circolo, prima fase del processo elettorale. E suggerisce di guardare con maggiore ottimismo ai prossimi appuntamenti. «Le primarie sono solo il primo passo», ricorda. Davanti, la sfida per il Campidoglio, che vede in pole position Zingaretti, suo sostenitore e quella per le Regionali. «So il lavoro che ci aspetta, ma non condivido la flagellazione: 24mila persone (su 42mila aventi diritto ndr) che sono andate a votare nei circoli del Pd sono una dimostrazione importante», suggerisce.
PORTE APERTE
Alle primarie di domenica, potranno votare per eleggere il segretario del Lazio e i membri dell’assemblea regionale anche i 6mila nuovi iscritti rimasti esclusi dalla prima fase elettorale. Come pure tutti gli altri potenziali elettori del Pd. Il diritto di «partecipare» è esteso a tutti i cittadini italiani (e dell’Ue) residenti nel Lazio, come pure ai cittadini in possesso del permesso di soggiorno «che, a partire dal compimento del sedicesimo anno di età, si riconoscono nella proposta politica del partito». A tutti verrà chiesto un contributo di 2 euro.
I seggi elettorali saranno allestiti nei circoli del Pd del Lazio, aperti dalle 8 del mattino alle 20 di sera. L’elenco è sul sito del Pd Lazio. Basta inserire il proprio comune e il proprio numero di tessera elettorale per conoscere qual è il circolo (quello più vicino a casa) in cui si deve votare («un sistema di ricerca che ho adottato io per primo», rivendica Bachelet). Sulla scheda, insieme ai nomi dei candidati alla guida del Pd Lazio, quelli delle liste che li sostengono. «Se non Marta chi?» per Leonori (direttrice di Italianieuropei, appoggiata da Ignazio Marino ma anche dal tesoriere dei Ds Ugo Sposetti). «Con Bachelet il Pd fa quel che dice», quella a sostegno del deputato del Pd vicino a Rosy Bindi, che ha l’appoggio anche di una parte dell’area Marino. Ben quattro, invece, le liste a sostegno di Enrico Gasbarra: «A sinistra», in cui è confluita anche l’area Marino schierata nella prima fase con Marco Pacciotti, «Partecipazione democratica», «Uniti per vincere», «Democratici con Gasbarra», che invece rimescolano un po’ tutte le componenti di maggioranza che appoggiano Gasbarra. Un pregio secondo il candidato. Un difetto secondo i suoi avversari: tanta pluralità potrebbe rivoltarsi contro il segretario, una volta eletto.

il Fatto 17.2.12
Le strategie contrapposte
L’amnistia e la partita doppia sull’8 per mille
Nel 1989 la S. Sede percepisce 406 miliardi di lire all’anno. Oggi ne arrivano quasi 2.000
di Marco Politi


Fiducia”, esclama il cardinale Bertone uscendo dall’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. “Il vostro sostegno e le vostre preghiere”, sussurra Mario Monti a mons. Paglia. Il tradizionale vertice Governo-Chiesa, che si tiene ogni anno in occasione dell’anniversario dei Patti Lateranensi, avviene in un clima di relax, sorrisi e sintonia.
“Non può essere il problema dell’Ici a mettere in discussione il rapporto tra Italia e Vaticano”, sostiene il presidente del Senato Renato Schifani. Giura e garantisce l’ambasciatore Francesco Maria Greco: “Non si è parlato di Ici. Si è parlato di tutto ma non di Ici”. Non c’è motivo di non credergli.
Vaticano e Cei, in realtà, erano a conoscenza in anticipo dell’architettura della lettera del premier Monti al vicepresidente della Commissione europea Almunia. Non conoscevano la lettera del testo, ma la “soluzione” era già stata comunicata per canali riservati e soprattutto il presidente del Consiglio si era speso durante la visita in Vaticano il 14 febbraio – parlando con il Segretario di Stato Bertone – a spiegare che il pasticcio dell’esenzione agli immobili ecclesiastici, dove si praticano attività commerciali seppure in maniera “non esclusiva”, andava rapidamente cancellato per evitare \una pesante multa retroattiva ai danni della Chiesa.
La morale di questa storia è duplice. Vaticano e Cei hanno accettato la linea Monti soltanto dinanzi alla forza bruta dell’intervento europeo. La soluzione del premier implica una tacita amnistia per le massicce evasioni del passato. L’esempio della piccola iniziativa della giunta Alemanno fa testo. É bastata un’azione-sondaggio presso alcuni istituti religiosi di Roma e si sono recuperati improvvisamente 9 milioni di euro.
Anche senza avventurarsi nei calcoli di chi prevede circa due miliardi di introiti, si può ragionevolmente prevedere che una cifra tra i quattrocento e i cinquecento milioni possa essere recuperata.
Non è casuale il gioco delle parti della Cei, che sottolinea si tratti di una iniziativa “unilaterale” del governo rispetto alla quale i vescovi si riservano di esaminare il testo del futuro decreto. Perché sulla terminologia precisa, che verrà impiegata, e particolarmente sui metodi di calcolo della superficie no profit e della superficie commerciale di uno stesso immobile ecclesiastico si giocano milioni di euro.
Il premier può certamente vantare a suo merito l’aver portato nell’alveo della pulizia e della correttezza fiscale una materia, che definire grigia era già un eufemismo. “Linea ineccepibile”, ha commentato durante il ricevimento in ambasciata Pier Ferdinando Casini: segno che l’ok di massima delle autorità vaticane era già arrivato. E tuttavia si pone l’interrogativo se e in che maniera i vertici della Cei intendono collaborare fattivamente per fare emergere il sommerso fiscale degli enti ecclesiastici che praticano attività commerciali. Un conto è il fatto che la finanza debba scovare ad uno ad uno gli ex-furbetti, un conto è che dalla Cei partano direttive (e si controlli) che ogni ente presenti uno stato dell’attività veritiero alla prossima dichiarazione dei redditi.
Da questo punto di vista Monti, per allinearsi agli standard europei più avanzati, dovrebbe richiedere (come fa la Germania) che qualunque istituzione – quindi anche le diocesi – percepisca fondi pubblici, è tenuta a presentare il bilancio dei suoi beni mobili e immobili. Questo sarebbe il passo decisivo verso la moralizzazione fiscale delle proprietà ecclesiastiche. Certo, in un primo tempo si alzerebbero lamenti biblici contro chissà quale attentato alla libertà della Chiesa, ma poi verrebbero a cessare. L’esperienza di questi mesi rivela che, appena si accennò a rivedere la legislazione sull’Ici, partirono bordate di indignazione e vittimismo da parte degli ultras clericali. Voci affievolitesi, quando i cardinali Bertone e Bagnasco hanno riconosciuto che il problema esisteva. Per risanare il bilancio italiano si pone peraltro un’altra questione al governo Monti. Il premier ha la facoltà di attivare la commissione italo-vaticana per rivedere il gettito dell’8 per mille dell’Irpef. È previsto dalla riforma del Concordato del 1984. È noto, infatti, che gli introiti della Chiesa sono cresciuti in modo abnorme e sproporzionato alla sua struttura. Nel 1989 la Chiesa percepiva 406 miliardi di lire all’anno con le vecchie norme sulla congrua. Oggi il miliardo di euro, che incassa, equivale a quasi 2000 miliardi di lire. Perciò una revisione è urgente.
Mentre radicali e atei dello Uaar gridavano in strada slogan per l’abolizione del Concordato, nelle sale dell’ambasciata si sono svolte le conversazioni politiche. Monti è venuto quasi con il governo al completo. Prima si è intrattenuto con Bertone e Bagnasco sui temi “bilaterali” tra Italia e Vaticano, poi con l’arrivo del presidente Napolitano si è passati alle questioni internazionali con particolare attenzione alle vicende europee, le crisi nel Vicino Oriente e la difficile situazione dei cristiani mediorientali.

La Stampa 17.2.12
L’hotel dei preti. Lusso, wireless e niente imposta
Il diacono Magni: “Viviamo con le rette Se lo Stato ci chiede soldi, chiudiamo”
di Fabio Poletti


Al pensionato San Filippo Neri di via Mercalli, cento e una camera tutte wireless in una avveniristica torretta semicurva su sei piani, fanno già due conti: «Se la proprietà dell’immobile deve pagare anche l’Ici, ci aumenta l’affitto. Se ci aumenta l’affitto, noi aumentiamo le rette del convitto. Se no, chiudiamo». Il diacono Luigi Magni che dirige questa fondazione in pieno centro a Milano non avrà l’aria del mercante nel tempio, ma gli affari sono affari. E nell’anno della crisi, qualcuno dovrà pure pagare i conti. L’Anci calcola che l’Ici degli immobili ecclesiastici vale più o meno 600 milioni di euro. Mario Staderini dei Radicali, che su questo sta facendo una battaglia da tempo, giura che non è facile spremere gli istituti religiosi nemmeno del dovuto: «Sono difficili i controlli. Dietro ogni istituto c’è un giro di proprietà impossibili da risalire. Bisogna fidarsi dell’autocertificazione delle singole strutture». Solo a Milano, sempre secondo i Radicali, tra chi beneficiava dell’esenzione dell’Ici e chi non ne avrebbe dovuto beneficiare ma evadeva alla grande, ci sarebbero almeno diciotto strutture religiose. Ufficialmente si tratta di pensionati, convitti e luoghi di ricovero per anziani sacerdoti. All’occasione si trasformano in alberghi più o meno di lusso, con tanto di sito ufficiale: «Viaggi spirituali turismo religioso». Le tariffe - come al convitto San Filippo Neri per studenti universitari solo maschi - sono assai concorrenziali. Una singola con doccia va da 5mila e 500 euro a 6 mila e 500 euro per dieci mesi, a seconda se si vogliano pure asciugamani freschi di bucato e candidi tappetini. E alla fine la camera deluxe con la connessione wireless che viaggia a cento mega, fa nemmeno 22 euro al giorno a neanche dieci minuti a piedi da piazza Duomo e da tutte le università.
Sarebbe bello pensare ad una tariffa assai caritatevole. Ma Luigi Magni giura che è solo una banalissima legge di mercato: «La struttura va avanti con cinque dipendenti. La mensa è gestita dai residenti. Noi ci accolliamo l’affitto dell’immobile, le spese per le utenze e l’impresa di pulizia. Stop». Ufficialmente il pensionato è aperto solo agli universitari, ma in certe occasioni si trasforma in albergo. C’è pure qualche camera matrimoniale. Il problema è trovare un buco. Di sicuro non all’inizio di giugno, quando Benedetto XVI sarà a Milano. Sorride Magni, il diacono: «Ah, in quel periodo da noi no di certo, tutte le camere sono occupate dagli studenti sotto esame. Mi sa che ha sbagliato data... ».
Ma non sono momenti tanto da ridere dalle parti della Fondazione Vincenziana, nata negli Anni Cinquanta sotto la benedizione del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster - sette convitti tra Milano, Lissone e Magenta che negli ultimi tre anni sono diventati quattro per la crisi - e adesso finita sotto la scure di Mario Monti. A sentire il diacono Luigi Magni sembra di ascoltare uno di quei commercianti che vivono nel terrore dei controlli del fisco: «C’è la crisi ma noi abbiamo già i nostri problemi economici: viviamo solo grazie alle rette dei nostri ospiti, non abbiamo aiuti dallo Stato. Adesso lo Stato ci chiede altri soldi. Se ce la facciamo, bene. Se no, saremo costretti a chiudere».
Il «paga sempre Pantalone», sembra funzionare anche da queste parti. Tutto dipenderà da Mario Monti. E dalla proprietà della palazzina di via Mercalli data in affitto alla Vincenziana che gestisce il pensionato San Filippo: dalla Fondazione Oratorio San Carlo in società con la Fondazione diffusione della fede, sotto lo stretto controllo della Diocesi di Milano. Ma mettersi d’accordo non deve essere troppo complicato, basta fare giusto due passi visto che la sede della Vincenziana è in piazza Fontana 2, nel cuore del cuore di Milano, lo stesso indirizzo dell’Arcidiocesi eretta all’ombra del Duomo.

l’Unità 17.2.12
Intervista a Gian Carlo Caselli
«Grazie a Mani pulite non abbiamo fatto la fine dell’Argentina»
Il procuratore capo di Torino: allora si fermò l’esplosione della corruzione e dell’indebitamento Oggi c’è di nuovo un male che paghiamo tutti
di Oreste Pivetta


L’allarme della Corte dei Conti: in Italia dilagano corruzione, illegalità e malaffare. Questo è il titolo. Nel ventesimo anniversario di Mani pulite: in Italia si celebra pure la scoperta delle malefatte. Dottor Caselli, ci verrebbe da commentare la notizia, quanto denuncia la Corte dei Conti, in modo molto semplice: già sappiamo tutto del dilagare di corruzione, illegalità e malaffare. Ma le chiediamo: è cambiato qualcosa rispetto a venti anni fa, rispetto a trenta anni fa... sempre la stessa corruzione, sempre la stessa illegalità, sempre lo stesso malaffare?
Gian Carlo Caselli, procuratore capo a Torino, nel tribunale delle storiche sentenze Thyssen e Eternit, ha appena scritto un libro, pubblicato da Melampo, la casa editrice di Nando dalla Chiesa, il cui titolo è già un avvertimento: «Assalto alla giustizia» (lo presenterà lunedì a Milano, alla Feltrinelli di piazza del Duomo). Dottor Caselli, insomma, come rivede questi venti o trent’anni?
«Credo intanto che i colleghi milanesi con l’inchiesta Mani pulite abbiano conquistato un merito grandissimo. Potrei per Torino rivendicare una sorta di primogenitura, perché si cominciò a Torino con l’inchiesta che coinvolse il vicesindaco Enzo Biffi Gentili e il faccendiere Adriano Zampini...». Entrambi socialisti. La giunta cadde, a denunciarli era stato lo stesso sindaco comunista, Diego Novelli. Non possiamo dimenticare, se si parla di tangenti, il presidente della giunta regionale ligure, Alberto Teardo, lui pure socialista, arrestato per corruzione. Siamo nel 1983...
«L’inchiesta milanese andò oltre, non solo evidenziando quel bubbone purulento che infettava l’intera società italiana, ma soprattutto chiarendo che si trattava di qualcosa di sistemico, che pervadeva questa nostra società in ogni sua manifestazione tra politica, economia, amministrazione, qualcosa che non lasciava scampo agli onesti. Questa azione investigativa ha dato risultati importanti ovviamente da un punto di vista processuale, ma ha raggiunto un obiettivo ben più rilevante in senso generale. L’opera della Magistratura, frenando in quel frangente il dilagare della corruzione e quindi della spesa pubblica e quindi dell’indebitamento, ha salvato l’Italia dal baratro, quello stesso baratro in cui sarebbe invece precipitata, negli stessi anni novanta, l’Argentina. L’Argentina, indebitata e corrotta, andò a rotoli. Dal baratro è risalita, ma a costo di pesantissimi sacrifici. L’Italia venne messe in tempo al riparo dal disastro. Se ci riuscimmo fu anche grazie alla tenacia e alla intelligenza di quei magistrati».
È una considerazione importante. Allora non seguimmo l’Argentina. Oggi non siamo la Grecia, ma potremmo specchiarci nella Grecia... malgrado dimensioni e ruoli diversi.
«La denuncia della Corte dei Conti è severissima e i numeri dicono di qualcosa di vergognoso: se l’ammontare che si calcola della corruzione sale a sessanta miliardi di euro, questo significa un costo annuo pro capite di mille euro, una tassa aggiuntiva e occulta, una sottrazione di risorse che potrebbero trovare ben altro impiego. Ciascuno di noi versa di tasca propria ai corrotti mille euro. Meno corruzione e più legalità: in questa equazione sta la possibilità di garantire più servizi ai cittadini, treni che viaggiano puntuali, una scuola che insegna meglio, periferie illuminate, asili per i nostri bambini. La gente dovrebbe essere ben consapevole di quanto si paga e come si paga la corruzione degli altri, a quante cose deve rinunciare. La corruzione è rapina della vita, sottrae futuro ai giovani. Tuttavia, prospera». Torniamo a Mani pulite e alla domanda: che cosa è cambiato? Sono cambiati i partiti. O sono morti. Per il resto?
«Mi viene da citare Pier Camillo Davigo, che disse: stiamo assistendo alla selezione della specie, sono sopravvissuti i predatori più rapaci. Il problema si è incancrenito». Veniamo alle responsabilità. «Penso che una politica gelosa del proprio primato avrebbe marcato la propria sovranità, agendo in piena autonomia, senza temere di mettere in campo strumenti adeguati per sconfiggere la corruzione. Invece pochissimo si è fatto e se mai si è fatto perché i controlli venissero meno e le leggi venissero indebolite, mentre si tentava in vario modo di delegittimare i magistrati».
Golpisti, malati di mente, eversivi, cancro da estirpare. Ricordiamo i manifesti elettorali di qualche mese fa soltanto: “Fuori le Br dalle procure”. Questi erano insulti. Poi si dovrebbero citare le riforme “epocali” della giustizia: il processo prima “breve” e poi “lungo”, la “prescrizione breve”, la separazione delle carriere. Per ridurre l’indipendenza della magistratura, consegnare al potere politico il controllo delle indagini. Nel suo libro lei scrive di “sabotaggio istituzionale”. Che fare? «Basterebbe intanto ratificare la convenzione di Strasburgo». Hanno ratificato la Bulgaria, l’Albania, la Macedonia, la Georgia, il Montenegro, la Francia, la Spagna. L’Italia no. Neppure la Germania peraltro. Belisario, capogruppo dell’Idv, ha chiesto ieri di portare in aula la ratifica.
«Sarebbe un primo passo. È un documento che risale al 1999. In tredici anni non s’è trovato il modo di accoglierlo nella nostra legislazione. Eppure lì sono scritte regole fondamentali, si danno indicazioni chiare per una lotta più incisiva alla corruzione. Già scritte. Già pronte».
Siamo un Paese che forse nella corruzione si è adagiato, rassegnato o complice...
«Penso a don Ciotti che ha raccolto un milione e duecentomila firme a sostegno di una proposta che contiene anche i suggerimenti per un’azione legislativa. Tra l’altro si propone la confisca dei beni dei corrotti, non solo di quelli dei mafiosi. Un milione e duecentomila firme. Non mi pare che qualcuno abbia raccolto la sfida».

La Stampa 17.2.12
Intervista
“La corruzione c’era e rispetto ad allora non è cambiato nulla”
L’ex pm Colombo: persa un’occasione per sradicare il sistema
di Paolo Colonnello


Tra tutti i magistrati «che fecero l'impresa», l'ex giudice Gherardo Colombo è forse quello che più di altri ha sentito sulla propria pelle l'insostenibile leggerezza dell'effetto di Mani Pulite sulla società. L'esperienza è ben raccontata nel libro appena uscito «Farla franca» (Longanesi). Dopo un ultimo incarico come giudice di Cassazione («dove si devono affrontare 40 cause per volta»), Colombo ha riposto in un armadio la toga usata per 33 anni. È diventato presidente della Garzanti e si dedica a un lavoro quotidiano nelle scuole o nelle parrocchie per parlare di regole: «Ho impegni fino a metà del 2013 e richieste per quasi 1.200 incontri». Un lavoro fatto di treni e aerei da cui scendere e salire per raggiungere anche luoghi sperduti dove spiegare la Costituzione e confrontarsi con la fame di valori e idee che travalica le perenni emergenze quotidiane del Paese.
Anche per Colombo dunque, Mani Pulite è stata un'occasione persa? Una rivoluzione mancata?
«Non si può paragonare un'indagine penale a una rivoluzione. La funzione di un procedimento penale è stabilire se un reato è stato commesso e chi lo ha commesso. Certo aver fatto emergere un sistema di corruzione così articolato poteva rappresentare lo spunto perché in altre sedi si cercasse di sradicare questo sistema. Invece non è stato fatto per niente. Tanto che oggi ci ritroviamo con gli stessi problemi. In questo senso Mani Pulite è stata un'occasione mancata».
Per quale motivo?
«Perché credo che quando non veniva approvata, la corruzione era comunque tollerata, salvo eccezioni rare. È una questione di atteggiamento culturale che non riguarda solo la corruzione ma le regole più in generale, da quelle più semplici e di minor impatto, come il divieto di sosta, fino a quelle più rilevanti. È un atteggiamento generale secondo il quale le regole sono una specie variabile che quando infastidiscono si possono tranquillamente trasgredire. Da noi il termine responsabilità esprime qualcosa di completamente inesistente».
Il famoso Dna degli italiani?
«Non è una questione genetica ma di scarsa maturità dipendente da una serie di elementi, tra i quali il fatto di essere una nazione ancora giovane, dominata per lunghissimi periodi da stranieri, che non ha sentito il vento della riforma luterana ed è propensa a far confusione sul concetto di perdono teso sempre a ciò che si farà, non a ciò che si è fatto».
Ripartiamo da una sua vecchia intervista che fece scalpore: la società del ricatto.
«Il ragionamento sulle mancate scoperte nel campo della corruzione è semplice: finché non emerge tutto, chi ha commesso insieme ad altri fatti illeciti ha la possibilità di ricattare colui di cui sa. Allora non si è più liberi né autonomi. Si è condizionati».
E secondo lei «a che punto è la notte»?
«Difficile da dire. Non sempre è necessario il ricatto, talvolta basta la semplice connivenza. Il mio pensiero era questo: se, come succede, non si cerca di eliminare la corruzione, è perché non lo si può fare, perché non si è liberi di farlo. Oggi direi che non si fa perché non lo si vuole fare. Anche se non ho più gli strumenti che avevo da magistrato per portare le prove, oggi la mia impressione e che la corruzione sia ancora ampiamente diffusa, mi pare che non sia cambiato molto rispetto ad allora».
È la nostra classe politica ad essere malata?
«Non è questione di malattia ma di cultura, di modo di pensare. E le faccio presente che i politici sono eletti dai cittadini, non vengono da Marte».
Giuliano Ferrara ha sempre sostenuto che per fare politica devi essere ricattabile, ovvero affidabile per il «sistema».
«Io credo che in un sistema sociale come quello previsto dalla nostra Costituzione sia necessario esattamente il contrario. A prescindere da Ferrara, noi non siamo ancora arrivati a comprendere effettivamente il concetto di democrazia. L'affermazione costituzionale secondo la quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale è il presupposto essenziale perché si possa pensare che il governo debba appartenere al popolo. Voglio dire che il presupposto della democrazia è una valutazione positiva dell'essere umano e delle sue capacità: la democrazia può essere esercitata soltanto da esseri liberi e responsabili, non da persone ricattabili».
Per essersi occupato di Mani Pulite lei ha subito 5 procedimenti disciplinari. Berlusconi vi ha definiti «antropologicamente diversi». Cosa hanno fatto i magistrati di questo Paese per meritarsi tanta ostilità?
«La mia interpretazione, che è evidentemente un'opinione, è che esistesse un modo di sentire molto diffuso secondo il quale non si può andare a guardare in certi cassetti».
Lei oggi afferma di non credere più all' efficacia del carcere come funzione rieducativa.
«È così, oggi sono convintissimo che il carcere oltre a non essere in sintonia con il riconoscimento della dignità umana è anche assolutamente inadeguato a svolgere funzioni di tutela della sicurezza. Non ho mai pensato fosse una cosa bella mettere in prigione le persone. Però quando ho cominciato la mia carriera di magistrato pensavo fosse necessario e indispensabile. Questa idea l'ho, progressivamente, radicalmente cambiata».
Ma se tornasse a fare il pm, come si comporterebbe?
«Sarà un caso che non faccio più il magistrato? »

il Fatto 17.2.12
Vent’anni di stupidaggini su Mani Pulite
Perché molti partiti e intellettuali non accettano la giustizia
di Massimo Fini


Nel 2000 Marco Travaglio pubblicò il “Manuale del perfetto impunito. Come delinquere e vivere felici” (ed. Garzanti). Nella prefazione, di cui pubblichiamo ampi stralci, Massimo Fini metteva alla berlina ”le infinite truffe linguistiche, i sofismi, i paralogismi, le invenzioni, le falsità, le menzogne con cui, a partire dall’arresto di Mario Chiesa, una variopinta compagnia di politici, di intellettuali, di giornalisti, di giuristi, qualche volta di sinistra, molto più spesso di destra, ha cercato di delegittimare le inchieste della magistratura”. Parole che sembrano scritte oggi.
Naturalmente la fairy band non ce l’ha, per carità, con tutta la magistratura, ma solo con “certe procure”, peccato che siano regolarmente quelle che indagano su lorsignori, sui colletti bianchi, sui “ladri in guanti gialli”, sui tangentisti, sui corrotti, insomma sugli esponenti della classe politica e dirigente. Si levano alti elogi alle “procure che lavorano sodo e in silenzio”, ma basta che una di queste si svegli dal letargo e metta sotto inchiesta un cardinale che subito viene precipitata nel girone delle “toghe rosse” (...).
SI COSTRUISCE la leggenda di una “rivoluzione giudiziaria” che non è mai esistita – non ci può essere alcuna rivoluzione quando i giudici applicano la legge, semmai si tratta di un atto di conservazione – per poter poi dire che i magistrati esercitano una “indebita supplenza” della politica. Si sono inventate di sana pianta categorie giuridiche mai prese in considerazione da alcun Codice Penale, come l’“accanimento giudiziario” e la “modica quantità” di falsi in bilancio. A corto di argomenti, si è gridatocheleinchiestediManiPulite danneggiavano l’economia italiana e l’immagine del nostro Paese nel mondo. (...) Si è arrivati a ipotizzare che “i comportamenti previsti dalla legge come reati cessano di esserlo se la coscienza morale dominante non li considera tali” (Tremonti). È la logica con cui un tempo, in Sicilia, si legittimava il “delitto d’onore”. Seguendola si dovrebbero abolire oggi tutti i reati fiscali. Ma su questa strada ci si è spinti anche oltre: la punibilità o meno di un cittadino dipenderebbe dal consenso che ha o non ha presso l’opinione pubblica (Angelo Panebianco, fra gli altri).
I REATI non sono più tali a seconda della tipologia dei fatti, ma dei loro autori. Resta da chiarire come debba essere quantificato questo consenso: ci vogliono gli 8 milioni di voti di Berlusconi o ne bastano 4, o 2, o uno? Il bello è che, come nota Travaglio, queste tesi inaudite vengono sostenute proprio da coloro che più strillano contro la “giustizia di piazza” e il “giacobinismo”, come il molto commendevole prof. Panebianco. I magistrati hanno sempre torto. Se incarcerano (i colletti bianchi) perché incarcerano, se scarcerano (i poveri cristi) perché scarcerano. Se il gip manda avanti l’inchiesta, è “appiattito sul pm”; se non lo fa, il pm è un mascalzone. Se una Corte d’appello riforma la sentenza di un tribunale non significa che sta funzionando il sistema delle garanzie, ma che i giudici di primo grado sono autori di un “complotto” (altra parola magica e taumaturgica della band). Se la magistratura colpisce un uomo politico quando è in declino, è maramalda; se lo inquisisce quando è sulla cresta dell’onda, fa “giustizia politica” (...).
Si è sostenuto, soprattutto da Gianni Baget Bozzo, ma non solo, che in Italia ci sarebbe stata una “guerra civile” e che bisogna quindi arrivare alla “pacificazione nazionale”. Cioè gli italiani che hanno rispettato le leggi dovrebbero “pacificarsi” con quelli che le hanno violate, con i ladri, i tangentisti, i taglieggiatori, i rackettari, i concussori, i corrotti, i corruttori, con coloro che han lucrato sui cimiteri, sui malati, sugli aiuti al terzo mondo, pagato i giudici per aggiustare sentenze, truffato orfanelle.
Si è affermato che Mani Pulite ha colpito “solo alcuni e non altri” senza considerare che qualsiasi topo d’appartamento, preso con le mani nel sacco dal poliziotto, può dire la stessa cosa: “Perché te la prendi proprio con me, quando in questo momento altri cento stanno facendo quel che faccio io? ”. Ma la truffa linguistica e logica che fa da suggello a tutte le altre, e le completa, è la formula “bisogna uscire da Tangentopoli” (con un’amnistia o un indulto). Perché non significa niente o l’esatto contrario di ciò che vuol fare intendere. Forse che, amnistiando gli stupratori, usciamo da Stupropoli? I mafiosi da Mafiopoli? I ladri da Ladropoli? (...)
Per decenni la classe politica e dirigente italiana si è completamente disinteressata della giustizia. Finché erano i cittadini qualunque a essere stritolati da una macchina giudiziaria farraginosa e bizantina – la cui inefficienza è da imputare molto più al legislatore, cioè a quella stessa classe politica, che all’insipienza dei magistrati – tutto andava bene, anche la carcerazione preventiva di 4, 8, 10 anni.
ANZI erano proprio molti di coloro che oggi, a destra, si sono scoperti “garantisti” a sostenere la legittimità e la necessità di un simile sconcio (penso, fra i tanti altri, al caso di Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana, tenuto per quattro anni in galera senza processo fra il plauso dei giornali della borghesia imprenditora). Ma è bastato che alcuni indagati “eccellenti” patissero custodie cautelari di un paio di settimane perché si gridasse allo scandalo, alle “manette facili” e si scoprisse l’“emergenza giustizia”. È nato quindi un “garantismo” caciarone, confusionario, peloso e strumentale, che tutto ha a cuore tranneilbuonfunzionamentodella giustizia. Se l’avesse, si sarebbe focalizzato sul problema dei problemi, l’abnorme lunghezza dei processi, da cui dipendono quasi tutti gli altri: dalla durata, altrettanto abnorme, delle carcerazioni preventive all’impossibilità di tutelare, col segreto istruttorio, l’onorabilità delle persone coinvolte a qualsiasi titolo in un procedimento penale. Se, come avviene in Gran Bretagna, le istruttorie, quando c’è un imputato detenuto, durano mediamente dai 28 ai 32 giorni (a seconda della diversa composizione del Giurì, e quindi della diversa gravità del reato), anche la custodia cautelare non può durare di più. (...)
FARSI un mese di carcere da innocenti è un brutto incidente, ma superabile, soprattutto se il processo segue subito dopo e al cittadino viene restituita in tempi ragionevoli la propria onorabilità sociale. Farsi carcerazioni preventive di mesi, anni, lustri è invece la distruzione di una vita (...). La durata dei processi è quindi il nodo cruciale. Ma la nostra classe dirigente ha preferito esercitarsi in estenuanti dibattiti su questioni marginali, se non addirittura risibili (separazione delle carriere, distinzione delle funzioni, diversa composizione del Csm, distinzione fra gip e gup, “terzietà” del giudice), oppure si è ingegnata a inserire nell’ordinamento altre “garanzie” che rallentano ulteriormente un processo già appesantito da un’infinità di ricorsi, controlli, verifiche, controverifiche, nullità, invalidità, ricusazioni, eccezioni, competenze e incompetenze per materia, territorio e funzione, il tutto spalmato – caso unico al mondo – su tre gradi di giudizio. Si tratta di un “garantismo” che, con l’aria di difendere i diritti dell’indagato, li pregiudica gravemente. Perché l’interesse primario dell’innocente è arrivare a sentenza il più presto possibile, quello del colpevole è non arrivarci mai.
NON siamo quindi così ingenui e sprovveduti da non capire che lo scopo della band scopertasi improvvisamente “garantista” è tutt’altro: salvare i ladri di regime dalle conseguenze penali delle loro malefatte, passate, presenti e future. Per questo è in atto da anni, a opera di una buona parte della classe politica e dirigente, oltre a un poderoso apparato informativo alla cui testa ci sono le televisioni e i giornali di uno dei principali indagati, l’on. Berlusconi, una campagna capillare, costante, urlata e violenta di de-legittimazione della magistratura. (...)
Questa campagna forsennata e dissennata avrà, anzi ha già, conseguenze devastanti sul nostro vivere sociale. Se infatti la classe dirigente è la prima a dar mostra di non credere alle leggi, che sono le sue leggi, alle istituzioni, che sono le sue istituzioni, alla magistratura, che è la sua magistratura, con quale autorità e con quale efficacia può pretendere il rispetto dagli emarginati, dagli immigrati, dagli squatter, dai poveracci, dagli abitanti delle periferie, insomma da tutti coloro che dal dissolvimento di questo sistema hanno da perdere – per dirla con Marx – solo le loro catene? Che concezione può farsi della magistratura, delle leggi che è chiamata ad applicare e, in definitiva, dello stesso Stato democratico e liberale, il cittadino comune quando sente che un ex presidente del Consiglio, possibile futuro premier, leader del più consistente partito del Paese, liberale per giunta, come l’onorevole Silvio Berlusconi, convocato dal Tribunale di Milano di domenica (negli altri giorni infatti, per non presentarsi, c’è il pretesto dell’attività parlamentare), risponde beffardamente e impunemente: “Ioladomenicavadoamessa”? Se l’on. Berlusconi mostra un tale disprezzo per un sistema da cui ha avuto tutto, che opinione deve averne chi da questo sistema non ha avuto niente?
LA CLASSE dirigente di questo paese è seduta su una polveriera con un cerino acceso. Ma non se ne rende conto. Adesso, allarmata dalla cosiddetta microcriminalità, propone – a destra come a sinistra – la “tolleranza zero”. Vale a dire il pugno di ferro di polizia e magistratura per i reati da strada e ogni possibile garanzia invece per quelli finanziari e di corruzione. Ma questa è la vecchia, cara, schifosa giustizia di classe, dato che a commettere i reati da strada sono i poveracci, mentre quelli finanziari e di corruzione sono tipici della classe dirigente. Per giustificare questo razzismo giuridico si dice che i reati da strada creano maggior “allarme sociale”. Ma un tangentista che lucra miliardi non è socialmente meno pericoloso di un topo d’appartamento o di uno scippatore, è solo più silenzioso e occulto. Inoltre, in una società dominata dall’economia, i reati finanziari non perdono gravità, ma l’acquistano. (...) Violando la legge si può lucrare una ricchezza indebita, costituirsi una posizione di potere, anche politico, e inquinare la vita democratica del Paese. (...)
NESSUNA classe dirigente degna di questo nome ha mai de-legittimato la magistratura. Non lo fecero nemmeno quelli della Prima Repubblica. Bisognava aspettare i neofiti della Seconda. Qualsiasi classe dirigente, per quanto corrotta, si rende conto della pericolosità di una simile operazione. La magistratura è come l’arbitro di una partita di calcio. Dell’arbitro si può dire che sbaglia, che non ci vede, che è mediocre, ma se alcuni giocatori cominciano a sostenere che l’arbitro è stato comprato e negano la legittimità dei suoi fischi quando sono contrari, peraltro chiedendone il rispetto quando sono a favore, la partita finisce in una colossale zuffa, perché, prima o poi, anche tutti gli altri giocatori seguiranno il loro esempio. Fuor di metafora: si rompe il patto sociale. E chi detiene il potere ha tutto da perdere da un’eventualità di questo genere. Ecco che cosa rischiano lorsignori a furia di baloccarsi, pur di salvare qualche potente tycoon preso con le mani nella marmellata, con gli “accanimenti giudiziari”, i “complotti”, le “toghe rosse” e le altre sciocchezze in malafede che Marco Travaglio cataloga diligentemente nel suo Manuale del perfetto impunito.

Corriere della Sera 17.2.12
«La corruzione sta dilagando»
Allarme della Corte dei Conti 20 anni dopo Mani Pulite
«Illegalità, corruzione e malaffare» sono «ancora notevolmente presenti»: allarme della Corte dei Conti a vent'anni da Mani Pulite. La corruzione «dilagante» costa 60 miliardi all'anno. Quasi due condanne al giorno per i funzionari pubblici.
di Lorenzo Salvia


«Corruzione e malaffare costano 60 miliardi l'anno»
Il presidente della Corte dei Conti: record di evasione dell'Iva
ROMA — Venti anni dopo Mani Pulite non è cambiato nulla. «Illegalità, corruzione e malaffare sono fenomeni ancora notevolmente presenti nel Paese», dice il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino, inaugurando l'anno giudiziario. Anzi «le dimensioni di questi fenomeni sono di gran lunga superiori a quelle che vengono faticosamente alla luce». In prima fila c'è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, tra le sue mani la lunga relazione tecnica con i numeri di questa eterna Tangentopoli. Trecento pagine e una lunga serie di segni più.
Cresce il numero delle sentenze di condanna per i funzionari pubblici: l'anno scorso ne sono arrivate quasi due al giorno, in tutto 566, cento in più rispetto a due anni prima. Cresce del 60% rispetto all'anno precedente il danno erariale, cioè i soldi sfilati dalle tasche di tutti noi: 354 milioni di euro, la stessa somma che il governo prevedeva di incassare ogni anno con il pedaggio sulle autostrade gratuite, come la Salerno-Reggio Calabria. Ma sono solo granelli di sabbia. Le stime della Funzione pubblica dicono che la corruzione ci ruba 60 miliardi di euro l'anno ma nel 2011 sono arrivate condanne «solo» per 75 milioni. Un male non solo antico ma anche eterno? «Bisognerebbe fare come per la mafia — dice Giampaolino — e cioè costruire un vero e proprio momento di lotta». Anche perché le strade del malaffare sono infinite e sempre più raffinate. Ci sono ancora i ladri tradizionali, come i due dipendenti dell'Università di Napoli che giorno dopo giorno si sono infilati in tasca 10 mila euro in marche da bollo. Ma più spesso ci si muove nella zona grigia delle consulenze, «assegnate per obiettivi personalistici» come dice il procuratore generale aggiunto Maria Teresa Arganelli. Solo due esempi. Un funzionario della Regione Liguria che aveva appaltato all'esterno, per 40 mila euro, uno studio sugli «assetti organizzativi» degli uffici. Per poi ricevere dal consulente una «relazione sostanzialmente riproduttiva della precedente». Oppure il Parco del Pollino, in Basilicata, che aveva commissionato uno spot da 100 mila euro, salvo poi accorgersi di non avere soldi per farlo passare in tv.
Non è un caso se poi lo stesso disprezzo delle regole si trasferisce verso il basso, contagiando il cittadino comune. Il presidente Giampaolino ricorda che, considerando solo l'Iva, in Italia l'evasione è pari «al 36%, il valore di gran lunga il più elevato tra i grandi Paesi europei, con l'eccezione della Spagna». E le cose non vanno meglio quando si cerca di recuperare i soldi nascosti al Fisco. Proprio ieri sono stati prorogati i termini della sovratassa per chi ha usato lo scudo fiscale riportando in Italia i capitali che aveva all'estero. Ma a dieci anni dal condono tombale del 2002 — ricorda la Corte dei Conti — ci sono da recuperare ancora 4,2 miliardi di euro promessi da chi voleva mettersi in regola. Dopo le prime rate hanno smesso di pagare. Hanno venduto tutto, tecnicamente sono incapienti, non devono nemmeno un euro di tasse. In confronto Mario Chiesa era davvero solo un mariuolo.

La Stampa 17.2.12
L’imposta indiretta non pagata
Iva evasa, così si truffa lo Stato
Niente scontrini, fatture false, riciclo di denaro: i modi per eludere il fisco
di Roberto Giovannini


La diagnosi della Corte dei Conti è impietosa: in Italia l’evasione fiscale sull' Iva supera il 36 per cento, ed è uno dei valori più elevati tra i grandi paesi europei. Solo la Spagna, con il 39%, ci supera. Una fotografia impietosa, drammatica di una realtà che conosciamo direttamente fin troppo bene nel momento in cui non ci viene consegnata fattura o scontrino. Che viene confermata quando i cosiddetti «blitz» delle Fiamme Gialle moltiplicano per quattro o per dieci i ricavi dichiarati dai commercianti. O quando le cronache ci svelano le mille e mille truffe escogitate (e solo di rado svelate) per creare falsi crediti Iva per cifre milionarie. Imbrogli e «cattive abitudini» che non solo fanno mancare alle casse dello Stato decine di miliardi ogni anno, ma che penalizzano tutti i cittadini onesti, costretti a sopportare una pressione fiscale reale pesantissima che non avrebbe ragion d’essere se tutti pagassero il giusto. Ieri il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino ha ricordato che «sulla base delle analisi e degli studi svolti vanno ritenute attendibili le stime che quantificano in almeno 100-120 miliardi di euro le imposte evase annualmente».
L’azione di contrasto all’evasione della principale delle imposte indirette forse si è fatta più massiccia in questi mesi, ma non si può negare che i risultati siano comunque troppo modesti rispetto alle necessità. A leggere i risultati del lavoro della Guardia di Finanza nel 2011, l’anno da poco concluso ha visto l’individuazione di ben 8 miliardi di Iva evasa. L’evasione più consistente e sofisticata, spiegano alle Fiamme Gialle, è quella che scaturisce «dalle triangolazioni fra società collocate nei paradisi fiscali, dalle intestazioni fittizie di patrimoni, dalle grosse operazioni elusive». Prova ne sia i 2 miliardi di Iva evasa con le cosiddette «frodi carosello», come nel caso della vicenda TelecomFastweb. Oppure la storia scoperta giusto ieri: una società fiorentina di moda che ha evaso ben 686 milioni di euro truccando la produzione di borse e capi di abbigliamento in Cina, riciclando i profitti in strutture alberghiere e ristoranti negli Stati Uniti. Un’operazione che coinvolgeva ben undici società controllate, 5 ad Hong Kong e 6 alle Isole Vergini.
La realtà è quella di un’imposta che è afflitta da un’evasione di circa 40 miliardi di euro, secondo alcune stime: 26,2 miliardi legati a una sottofatturazione delle vendite (in pratica la mancata fatturazione ed effettuazione degli scontrini fiscali), 7 miliardi da costi non sostenuti (ovvero da false compensazioni fiscali solo cartacee) e 8 miliardi dalle «frodi carosello». Questa e altre stime le fornisce Roberto Convenevole, che per dieci anni è stato capo ufficio studi dell’Agenzia delle Entrate, e che nel 2009 ha scritto un libro proprio sulla regina delle imposte dirette, «La materia oscura dell’Iva».
Un testo che - tra l’altro - evidenzia un paradosso: in Francia, il gettito dell’Iva vale il doppio di quello dell’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone fisiche. In Italia accade esattamente l’opposto: il gettito Iva è la metà del gettito Irpef. «I blitz di questo periodo - spiega Convenevole - evidenziano chiaramente che soprattutto nel commercio e nei servizi c’è una massiccia sottofatturazione». Il secondo problema riguarda l’Iva intracomunitaria: in Europa le esportazioni non sono gravate di Iva, e l’imposta invece va riscossa al momento dell’importazione. In questo passaggio si generano appunto le «frodi carosello»: nulla di più facile che mettere in campo finte esportazioni, finte importazioni e finte lavorazioni di merci che servono solo a generare inesistenti diritti a crediti Iva, ovvero soldi che lo Stato deve rimborsare ai contribuenti sotto forma di compensazioni d’imposta. Nel 2007 questa «Iva negativa» da compensare valeva quasi 46 miliardi di euro; una bella fetta di questi crediti è del tutto virtuale e truffaldina.
Ma cosa fanno, in Francia, dove l’Iva è l’architrave del sistema fiscale, che noi italiani non facciamo? «Semplicemente è la sconsolata osservazione di Convenevole - sono più bravi di noi a gestire questa imposta. Hanno regole e soprattutto strumenti più moderni ed efficaci». E cosa dovremmo fare per evitare o limitare l’evasione dell’Iva? Un primo passo, spiega l’esperto, è quello di anticipare il più possibile rispetto alla chiusura dell’anno fiscale il momento delle dichiarazioni Iva dei contribuenti: più si ritarda il momento della dichiarazione, più tempo c’è a disposizione per fare trucchi e imbrogli. Il secondo passo dovrebbe essere il ripristino della dichiarazione sintetica Iva (abolita nel 1977), ovvero un documento da allegare al modulo F24 con cui i contribuenti girano l’Iva incassata all’Erario. Sulla dichiarazione sintetica andrebbe scritto il volume d’affari e le imposte connesse: sarebbe un grande aiuto per chi deve svolgere i controlli, oggi costretto ad entrare in azione con molto ritardo. Infine, visto che il fattore chiave per combattere l’evasione Iva è il taglio dei tempi - come detto, più tempo trascorre, più è facile imbrogliare - così come avviene in molti altri paesi sarebbe utile collegare telematicamente in tempo reale i registratori di cassa con l’anagrafe tributaria.

il Fatto 17.2.12
MicroMega speciale Tangentopoli


A vent’anni da Mani Pulite, Micromega lancia in edicola una speciale iniziativa editoriale. Dal 14 febbraio, nella serie “I Classici”, la rivista di politica e cultura diretta da Paolo Flores D’Arcais ripubblica lo storico numero del bimestrale dal titolo “Resistere, resistere, resistere!”,uscito nel gennaio 2002, nel decennale dell’inchiesta. All’interno i dialoghi dei protagonisti del pool e di altri importanti personalità della cultura italiana chiamate a tracciare un bilancio sulla “rivoluzione della legalità” iniziata con Mani Pulite e poi, forse, arenatasi. Tra le voci quella di Antonio Tabucchi a colloquio con Francesco Saverio Borrelli, di Carlo Lucarelli e Antonio Di Pietro, di Giuliano Ferrara e Piercamillo Davigo e le analisi di Paolo Flores d’Arcais, Guido Rossi e Marco Travaglio a cui si aggiunge una cronologia di Paolo Biondani. Oggi al teatro “Puccini” di Milano, (corso Buenos Aires 33), Di Pietro, Orlando, Tabacci, Barbacetto, Travaglio terranno l’incontro “Vent’anni da Mani Pulite e rubano ancora”.

l’Unità 17.2.12
La sorpresa dei fondi all’editoria: più aiuti ai grandi gruppi
Alla continua polemica contro i giornali di idee si è aggiunto ieri De Benedetti
Ma vanno agli editori più potenti i maggiori sconti statali, dalla carta allo stato di crisi
La replica Fnsi: «È un dovere impedire la scomparsa di voci dell’informazione»
di Natalia Lombardi


Per favore, togliamo i finanziamenti all’editoria laddove l’editoria non sta in piedi da sola. Non si tengono in piedi i morti, perché c’è puzza di cadavere»: a dire queste parole è Carlo De Benedetti, presidente del gruppo editoriale L’Espresso, a margine della lectio magistralis che ha tenuto ieri alla facoltà di Economia dell’Università di Palermo.
A capo di uno dei più consistenti gruppi che edita La Repubblica, L’Espresso, molti quotidiani locali, Radio Capital, DeeJay e M2o e relative tv, De Benedetti in modo indistinto prende spunto dalle truffe (denunciate dalla Federazione della Stampa e da Mediacoop) sul finanziamento pubblico per dire «guardiamo ai giornali di oggi e agli abusi che vengono fatti» e che continuano. «Bisognerebbe togliere tutti i finanziamenti pubblici che poi finiscono normalmente in violazione delle leggi, in furti e abusi», ha proseguito, per «lasciare campo libero all'editoria sana», mentre «i giornali di partito se li paghino i partiti. Se hanno già i rimborsi elettorali non si capisce perché noi contribuenti dobbiamo pagare i giornali di partiti. Se li paghino loro». Appare contraddittorio, però, giudicare «un errore, una smargiassata» l’uscita di Celentano: «L’idea di chiudere alcuni giornali è una cosa di cattivo gusto, contro la libertà di stampa che lui invoca».
Il sostegno pubblico. Peccato che proprio contro questi abusi le testate non commericali stiano insistendo invano da anni perché i governi rivedano i criteri di assegnazione dei fondi e li riservi solo ai «giornali veri». Promessa fatta anche dal premier Monti, ma nel frattempo molti giornali chiudono davvero. Il finanziamento pubblico alla stampa nasce come garanzia del pluralismo, nel rispetto costituzionale della libertà d’informazione. Ma nell’ondata «anti casta» si può perdere di vista una differenza sostanziale: i grandi quotidiani e periodici hanno risorse dalla pubblicità, preclusa dagli investitori ai giornali di opinione.
Ma anche i grandi gruppi editoriali godono di sostegni pubblici, come tutti: nel 2011 gli sconti sulle tasse per l’acquisto della carta sono stati di 30 milioni di euro in credito d’imposta; ammonta dai 30 ai 40 milioni il fondo per le agevolazioni del 50% sulle tariffe telefoniche. Lo «sconto» pubblico più consistente, e che incide molto su chi vende più copie (i grandi gruppi), è l’Iva al 4% sul venduto in edicola, ma applicato solo sul 20% del totale, mentre il restante 80% è esente, e anche sugli abbonamenti incassati. Su questi ultimi sono state tagliate le agevolazioni, colpendo Il Sole24ore e Avvenire.
C’è poi il capitolo degli «stati di crisi» che hanno devastato le redazioni, anche di giornali che non avevano bilanci in rosso sangue: in totale dal 2009 sono stati prepensionati 597 giornalisti (su circa 18.500) anche grazie al fondo di 20 milioni di euro della Presidenza del Consiglio. Al gruppo L’Espresso, per esempio, è stato riconosciuto lo stato di crisi dal dicembre 2009 al novembre 2010 e ha usufruito di 92 prepensionamenti: 34 al Sole24ore, dall’aprile 2010 al marzo 2012; il gruppo Rcs quotidiani, che edita Il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, dal novembre 2009 al novembre 2011 ha mandato in pensione anticipata 87 giornalisti, per i periodici altri 34 e, in un nuovo stato di crisi dovrebbero essere 31. Il gruppo Mondadori (periodici) dal dicembre 2009 al novembre 2011 ha utilizzato il fondo per 52 prepensionamenti. E così tante altre testate, da La Stampa (34 giornalisti) al Messaggero (38, più 15 al Mattino di Napoli e 14 al Gazzettino di Padova, per parlare del gruppo Caltagirone).
In una nota la Fnsi risponde che «il finanziamento pubblico all'editoria è necessario per tutte quelle realtà dell'informazione non meramente commerciali, di idee o di voci minoritarie, di promozioni di forme di autoimprenditorialità cooperativa che non possono contare sulle risorse di capitani di impresa come l'ing. De Benedetti». E se «i morti (i giornali chiusi) non si possono certo tenere in vita», la mano pubblica ha il dovere «di impedire la scomparsa di voci dell’informazione o, peggio, provocare suicidi assistiti». Il tutto all’insegna della «trasparenza» per escludere chi «ricorre ad espedienti, a violazioni o abusi», regole valide per tutti, precisa la Fnsi.

il Fatto 17.2.12
De Benedetti: “Togliamo i finanziamenti ai giornali morti”


Per cortesia togliamo il finanziamento all'editoria che non sta in piedi da sola. In un momento di difficoltà del Paese non si tengono in piedi i morti, poi c’è puzza di cadavere”. A parlare così è il presidente del gruppo editoriale L'Espresso, Carlo de Benedetti a margine della lectio magistralis: “Essere imprenditori” oggi nella facoltà di Economia a Palermo rispondendo a chi gli chiedeva il suo parere sull’opportunità di mantenere i contributi statali all'editoria. Secondo De Benedetti, “si dovrebbero togliere tutti i finanziamenti pubblici ai giornali che poi finiscono in violazioni e abusi. Ritengo ha concluso che bisogna lasciare campo libero all'editoria sana, i partiti se la paghino loro, hanno già il rimborso elettorale. Non si capisce perchè dobbiamo pagare ancora per i giornali di partito".

il Riformista 17.2.12
De Benedetti, editore sano da 4 euro a pezzo
di Marcello Del Bosco


Durante una pausa del suo ventennale risiko per scalare la leadership di un partito, l’ing. De Benedetti ha trovato tempo e voglia di scagliarsi contro i piccoli giornali auspicando una “soluzione finale” che faccia tabula rasa. «Per favore, togliamo i finanziamenti all’editoria laddove l’editoria non sta in piedi da sola. Non si tengono in piedi i morti, perché c’è puzza di cadavere» ha tuonato l’ingegnere, candidandosi al ruolo di becchino-capo. Tanto più che dai quotidiani defunti si può ereditare qualche lettore vivente.
Ora, che a De Benedetti tutti i discorsi sul pluralismo, sulla libertà di informazione, sull’esigenza di un paese civile di avere il massimo di voci libere e non condizionate dai poteri forti, facciano un baffo non è proprio una sorpresa. Avete banche? Conti in Svizzera? Siete soci di multinazionali? No? E allora state zitti e non rompete gli zebedei. Più interessante è capire cosa intenda l’ingegnere per “editoria sana”, lui che con la ristrutturazione di Repubblica (prepensionamenti e contratti di solidarietà a iosa) i suoi contributi pubblici li ha incassati da un pezzo, e che continua a ricevere sgravi fiscali e altri contributi. Ancor meglio.
Qualche settimana fa a un giornalista della Gazzetta di Modena, Giovanni Tizian, è stata assegnata una scorta per le minacce ricevute dopo le sue denunce. Sotto silenzio è passata però quella parte della storia in cui il cronista nel pudico imbarazzo sindacale raccontava di essere pagato quattro euro a pezzo dal giornale (di proprietà del gruppo editoriale che fa capo a De Benedetti). Mistero svelato. Si potesse tornare allo scudiscio, alle catene e al manganello, l’editoria sarebbe florida e opulenta.
Un ex stretto collaboratore dell’ingegnere, per inquadrare l’uomo, raccontava l’aneddoto del giovane e rampante imprenditore che licenzia l’anziano tutore da un umile impiego di contabile. E di fronte ai lamenti del vecchio (che ricorda di avergli salvato la vita, di averlo fatto studiare ed arricchire e di essere il padrino dei suoi figli) il giovanotto sbotta: «Già, ma cosa hai fatto per me negli ultimi tre mesi?».
Grazie, comunque, a Carlo De Benedetti per aver voluto mostrare di quale pasta è fatto. Nei salotti più radical-chic non vedevano l’ora di aprire il dibattito sulla concezione liberaldemocratica nel secolo nascente: con argomenti forti.

l’Unità 17.2.12
Per giovani e donne lavoro in calo continuo
Il presidente Istat alla Camera: nei primi 9 mesi 2011 persi altri 80mila posti
Nella fascia 15-24 anni disoccupazione al 31%, la più alta in Europa dopo la Spagna
Meno di una donna su due lavora, e solo il 30% nel Sud
di Laura Matteucci


Non si arresta l’emorragia dell’occupazione giovanile. Desolante, anche se attesa, l’audizione alla Camera del presidente Istat Enrico Giovannini: «A fronte di una moderata crescita complessiva, nella media dei primi tre trimestri del 2011, l’occupazione dei giovani ha subìto una flessione del 2,5%», il che significa che sono andati persi altri 80mila posti di lavoro. Nello stesso periodo, «il tasso di disoccupazione dei giovani tra 18 e 29 anni è sceso dal 20,5% del primo trimestre 2011 al 18,6% del terzo trimestre, rimanendo almeno 11 punti percentuali al di sopra di quello complessivo. Tuttavia, se si considera la fascia di età 15-24 anni, come proposto dall’Unione europea, la disoccupazione sale al 31%, la più alta dopo la Spagna».
Dopo la forte caduta nel biennio 2009-2010, l’occupazione dei giovani insomma continua a calare. Analoga la sorte di quella delle donne. «Meno di una donna su due lavora e solo il 30% nel Sud», continua Giovannini. Non bastasse, le donne «continuano a essere occupate in lavori precari più frequentemente degli uomini e permangono in condizioni di precarietà più a lungo nel tempo». Una condizione che fa emergere una elevata distanza dell’Italia dai principali paesi europei: «Circa 16 punti percentuali di occupazione in meno riprende il presidente Istat rispetto a Francia e Spagna. Specularmente, il tasso d’inattività delle donne italiane rimane tra i più alti in ambito europeo, determinando un’incidenza relativamente modesta della disoccupazione femminile e pari al 9,6%, un punto al di sopra della media nazionale, anche con una punta del 15,4% nel Mezzogiorno».
C’è poi la difficoltà delle donne «a permanere sul lavoro in concomitanza con una gravidanza e le dimissioni in bianco hanno riguardato 800mila donne nel corso della loro vita». Non solo. Il presidente Istat parla di una «elevata asimmetria» dei ruoli che disincentiva la partecipazione: «Se si considera il lavoro totale, le occupate lavorano un’ora più degli uomini al giorno e si fanno carico di più del 70% del lavoro familiare». Per la Cgil «il dramma dei giovani è determinato dalla crisi e dalle regole del lavoro», dice il segretario confederale Fulvio Fammoni commentando le cifre fornite da Giovannini. «Quando si tireranno le somme, si vedrà che nel 2011 si saranno persi oltre 100mila occupati tra i giovani, mentre l’80% delle assunzioni è con contratti di lavoro precari. Sta in questi numeri l’agenda delle riforme necessarie al paese: sviluppo, crescita e lotta alla precarietà». Dalla Cgia di Mestre, una lettura parzialmente diversa: se è vero che nei primi 9 mesi del 2011 sono stati persi 80mila posti di lavoro tra i giovani, sempre nel 2011, sostiene, sono stati 45.250 i posti di lavoro per i giovani che le imprese hanno dichiarato di non essere riuscite a reperire sul mercato del lavoro, vuoi per il ridotto numero di candidati che hanno risposto alle inserzioni (pari a circa il 47,6% del totale), vuoi per l’impreparazione di chi si è presentato al colloquio (52,4%). La Cgia ha effettuato un’elaborazione su dati Excelsior-ministero del Lavoro. Le figure professionali più difficili da rinvenire sono state quelle dei commessi (quasi 5mila posti di difficile reperimento), camerieri (poco più di 2.300 posti), parrucchieri/ estetiste (oltre 1.800), informatici e telematici (quasi 1.400), contabili (1.270), elettricisti (oltre 1.250), meccanici auto (1.250), tecnici della vendita (1.100), idraulici e posatori di tubazioni, in entrambi i casi circa 1.000.

Corriere della Sera 17.2.12
E Vattimo sbeffeggiò l'Essere: è come un mobile con le tarme
Il pensatore torinese critica le posizioni del «nuovo realismo»
di Edoardo Camurri


«Non ci sono fatti, solo interpretazioni. Anche questa è un'interpretazione» tuonava più di un secolo fa quella bestia bionda di Friedrich Nietzsche, e oggi Vattimo continua a ripeterlo con una certa acribia anche se (a eccezione forse di qualche bramino) in molti si ostinano (loro malgrado) a sperimentare quanto la realtà sia dura a morire. Se si legge il suo ultimo libro, Della realtà. Fini della filosofia (Garzanti), la volontà di Vattimo di dissolvere la realtà è così radicale che finisce con il dissolvere perfino la realtà di un suo ex allievo, e ora durissimo rivale, come Maurizio Ferraris sostenitore del cosiddetto «nuovo realismo». Insomma, Vattimo non lo cita mai, per quanto sia evidente che uno dei principali obiettivi polemici del libro sia proprio l'esistenza di Maurizio Ferraris in quanto tale. Si potrebbe obiettare: ma questa forma di gossip teoretico cosa c'entra con un testo e con la sua analisi critica? In teoria nulla, se non fosse che è lo stesso Vattimo a giustificare una lettura sospettosa delle diatribe filosofiche: «Persino il richiamo all'oggettività delle cose come sono in sé stesse pesa solo in quanto è una tesi di qualcuno contro qualcun altro, e cioè in quanto è una interpretazione motivata da progetti, insofferenze, interessi anche nel senso migliore della parola» (p. 95).
Chi, come chi scrive, ha frequentato a lungo le lezioni di Vattimo, si divertiva molto a sentire il maestro riassumere la sua posizione con l'affermazione: «L'Essere è camolato», un modo piemontese per dire che l'Essere ha le tarme. Con Heidegger, Vattimo sostiene: la conoscenza non è adeguazione di un soggetto all'oggetto, l'Essere della filosofia non va pensato come un ente o come un dio presente che sta dinanzi a noi (o più spesso sopra di noi in posizione di dominio).
L'Essere è un progetto dentro il quale l'uomo è da sempre gettato. Esempio: se scrivessimo che esistono gli ippogrifi, ci prendereste per scemi non perché avete esplorato in lungo e in largo e nel tempo e nello spazio l'universo al punto da escludere radicalmente l'esistenza di questi animali metà cavalli e metà grifoni, ma perché viviamo in un mondo nel quale si sa già, in partenza, e sulla base di qualche confortevole pregiudizio, che gli ippogrifi non esistono. Quando si nasce si ereditano un linguaggio, delle credenze e dei significati che consentono all'uomo di articolare un discorso all'interno del quale (e questo è un interessante paradosso su cui Vattimo spesso si concentra nel suo libro) ci si può perfino illudere di essere realisti. Scrive Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 46): «In quanto esistenti, dunque, noi siamo sempre bestimmt, intonati, orientati secondo preferenze e repulsioni, mai semplicemente-presenti (vorhanden) in mezzo agli oggetti (…). Questa è l'idea di esistenza come "progetto"».
Non stupirebbe, a questo punto del discorso, intravedere però qualche manina alzata pronta a obiettare: quello che sostiene Vattimo è un fatto, non un'interpretazione; si sta contraddicendo, anche lui finisce col descrivere obiettivamente la struttura dell'Essere. Ed è questa osservazione, una variante dell'obiezione antica contro lo scetticismo (affermare l'impossibilità della verità è una verità), a rendere conturbante Della realtà. Fini della filosofia. Perché Vattimo risponde innanzitutto rivendicando, con Nietzsche, il carattere interpretativo della sua posizione per poi chiedersi un po' stupito (p. 85): «L'argomento logico contro lo scetticismo ha mai convinto qualcuno ad abbandonare le sue "convinzioni" scettiche?». Non siamo all'anything goes, all'idea che tutto vada bene, ma all'insistenza che un «banale errore logico» non possa liquidare l'approdo nichilista a cui è giunta la storia della filosofia, il destino dentro il quale l'uomo è gettato e dove tenta di progettare la realtà che più desidera. Nulla di nuovo. Ma forse qualcosa di noioso e di inquietante. Noioso perché, come scriveva il grande poeta polacco Czeslaw Milosz, il nichilismo è ormai diventato una prerogativa della cultura di massa, nonché il segno di riconoscimento delle menti ordinarie; e inquietante perché grazie a idee come queste, e stranamente in nome di un'istanza di libertà comune alle avanguardie dei primi del Novecento, Heidegger divenne nazista e Vattimo, che lo difende dicendo che si autofraintese, oggi invita a boicottare Israele, abbraccia Fidel Castro («Gli ho preso il viso tra le mani — raccontò — con qualche lacrima agli occhi»), sostiene che con l'11 settembre: «Gli americani hanno fatto esperimenti sul proprio popolo»; eccetera.
Se si rigetta la possibilità di una teoria vera e propria, il rischio è concepire il pensiero come sostanzialmente asservito e dipendente dalla vita o dalla storia e, senza voler fare una reductio ad Hitlerum (una teoria non è confutata dal fatto che le è capitato di essere condivisa da Hitler), sembra che la posizione di Vattimo, ragionevole in teoria (l'Essere è camolato), in pratica corra il rischio di dimenticarsi dell'Essere per assolutizzare le camole e i rosicchiatori della realtà. Non è una situazione tanto allegra anche perché l'alternativa (classica e platonica) per sfuggire a questo pericolo non è più allettante: non divulghiamo nel dettaglio come stanno le cose, il nichilismo, eccetera, perché questa visione è incompatibile con la vita e al suo posto edifichiamo miti e nobili menzogne dentro i quali costruire un mondo decente ma falso. Entrambe le posizioni sono insieme conservatrici e rivoluzionarie. Scrive ancora Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 109): «Proporre un diverso ordine storico-sociale, anche a partire dall'insoddisfazione per alcuni aspetti del paradigma vigente, è possibile non certo con argomenti "cogenti" di tipo ostensivo — "ti mostro che" — ma solo con discorsi edificanti — "non ti pare che sarebbe meglio se"».
Tutto finisce quindi col dipendere da una decisione. E la decisione può essere più o meno efficace a seconda di quanto siamo spregiudicati o di quanto siamo capaci di porci in ascolto dell'essere e dei progetti che l'essere ha in serbo per noi. Liberati dalla realtà, finiamo così con il diventare vittime della propaganda.

il Fatto Saturno 17.2.12
Il Mandela del Salento: «Così i neri fecero sciopero»
L’ingegner Sagnet, bracciante per casoYvan, studente al Politecnico di Torino va a raccogliere pomodori in Puglia. E diventa leader della rivolta
di Alessandro Leogrande


PERCHÉ MAI proprio quel giorno anziché un altro? In Shah-in-shah, l’appassionante reportage sul crollo del regime di Reza Pahlavi, Ryszard Kapuscinski si interroga sulla genesi dei moti di rivolta. Perché, si chiede, la gente in genere accetta la miseria e l’oppressione come se disegnassero l’ordine naturale delle cose e poi all’improvviso, un giorno, quell’ordine salta in aria? «È un processo insolito», continua Kapuscinski, «che talvolta si compie in un attimo come per una specie di choc liberatorio: l’uomo si sbarazza della paura e si sente libero. Senza questo processo, non ci sarebbe alcuna rivoluzione». Viene da pensare a questo celebre passo del narratore polacco, leggendo il diario di Yvan Sagnet, portavoce l’estate scorsa di una singolare rivolta che ha scosso le campagne del Meridione d’Italia. Il diario è contenuto in Sulla pelle viva (DeriveApprodi), ed è davvero una pagina di storia contemporanea. PER LA PRIMA VOLTA, l’estate scorsa, centinaia di braccianti africani, vessati dai caporali nella raccolta dei pomodori, si sono ribellati contro un sistema di sfruttamento pre-moderno. Hanno incrociato le braccia e hanno bloccato la raccolta dell’oro rosso per almeno due settimane. Da quel momento, per la prima volta, qualcosa nel circolo vizioso di miseria e oppressione, che regola le raccolte agricole e lo sfruttamento delle braccia migranti nelle nostre campagne, si è rotto per sempre. È accaduto a Nardò, nel profondo Salento, e in pieno agosto, a due passi dagli ombrelloni di Gallipoli.
Yvan Sagnet, divenuto in breve uno dei leader della protesta, a Nardò ci è capitato quasi per caso. Studente di ingegneria al Politecnico di Torino, è nato in Douala (in Camerun) nel 1985. Da quattro anni vive in Italia, e quando qualcuno gli ha proposto di andare a raccogliere angurie e pomodori all’altro capo del paese, non ci ha pensato due volte: era l’unico modo per pagare le tasse universitarie. Solo dopo essere giunto lì ha scoperto il sotto-mondo del caporalato: «Un’altra Africa, un’altra Italia».
Sagnet spiega molto bene quale sia stata «la scintilla della protesta», l’attimo in cui ogni sopruso è apparso inaccettabile. Dall’istante in cui hanno sfidato il loro caporale, guardandolo negli occhi e rifiutando i suoi ordini, una gabbia disciplinare è andata in frantumi. Ma per capire la portata di quel gesto, occorre spiegare anche la “legge” infranta, il “normale” sistema di sfruttamento cui si sono opposti. Nelle campagne del Sud Italia si è realizzato un intreccio perverso tra globalizzazione e arcaicità. I frutti della terra non vengono più raccolti dai cafoni di Levi o Silone, bensì da braccianti tunisini, sudanesi, ivoriani, ghanesi, rumeni, bulgari... L’irrompere in massa di questa manodopera globale ha prodotto la più radicale trasformazione antropologica del Mezzogiorno rurale degli ultimi 15-20 anni. Tuttavia si lavora ancora sotto caporale, esattamente come un secolo fa. La giornata di un bracciante africano è drammaticamente simile a quella di un lavoratore dei tempi di Di Vittorio, come se nulla intorno fosse cambiato. Stessa fame, stessa sete, stessa precarietà. Stesso sistema di lavoro. Nella raccolta del pomodoro ad esempio, i braccianti di Nardò sono stati pagati a cottimo: 3,50 euro per ogni cassone di pomodoro raccolto. Un cassone contiene 4 quintali di prodotto, e un uomo adulto, ben allenato, mediamente riesce a riempirne 6-7, in un “turno” che va dalle 4,00 del mattino fino alle 6,00 di pomeriggio. Poi, però, a quella magra paga vanno sottratti 5 euro da dare al caporale, il signore dei campi, l’unico intermediario tra quelle braccia senza diritti e le imprese italiane che se ne servono.
In genere tutto questo viene accettato senza ribellarsi. Qualche anno fa, nella stessa Puglia, un’inchiesta della magistratura sulla riduzione in schiavitù nel comparto agricolo fece emergere addirittura parecchi casi di braccianti uccisi o scomparsi, probabilmente per il semplice fatto di essersi ribellati ai loro kapò. Raramente ci sono stati, negli ultimi anni, esplosioni di rabbia contro quest’ordine delle cose. È accaduto a Rosarno, certo. Ma ciò che è successo a Nardò, in Salento, segna uno spartiacque. Non si è trattato di un semplice moto di ribellione, ma di uno sciopero autorganizzato che ha raggiunto forme particolarmente mature di organizzazione e di riflessione.
Sicuramente ci sono dei fattori che lo hanno favorito. Innanzitutto, i braccianti entrati in sciopero erano alloggiati presso una masseria, all’interno della quale lo scambio di idee con associazioni antirazziste, sindacalisti e attivisti di base contro il lavoro nero è stato forte. La somma delle loro storie individuali ha fatto il resto. Nei campi di Nardò c’erano anche ragazzi africani appena sbarcati dalla Libia. Tuttavia la maggior parte di essi vivevano in Italia da più di dieci anni, e sovente, a causa della crisi, erano stati espulsi dalle fabbriche del Nord. Approdati al Sud, è stato proprio il confronto tra le due condizioni di lavoro e di vita ad accendere la protesta.
Terzo fattore: lo sciopero ha fatto emergere dei portavoce. Non uno, ma parecchi. La vicenda umana di Sagnet non è l’unica, ma è sicuramente la più significativa. Nelle sue parole è possibile leggere qualcosa di antico e allo stesso tempo spiccatamente universalista. In una Italia sempre più multiculturale iniziano a emergere, intorno alle semplici idee di libertà e di giustizia, e intorno al rifiuto dell’oppressione più brutale, forme di associazione, di rappresentanza e di racconto del tutto nuove.

il Fatto Saturno 17.2.12
La masseria della lotta
di Yvan Sagnet


IL GIORNO dello sciopero, sabato 30 luglio, c’erano più di dodici gruppi di lavoratori mandati a lavorare nei campi di raccolta delle angurie e dei pomodori. Il gruppo con cui lavoravo e che raccoglieva i pomodori era composto da 28 sudanesi, 11 ghanesi, 5 burkinabe e 1 camerunese, io. D’altra parte, ero l’unico camerunense in tutta la Masseria. Nel mio gruppo già il primo giorno mi ricordo della discussione che ebbi con il caporale che mi aveva rimproverato di non aver lavorato adeguatamente, cioè di non aver raccolto i pomodori caduti per terra. Quello fu un momento particolare perché si creò un elemento psicologico nuovo che diede la forza ad alcuni miei compagni di discutere anche loro con il caporale, molto esigente e aggressivo, che si faceva chiamare M., di nazionalità sudanese. DURANTE le pause con i colleghi non sudanesi si criticavano le pratiche e i metodi di questo caporale; i braccianti sudanesi non prendevano parte alle discussioni per paura e in parte per “rispetto” di M., che veniva considerato da molti come il capo della comunità, nonostante si rendessero conto di quanto ingiusto fosse il suo comportamento. In seguito una buona parte di lavoratori sudanesi iniziò a partecipare alle discussioni e a prendere coraggio rivendicando singolarmente i propri diritti e pretendendo maggiore rispetto dal caporale.
Il primo giorno dello sciopero era la mia quinta giornata di lavoro e si percepiva una sorta di nuova unità tra di noi che, finalmente, non era legata alla nazionalità. Anche nel campo si respirava una tensione condivisa pronta a esplodere. I lavoratori avevano cominciato a parlare delle condizioni di lavoro e M. iniziava a temermi forse perché ero uno studente universitario ed ero riconosciuto, anche per questo, come punto di riferimento tra i lavoratori.
Sabato 30 luglio c’era un datore di lavoro italiano nei campi: egli chiese a M. di farci raccogliere solo i pomodori migliori, un’ulteriore operazione di selezione che avrebbe rallentato enormemente il nostro lavoro e diminuito la nostra paga. M. voleva fare bella figura e mostrare al suo capo italiano come governava il suo gruppo di lavoratori. Si avvicinò a un mio collega ghanese e gli disse che stava lavorando male, minacciandolo di cacciarlo dal campo. Il ragazzo ghanese non si lasciò intimidire e lo accusò di privilegiare i sudanesi; la discussione continuò finché io e un altro lavoratore di origine ghanese ci avvicinammo per cercare di mediare, chiedendo a M. di alzare il prezzo del cassone da tre e cinquanta a sei euro. Quel faticoso lavoro di selezione doveva essere pagato in modo adeguato. M. si rifiutò, ma noi insistemmo, forti del fatto che tutti gli altri braccianti che fino a quel momento non erano intervenuti si erano fermati e uniti alla protesta. A quel punto le nostre differenze nazionali si dissolsero e anche i sudanesi si unirono alla contrattazione. Davanti all’ostinazione del caporale abbandonammo tutti insieme il campo e tornammo alla Masseria.
Di solito a quell’ora della giornata il campo è quasi deserto perché la maggior parte dei lavoratori è nei campi; in effetti c’erano solo quanti non avevano trovato occupazione. Spiegammo a loro e ai volontari delle associazioni Brigate di solidarietà attiva e Finis Terrae, che si occupano della gestione e dei servizi dentro il campo, perché eravamo tornati così presto e insieme agli altri migranti andammo a fare il primo blocco stradale sulla provinciale Nardò-Lecce; eravamo una trentina. Le forze dell’ordine, intervenute quasi subito, ci consigliarono di non continuare a bloccare la strada perché era contro la legge. Cosi ritornammo all’interno della Masseria e due ore dopo facemmo la nostra prima riunione tra il commissario di polizia di Nardò, la Cgil e le associazioni Finis Terrae e Bsa, che sostenevano le nostre rivendicazioni. La sera, dopo che i nostri colleghi erano tornati dai campi, abbiamo fatto la nostra prima assemblea auto-convocata sotto gli occhi dei media spiegando perché scioperavamo e quali erano le nostre rivendicazioni: volevamo i contratti regolari, la fine del caporalato, contatti diretti tra aziende e lavoratori, l’apertura di un centro per l’impiego dentro la masseria, un aumento del salario, più medici, miglioramento dell’accoglienza e delle condizioni di vita dentro il campo. Eravamo pronti a non ritornare al lavoro fino a quando le nostre rivendicazioni non fossero state accolte.
Quella sera la “parola d’ordine” era che nessuno doveva andare a lavorare; per assicurarci che tutti rispettassero la decisione e per agire in anticipo sui caporali ci siamo svegliati un’ora prima della partenza abituale dei lavoratori, verso le due di notte, per fare i picchetti in tutti i punti d’ingresso e uscita della Masseria. È stato un successo totale. Di solito a quell’ora ci sono un sacco di persone che si preparano per andare a lavorare e i furgoncini dei caporali riscaldano i motori per trasportare i lavoratori, ma quel giorno quasi il 90% di loro dormiva ancora e i pulmini dei caporali erano fermi. Solo verso l’alba qualche persona e alcuni veicoli si avvicinarono, ma con fermezza ricordammo e spiegammo loro la necessità di scioperare. Eravamo determinati e abbiamo evitato le risse e gli scontri; anche se non sono mancate ingiurie e minacce da parte di caporali arrabbiati di perdere una giornata di lavoro. Non volevamo correre il rischio che lo sciopero si impantanasse in una descrizione mediatica di scontri tra stranieri, una strumentalizzazione che siamo riusciti a evitare. Volevamo che la gente sapesse che il nostro sciopero era una rivendicazione sociale, volevamo essere considerati come lavoratori che meritano tutti i diritti: un contratto regolare, l’indennità di disoccupazione, gli strumenti di lavoro come i guanti, le scarpe anti-infortunistica.
Le difficoltà culturali e linguistiche erano molte, non era facile trasmettere il messaggio ad altri colleghi. C’erano quelli che parlavano francese come i burkinabe, gli ivoriani, i togolesi, i beninesi; altri parlavano l’inglese come i ghanesi, i nigeriani, gli etiopi, i somali; altri parlavano l’arabo, come i sudanesi, i tunisini, i marocchini, gli egiziani, gli algerini. Abbiamo pensato di creare una “direzione” composta da membri di ogni comunità, e così si è creato un gruppo di tre tunisini, due sudanesi, due burkinabe, un ghanese e io. Andavamo a trasmettere i messaggi alla nostra comunità linguistica, facevamo le assemblee ogni sera con l’obiettivo di discutere con i lavoratori la situazione e per cercare di tenere duro fino a quando le aziende non fossero venute a farci contratti regolari e non avessero smesso di farci lavorare con i caporali.

il Fatto Saturno 17.2.12
Falsi miti / 1
Pericle, democratico perfetto. A parole
L’Epitafio dell’ateniese, declamato in tivù come ideale politico, in realtà è soltanto retorica. Come spiega Canfora
di Giorgio Ieranò


QUALCHE SETTIMANA fa Pericle è sceso in campo contro Berlusconi. Lo ha fatto su La7, nel programma di Gad Lerner, L’Infedele. Nello studio televisivo risuonavano le parole pronunciate dallo statista ateniese nell’orazione per i caduti della guerra contro Sparta (431 a. C.): il famoso Epitafio di Pericle, a noi noto nella trascrizione, più o meno fedele, dello storico Tucidide. L’attrice Lucrezia Lante della Rovere recitava. Il pubblico ascoltava l’elogio delle regole democratiche, della sobrietà, del senso civico. Si celebravano il rispetto delle leggi, il primato del bene pubblico sull’interesse privato. Pareva quasi che Pericle fosse pronto a sostenere il governo Monti. Non è la prima volta, del resto, che Pericle scende in campo. È già successo nel 1961, quando John Fitzgerald Kennedy ha modellato il suo discorso di insediamento alla Casa Bianca proprio sull’Epitafio. Un secolo prima lo aveva fatto Abramo Lincoln nel discorso funebre per i caduti di Gettysburg (1863), arruolando implicitamente Pericle nella guerra di secessione contro i sudisti, al netto, ovviamente, di ogni riferimento allo schiavismo dell’Atene democratica. In anni più recenti, il ritornello pericleo “Noi ad Atene facciamo così” (che peraltro nel testo di Tucidide non si trova) si è sentito spesso. Paolo Rossi l’ha portato in giro per i teatri e le piazze d’Italia, suscitando lo zelo censorio di alcuni.
Quanto zelo malriposto. Tucidide si farebbe forse delle gran risate se sapesse che il suo testo viene brandito come il manifesto della buona democrazia. Lui che apprezzava sì Pericle ma per ragioni opposte: perché il suo governo, diceva, era «una democrazia a parole ma nei fatti il governo di uno solo». L’Epitafio di Pericle non è un ingenuo e appassionato elogio della democrazia. È una ricostruzione, non priva di malizia, della retorica patriottica nella polis democratica, fatta da chi, Tucidide, riteneva la democrazia una disgrazia. Comunque sia, le continue recitazioni dell’Epitafio testimoniano un dato indiscutibile: la straordinaria vitalità, attraverso i secoli, del mito di Atene come città ideale e come democrazia perfetta. Per smontare questo mito, e per comprendere tutte le ambiguità dell’Epitafio, bisogna leggere l’ultimo libro di Luciano Canfora. Un libro nemico dei luoghi comuni che è quasi una summa dei molti studi che Canfora ha dedicato alla Grecia classica. Un saggio dove il rigore dell’intelligenza e la pratica appassionata della filologia sono un sano antidoto alle ovvietà sull’Atene di Pericle. Il mito di Atene, come Canfora mostra nel dettaglio, è una monumentale costruzione ideologica. Molti, già nell’antichità, ne hanno additato le crepe (dallo schiavismo alla condanna a morte di Socrate). Altri l’hanno consacrato a modello: l’Inghilterra moderna, per esempio, ha riconosciuto spesso in Atene, potenza marittima al tempo stesso democratica e imperiale, il suo specchio ideale.
Del mito di Atene si prende ogni volta, secondo convenienza, ciò che serve. Nessuno, oggi, va per le piazze recitando il secondo discorso di Pericle, che Tucidide riporta subito dopo l’Epitafio, e dove il leader ateniese esibisce una logica cinicamente imperialista. L’impero ateniese, dice, «è come una tirannide: esercitarla può essere ingiusto ma abbandonarla ci espone al pericolo». Quindi, conclude, è inutile che le anime belle giochino a fare i pacifisti: la guerra è un dovere. Ad Atene si faceva anche così.
Si capisce, dunque, che un uomo di sinistra come Umberto Eco si sia stufato di sentir tirare in ballo Pericle. Sull’ultimo Almanacco del bibliofilo (Edizioni Rovello), Eco ha scritto un saggio scanzonato in cui sostiene che il discorso di Pericle non è antiberlusconiano ma ultraberlusconiano: un esempio di retorica populista, anzi di “populismo Mediaset”. Pericle regalava al popolo ingressi gratis a teatro? I soliti circenses, commenta Eco. Certo, si può capire che uno sia stufo del “Noi ad Atene facciamo così”. Ma Eco, per amore del paradosso, si diverte a esagerare in senso opposto (come gli ha subito rimproverato Emanuele Greco, direttore della Scuola archeologica italiana di Atene, sul blog filelle  ni.wordpress.com  ). In fondo, a teatro gli ateniesi vedevano Eschilo, mica Paperissima. Insomma, il mito di Atene sarà anche falso. Resta il fatto che, dopo 2500 anni, continuiamo a sviscerare il discorso di Pericle. Viceversa, non viene spontaneo immaginarsi l’umanità futura mentre s’interroga appassionatamente sui discorsi di Scilipoti.
Luciano Canfora, Il mondo di Atene, La-terza, pagg. 518, • 22,00

il Fatto Saturno 17.2.12
Falsi miti / 3
Babilonia, mon amour
di Dino Baldi


PRIMA CHE L’UOMO arrivasse sulla terra, anche gli dèi dovevano faticare per vivere. Un giorno gli Igigi, divinità giovani e di rango inferiore sottomesse ai più anziani Annunaki, buttarono la zappa e incrociarono le braccia. Venne allora deciso di forgiare dei nuovi servitori che provvedessero al sostentamento di tutte le creature celesti: si impastò dell’argilla con il sangue di uno degli dèi ribelli, si aggiunse uno sputo della dea madre Mami, e da quel composto di terreno e divino nacque l’uomo. Quando anche gli uomini si ribellarono al proprio destino di fatica, gli dèi decisero di distruggere i loro golem disubbidienti e scatenarono un diluvio dal quale si salvò solo l’arca di Atrahasis. L’umanità alla fine non scomparve, ma da allora conobbe la malattia, e le altre sciagure che durano fino a oggi. Questo mito così crudele e raffinato, tra i più antichi della storia umana, è nato più o meno quattromila anni fa a Babilonia, la “porta di dio” fondata dalla regina Semiramide, che ospitava due delle sette meraviglie del mondo antico (i giardini pensili e le mura) e al cui centro svettava la ziqqurat sacra al dio Marduk, diventata poi nella tradizione ebraica l’occasione per punire la superbia degli uomini con l’esplosione delle lingue. Questa che era la città meglio ordinata dell’antichità, patria del diritto e modello di civiltà, per essere stata anche la prigione degli ebrei in esilio si trasformò in seguito per un contrappasso paradossale in “Babilonia la grande, madre delle prostitute e degli orrori della terra”: queste e altre storie si possono leggere nell’ambizioso volume di Paolo Brusasco, docente di archeologia e storia dell’arte del vicino oriente antico a Genova (Babilonia. All’origine del mito, Cortina), e se le molte notizie paiono qui più ammassate che governate con coerenza (forse perché il caos ben si associa a Babilonia), emerge comunque bene come la capitale mesopotamica sia un luogo di primati fondamentali nella storia dell’uomo, ancora oggi troppo sottovalutato a vantaggio di altre meglio raccomandate civiltà antiche. Nel racconto di Brusasco colpisce in particolare il destino archeologico della città, dai primi scavi di rapina fino agli ultimi terribili anni, nei quali questo fragile sito di mattoni crudi ha sofferto forse più che in tutta la sua storia precedente: non tanto per i drastici interventi ricostruttivi dell’epoca di Saddam, finalizzati a rinnovare strumentalmente il mito; ben più funesta, e micidiale sul piano ideologico, è stata la costruzione nel 2003 di una base militare alleata proprio nel mezzo delle rovine (per proteggerle, naturalmente), che costringerà gli archeologi a considerare d’ora in poi nelle proprie stratigrafie anche un ultimo e particolarmente invasivo livello anglo-americano. Dopo questo stupro l’occidente, o perlomeno un certo occidente, ha perso il diritto a propagandare, tra le proprie virtù distintive, la pietas verso la storia, ed è questa forse l’ultima lezione impartita da Babilonia al mondo.

il Fatto Saturno 17.2.12
Déjà vu
Come ti rimastico l’avanguardia Usa
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma la rassegna sul Guggenheim ripropone opere (da Pollock a Rothko) già esposte pochi anni fa
di Simone Verde


ERANO SOLO SEI ANNI che il blockbuster Guggenheim mancava dal Palaexpo, il polo espositivo romano. Dopo l’antologica della collezione alle Scuderie del Quirinale nel 2005 ecco perciò Il Guggenheim. L’avanguardia americana, fino al 6 maggio al Palazzo delle Esposizioni. Ovviamente è successo l’inevitabile e cioè che, malgrado i temi delle due iniziative siano diversi, si sono verificate le immancabili sovrapposizioni. Il risultato è che nove pezzi su cinquantanove, ovvero oltre il 15 per cento del totale, sono gli stessi. Una percentuale trascurabile, si dirà. Un po’ meno se si considera che sono tra le opere più significative: tre Pollock su cinque, due Rothko su tre, l’unico Motherwell, un Warhol su due, eccetera. Bucato lo scoop di mostre da franchising, così, la domanda è questa: che senso ha?
La rassegna avrebbe comunque senso se fosse pensata come iniziazione alla cultura estetica americana del primo e del secondo dopoguerra. Come spunto per raccontare l’originale sintesi tra intellettualismo modernista e spiritualismo tradizionale con cui gli Stati Uniti hanno vissuto l’avventura industriale. L’affrancarsi dall’arte europea, avvenuta con la grandezza crescente delle tele che propongono un’immersione metafisica nella forma e nel colore. Tranne alcune succinte scansioni cronologiche (otto in tutto), invece, la mostra è priva di un apparato didattico, non c’è una scheda di un singolo autore o di una singola opera. Varrebbe la pena ricordare che una mostra è l’esposizione di opere attorno a una tesi storiografica e non un’esposizione di opere tout court. Il Palazzo delle esposizioni, cioè, nel totale disimpegno dei suoi numerosi dipendenti, sembra più una galleria d’arte che un’istituzione culturale. Chi glielo spiega, allora, al visitatore, chi sono artisti meno noti come Richard Pousette-Dart o Conrad Marca-Relli? Non serve neanche rifarsi allo smilzo catalogo. Anche qui, e per la cifra di 45 euro, neanche una scheda, ma tante immagini introdotte da tre generici saggi, dove, in assenza dell’essenziale, c’è però spazio per un aneddotico L’America vista dall’Italia di Daniela Lancioni. Vecchio refrain tanto caro all’istituzione, d’altronde, che nel 2006 con una lettura classicista e anticontemporanea di Rothko, puntata a una sua supposta scoperta del genius loci italico, aprì i battenti. Insomma, tutto ciò per quale mission?
Forse, l’attrazione turistica. Ma come esserne sicuri, visto che tra le mostre più visitate del 2011, il Palazzo delle Esposizioni figura solo al 23° posto, con la rassegna su Teotihuacan con poco più di 50mila visitatori? È vero che l’azienda nello stesso anno ha sbancato con i 400 anni dalla morte di Caravaggio alle Scuderie, ma su quell’iniziativa gravarono ben altre polemiche. In ogni caso, per rimanere nell’ambito dell’economia della cultura, valga quanto scritto in questi giorni da Citymorphosis, il nono rapporto Ci-vita sulle politiche culturali delle città (edito da Giunti). Dove si legge ciò che tutti sanno, ovvero che gli investimenti in cultura sono redditizi quando contribuiscono alle infrastrutture intellettuali della creatività. Quando attraverso mirati programmi di divulgazione permettono la condivisione dei codici culturali, funzionano da stimolo e promuovono nuove identità sociali. Spiega Pietro Va-lentino nel suo contributo che dagli anni della deindustrializzazione in poi le politiche culturali si sono indirizzate sempre più verso l’industria creativa, unica capace di far vincere alle aree urbane la sfida della globalizzazione. Economia della cultura, cioè, come diffusione di contenuti e volano di dibattito, non come mero supporto al settore turistico. Il che significa, però, lavoro vero, divulgazione seria e qualità scientifica, anche quando si è costretti a comprare pacchetti-mostre già pronti. Al Palaexpo, d’altronde, lo sanno di certo: se non si lavora alla creazione di nuovo pubblico attivo, il rischio, dopo un po’, è la saturazione. Comunque.
Il Guggenheim. L’avanguardia americana, Roma, Palazzo delle esposizioni, fino al 6 maggio ( www.palazzoesposizioni.it  )

Corriere della Sera 17.2.12
Dalla Foxconn alla Proview Affari e rischi in Oriente Cina e Apple, duello di titani
Business e diritti umani Ritirati gli iPad dopo le ispezioni alla ditta che li produce
di Marco Del Corona


PECHINO — Quel che è globale nel mondo, in Cina lo sta diventando un po' meno. Ha cominciato Shijiazhuang, capoluogo dell'Hebei, la provincia che circonda quasi per intero Pechino. Altre città sono venute dopo, da Zhengzhou a Xuzhou e Qingdao. Via l'iPad dai negozi, via dai rivenditori autorizzati e, per prudenza, via anche da quelli un po' meno autorizzati. Le autorità hanno cominciato a sequestrare il prodotto sulla base di una sentenza dell'anno scorso che, per quanto non definitiva, attesta che il nome «iPad» sia stato di fatto usurpato dalla Apple: apparterrebbe, invece, a una società di Shenzhen. È la Proview Technology ad aver fatto ricorso ai magistrati e, a macchia di leopardo, l'iniziativa ha cominciato a diffondersi. Anche la popolare catena di negozi di casalinghi ed elettronica Gome ha cessato di vendere iPad, idem Amazon e altri siti online. Le dogane hanno ricevuto la richiesta di bloccare l'import ed export dei tablet.
La Shenzhen Proview Technology sostiene di aver depositato il nome «iPad» nel 2001. Il marchio sarebbe stato venduto dalla Proview Taiwan — società associata a quella cinese senza tuttavia rappresentarla legalmente — alla britannica IP Application Development Limited per la cifra di 44 mila dollari. Così, almeno, secondo i legali cinesi. Era il 2009, un anno prima che la Apple da Cupertino lanciasse il suo tablet, e proprio allora il gruppo britannico cedette all'azienda di Cupertino il marchio per 10 sterline soltanto.
Il bubbone è esploso — secondo la ricostruzione dei media cinesi — soltanto quando la Apple ha introdotto nella Repubblica Popolare l'iPad. Le autorità competenti avrebbero così provocato la reazione della Apple. Che l'anno scorso ha fatto causa in un tribunale del Guangdong per difendere il suo diritto a impiegare il marchio iPad. In un intrico di iniziative legali, si è arrivati alla situazione attuale: per ora ha ragione la Proview, che può dunque chiedere il sequestro dell'iPad, ma manca ancora la sentenza definitiva. Una corte di Pudong, a Shanghai, dovrebbe esprimersi sull'argomento mercoledì 22, mentre altri procedimenti promossi dalla Proview sarebbero in corso a Huizhou e a Shenzhen. La Apple, dal canto suo, ha replicato brandendo la sentenza di una corte di Hong Kong secondo la quale la Proview di Shenzhen e quella taiwanese fossero di fatto la stessa entità. Inoltre, tra un paio di settimane l'Alta Corte del Popolo del Guangdong dovrebbe esprimersi su un ricorso degli statunitensi.
Sono una ventina gli uffici amministrativi di una decina di province a indagare sulla questione. Un groviglio di burocrazie. Per la Apple, già sotto osservazione per le condizioni di lavoro negli stabilimenti che producono o assemblano i suoi prodotti, è un ulteriore attacco in un mercato che, da solo, garantisce il 16% del suo fatturato globale. Il China Daily, quotidiano in inglese attraverso il quale Pechino spesso lancia segnali alla comunità internazionale, ha fatto sapere di aver ricevuto dalla Apple comunicazione che l'acquisto del marchio iPad dalla Proview consentiva di coprire 10 Paesi. Ben pubblicizzato dai media cinesi ed esploso in concomitanza con la visita del vicepresidente Xi Jinping negli Usa, il confronto promette di estendersi al futuro. L'avvocato della Proview, Xie Xianghui, ha avvertito che chiederà il bando anche per l'iPad3, ancora non commercializzato.