sabato 29 ottobre 2016

La Stampa TuttoLibri 29.10.16
Tra figlia e madre l’amore può essere feroce
La femminista newyorkese esplora il complicato legame con un ingombrante modello femminile e domestico
di Jonathan Lethem

Quando ci si appresta a scrivere l’introduzione a un libro che si ama da anni e anni, capita di trovarsi a sfogliare l’edizione precedente, a rigirarsela tra le mani, a tuffarcisi dentro, a imbattersi di nuovo in certe frasi e di nuovo stupirsi del loro slancio e della loro freschezza, come davanti a una fonte di perpetua sorpresa.

Capita anche di tornare all’inizio, sperando di scoprire che la tua introduzione sia già lì, già scritta – perché la sensazione che quell’opera ti ha trasmesso già tante volte è questa: che conosca i tuoi pensieri. Il libro è un oggetto in incessante movimento, che manda di suo un continuo mormorio, e si può solo sperare, sfiorandolo, di alterare appena la sua traiettoria in modo da consegnarlo a una ribalta universale.
Perché non posso limitarmi ad affermare che Legami feroci di Vivian Gornick è un libro da leggere assolutamente? A insistere perché questo libro percorra le strade del mondo come un vessillo, quel vessillo che già è nella mia mente e che guida la mia marcia? E intanto, accarezzando questa vecchia edizione, leggo otto strilli, tutti piuttosto intensi, tutti scritti da donne; che sia io il primo uomo a sostenere questo libro? (Controllo un’edizione ancora precedente che ho nella mia libreria, e ovviamente non è così.) Il memoir di Vivian Gornick possiede quella cifra folle, scintillante e assoluta che tende a collocare un libro fuori dal contesto e poi a farlo diventare a buon diritto oggetto di venerazione, un «classico», un libro «senza tempo». E tuttavia, almeno a prima vista, si tratta di un memoir incentrato sui grovigli di un rapporto madre-figlia, un memoir scritto negli anni Ottanta (prima del boom) da una scrittrice legata in modo orgoglioso, se non lineare, al movimento femminista. È cosa giusta, allora, che io lo ami, che arrivi a brandirlo come un frammento del mio cuore? Sì. La fascinazione che avvince il lettore di Legami
feroci non ha niente a che vedere con una stolida curiosità per i dettagli della vita di Gornick o di sua madre, né con una facile immedesimazione legata a somiglianze o a contesti sovrapponibili, e nemmeno con la comunanza di genere.
L’immedesimazione, in Legami feroci, funziona per altre vie.
Quando ci immergiamo nella franchezza bruciante e all’apparenza spiccia del libro, ci rendiamo conto di diventare Vivian Gornick (o la voce narrante che porta il suo nome), proprio come diventiamo sua madre, e poi Nettie Levine, la giovane vicina passionale e nichilista che diventa il terzo personaggio principale del libro, formando con la madre e con la figlia quello che Richard Howard ha definito «L’intreccio affettivo ed erotico con il quale noi triangoliamo le nostre vite».
Eppure il nostro senso di immedesimazione non si limita a queste tre donne. Lungo il percorso del disvelamento di sé, Gornick ci trascina in brevi, ustionanti alleanze con tre uomini, amanti e mariti: Stefan, Davey e Joe. E anche, en passant, con una manciata di altri vicini del Bronx, con una psichiatra, e ovviamente con l’inafferrabile padre. Fornendo a ogni attore in scena occhi con i quali osservare la narratrice che lo guarda, e una voce per rivaleggiare con lei in acume, Gornick ha inciso queste figure, per quanto fulminee, vive sulla pagina. Nessuno sfugge al suo sguardo né lei sfugge a quello altrui. Non sto parlando di imparzialità, virtù sopravvalutata in letteratura e forse anche nella vita. Si può affermare che Gornick demolisce il suo cast di personaggi, ma secondo questo parametro demolirebbe anche se stessa. Io preferisco dire che, come un mago che sfila la tovaglia da una tavola apparecchiata, riesce nel miracolo di lasciare se stessa e i suoi protagonisti intatti e rifulgenti di quello che credo non si possa che chiamare amore. Un amore senza sconti.
Questa potrebbe essere una chiusa niente male, ma cedo alla tentazione di un ulteriore tributo, da scrittore e da uomo, alla memorialista e saggista che insieme a Phillip Lopate e Geoff Dyer mi ha insegnato tutto quello che so sull’arte di depurare dalle idiozie le frasi che riguardano me stesso. Detesto ricorrere all’epiteto «uno scrittore per scrittori», ma Legami feroci chiama l’applauso che si deve all’opera di un tecnico sopraffino; il controllo di una forma distillata della scena e del dialogo, delle battute fulminanti e trattenute, dell’uso degli spazi bianchi sulla pagina induce a chiedersi come mai non si sia mai misurata con la narrativa di finzione verso la quale dichiara in maniera così pregnante il suo amore nei saggi critici. Come molta della scrittura che amo di più, anche Legami feroci prende forza dall’uso del paradosso. Queste pagine contengono la descrizione che più amo del momento in cui un aspirante scrittore si rende conto di essere uno scrittore e basta, nel bene e nel male, senza badare a quanto appare nebuloso il cammino che ha davanti. Nel secondo anno del mio matrimonio fece per la prima volta la sua comparsa dentro di me lo spazio rettangolare. Stavo scrivendo un saggio critico, un esercizio da specializzanda che mi era sbocciato senza preavviso nel pensiero, un pensiero pieno e raggiante. Le frasi cominciarono a sgorgare dentro di me, premendo per uscire; l’una guizzava all’inseguimento di quella prima. Mi resi conto all’improvviso di essere sotto il controllo di un’immagine: ne vedevo chiara la forma e il contorno. Le frasi cercavano di riempire quella forma. L’immagine era l’interezza del mio pensiero. In quel preciso istante mi sentii come spalancare. I miei contorni interiori si aprirono a formare quel rettangolo libero, tutto aria tersa e spazio vuoto, che mi partiva dalla fronte e finiva nell’inguine. Al centro del rettangolo solo la mia idea, in attesa di definirsi. In quel momento sperimentai una gioia che sapevo non sarebbe stata mai eguagliata.
Più avanti nel libro Gornick pare rimpiangere l’incapacità di questo rettangolo di allignare, di espandersi, di includere una parte più grande della sua vita. Il paradosso è doppio: il libro che avete tra le mani, lo stess
o libro che descrive questa resistenza e questa frustrazione, è la prova che il rettangolo di Gornick ha fatto proprio questo, è cresciuto fino a inglobare non solo la sua vita ma, per la durata del libro, anche quella del lettore. E tuttavia, nonostante l’ampiezza dei suoi confini, rimane precisamente intimo e particolare come nella prima descrizione della sua comparsa: della misura esatta del suo corpo.
copyright 2005 by Jonathan Lethem
La Stampa TuttoLibri 29.10.16
Sulle tracce dei Medici come un cacciatore siberiano
L’appassionante trilogia sugli intrighi della signoria fiorentina galante e peccaminosa, tra ambizioni, congiure e avvelenamenti
di Nicolai Lilin

Con la stesura della sua nuova trilogia dedicata alla famiglia Medici, Matteo Strukul ha intrapreso un viaggio molto ambizioso e interessante, un’impresa che potrebbe essere paragonata alla caccia a una bestia feroce, che nel primo volume, intitolato
I Medici. Una dinastia al potere
, esegue in modo esemplare, se mi perdonate l’espressione, da cacciatore siberiano: «Rovescia la preda» e - in una narrazione arricchita da un lessico colto e ricercato, da dialoghi vivi, da descrizioni riuscitissime, che trasportano immediatamente il lettore nei luoghi dove si snoda la trama - affonda con estrema eleganza quell’affilatissima lama che non è altro se non l’allegoria della sua intenzione letteraria, fermando il cuore della creatura sottomessa e assorbendone la vita, il potere, versando a terra e regalando a noi, con la generosità di un filibustiere, il suo prezioso, inebriante sangue.
Come fanno i grandi romanzieri storici, Strukul nella sua opera riserva un posto importante alla sottile ed eterna questione della scelta. A ogni passaggio l’attenzione del lettore viene catturata in una rete di variopinti particolari che conducono ai momenti più importanti della narrazione, quando i protagonisti devono prendere decisioni apparentemente di carattere personale, ma che allo stesso tempo hanno delle risonanze di carattere epocale, che plasmano la Storia stessa. La morte del patriarca della dinastia dei bancari, Cosimo de’ Medici, suscita un complesso vortice che coinvolge tutti, costringendoli a intraprendere strade mai aspettate. I protagonisti de I Medici. Una dinastia al potere sono i personaggi della storia reale ai quali lo scrittore ha donato una nuova vita, nuovi volti, nuovi cuori che abbondano di sentimenti, rendendoli immediatamente vicini al lettore, che può immedesimarsi senza fare alcuno sforzo, in modo naturale, usando solo la propria sensibilità.
Il romanzo di Strukul ha buone fondamenta, poggia su una grande quantità di basi storico-narrative che metaforicamente richiamano quelle architettoniche del duomo di Firenze, una costruzione possente, quasi una scommessa con il destino, una sfida all’eterno che sorge tra le pagine del libro dalla polvere dei secoli, circondata dalla miriade di vite rimaste sconosciute alla Storia, reggendo, tra gli ammassi di marmo incastrati in un folle e azzardato calcolo, che risulta essere di perfezione, i nomi del grande Brunelleschi e dei Medici, coloro che hanno reso possibile la materializzazione delle idee del grande maestro.
Assoluta protagonista di questo romanzo storico è la Signoria fiorentina nell’epoca in cui la formazione del comportamento galante andava a braccetto con le peggiori espressioni umane, in cui la Storia si forgiava nella fornace bollente dei peccati mortali. Il motore dell’evoluzione in quegli anni, il propulsore della società, erano le ambizioni personali rafforzate dall’invidia, dalla lussuria e dall’avarizia.
Il filo narrativo del romanzo passa dagli intrighi nei palazzi dei nobili alle congiure delle famiglie più influenti, dalle strade ricoperte di sangue durante gli agguati ai letti di morte dei potenti dell’epoca, avvelenati da abili traditori. La ragnatela di cospirazione che Strukul ha ricostruito con minuziosa precisione appare sorprendentemente grottesca e magnifica nella sua maleficenza. Persino gli antagonisti del romanzo non son privi di un certo fascino e in qualche modo rivelano dei lati umani, rendendo la scrittura vera, viva e pulsante, come la carne che si intravede in una ferita aperta.
Matteo Strukul, già distintosi nelle sue opere precedenti come un maestro di suspense e abile costruttore di trappole narrative thriller, applica con invidiabile abilità e una naturalezza che sconfina con la spensieratezza di un cuore puro e non estraneo a quella sacra risorsa di ogni bravo scrittore che è l’ingenuità ricercata, questi elementi fondamentali che rendono la sua scrittura unica, distinguibile come l’arma su cui è inciso il nome del proprietario.
La Stampa TuttoLibri 29.10.16
Com’è doloroso l’amore che scende dall’Olimpo
Da Orfeo e Euridice a Cassandra, da Psiche a Giasone: l’analisi di una passione che toglie la libertà ma ci dà senso
di Ernesto Ferrero

Come già sapevano Platone e Vico, i miti utilizzano un linguaggio figurato e metaforico per raggiungere verità essenziali in modi facilmente accessibili: racconti favolosi, archetipi con i quali gli uomini, travolti da forze incontrollabili, cercano di dare un senso al proprio precario stare al mondo. Che i miti, quelli veri (non quelli fasulli d’oggi, gestiti dal marketing) parlino di noi e a noi, e le scienze dell’anima vi possano attingere materiali illuminanti, è parso chiaro a tanti autori del ’900, da Rilke a Kerényi, da Jung a Graves e Hillman, da Borges a Dürrenmatt e Cortázar, da Detienne a Vernant e Vidal-Naquet, Pavese, Calasso…
Alla loro sterminata polivalenza attinge adesso anche Paola Mastrocola. Nel suo nuovo libro, dal suggestivo titolo L’amore prima di noi, ha messo a frutto una sua passione ventennale e trovato un timbro di voce cui il lettore si abbandona subito con piacere. Motivo conduttore l’amore nelle sue varie, perturbanti declinazioni, tutte nel segno di un destino doloroso che piomba dall’alto: predazione (Europa, Persefone), ombra (Orfeo e Euridice, Elena, Eco e Narciso), ossessione possessiva (Pasifae, Fedra), fuga (Apollo e Dafne), sguardo (Psiche, Atteone), divieto infranto (Adone), viaggio compulsivo (Teseo e Arianna, Giasone e Medea), segreto (Ares e Afrodite), dono (Cassandra, Calipso).
I nudi fatti che ci pare di conoscere da sempre ammettono una nebulosa di spiegazioni. Nei miti nulla è mai, nulla deve essere come appare. Ogni apparenza inganna, è una trappola che scatta puntuale. Alla Mastrocola interessa proprio riempire con la scrittura gli spazi bianchi del non detto che ogni storia offre; presta le nostre parole ai suoi eroi affinché ci vengano restituite cariche di un senso cifrato che ancora non conoscevamo. Nessuno sa perché Arianna abbia consegnato la patria e se stessa a Teseo, quali patti, gesti e parole siano corsi tra Ippolito e Fedra, tra Apollo e Cassandra che gli rifiuta il suo amore, tra l’infelice Minotauro prigioniero del Labirinto e il giovane Icaro, figlio dell’architetto Dedalo che l’ha costruito: il loro dialogo immaginario resta tra le pagine più intense del libro.
Allo stesso modo, suonano nuove e rivelatrici le parole che Euridice rivolge a Orfeo, che volgendosi a guardarla, non sappiamo quanto inconsciamente, la condanna a restare nell’Ade: «Se ti seguissi, mi riporteresti alla solita vita, giornate che finiscono e ripartono, e alla fine ci lasciano invecchiati, di nuovo sull’orlo di lasciarci. L’amore è lontananza, si nutre di distanze impercorribili. Non ho bisogno di vivere con te. In questo buio dove non ti vedo e non ti ho, è perfetto amarti. Fare a meno di te è l’amore».
Il libro pullula di domande come questa e ne vibra in continuazione. È davvero un errore credere, come fa Psiche, che la felicità non possa esistere se non è condivisa? Amare è andare a vivere in un paese straniero, come si chiede Medea? Che cos’è lo speciale rapporto che si crea tra inseguitori e inseguiti, tra cacciatori e cacciati? Eterni adolescenti costretti ad affrontare dure prove iniziatiche, gli eroi e le eroine del mito imparano che amore e morte sono fratelli. Forse solo la prova suprema del congedo rappresenta il momento rivelatore che ci abbaglia e ci proietta in una dimensione superiore. Ci possiamo conoscere solo nei dilemmi senza soluzione che pone ogni tragedia. La stessa bellezza può diventare una prigione (Elena, Adone, Narciso). Paradossalmente, suggerisce la Mastrocola, gli dei invidiano agli uomini la speciale capacità che hanno di godere intensamente i doni della vita proprio perché sono effimeri. Negazione del Tempo, l’immortalità è una lunga noia intollerabile. Travolti dai capricci degli dèi, sottoposti a prove estenuanti, agitati dal demone del desiderio, gli eroi del mito vivono e ci parlano, diventati a loro volta immortali, dall’alto della dignità stoica che si sono conquistati.
La Stampa 29.10.16
Giacomo Balla
Auto, aerei e cani al guinzaglio inseguono la velocità futurista
Alla Fondazione Ferrero di Alba si apre oggi la grande mostra dedicata agli anni cruciali della carriera di un maestro del ’900
di Francesco Poli

Giacomo Balla è una figura fondamentale dell’evoluzione e rivoluzione dell’arte italiana dalla fase del realismo sociale e divisionista a cavallo fra ’800 e ’900, a quella dell’avanguardia radicale del Futurismo. Di questo movimento è stato tra i primi firmatari nel 1909 e 1910, direttamente coinvolto da Umberto Boccioni e Gino Severini che erano stati suoi allievi a Roma. Però Boccioni, nel 1912, considera la sua pittura ancora troppo legata al divisionismo, non in linea con le proprie teorie del dinamismo plastico, tanto che nella storica mostra del gruppo alla Galerie Berheim-Jeune a Parigi, pur comparendo in catalogo la sua irraggiante composizione Lampada ad arco (che si trova oggi al MoMa di New York) non viene esposta.
Balla non se la prende, e sembra comprendere le ragioni di questa critica, ma prosegue con coerenza le sue ricerche incentrate sul tema che più lo coinvolge e lo affascina: quello della luce. Tutto ciò segnala in modo significativo l’autonomia della sua visione creativa, sempre libera da suggestioni cubiste, che se da un lato rimane entusiasticamente legata allo spirito futurista, dall’altro lo porta a risultati di straordinaria novità, tanto da poter essere anche annoverato fra gli iniziatori della pittura astratta (più o meno nello stesso periodo di artisti come Kandisky, Kupka o Ciurlionis, sia pure con valenze diverse). Anche negli sviluppi successivi in cui affronta i temi del movimento e della velocità, e progetta con l’amico Depero la «ricostruzione futurista dell’universo», Balla manterrà sempre una rotta indipendente.
Nella magnifica retrospettiva che si apre oggi alla Fondazione Ferrero di Alba, la curatrice Ester Coen ha voluto proprio sottolineare criticamente questa originale attitudine allo stesso tempo realista, scientista, astratta e visionaria del maestro torinese, attraverso un percorso espositivo che documenta con opere maggiori, e preziosi studi e bozzetti, i periodi cruciali di un’avventura artistica carica di energia vitalistica, e di ingenua ma geniale inventività. La mostra però si arresta intenzionalmente agli Anni 20, e non prende in considerazione i decenni successivi segnati da un disincantato ripiegamento verso una pittura figurativa tradizionale. La prima parte dell’esposizione esamina con attenzione la messa a fuoco di un linguaggio verista nelle opere del primo apprendistato a Torino (dove Balla studia all’Accademia Albertina con Grosso e lavora tra l’altro nello studio del fotografo Bertieri) e, a partire da 1895, in quelle dipinte a Roma. Sono opere di un pittore con ideali socialisti e umanitari, che descrivono la povertà, l’alienazione, l’emarginazione, ma anche figure di lavoratori e scene urbane. Influenzato da pittori come Morbelli e Pellizza da Volpedo (con cui entra direttamente in contatto), Balla mette a punto una raffinata tecnica divisionista, liberamente interpretata, quella che anche Boccioni e gli altri futuristi utilizzano inizialmente. Il culmine drammatico di questa ricerca verista è il polittico I Viventi, quattro grandi quadri del 1902/1905, tra cui spicca soprattutto l’allucinata Pazza, dipinta con una trama cromatica di elettrica luminosità. La sezione successiva parte da un singolare confronto (il collegamento è sul piano cromatico) fra questo quadro e due astratte Compenetrazioni irridescenti, che fanno parte della ricerca che Balla sviluppa nel 1912, durante il suo soggiorno a Düsseldorf, nella casa dei Löwenstein, dove progetta la decorazione di un ambiente. Questa sperimentazione incentrata sullo studio astratto-geometrico del dinamismo cromatico interattivo è di cruciale importanza, anche perché rivela una stretta relazione fra luce-colore e ritmi musicali. A documentare ampiamente tutto ciò troviamo qui il gruppo di disegni e acquerelli provenienti dalla Gam di Torino (dove dal 5 novembre è in programma Protoballa, dedicata agli anni torinesi del maestro). Sempre a Düsseldorf, Balla dipinge la Mano del violinista-Ritmi di archetto. Questo è il primo di una serie di quadri in cui entrano in gioco la rappresentazione del movimento e della velocità, con una esplicita utilizzazione pittorica degli effetti dinamici delle cronofotografie di Marey e di Muybridge. Gli altri due più famosi quadri di questo genere, qui esposti, sono il Dinamismo di un cane al guinzaglio, e la Bambina che corre sul balcone. Subito dopo Balla va oltre la forma cinematica e si lancia in un’evoluzione molto più ardita e fantasiosa, dove cerca di cogliere l’essenza della velocità, quella della automobili in corsa, e poi nella dimensione aerea quella più poetica delle rondini in volo e quella più meccanica degli aeroplani.
In composizioni come Espansione dinamica+velocità, la tensione visiva è enfatizzata attraverso linee rette, diagonali e curve; tracciati geometrici che si moltiplicano e si propagano nello spazio, come onde sonore, e diffrazioni luminose potenzialmente all’infinito. E l’immaginazione dell’artista si espande verso gli spazi siderali, verso i misteri dell’universo. Nel 1914 osserva con telescopio il passaggio di Mercurio davanti al Sole, evento celeste che diventa il soggetto di vari disegni e dipinti. La sua passione per l’astronomia, è alla base di altri lavori come Orbite celesti, di assoluta visionarietà astratta, ed entra in alcuni dipinti esotericamente «numerologici» come I numeri innamorati, o Bozzetto per “LTI”, del 1923.
Il Fatto 20.10.16
Una rara intervista con il genio maledetto della filosofia politica
Il mondo in mano alle pluricrazie
dialogo con Cornelius Noon di Stefano Benni
Cornelius Noon è considerato il nuovo genio maledetto della filosofia politica. Nato nel 1943 in Irlanda, è professore alla Trans Allegheny University di Weston in West Virginia. Da anni le sue lezioni sono seguitissime, e si dice sia stato consultato da molti capi di Stato e finanzieri. Finora non aveva mai lasciato una sola riga scritta sul suo pensiero, ma qualche mese fa ha cambiato idea e il suo libro Pluricracy stampato in poche copie dalla Hydra Press ha suscitato polemiche feroci e verrà pubblicato dalle maggiori case editrici mondiali. In esclusiva siamo riusciti ad avere questa intervista, impresa non facile, perché Noon è famoso per il suo carattere intrattabile e la sua bizzarria.
il seguito qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_fatto_20_21?workerAddress=ec2-54-89-87-5.compute-1.amazonaws.com
il manifesto 29.10.16
Antigone, la storia italiana dietro le sbarre
Cultura politica. 25 anni di critica dell'emergenza. campagne, documentazioni, fino all'associazione e ai suoi interventi
di Mauro Palma

Antigone si specchia in un fumetto che ripercorre la sua storia: la ripercorre però, come è ovvio, senza i confronti appassionati e forse verbosi che caratterizzarono le discussioni da cui nacque; senza il fumo delle sigarette non ancora bandite nelle riunioni, senza la lucidità e i dubbi che si alternavano nel misurarsi in quel mutamento del paradigma della giustizia che dava corpo al suo nascere.
Un paradigma diverso, caratterizzato da norme d’eccezione che rispondevano a una situazione anch’essa d’eccezione: il passaggio di parte di movimenti antagonisti cresciuti negli anni precedenti, a forme di lotta armata nell’ipotesi di innescare un conflitto in grado di estendersi e interpretare bisogni diffusi.
La risposta d’eccezione – si conierà allora l’espressione «legislazione d’emergenza» – era quella di rendere l’esercizio della giustizia penale strumento di lotta per arginare tale fenomeno, piegando il sistema da informativo a offensivo e il processo da luogo dell’accertamento a luogo dell’espressione della vittoria dello stato. Frammenti di ciò che, in altri e più duri contesti, sarà chiamato «diritto penale del nemico» già si intravedevano allora: Antigone riusciva a identificarne i germi.
LA DISSOCIAZIONE
Era nata come rivista, nell’alveo del manifesto, cementata proprio dalla capacità del giornale di proporsi come luogo ove interrogarsi su sviluppi e derive della sinistra e costruire cultura politica. Era inizialmente un suo supplemento, ben presto si rese autonoma e rimase in edicola bimestralmente per circa tre anni, finché la tensione che ne aveva determinato la ragione d’essere non scemò, per la sconfitta definitiva delle ipotesi che avevano armato la mano di una parte del movimento del decennio precedente.
L’obiettivo era duplice: da un lato comprendere se e cosa stesse mutando, dall’altro offrire una via di uscita possibile a quanti – ed erano molti – erano finiti per scelta, suggestione o semplicemente per l’estensione abnorme dell’indagine, nella rete dei fatti, delle inchieste e delle conseguenti detenzioni e che desideravano uscirne ritenendo ormai determinata la sconfitta di un conflitto in parte agito e in parte immaginato.
UNA TERZA VIA
Per questo Antigone lavorò culturalmente e politicamente attorno all’ipotesi di una «dissociazione dalla lotta armata», che non implicasse necessariamente la cooperazione attiva con l’inquirente: una terza via tra «irriducibilismo» e «collaborazione» che offrisse un possibile ritorno a quanti volevano chiudere con quel periodo, pur non essendo disposti ad assumere un ruolo di sostegno attivo alle indagini verso i propri ex compagni. Il suo sottotitolo fu appunto Bimestrale di critica dell’emergenza.
La sua premessa era stato un Centro di documentazione della legislazione dell’emergenza, costituito da alcuni esponenti della sinistra con diverse esperienze e professioni: protagonisti della criminologia critica, giornalisti attenti, operatori del diritto, parlamentari, giovani desiderosi di comprendere. Oggi ripercorrere quei nomi sembra quasi mettere in ordine una galleria di figurine di persone che negli anni successivi avranno ruoli anche importanti nel dibattito all’interno della sinistra italiana; allora erano acuti osservatori tenuti insieme dalla volontà di comprendere e di non essere spettatori muti di un conflitto che da un lato distruggeva le ipotesi di movimento e partecipazione che avevano caratterizzato gli anni precedenti, dall’altro introduceva forme e prassi destinate a mutare la fisionomia successiva dello spazio di agibilità politica.
Il Centro documentò così processi, quale quello piuttosto fantapolitico del «7 aprile», in cui era risuonata l’accusa inedita di insurrezione ai danni dello stato, e che negli anni si sarebbe svelato sempre più come manifesto assertivo di un’ipotesi piuttosto che come indagine sostenuta da elementi concreti: molte incriminazioni poi cadute, molte assoluzioni, non senza però aver fatto scontare anni di custodia cautelare alle persone coinvolte. Se questa era stata la premessa di Antigone, l’esito è stato quello di ampliare l’analisi al sistema dell’esecuzione penale e della detenzione nel suo complesso. In parte perché molto di ciò che era allora eccezione ben presto diventò normalità e alcuni mutamenti vennero introiettati dal sistema stesso. In parte perché l’area dell’intervento penale andava espandendosi, sulla spinta di norme che regolavano comportamenti soggettivi, quali quelle sulle droghe dei primi anni Novanta, e di crescenti debolezze sociali che aprivano a nuove forme di microcriminalità con parallela crescita della percezione d’insicurezza.
Cresceva così il ricorso al carcere, mutava la sua funzione, piegandosi a strumento di controllo territoriale diffuso, quasi adempiendo così alle previsioni foucoultiane. Antigone si strutturò allora come associazione per comprendere la privazione della libertà quale nuovo paradigma diffuso e intervenire in esso. Perché quell’estendersi non aggredisse il fulcro residuale dei diritti di cui ogni individuo è titolare, qualunque sia il suo stato di libero o recluso.
Questa è l’associazione di oggi, nota e stimata, ma pur sempre accorta e mai ferma a guardarsi con compiacimento perché sempre desiderosa di capire e intervenire: di esercitare un ruolo politico a partire da una profonda competenza tematica.
Questa è l’associazione che per un attimo si guarda allo specchio, nei disegni di un fumetto.
Corriere 29.10.16
Steven Affeldt, professore di filosofia con studi a Berkeley e Harvard
Così la filosofia ha invaso la nostra vita
di Daniela Monti

«Le persone che prendono una laurea in contabilità diventano contabili. Quelle che si laureano in filosofia diventano amministratori delegati», dice al New York Times Steven Affeldt, professore di filosofia con studi a Berkeley e Harvard. Non va sempre così. Alla cena dell’Università Bocconi di Milano in onore di Stefano Sassi, amministratore delegato di Valentino nominato ex alunno dell’anno per il 2016, il manager raccontava di essere stato «tentato dalla filosofia», ma di essersi poi indirizzato, più giudiziosamente, verso studi economici che lo hanno portato al vertice della casa di moda, passata, sotto la sua guida, dai 200 milioni di fatturato del 2006 ai 1.100 previsti per il 2016. Una carriera strepitosa.
La filosofia accademica soffre: negli atenei italiani, negli ultimi dieci anni, le immatricolazioni al corso di laurea sono calate del 22 per cento (lingue è cresciuta del 12, matematica del 27). C’è però un’altra filosofia, semplificata nel linguaggio ma non banalizzata, accessibile ma che non rinuncia ad essere «spaesante», come la definiva Socrate. Questa nuova filosofia — che ha poco a che vedere con le tecniche di problem solving — si è ritagliata nuovi spazi, inconsueti: sportelli comunali dove trovare «consulenza filosofica» (l’ultimo in ordine di tempo è stato aperto a Liscate, fuori Milano, ma la lista è lunga, da Palermo allo «spazio filosofico» nel carcere minorile Ferrante Aporti di Torino), corsi pomeridiani di «potenziamento alla filosofia» per le classi degli ultimi anni degli istituti tecnici, corsi per i bambini delle elementari e una miriade di testi che danno risposte semi-rigorose alle «domande di senso», avventurandosi nella storia del pensiero senza restare impantanati nei tecnicismi.
È filosofia, autentica filosofia? Forse è vero quello che scrive il Financial Times , «la filosofia, per rimanere in vita, ha bisogno dolorosamente della cultura pop», ma il punto centrale è che questo risveglio di interesse per una discussione critica, per la scoperta dei possibili significati delle cose, di noi stessi e del mondo e anche per la capacità di dare e riconoscere il «senso» del reale appare genuino. Così Alain Badiou, il grande filosofo francese, ha successo con il suo «La vera vita» (Ponte delle Grazie), in cui si rivolge ai giovani spiegando che il compito della filosofia è insegnare «la vita vera, qualcosa per la quale vale la pena vivere, e che si lascia di molto alle spalle il denaro, i piaceri e il potere». Mentre Leonardo Caffo, giovane filosofo dell’Università di Torino, ne «La vita di ogni giorno. Cinque lezioni di filosofia per imparare a stare al mondo» (Einaudi), dimostra come la filosofia sia in grado di modificare il nostro sguardo, dilatando i confini del nostro piccolo mondo e insegnando a fare della vita «un’occasione di felicità».
Gli «sportelli filosofici» hanno la stessa finalità: si rivolgono a persone che «a prescindere dall’età, attraversano un disagio, un vuoto e vogliono approfondire il senso, la direzione del viaggio personale o di relazione». Neri Pollastri, fra i primi consulenti filosofici in Italia, spiega che il suo lavoro consiste «nello sciogliere nodi attraverso una lettura lucida, razionale, coerente, il contrario di quanto invita a fare la cultura emozionalistica in cui siamo immersi, la quale dice che prima di tutto vengono i sentimenti, e solo in coda la ragione».
La ragione, appunto. «Più di tutto, bisogna saper ragionare», è quanto l’università di Oxford chiede ai propri studenti. Perché comprendere il «punto essenziale» — una delle prerogative della filosofia — è la nuova sfida: nell’epoca dei motori di ricerca, la capacità di fare collegamenti tra diverse fonti di informazione è più importante della conoscenza stessa. «Si può sempre imparare a leggere un bilancio, più difficile è imparare a capire le cose al volo», ha detto nel suo discorso agli studenti a Stanford Damon Horowitz, professore alla Columbia, che a Google ha avuto l’incarico, inesistente altrove, di in-house philosopher/Director of Engineering.
«C’è una maggior richiesta di orientamento nella vita, di comprensione — dice Moreno Montanari, analista biografico ad orientamento filosofico —. Fino a non molto tempo fa c’erano riferimenti solidi, quasi tutoriali: il partito, la storia, la religione, la famiglia. Anche il successo e il lavoro. Tutte realtà che stanno svaporando. Agli incontri in cui si parla di filosofia vedo molte persone sui 50 anni: vengono perché realizzarsi nella famiglia e nel lavoro non basta più, hanno bisogno di orizzonti più ampi. E poi è aumentata la percezione della scarsità di relazioni autentiche che possano facilitare la comprensione di ciò che siamo. Le relazioni sono quasi sempre strumentali. La filosofia non insegna a essere efficaci, bravi, seri, giusti. Insegna a essere».
Il Sole 29.10.16
Il Plenum del Partito di Pechino
Le mosse di Xi, «core leader» cinese
di Rita Fatiguso

Primus inter pares, leader di un nucleo ristretto o, ancora, capo incontrastato di una cupola di eletti. Quattro giorni di conclave dei 348 leader del partito comunista seguiti da una conferenza stampa di altissimo livello organizzata ieri dallo State Council, ancora non hanno definitivamente messo la parola fine al significato del nuovo status di “core leader” attribuito dai 348 dell’assise al presidente Xi Jinping. A partire dal 2012, anno dell’insediamento, il leader cinese ha concentrato in sé un tale cumulo di cariche - ultima in ordine di tempo quella di comandante in campo delle forze armate - da fare impallidire i livelli di potere raggiunti dai suoi precedessori. Xi ha addirittura passato in rassegna squadroni militari in mimetica, pur non avendo esattamente un portamento da uomo di trincea.
Nella conferenza stampa di ieri l’interpretazione autentica del termine “core” è stata affidata al ministro Huang Kunming, deputy executive del Publicity department (un tempo Dipartimento della Propaganda), figura vicinissima a Xi. Una mossa strategica che va nella direzione già nota: c’è una cerchia di sodali che, con qualsiasi mezzo, protegge il loro “core” leader. Huang è tra questi e davvero non è un caso che l’uscita pubblica post congresso sia stata affidata a un politico in grado di mettere paletti precisi intorno alla figura del presidente e di divulgarne il pensiero. Un anticonformista, al punto che alla nostra domanda sull’apporto che la Cina può dare alla governance globale ha esordito citando l’ottima pizza preparata durante il Summit del G20 di Hangzhou. Battute a parte, ricordiamo la sapiente regia mediatica sprigionata dal dipartimento, già al secondo anno di attività Xi ha raccolto nel libro “Xi Jinping e la governance della Cina” i suoi discorsi e interventi, ormai tradotti in decine di lingue, un testo grazie al quale ha iniziato a costruire la propria figura di statista. Ampi stralci dedicati alla Russia e al suo rapporto con Putin, tanto per ricordare l’affinità con il presidente russo.
In questi quattro anni di potere lo schivo Xi Jinping ha comunque impiegato tutte le sue energie nella lotta alla corruzione e nel rafforzamento della disciplina di partito con il risultato di concentrare il massimo del potere nelle sue mani. Ma, in occasione di questo sesto comitato centrale, Xi ha dovuto comunque mettere in chiaro le posizioni in vista del prossimo quinquennio di potere che sta preparando con cura meticolosa.
Che occasione ghiotta e che grande responsabilità quella di imbroccare le pedine giuste per sostituire, intanto, i cinque dello Standing committee che vanno in pensione a fine 2017. Di questi, forse, rimpiangerà solo Wang Qishan messo a capo dell’organismo dell’anticorruzione, l’ex sindaco di Pechino che l’ha spalleggiato senza esitazione nella lotta al malaffare, una maxi-retata da un milione di persone, sugli 88 aderenti al partito. Gli altri dovranno essere sostituiti con figure più affini alla linea politica del presidente. C’è però da chiedersi i reali motivi di questa svolta core che non è solo nominalistica. Ha forse bisogno di definire il suo potere blindandosi in una definizione sul genere core leader un altro leader molto amato e ammirato da Xi che trasuda potere e forza da tutti i pori come il russo Vladimir Putin? Certamente no.
Se è quel tipo di forza alla quale Xi punta, la sfilza di esegesi che si rincorre in questi giorni dimostra che non tutte le partite sono ancora completamente chiuse. I nomi, intanto. Ufficialmente nulla è trapelato, ma la disposizione dei leader durante i lavori nelle immagini che hanno iniziato a filtrare ieri dalle trasmissioni della Tv di Stato mostravano alcuni volti ben schierati, lo Standing committee, i componenti dello State council, nomenklatura già vecchia, come il governatore della Banca centrale, incanutito, ormai alla fine del terzo mandato e forse l’unica deroga all’età pensionabile già in essere per volere di Xi Jinping. Però si notava in primo piano la figura di Hu Chunhua. Nato negli anni Sessanta è considerato un leader di sesta generazione. Nonostante ciò, la sua corsa sembrava essersi fermata, ma Hu Chunhua che si è distinto – in linea con Xi - come castigamatti della sua provincia, dai corrotti alle prostitute di Dongguan, in questi giorni sedeva tranquillo ben in prima linea con la sua capigliatura brizzolata. Una giovane leadership che cova sottotraccia e che potrebbe riservare sorprese.
Repubblica 29.10.16
L’intervista. Birgitta Jónsdóttir
La leader dei Pirati “Con noi al governo tornerà la fiducia nelle istituzioni”
“Ci vuole un sistema onesto e trasparente altrimenti vinceranno i Trump e le Le Pen”
di A. T.

REYKJAVIK. «Dobbiamo ricostruire una democrazia onesta e trasparente con una nuova Costituzione o il potere cadrà in mano ai Trump e alle Le Pen». Sorridente nel suo studio, la leader dei Pirati Birgitta Jónsdóttir narra la sua battaglia.
Tra poche ore potrebbe dover governare, come si sente?
«Non me lo aspettavo. Ce la mettiamo tutta, siamo pragmatici, sappiamo che responsabilità decisive possono esserci affidate. Abbiamo consiglieri stranieri, tra cui la magistrata anticorruzione Eva Joly. Lei ha creato la nostra struttura, ci insegna a scovare i grandi evasori, i “criminali dai colletti bianchi”. Guidare la nazione deve indurre a molta umiltà. Farò del mio meglio per non deludere la fiducia, mantenere le promesse di un governo pulito, trasparente, giusto, anticorruzione. Di un cambiamento di sistema».
Cosa volete cambiare?
«Non solo le leggi, ma l’intera infrastruttura del sistema. Introdurre una nuova cultura: leggi e norme attuate, non solo votate. L’alternativa sono malcontento e sfiducia. Primo: dobbiamo restaurare la fiducia nelle istituzioni smantellando il loro ruolo di trampolini di potere. A partire da gente come l’attuale ministro delle Finanze, un evasore eccellente con soldi a Panama, che non si è dimesso. Poi dovremo creare un sistema d’informazione totale per il pubblico: forti media investigativi indipendenti con pieni poteri d’indagine. Senza i media i Panama Papers non sarebbero mai stati scoperti. Un potere che vuole evadere le tasse alle spalle d’un Paese con infrastrutture e servizi sociali a pezzi cerca sempre di nascondere e coi miliardi all’estero si rende complice di contrabbando, schiavitù, traffico d’armi e prostituzione, tutto. Alle spalle di ceto medio e ceti popolari, i cittadini normali, impoveriti dai loro anni al potere».
Sogna una svolta come quella dell’89 nell’Est?
«In un certo senso sì. È difficile: vogliamo salvare la democrazia rinnovandola, mentre è in crisi ovunque e ovunque i populisti la assediano. Seducendo gli sconfitti dalla globalizzazione, poveri e ceti medi, per cui i partiti democratici tradizionali non trovano più risposte convincenti. Noi progressisti e liberali nel mondo abbiamo bisogno urgente di una nuova visione comune da progettare insieme per i cittadini delusi altrimenti perderemo e i Trump e le Le Pen, gli estremisti, vinceranno e la democrazia diverrà apparenza e messinscena».
Quando i populisti seducono chiedendo più controlli e “no” a migranti o altre minoranze, come si può reagire?
«È difficile ma indispensabile spiegare che si tratta di un nuovo fascismo per non lasciare il mondo globale in mano a loro. Uno dopo l’altro colpiranno migranti, gente di colore, gay, ogni minoranza. Il mondo in mano a loro diverrebbe apartheid introdotta a rate e controllo totale di tutti. Ovunque in Europa il tempo stringe per i progressisti: bisogna convincere subito elettori, lavoratori, ceti medi che le ricette populiste sono errate e pericolose o perdere per sempre. Noi nuovi partiti siamo l’unica chance. Ridistribuendo ricchezza, senza suscitare troppe speranze. Chi sceglie i “nuovi fascisti” è lasciato solo dai partiti tradizionali, teme di perdere tutto per colpa dei migranti, non di corrotti ed evasori. E la forbice ricchi-poveri si aggrava, esasperando paure e odii».
Repubblica 29.10.16
Oggi si vota
Il potere ai Pirati l’utopia dell’Islanda
di Andrea Tarquini

REYKJAVIK NIENTE poster né slogan. Non se ne vedono dall’aeroporto alla città, né nel vivacissimo centro di Reykjavik, tempio di movida giovanile e concerti pop globali. Eppure, tra poche ore, proprio qui in Islanda può arrivare uno scossone politico senza precedenti, che potrebbe avere anche conseguenze in Europa.
ALLE elezioni politiche anticipate di oggi, dopo una campagna vivacissima svoltasi prevalentemente online, ma anche sugli altri media, una coalizione guidata dai Pirati, potrebbe spodestare il governo conservatore di “Progressisti” e “Indipendenti” macchiato dallo scandalo dei Panama Papers. Per la prima volta, se i sondaggi saranno confermati, i Pirati, il nuovo partito anti-establishment che sfugge a etichette di destra o di sinistra, potrebbe guidare un esecutivo. Trasparenza totale, democrazia diretta e “liquida” online, droghe depenalizzate, asilo promesso a Edward Snowden, la Gola profonda dell’Nsa. Ma anche l’impegno di riformare la Costituzione in senso più democratico e di non toccare il miracolo economico in atto nel Paese. Tra poche ore la promessa della leader di questo partito nato circa cinque anni fa, la “piratessa in capo” Birgitta Jónsdóttir, poeta, artista multitasking, ex amica di WikiLeaks e di Assange, potrebbe diventare realtà.
«Gli islandesi sono stanchi di corruzione e nepotismo», accusa Birgitta a ogni comizio, e la gente applaude. Non basta lo spettacolare rilancio dell’economia grazie a svalutazione, austerità e turismo, rilancio che è venuto dopo la crisi finanziaria del 2008. Crisi che portò al fallimento delle tre banche principali, a un’ondata di suicidi e alla caduta del Pil del 60 per cento in pochi mesi. Oggi l’economia, grazie soprattutto al turismo (2,4 milioni di visitatori l’anno qui con 330mila abitanti) corre al 4,3 per cento, la disoccupazione è appena sopra il 3 per cento. E migliaia di giovani est-europei o asiatici trovano un lavoro dignitoso, corsi di lingua e alloggi. «Sappiamo che non basta, il colpo dei Panama Papers è stato duro», mi confessa Birgir Armansson del Partito dell’Indipendenza, uno dei due gruppi conservatori ancora al potere. «Il popolo scelga sovrano, ma si rischia la fine di stabilità e certezze che noi abbiamo offerto al Paese, alla Nato, a tutta l’Europa».
Stabilità e certezze non bastano, sebbene il benessere qui lo tocchi con mano. In primavera, il premier David Gunnlaugsson, travolto dallo scandalo dei conti off-shore a Panama, dovette dimettersi. «Ma resta deciso a fare il burattinaio nell’ombra», dice Gerdur Kristny, scrittrice di punta, eroina del femminismo. «E per questo ho paura che alla fine — prosegue — tra la gente vinca la rassegnazione, e la speranza che un giorno i partiti dei ricchi con in mano la torta si decidano a distribuirne fette anche a chi è rimasto fuori dalla spartizione. Quelli ancora al potere sono pericolosi. Pur di aggrapparsi alle poltrone promettono sgravi fiscali che darebbero il colpo di grazia a scuola, sanità e servizi per gli anziani, già alle corde».
Non tutti cedono a timori pessimisti, tra i vincitori annunciati. «Dobbiamo farcela, per il Paese e per l’Europa», afferma Einar Karason, decano degli scrittori impegnati. «Una coalizione tra Pirati, verdi di sinistra, socialisti e il nuovo partito “Futuro luminoso” è possibile. Sebbene l’indignazione per i Panama Papers si allontani, e sebbene la nuova maggioranza possa rivelarsi fragile e litigiosa a ogni momento».
Possono vincere, insiste Karason schierato con loro, «ma poi dovranno prendere decisioni dure contro le lobby di armatori e nuovi ricchi: fare presto una coalizione, prima che i vecchi partiti e il nuovo gruppo conservatore-europeista Vidresin si allei con gli altri». «Non solo aumenti di tasse per i ricchi senza danneggiare l’economia — aggiunge lo scrittore — anche leggi sulla sovranità marittima per far sopravvivere la pesca, che le grandi potenze ci stiano o no. Se i Pirati non ce la faranno, a breve o medio termine, vinceranno anche qui destre tradizionali e populisti che già se la prendono con i pochi musulmani residenti, tutti moderati. Sarebbe un colpo all’Europa. A ogni costo, dobbiamo farci trovare pronti a governare».
La Stampa 29.10.16
Duterte, lo sceriffo convertito
“Basta bestemmie, me lo dice Dio”
Il presidente filippino volta le spalle agli Stati Uniti e si allea con la Cina
di Carlo Pizzati

Che settimana di fuoco per il presidente filippino Duterte e per il fragile equilibrio dell’Oceano Pacifico, in un valzer pericoloso tra Cina, Giappone, Filippine e ora anche il Vietnam. Iniziamo da com’è finita, giusto per far due risate su una questione che però è serissima e può esser ricondotta a ciò che tiene con il fiato sospeso il mondo intero: le elezioni presidenziali americane.
Alla fine di una settimana in cui Rodrigo Duterte è rimbalzato dalla Cina a Tokyo e infine di nuovo a Manila, flirtando con Pechino e sconvolgendo alleanze commerciali e militari con gli Usa, il presidente che si è paragonato a Hitler e che ha definito Barack Obama un «figlio di p…», ha finalmente ammesso di sentire la voce di Dio. Non è uno scherzo, è quel che ha detto dopo aver fatto il frequent-flyer per il Pacifico: «Guardavo il cielo mentre volavo qui. Tutti dormivano e russavano. Una voce mi ha detto: lo sai che se non smetti di dire le parolacce farò schiantare questo aereo, proprio adesso. E io: chi parla? E la voce: ovvio, sono Dio. Ah, va bene. Allora ho promesso a Dio di non esprimermi più così». Allucinazioni da psicopatico o guasconate da demagogo, certo. Ma dietro alla battuta c’è un ex sindaco-sceriffo, responsabile del massacro di migliaia di filippini accusati di spaccio, che si vuol mettere alla prova come statista.
Fino a lunedì, Rodrigo «il duro» era in Cina. Mai prima d’ora un presidente filippino era stato intervistato da così tanti media cinesi che vogliono dargli spazio, visto quel che va dicendo degli Stati Uniti. Ha pure dato del gay, con intento spregiativo, all’ambasciatore americano uscente. Inoltre Duterte, invece di rivendicare la decisione della corte internazionale che a luglio ha condannato Pechino per la violazione del diritto e per danni ambientali nelle acque contese alle Filippine e a Taiwan nel mare del Sud della Cina, ha minimizzato: «Ah, quella condanna? Non è altro che un pezzo di carta con quattro angoli. Meglio rimandare lo scontro con la Cina su questa sentenza. Non è il momento». E poi, ai cinesi: «I vostri pesci sono i miei pesci. Risolveremo le cose, non è ora di andare alla guerra». Legalmente non ha potuto aprire le acque ai pescherecci cinesi, ma ha dato un segnale di remissività. Cosa significa? È un assist alla Cina per presentarsi nel Pacifico non più come truculenta forza espansionista che crea vittime e inventa isole, ma come nuova super potenza con cui stringere accordi e dialogare. È bastato che Trump annunciasse che gli Usa «non possono più essere i protettori del mondo» perché gli «squali» del Pacifico si preparassero a nuovi equilibri.
Rientrando a Manila, il presidente è venuto a sapere che Daniel Russell, vice segretario americano agli affari del Pacifico e dell’Asia dell’Est di passaggio nelle Filippine, aveva osato dire che Duterte sta creando «un clima d’incertezza» che non fa bene agli affari. Si parla di 4,7 miliardi di dollari di investimenti americani. «Quello è uno stupido» ha subito replicato. E ha invitato le imprese americane ad andarsene: «Fate le valige che è meglio. Faremo sacrifici. Ma vi assicuro che ci riprenderemo. Noi abbiamo affrontato e superato il peggio su questo pianeta!».
Poi se n’è partito per il Giappone, dove ha rincarato la dose sotto lo sguardo del premier Shinzo Abe, preoccupato dall’espansione cinese attorno alle sue isole. Duterte è stato chiaro. Non solo via al business, ma via anche alle forze armate americane. «Via tutte le truppe straniere dalle Filippine entro due anni. Sono disposto a sospendere gli accordi di ospitalità delle basi Usa». Si parla di cinque basi la cui permanenza è garantita da un accordo siglato con il suo predecessore. «Li voglio fuori. Queste saranno le ultime manovre militari e giochi di guerra con gli Stati Uniti». E ha spostato di un mese, al dopo-elezioni americano, il dialogo sul rinnovo delle basi.
Nel frattempo, anche il Vietnam ha un inedito riavvicinamento con la Cina, contro la quale era alleata fino a pochi mesi fa…assieme alle Filippine. Il premier vietnamita prima ha mandato il ministro degli Esteri ad addobbare con corone di fiori il mausoleo di Mao Tze-Tung a Pechino, e poi ha ricordato che il Vietnam non dimentica l’assistenza ricevuta in passato dalla Cina. Proprio contro gli Stati Uniti.
Indirette prove di nuove alleanze, nutrite dal timore di perdere il treno di un nuovo ordinamento strategico, dove lo zio Sam viene cacciato, mentre il drago cinese apre le sue ali sull’Oceano Pacifico.
Repubblica 29.10.16
Schiavitù il conto sospeso dell’America con la Storia
Il più influente intellettuale afroamericano, racconta le origini di una ferita ancora aperta
di Ta-Nehisi Coates

Nel 1783 la schiava liberata Belinda Royall presentò allo Stato del Massachusetts una domanda di risarcimento. Belinda era nata nell’attuale Ghana, e da bambina fu rapita e venduta come schiava. Affrontò il Passaggio Intermedio e cinquant’anni di schiavitù in mano a Isaac Royall e suo figlio. Quest’ultimo, però, un lealista britannico, fuggì dal Paese durante la guerra d’indipendenza americana. Belinda, tornata libera dopo mezzo secolo di fatiche, rivolse questa supplica alla nascente assemblea legislativa del Massachusetts: «Il volto di chi si rivolge a Voi è oggi segnato dai solchi del tempo, il corpo piepiegato
da anni di oppressione, eppure in base alla Legge della Terra a lei è negato anche un solo boccone di quell’immensa ricchezza che in parte è stata accumulata grazie alla sua operosità, e nell’insieme accresciuta dalla sua schiavitù. Ragion per cui costei vi supplica... affinché a ricompensa della Virtù e in giusto riconoscimento dell’onesta operosità, tale somma le venga concessa».
A Belinda Royall fu garantita una pensione di 15 pound e 12 scellini, una somma attinta dalle rendite del patrimonio fondiario di Isaac Royall: fu una delle primissime richieste di risarcimento che andarono a buon fine. Ma anche se nel corso del tempo i portavoce delle richieste di risarcimento sono cambiati, la risposta del Paese è rimasta essenzialmente la stessa. Ecco che cosa si leggeva in un editoriale del Chicago Tribune nel 1891: «È stato insegnato loro a lavorare. È stata insegnata loro la civiltà cristiana e la nobile lingua inglese invece di qualche incomprensibile parlata africana. Non abbiamo alcun tipo di debito nei confronti degli ex schiavi». Le cose, però, non stavano proprio così. Dopo duecentocinquant’anni di schiavitù, i neri non venivano comunque lasciati in pace. Vivevano nel terrore. Nel profondo Sud vigeva una seconda schiavitù. Al Nord assemblee legislative, sindaci, associazioni civiche, banche e cittadini, tutti cospiravano per relegare i neri nei ghetti, in una condizione di sovraffollamento, sfruttamento economico e bassi livelli di istruzione. Il mondo del lavoro li discriminava, riservando loro le mansioni peggiori e i salari più bassi. La polizia li vessava per le strade. Oggi abbiamo in parte preso le distanze dai nostri lunghi secoli di saccheggio, promettendo «mai più», ma i loro fantasmi ci perseguitano ancora. È come se avessimo accumulato un debito sulla carta di credito, e pur essendoci impegnati a non spendere altri soldi non ci capacitassimo del fatto che il saldo negativo non sia scomparso. Gli effetti di quel saldo, con interessi che aumentano ogni giorno, sono ovunque intorno a noi.
Oggi, appena salta fuori l’argomento dei risarcimenti, immancabilmente si scatena una raffica di domande: chi ne avrà diritto? A quanto ammonteranno? Chi li pagherà? Ma se sono gli aspetti pratici dei risarcimenti, e non la loro legittimità, a costituire il vero intoppo, per un certo periodo si era potuta vedere una soluzione. Negli ultimi venticinque anni John Conyers jr, membro della Camera dei Rappresentanti per il Michigan, ha presentato in ogni seduta un’istanza affinché il Congresso avviasse uno studio sulla schiavitù, sui suoi effetti nel tempo e sulla messa a punto di «opportuni rimedi». Un Paese a cui importasse davvero capire come organizzare la questione sul piano pratico avrebbe già trovato molte risposte nell’istanza di Conyers, oggi chiamata H.R. 40. Se fossimo davvero interessati, ci faremmo promotori di questa istanza, studieremmo la questione e infine valuteremmo le possibili soluzioni.
Una nazione sopravvive alle proprie generazioni. Non c’eravamo quando George Washington ha attraversato il fiume Delaware, eppure il dipinto di Emanuel Gottlieb Leutze significa molto per noi. Non c’eravamo quando Woodrow Wilson ci ha fatto entrare nella prima guerra mondiale, eppure stiamo ancora pagando le pensioni di guerra. Se il genio di Thomas Jefferson è importante, deve esserlo anche il suo possesso del corpo di Sally Hemings. Se George Washington che attraversa il Delaware è importante, deve esserlo anche il suo implacabile inseguimento della schiava fuggiasca Oney Judge. Nel 1909 il presidente William Howard Taft dichiarò di fronte alla nazione che i cittadini bianchi del Sud «intelligenti» erano pronti a considerare i neri come «membri utili della comunità». Una settimana dopo Joseph Gordon, un nero, fu linciato alle porte di Greenwood, Mississippi. L’era dei linciaggi quotidiani è lontana, ma il ricordo di coloro che sono stati depredati della loro stessa vita sopravvive negli effetti persistenti di quelle violenze.
In realtà, in America c’è la bizzarra e profonda convinzione che se pugnali un nero dieci volte smetterà di sanguinare e inizierà a guarire appena mollerai il coltello. Siamo convinti che il predominio bianco appartenga a un passato inerte, che sia un debito colpevole che possiamo cancellare soltanto distogliendo lo sguardo. È sempre esistita un’altra via. «Non ha senso dire che sono stati i nostri antenati a portarli qui, e non noi» dichiarò nel 1810 Timothy Dwight, rettore di Yale. «Noi ereditiamo il nostro vasto patrimonio con tutti i suoi oneri, e siamo tenuti a saldare i debiti dei nostri antenati. In particolare questo debito, e quando il Giudice dell’Universo verrà a giudicare equamente i suoi servi, sarà inflessibile nell’esigere proprio da noi quel pagamento. Concedere loro la libertà e non fare nient’altro equivale a gettare su di loro una maledizione».
IL LIBRO Questo testo è tratto da Un conto ancora aperto (Codice, trad. di Daria Restani pagg. 109, euro 9,90) di Ta- Nehisi Coates
Corriere 29.10.16
In Oregon
Assolti tutti i cowboy che diedero vita a una rivolta armata
di Giuseppe Sarcina

NEW YORK Per quasi sei settimane avevano occupato, armi in pugno, un rifugio federale nei boschi di Burns, un remoto villaggio dell’Oregon, Stato sulla costa occidentale degli Usa. Agli inizi di gennaio alcune decine di persone fecero irruzione nel Malheur National Wildlife Refuge. Alla loro testa i due fratelli Ammon e Ryan Bundy. Divise mimetiche, fucili di precisione, minacce di sparare a vista.
L’altro ieri, giovedì 27 ottobre, la Corte federale di Portland, nell’Oregon, ha assolto i Bundy e altri cinque imputati finiti a processo, tra cui una donna, Shawna Cox. La giuria ha accolto la tesi dell’avvocato difensore Marcus Mumford: i cowboy stavano esercitando il diritto alla protesta, «senza danneggiare nessuno». Una piccola folla ha festeggiato davanti al tribunale di Portland. I fratelli Bundy, comunque, restano in prigione: devono rispondere per un’altra «resistenza armata» che risale a due anni fa, in Nevada.
Ma il verdetto è sconcertante: in questo stesso Paese proprio ieri la polizia, in assetto anti sommossa, ha arrestato 141 persone che, ugualmente, «esercitavano il diritto alla protesta» contro la costruzione di un gasdotto nel Nord Dakota. Con la differenza che gli accoliti dei fratelli Bundy sono bianchi ed erano equipaggiati come un commando paramilitare, mentre gli attivisti «anti pipeline» sono in gran parte pacifici nativi americani, della antica tribù dei Sioux.
La governatrice dell’Oregon, Kate Brown, Partito democratico, ha diffuso una nota di «disappunto»: «L’occupazione del Malheur Reserve non riflette il modo in cui l’Oregon lavora insieme e rispettosamente per risolvere i problemi».
Evidentemente esiste un’altra parte di America che confida nella forza, nei metodi sbrigativi, muscolari. È un filo che lega la vicenda dell’Oregon con le minacce di alcune frange dei sostenitori di Donald Trump, pronti, dicono, alla «rivoluzione» se l’8 novembre il tycoon dovesse perdere le elezioni. La sentenza di Portland, ora, mostra fino a che punto può arrivare l’impunità.
Per un mese e mezzo gli agenti dell’Oregon si sono limitati a sorvegliare l’impresa guidata da Ammon Bundy, 41 anni, nato a Emmett, nell’Idaho, ma poi trasferitosi con il fratello Ryan, 43 anni, e il padre Cliven nel Nevada. Una famiglia di allevatori, di gente in grande confidenza con fucili e pistole, da anni in rivolta contro lo Stato federale accusato di controllare troppo territorio, «rubandolo» ai privati. Sempre rapidi a buttarsi nella mischia i Bundy.
Così quando, all’inizio dell’anno, si diffuse la notizia che nell’Oregon altri due cowboy, i fratelli Hammond, erano stati condannati per aver bruciato l’erba in un terreno federale, i Bundy mollarono il ranch del Nevada e si precipitarono a Burns. Misero insieme una squadra e presero il controllo del rifugio, sloggiando gli impiegati federali del «Fish and Wildlife Service».
Per giorni e giorni l’opinione pubblica seguì in diretta televisiva, sempre più stupita, le gesta dei fratelli Bundy. Osservava sugli schermi le gote arrossate dal freddo e forse dall’imbarazzo dello sceriffo David Ward. Appelli paterni, pieni di buon senso: «Dite di essere venuti qui per aiutare la popolazione locale. Ma l’aiuto finisce quando una protesta pacifica diventa un’occupazione armata. Tornate a casa dalle vostre famiglie e finiamo questa vicenda senza violenze». In realtà ci fu anche una vittima: LaVoy Finicum, 54 anni, allevatore dell’Arizona, padre di 11 figli, che girava con un cinturone da film western, con le pallottole dorate. Fu ucciso a un posto di blocco da una pattuglia della polizia dell’Oregon.
Intanto molti americani, in tv, sui social network, sui giornali si chiedevano che cosa sarebbe successo se quel rifugio fosse stato occupato da militanti musulmani o afroamericani. Proprio in quei giorni si ragionava sull’alto numero di maschi neri uccisi dagli agenti solo nel 2015: 160.
Tutte queste domande ritornano ora, nel mezzo di una vigilia elettorale forse mai così aspra.
il manifesto 29.10.16
Il partito elettorale e la democrazia in America
Stati uniti. Se c’è qualcosa che l’esperienza di Obama dimostra è l’importanza di avere un partito, un programma, un ceto politico professionale su cui quotidianamente contare. Non un partito elettorale che si attiva per le elezioni con messinscena umilianti come chiederti di fare gli auguri di compleanno a Hillary e rimproverarti severamente se non lo fai e farlo comporta un dollaro di finanziamento ultrademocratico
di Rita di Leo

Come abbonata a media americani di politica estera, mi trovo chissà come in una mailing list di sostegno al partito democratico. Ogni giorno ricevo almeno 3-4 mail da Hillary Clinton, Nancy Pelosy e altri nomi famosi, che iniziano con parole ‘alate’ e finiscono con la richiesta di dare 3 dollari al partito. Ieri mi ha mandato una mail Obama: Hi! Rita…
Chiedere il coinvolgimento finanziario, anche minimo alla propria base, è considerata la prova inconfutabile di quanto radicata è la partecipazione politica del paese. Come confutare un tale assioma? Ricordando: 1. L’elevata astensione al voto che mette in dubbio proprio la partecipazione politica; 2. L’esistenza dei SuperPacs, la montagna di soldi che le 156 famiglie di super ricchi investono per poter contare su senatori, deputati, governatori, giudici, sceriffi, di loro personale, esclusiva fiducia.
Sono mesi e mesi che i media ci bombardano con le notizie sulla guerra tra Hillary Clinton e Trump, mentre i potenti dei due partiti stanno lavorando a livello locale per l’elezione dei propri uomini. La meteora Trump ha messo a rischio la maggioranza repubblicana al Senato, al Congresso e dovunque si decide la ripartizione delle risorse pubbliche e innanzitutto quelle dell’apparato strategico-militare. La vittoria, al momento sicura della Clinton, avrebbe un impatto minimo sulla gestione del potere se i repubblicani mantenessero la maggioranza. È stato drammaticamente evidente con Obama, il quale persa la maggioranza a metà del suo primo mandato, ha potuto continuare a fare discorsi bellissimi privi di conseguenze pratiche. Questo per la politica interna.
Per la politica estera le differenti strategie di Hillary Clinton, nelle sue precedenti funzioni di quasi presidente, e poi degli uomini del Pentagono, e delle altre potentissime istituzioni, hanno fatto fare a Obama mosse in contrasto con quello che aveva promesso appena eletto l’uomo che sarebbe il più potente del mondo.
Si pensi al suo discorso al Cairo del 2009, alle sue aperture nei confronti del mondo non bianco, così in contrasto con quanto sta avvenendo oggi. L’uomo più potente del mondo dipende da chi lo ha fatto entrare alla Casa Bianca, oggi dalle élite finanziarie, nel passato dalle variegate oligarchie di potere proprie al paese. Un paese che si considera democratico perché non dipende da partiti di politici professionali, da governi che si reggono su coalizioni ad hoc, e si vanta di avere uno stato federale le cui leggi possono non essere accettate dagli altri stati. Un paese orgoglioso di aver inaugurato il primo suffragio universale ma che è lo stesso dove, ancora nel 2016, ciascun stato può porre vincoli all’esercizio del voto.
Nella storia recente del paese il solo presidente che ha modificato almeno un po’ lo stato delle cose nel sociale e nelle relazioni di lavoro è stato, incredibilmente, Lyndon Johnson, un raro esemplare di politico professionale, capace di fare accordi e compromessi con avversari. È accaduto 50 anni fa quando ha contrattato e fatto accettare da tutti gli stati la Great Society, il suo programma politico di misure sociali e di diritti civili. Obama ha alzato il salario minimo federale ma a giovarsene sono stati solo i dipendenti federali. Il fine intellettuale Obama non è stato in grado di far fronte agli ostacoli quotidiani una volta che la macchina del potere gli si è messa contro. Non è stato in grado perché in quella macchina vi era anche il suo partito, c’era Hillary Clinton e quasi tutti i maggiorenti, disinteressati alle sue proposte in politica interna, e ostili ai suoi orientamenti in politica estera.
Se c’è qualcosa che l’esperienza di Obama dimostra è l’importanza di avere un partito, un programma, un ceto politico professionale su cui quotidianamente contare. Non un partito elettorale che si attiva per le elezioni con messinscena umilianti come chiederti di fare gli auguri di compleanno a Hillary e rimproverarti severamente se non lo fai e farlo comporta un dollaro di finanziamento ultrademocratico.
Questa democrazia poi è retta da appositi algoritmi solo che manca l’algoritmo che fa sapere a chi ti tempesta di messaggi che non sei cittadina americana, che non puoi votare e nemmeno partecipare al finanziamento di base: la prova più inconfutabile del coinvolgimento politico individuale. L’individuo è chiamato a partecipare alla campagna elettorale e poi sparisce di scena. E nel caso Obama lo lascia solo, senza uomini e leve cui fare riferimento per le sue quotidiane lotte politiche contro avversari interni e esterni. L’esperienza Obama alimenta la preoccupazione per il distacco/disprezzo crescente per come la politica funzionava da noi europei sino a ieri.
Vi era un progetto che diventava un programma cui aderire nel quotidiano e in occasione degli appuntamenti elettorali, vi erano sedi dove discuterlo, funzionari, tutti all’apparenza burocrati, che però le sedi le tenevano aperte, e in esse esprimevi il tuo consenso o dissenso, dove potevi crearti un seguito oppure essere espulso, dove c’era una dinamica politica ben differente dal dollaro come augurio al compleanno di Hillary. L’uscita di scena di Obama riguarda anche noi, il rischio di liberarsi dei burocrati e di farsi gestire dagli algoritmi.
il manifesto 29.10.16
Stati Uniti, il trucco contro il voto etnico
L’ultima battaglia della Guerra Civile. L’«accesso elettorale» rimane una ferita aperta nel paese di Ferguson e di Black Lives Matter
di Luca Celada

LOS ANGELES Le elezioni sono cominciate: circa 6 milioni di voti per Clinton e Trump sono già stati raccolti negli stati che prevedono il voto anticipato. Ad Orlando si usano le biblioteche comunali; a Las Vegas i seggi sono stati allestiti in centri commerciali e perfino in un angolo dell’ Alberston’s, un supermercato nel sobborgo di Henderson. In 37 stati da questa settimana è in corso l’early voting, negli appositi seggi o via schede spedite per posta.
In tutto potrebbe essere più di un terzo della popolazione ad aver votato prima ancora dell’aperture dei seggi l’8 novembre. La vittoria potrebbe giocarsi sul filo di una manciata di preferenze racimolate in Nevada o Pennsylvania, in Ohio o in Florida (come imparò nel 2000 Al Gore). E mentre i sondaggi assegnano ancora alla Clinton vantaggi di misura in molti swing state Trump invoca «l’effetto brexit» e tuona contro «il complotto» che lo vorrebbe perdente. Ma l’unico complotto che pare esistere è – semmai – di segno contrario: una strategia coordinata per «attutire» il voto etnico e afro americano che tradizionalmente favorisce i democratici.
Non è esagerato dire che dalla soppressione del voto di colore dipendono in qualche modo sia le sorti di Trump che quelle a lungo termine di un partito repubblicano che si trova dalla parte sbagliata della storia demografica del paese. Per effetto della continuata crescita della popolazione ispanica (oggi già la maggiore minoranza etnica, al  17%), i banchi in America sono destinati a scendere sotto la soglia del 50% entro il 2030.
La affidabile base di bianchi (soprattutto maschi) che hanno eletto ogni presidente repubblicano del dopoguerra sta quindi inesorabilmente evaporando. I tre democratici degli ultimi 60 anni, Kennedy, Clinton e Obama, sono giunti alla Casa bianca solo grazie a coalizioni di una minoranza bianca più maggioranze nere, latine e asiatiche. L’attuale deriva demografica non lascia insomma ben sperare i conservatori per il futuro.
Nella versione strumentale di Trump il possibilismo democratico sull’immigrazione diventa il complotto per inondare il paese di minoranze per «sopraffare» il voto degli americani «veri».
Si tratta di un vecchio discorso calibrato per far leva su antiche fobie razziali che ricollegano questa campagna a tensioni ancorate nel sud ex schiavista e alla ferita del razzismo suppurante dai tempi della guerra civile.
Dopo la vittoria dell’Unione sugli stati confederati agli schiavi liberati venne dato il diritto di voto sotto la protezione delle forze di occupazione nordiste. Le amministrazioni federali tentarono in tal modo di pilotare da Washington l’integrazione delle popolazioni afro americane liberate in una democrazia rappresentativa. Al ventennio fallito della reconstruction, seguì una  violenta reazione. La restaurazione dei bianchi sudisti impiegò milizie come il Ku Klux Klan e segnò l’inizio della sanguinosa stagione dei linciaggi che si protrasse fino al ventesimo secolo.
Quegli eventi, glorificati nel Birth of a Nation – il manifesto suprematista di DW Griffith – decretarono la nascita di un regime di apartheid imposto con la violenza, con gli statuti segregazionisti «Jim Crow» e, crucialmente, con misure  che miravano ad restringere il suffragio universale con tasse d’iscrizione alle liste di voto e perfino l’obbligo di passare un esame di alfabetizzazione per tenere le maggioranze nere lontane dalle urne. Riconsolidato il potere bianco, le misure rimasero in vigore fino agli anni 60 e la loro abrogazione fu fra le principali rivendicazioni di Martin Luther King il cui maggior successo fu il voting rights act del 1965 negoziato con Lyndon Johnson.
Quello statuto comprendeva il sostanziale commissariamento degli stati sudisti cui venne tolta la facoltà di imporre regole elettorali senza l’avallo delle corti federali. Ma recentemente, una serie di sentenze promulgate dalla corte suprema a maggioranza repubblicana e implementate da legislature statali controllate dal Gop, proprio nel cinquantenario del voting rights act hanno cominciato a eroderne le garanzie. A partire dal 2014 diversi stati – ad oggi almeno quattordici – sono tornati a istituire barriere al voto. Le nuove regole impongono l’obbligo di molteplici documenti per votare, penalizzando minoranze, anziani, giovani e popolazioni marginalizzate, specie in un paese in cui i documenti di identità non sono generalmente obbligatori e poco diffusi (è stato calcolato che nel solo Wisconsin 300.000 elettori non dispongano di documenti in regola).
Dopo che il North Carolina ha imposto l’iscrizione preventiva alle liste di voto nel 2014, almeno 2.300 elettori si sono visti respingere ai seggi. In ognuno dei casi le restrizioni sono motivate dal rischio degli stessi  «dilaganti brogli» di cui parla Trump, pur in assenza della minima prova.  L’accesso al voto rimane una ferita aperta nell’America di Ferguson e di Black Lives Matter. E la battaglia per l’accesso alle urne continua: anche nel momento in cui l’America deve scegliere il successore al primo presidente afro americano.
Non a caso in questi giorni c’è un film nelle sale americane, il documentario 13th, nel quale Ava DuVernay (già autrice di Selma) documenta con la partecipazione di Angela Davis i sistemi con cui, dopo l’abolizione della schiavitù (col tredicesimo emendamento), si è operato per limitare il peso politico degli afro americani.
Fra i più lampanti c’è la carcerazione di massa nel sistema penale-industriale del paese in cui languono 2,3 milioni di detenuti, i neri con una percentuale quadrupla dei bianchi. E per la legge federale in America un detenuto – anche dopo aver scontato la pena – non può più legalmente votare.
Repubblica 29.10.16
Le amicizie pericolose
Adesso l’America rischia di consegnarsi in mano a “The Donald”
di Vittorio Zucconi

LA “October Surprise”, la notizia bomba che esplode in ottobre alla vigilia del voto e fa saltare in aria le candidature alla Casa Bianca, è piombata ieri su Hillary Clinton sganciata dal direttore dello Fbi. Oltre i pettegolezzi e le accuse, le antipatie e le critiche per la persona, l’annuncio che la massima autorità investigativa federale tornerà a frugare tra le email di una terza persona, Anthony Weiner, l’ex marito dell’amica di Hillary, Huma Abedin, calza come un guanto nella propaganda del suo avversario Donald Trump e sulla sua descrizione di Hillary la «disonesta», la «criminale». «È stata la giornata più bella della nostra campagna elettorale», ha detto il repubblicano.
Il prolungamento dell’inchiesta che il direttore dello Fbi aveva chiuso in luglio senza chiedere l’incriminazione di Clinton e oggi muove da un non meglio precisato «nuovo materiale» portato a conoscenza dei “federali” soltanto ieri l’altro, è la materia della quale sono fatte le teorie complottiste. Dopo che per mesi Trump aveva gridato alla congiura dei media, della finanza, dell’establishment e dello stesso Fbi per favorire la sua avversaria venendo oggi smentito, tocca ai Democratici e a Hillary chiedersi chi abbia fornito allo Fbi, dopo mesi di setacciamento della corrispondenza elettronica della Segretaria di Stato, questo materiale inedito e importante al punto di riaprire il dossier. E perché il direttore lo abbia rivelato all’undicesima ora dell’undicesimo giorno.
Importanti, queste scoperte, devono essere, perché James Comey, il direttore dello Fbi, è un politico troppo esperto e navigato, già viceministro della Giustizia scelto da George Bush e poi elevato alla guida del Bureau da Obama, per non sapere che questa sua irruzione in campo a undici giorni dal voto sarà letta come un siluro a Clinton, solleva enormi dubbi politici e può cambiare la dinamica di un’elezione che era ormai incanalata verso la vittoria della signora. Se, come riportano le maggiori reti tv e agenzie, tutto parte da materiale trovato in un computer o smartphone o archivi elettronici di Weiner, ex deputato sotto inchiesta per “sexting”, per corrispondenza erotica con minorenni, il collegamento con Hillary può essere soltanto indiretto. E il direttore dello Fbi deve dire in fretta alla nazione che cosa ci sia in quel “nuovo materiale” per non lasciare l’impressione di uno “sporco trucco” alla Nixon 1972 o di un’avventatezza imperdonabile.
La riapertura dell’inchiesta non significa infatti che in quel misterioso “nuovo materiale” trovato frugando negli sms dell’ex deputato, ci siano prove di reati, di falsa testimonianza o di violazioni criminali delle norme di correttezza e trasparenza imposte a chi governa. Ma poiché in undici giorni nessuna inchiesta può essere condotta o conclusa su, presumibilmente, migliaia di email, resterà la nube tossica del sospetto di doppiezza, arroganza, mendacità e indifferenza alle regole che da trent’anni circonda i Clinton e nutre i loro nemici. E portò all’impeachment, all’incriminazione e al processo del Presidente non per il sesso con una stagista, ma per avere mentito alla nazione e alla magistratura inquirente.
La pericolosità della “Bomba d’Ottobre” sta nel colpire Hillary nel cuore della sua massima vulnerabilità, che è la doppiezza, la poca credibilità e il senso di inviolabilità che i Clinton trasmettono, muovendosi come se nulla potesse o possa toccarli. Oggi nessuno sa ufficialmente che cosa abbia trovato lo Fbi per giustificare la riapertura delle indagini. Né si capisce se ci sia anche in questo caso la sapiente manina di quegli hacker a senso unico che diffondono, dal Cremlino via Wikileaks, sempre e soltanto materiali rubati ai Democratici, ma mai ai Repubblicani.
Come l’ignobile apologia della prepotenza sessuale rivelata nella registrazione fuorionda del programma “Access Hollywood” dannò Trump e ancora giustamente lo perseguita, così la “emailgate”, lo scandalo della “estrema incoscienza”(così la definì proprio lo Fbi) della signora nelle sue comunicazioni alla Segreteria di Stato zavorrerà Clinton fino all’8 novembre. Già 17 milioni di elettori negli Stati hanno votato, ma sono soltanto una frazione degli oltre 100milioni che alla fine voteranno e dieci giorni sono pochi per limitare i danni della “Sorpresa”. Se lei dovesse perdere elezioni che sembrava avere già vinto, gli storici di domani guarderanno al 28 ottobre come al giorno in cui la Presidenza americana cambiò di colore. E l’America, costretta a scegliere fra un imbonitore narciso e una bugiarda troppo furba, si rassegnò a consegnarsi all’imbonitore.
Il Sole 29.10.16
L’Fbi gela la corsa di Hillary
Riaperta l’inchiesta sulle mail della candidata democratica, Trump esulta
di Marco Valsania

NEW YORK La campagna di Hillary Clinton per la Casa Bianca è di nuovo scossa dallo scandalo delle email. Il direttore dell’Fbi James Comey, accusato in passato dai repubblicani di aver insabbiato le indagini sul candidato democratico, ha annunciato la riapertura immediata dell’inchiesta dopo aver scoperto nuove missive elettroniche che Clinton, quando era segretario di Stato, potrebbe aver gestito in modo irregolare o violando norme di sicurezza nazionale attraverso il suo server privato. Le email sarebbero state rinvenute in gadget sequestrati a Huma Abedin, stretta collaboratrice di Clinton, e all’ex marito Anthony Wiener, travolto da ripetuti casi di sexting, di esibizionismo sessuale via smartphone.
La “Sorpresa di Ottobre”, come sono battezzate le notizie-shock che emergono alla vigilia delle urne in America, è bastata a innervosire i mercati. Le borse, dove una vittoria della Clinton l’8 novembre è stata finora considerata molto probabile, hanno invertito la rotta e perso quota. In mattinata erano state sostenute da dati incoraggianti su una crescita del 2,9% del Pil nel terzo trimestre che favorivano proprio Clinton quale erede delle politiche economiche di Barack Obama.
È presto per conoscere la gravità delle nuove rivelazioni, se risulteranno una mini-sorpresa o avranno ripercussioni sul voto. La mossa di Comey ha tuttavia sollevato ancora una volta incognite sul carattere della Clinton, perseguitata nell’opinione pubblica da sospetti su onestà e trasparenza. L’organizzazione WikiLeaks ha continuato a rendere note in questi giorni email sottratte ai server del partito democratico - a detta dell’intelligence americana frutto di hacker pilotati da Mosca - che mettono in luce, spesso una luce sgradevole, l’intreccio di affari personali e politici di Hillary e Bill Clinton e della loro Fondazione. Sia Hillary che il rivale repubblicano Donald Trump, dopo mesi di campagna elettorale, restano i candidati presidenziali meno amati nella recente storia del Paese.
Trump, indietro nei sondaggi e nella raccolta di finanziamenti, ieri è subito partito all’assalto. «È l’occasione per correggere un grave errore nella giustizia», ha detto delle nuove indagini durante un comizio a Manchester in New Hampshire, salutato da slogan dei sostenitori che inneggiavano all’arresto della Clinton. «Riaprono il caso sulla sua condotta criminale e illegale che minaccia la sicurezza degli Stati Uniti», ha continuato. E ancora: «La corruzione di Hillary è senza precedenti, non possiamo permetterle di portare trame criminali nell’Ufficio Ovale». Clinton non ha immediatamente risposto ai nuovi sviluppi, diretta in Iowa per tappe in uno stato incerto con entrambi i candidati al 44% dei consensi.
A fare scalpore è rimasto tuttavia anzitutto Comey, che tra luglio e settembre in Congresso aveva dichiarato del tutto conclusa l’inchiesta sulle oltre 30mila email ufficiali e personali della Clinton gestite da un server nel seminterrato di casa, senza far scattare incriminazioni pur definendo il comportamento dell’ex segretario di Stato «estremamente irresponsabile». Ora ha reso nota la sua marcia indietro in una lettera indirizzata proprio al Parlamento. Un messaggio che chiarisce l’obiettivo delle indagini, se non ancora i dettagli del nuovo materiale: gli agenti federali intendono verificare se l’inedito “plico” di posta elettronica contenga informazioni top secret.
«In relazione a un separato caso, l’Fbi è venuto a conoscenza dell’esistenza di email che sembrano pertinenti alle indagini - ha affermato Comey -. Vi scrivo per informarvi che la squadra investigativa mi ha indicato ieri, e io concordo, che l’Fbi dovrebbe decidere appropriati passi d’indagine per consentire agli inquirenti di esaminare queste email, determinare se contengano informazioni classificate e valutarne importanza». Comey ha aggiunto di «non poter esprimere un giudizio» sul rilievo del materiale e di non sapere «quanto tempo occorrerà per questo addizionale lavoro». È però essenziale, ha aggiunto, «aggiornare le vostre Commissioni sui nostri sforzi».
Corriere 29.10.16
Anche se a novembre Clinton riuscirà a spuntarla lo scenario del dopo si presenta molto più oscuro
di Massimo Gaggi

«October surprise» è l’espressione del lessico politico di Washington che indica la possibilità di un colpo di scena nel mese precedente il voto per la Casa Bianca. Alla vigilia di queste tormentate presidenziali 2016 di sorprese ce ne sono state in quantità: dallo stillicidio di WikiLeaks agli scandali a sfondo sessuale di Donald Trump, dalla polmonite di Hillary Clinton, alle interferenze russe nella campagna.
Ma adesso, col voto fissato per l’8 novembre e la decisione dell’Fbi di riaprire l’inchiesta, in quel vocabolario politico rischia di spuntare anche il neologismo della «november surprise»: nei prossimi giorni può ancora succedere di tutto. Mentre la stampa americana cerca di capire quali sono le scoperte dell’Fbi, Trump vede uno squarcio di sereno nel suo cupo orizzonte elettorale e ne approfitta secondo il suo stile: il candidato che ha minacciato di mandare in galera la sua avversaria se diventerà presidente ieri ha incitato gli americani a impedire alla Clinton «di portare i suoi schemi criminali nello Studio ovale». Basterà questo ulteriore, drammatico sviluppo a erodere il vantaggio accumulato nelle ultime settimane dalla candidata democratica? Difficile misurare l’impatto del nuovo caso sugli umori degli elettori negli Stati-chiave per il voto, anche perché i vasi continuano a esplodere, uno dopo l’altro. Ma, anche se la Clinton riuscirà a spuntarla l’8 novembre, come affermato dai sondaggisti, il dopo voto si presenta sempre più oscuro: da tempo la stampa registra i propositi insurrezionali di molti supporter di Trump che si dichiarano pronti a tutto pur di impedirle di prendere il potere. L’inchiesta dell’Fbi alimenta questi propositi e indebolisce ulteriormente, oltre a Hillary, l’immagine della democrazia Usa. Una costruzione solida nella quale si sono aperte crepe, ora in balìa di un populista che ha «sequestrato» il partito repubblicano e di una ex first lady arrogante e pasticciona. E ora anche, a quanto pare, di manovratori oscuri e di un mezzo maniaco sessuale, marito della sua assistente, che avrebbe rivelato segreti di Stato mentre adescava una quindicenne.
La Stampa 29.10.16
L’Fbi riapre il caso delle mail di Hillary
I file sospetti trovati nel telefono di Anthony Weiner, ex marito dell’assistente Huma Abedin Trump: forse sarà fatta giustizia. La campagna della democratica: non uscirà nulla di nuovo
di P. Mas

L’Fbi riapre l’inchiesta sulle mail private di Hillary Clinton, facendo esplodere una bomba elettorale a dieci giorni dalle presidenziali. Questa rivelazione può avere due effetti: influenzare il risultato in favore di Trump, o esporre gli Usa al rischio di eleggere un capo della Casa Bianca che subito dopo potrebbe essere incriminato. Un incubo per gli Stati Uniti, dove infatti Wall Street e il dollaro hanno perso terreno.
Quando era segretaria di Stato, Clinton aveva usato un server privato per le sue mail. Lei sosteneva di averlo fatto per convenienza, mentre i repubblicani l’accusavano di aver cercato di nascondere così gli interessi privati che coltivava mentre era al governo, ad esempio favorendo la Foundation del marito Bill, oppure di cancellare gli errori commessi nel caso dell’assalto al consolato di Bengasi. L’Fbi ha condotto un’inchiesta durata un anno e mezzo, e a settembre l’aveva chiusa senza incriminare nessuno. Il direttore Comey aveva rimproverato a Hillary e ai suoi collaboratori un comportamento «estremamente irresponsabile», perché le mail transitate sul server privato contenevano in parte informazioni segrete, ma non aveva scoperto le prove di reati. Ieri però ha inviato una lettera ai leader del Congresso, per informarli del nuovo sviluppo: «In connessione con un caso non collegato, l’Fbi ha saputo dell’esistenza di mail che appaiono pertinenti all’inchiesta. Gli investigatori mi hanno informato di questo ieri, e io ho concordato che è appropriato compiere passi per esaminare le mail, determinare se contengono informazioni segrete, e valutare la loro importanza per l’inchiesta». Quindi Comey ha aggiunto: «L’Fbi non è ancora in grado di valutare se questo materiale è significativo, e non posso prevedere quanto tempo servirà per completare il lavoro». Le nuove mail sono state trovate in un apparecchio di Anthony Weiner, ex marito dell’assistente di Clinton Huma Abedin, sotto inchiesta criminale per aver scambiato messaggi a sfondo sessuale con una minorenne.
Donald Trump ha subito sfruttato l’occasione: «Forse finalmente verrà fatta giustizia». John Podesta, leader della campagna di Hillary, ha commentato così: «Il direttore dell’Fbi deve immediatamente informare gli americani sui dettagli di cosa sta esaminando. Siamo sicuri che non produrranno nulla di nuovo».
Il Sole 29.10.16
Una coalizione di alleati apparenti
L’inviato di Obama McGurk a Roma: «Gli Usa sono con chi combatte l’Isis»
di Alberto Negri

Inviato speciale di Obama per la coalizione anti-Isis, Brett McGurk sembra l’uomo giusto cui chiedere la posizione americana e occidentale in Siria e in Iraq. È questa una delle controverse eredità di Obama, una politica mediorientale a volte decisa, anche troppo, come l’intervento del 2011 contro la Libia di Gheddafi, e a volte così ambigua da apparire inestricabile. Nell’aula di Montecitorio che ospita il seminario dell’assemblea parlamentare della Nato su Medio Oriente e Mediterraneo esplodono tutte le contraddizioni di una situazione complessa in cui alleati apparenti sono in realtà avversari e i nemici cambiano a seconda degli interessi nazionali, etnici o settari.
Salta così, nel dibattito, il filtro della diplomazia che a volte fa da cortina fumogena ai problemi veri. Il vicepresidente del Parlamento iracheno chiede a McGurk quando i turchi ritireranno le loro truppe intorno a Mosul: «Questa – dice – è una violazione della nostra sovranità». Il rappresentante turco avanza agli Stati Uniti la richiesta di togliere ogni supporto ai curdi siriani, «perché –afferma – sono alleati del terroristi del Pkk». Gli iracheni di Baghdad, con le milizie sciite, sono contro i turchi, i turchi sono schierati contro i curdi siriani ma alleati dei peshmerga di Barzani.
È questa la coalizione che fa la guerra al Califfato? McGurk è percepito dalla Turchia come l’uomo che ha sostenuto i curdi siriani e molto si è scritto delle sue missioni nel Rojava dove sono arrivati elicotteri e truppe speciali Usa. Allo stesso tempo i turchi bombardano quando possono i curdi schierati contro il Califfato: la Turchia teme che nella disgregazione siriana possano costituire l’embrione di uno stato, il vero incubo strategico di Ankara che con il presidente Erdogan rivendica una sfera di influenza su Aleppo e Mosul considerate due asset strategici amputati alla Turchia negli anni Venti. Ognuno fa la sua guerra, al punto che dopo la riappacificazione tra Putin ed Erdogan il presidente russo ha ritirato il sostegno ai curdi.
Ma quali sono gli alleati degli americani e dell’Occidente? L’inviato di Obama tenta di aggirare la domanda. «Noi siamo orgogliosi della collaborazione con un Paese Nato come la Turchia. E siamo anche grati ad Ankara di averci concesso la possibilità di compiere raid aerei contro i jihadisti che sono una minaccia anche per la Turchia, visto gli attentati che hanno compiuto nel Paese. È vero che abbiamo anche aiutato con l’aviazione i curdi di Kobane: è stata una decisione presa dal presidente Obama nella situation room. Noi, alla fine, stiamo con tutti coloro che combattono l’Isis».
Risposta ambiguamente diplomatica. Nel 1918 la sorte di Mosul fu risolta in due frasi tra il capo del governo britannico Lloyd George e quello francese Clémenceau. Il francese chiese al suo interlocutore di cosa volesse parlare e Lloyd George rispose prontamente: «Della Mesopotamia e della Palestina». «Mi dica che cosa vuole», chiese Clémenceau. «Voglio Mosul», disse Lloyd George. «L’avrà», rispose Clémenceau. «E poi cosa vuole?», «Gerusalemme». «L’avrà». Un dialogo che racchiude un secolo di guai mediorientali.
McGurk rivendica comunque un successo: di essere riuscito a far collaborare a Mosul il premier del governo di Baghdad, Haider al Abadi, e il leader del Kurdistan iracheno, Massud Barzani. Ma quando sarà liberata Mosul? «Non è una partita facile. La campagna per la riconquista sarà di lungo periodo ma questo lo avevamo previsto. Ci sono già dei risultati: più del 55% del territorio portato via all’Isis non è tornato sotto i jihadisti. Alla fine la libereremo, ma dopo comincerà una fase ancora più difficile. E il dopo sarà più complicato della liberazione».
Il timore è che si replichi il terrore tra i sunniti, con una pulizia settaria delle milizie sciite rivali che ha già colpito a Tikrit e Ramadi. «Dopo la caduta di Mosul sarà indispensabile evitare pulizie etniche, religiose e settarie: per il controllo del territorio siano quindi indispensabili le “forze di polizia” che addestrano i Carabinieri: oggi (ieri, per chi legge) ringrazierò proprio il ministro Gentiloni per il loro contributo straordinario». «Non faremo – aggiunge – gli errori che stanno commettendo i russi ad Aleppo». Quali? «I bombardamenti indiscriminati sui civili che alimentano la narrativa degli estremisti come Al Nusra (legata ad Al Qaida n.d.r.) e l’Isis. Per loro questi sono tutti argomenti per dimostrare che gli interventi esterni colpiscono la popolazione e sono soltanto a sostegno di Assad: l’azione della Russia non è diretta alla stabilizzazione, ma è un contributo alla propaganda dei jihadisti in Siria e in tutta la regione».
Scorrendo il documento dell’onorevole Andrea Manciulli approvato dall’assemblea parlamentare Nato si afferma che l’Isis non scomparirà con la sconfitta militare ma resterà una minaccia internazionale, anche in Europa. Cosa ne pensa McGurk? «Sono d’accordo. È necessario combatterne la propaganda e presentare una contro-narrativa volta a mostrare il movimento terroristico come “la squadra perdente”». E così che Brett McGurk, 43 anni, sfila via nel Transatlantico di Montecitorio, consapevole che con la Russia in campo, gli interessi occidentali e alleati come turchi, iracheni, curdi, non si potrà liquidare il Medio Oriente con due battute come fecero Lloyd George e Clémenceau.
Il Sole 29.10.16
Perché la Russia forte «piace» anche alla Nato
Sovrastimare Mosca aiuta a rilanciare le spese militari
di Gianandrea Gaiani

Il linguaggio della Nato e soprattutto dei suoi “principali azionisti” anglo-americani ricorda quello dei primi anni 80 quando le tensioni con il Blocco Sovietico erano alle stelle a causa dell’invasione russa dell’Afghanistan e dei missili balistici a medio raggio schierati in Europa.
Ci sono mappe fatte circolare dalla Nato in cui si indicano le direttrici d’invasione delle Repubbliche Baltiche da parte delle divisioni russe: ipotesi probabile quanto un’invasione degli alieni, ma funzionale a soffiare sul fuoco della rinnovata minaccia sul “fronte orientale”, come il linguaggio della Nato ha cominciato a chiamare con toni bellici quell’area geografica da dopo lo scoppio della crisi in Ucraina.
Se a Mosca non mancano i toni patriottici esasperati e si tornano a effettuare esercitazioni di protezione civile degne dell’epoca in cui l’olocausto nucleare non era un’ipotesi così remota, Washington e Londra stanno gonfiando le capacità militari russe con il chiaro obiettivo di rilanciare la spesa militare, nazionale e dei partner della Nato che, dopo anni di calo costante, torna oggi a crescere sull’onda della rinnovata minaccia di Mosca.
Così la flotta di 8 navi russe che dal Mare Artico dirige verso le acque siriane guidata dalla portaerei Kuznetsov viene dipinta come una poderosa minaccia al punto che la Nato ha indotto Madrid a ritirare il permesso di sosta per rifornimento nel porto spagnolo di Ceuta, sulla costa marocchina, da anni frequentati dalle navi militari russe in transito. Ridicolo però ingigantire le capacità della vecchia e piena di acciacchi Kuznetsov, unica portaerei di Mosca con a bordo una ventina di cacciabombardieri, quando solo gli Usa schierano 10 portaerei ben più grandi e capaci dell’unità russa più 9 portaelicotteri impiegabili come “piccole portaerei”.
La gran parte delle navi da guerra russe, pur se rimodernate, risalgono all’era sovietica e se è vero che Mosca sta investendo risorse nel rinnovo delle sue forze militari non si può ignorare che le spese militari russe restano intorno ai 100 miliardi di dollari annui, pari a un sesto degli Usa e a un nono della Nato nel suo complesso.
Anche l’allarme per le 2 corvette Buyan armate di missili da crociera Kalibr entrate nel Baltico è stato presentato dalla Nato come una nuova minaccia diretta ai Paesi della regione quando fin dall’avvio della costruzione di queste nuove navi tre esemplari erano stati assegnati alla flotta del Baltico. Inoltre tutte le navi da combattimento statunitensi imbarcano missili da crociera, incluse quelle schierate a ridosso della Russia.
Il nuovo missile balistico intercontinentale russo RS-28, mostrato in fotografia pochi giorni or sono, sostituirà gli SS-18 in servizio dal 1975 rinnovando un arsenale nucleare ormai decrepito con un’arma dal grande potere distruttivo grazie alle sue testate atomiche multiple (fino a 16) ma soprattutto in grado sulla carta di sfuggire ai sistemi di intercettazione statunitensi con l’obiettivo di mantenere il principio di deterrenza che per 70 anni ha impedito che la guerra fredda diventasse “calda”.
Certo Mosca non esita a mostrare muscoli e bandiera anche in modo aggressivo ma non può sfuggire il fatto che, dall’Ucraina alla Siria, sta giocando in difesa cercando di sostenere i suoi alleati e mantenere le sue prerogative strategiche assumendo il controllo della Crimea le cui basi militari sono necessarie a sostenere la proiezione di forze nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano. Come sosteneva nel 1997 Zbigniew Brzezinski (consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Usa Jimmy Carter), senza l’Ucraina nella sua orbita d’influenza la Russia cessa di essere una potenza euroasiatica. Negli ultimi anni è stata la Nato ad allargarsi verso i confini russi non la Russia ad espandersi a Occidente e le richieste di entrare nell’alleanza formulate da Ucraina e Georgia come le possibili adesioni di Finlandia e Svezia (militarmente sempre più integrate con la Nato) non possono che rafforzare la “sindrome d’accerchiamento” del Cremlino.
Lo “scudo antimissile” schierato dagli Usa in Polonia e Romania ha evidentemente poco a che fare con una minaccia missilistica iraniana oggi più che mai anacronistica ma i suoi radar possono esplorare in profondità lo spazio aereo di Mosca e i suoi lanciatori possono impiegare non solo vettori antimissile ma anche ben più offensivi missili da crociera.
Per questo lo schieramento dei missili balistici a medio raggio Iskander nell’enclave russa di Kaliningrad non può essere considerata una iniziativa aggressiva ma solo una risposta allo “scudo” in un’ottica di deterrenza.
L’intervento in Siria ha un duplice ruolo difensivo: proteggere un alleato che da anni consente alla flotta russa di avere la sua unica base nel Mediterraneo e impedire che il trionfo dei jihadisti a Damasco consenta di aumentare la pressione dell’eversione islamica nel Caucaso russo.
Per questo è paradossale vedere Usa ed Europa censurare pesantemente Mosca perché fa la guerra a milizie jihadiste tra le quali vi sono qaedisti e Isis che dovrebbero essere considerate nemiche anche dall’Occidente e ben più intensamente attaccate dalla blanda coalizione a guida statunitense presente in Iraq e Siria.
In questo ambito suscita qualche perplessità l’accusa di provocare vittime civili ad Aleppo formulata dai partner della Nato che dalla Serbia all’Iraq, dall’Afghanistan all’attuale guerra all’Isis hanno provocato e provocano con aerei e droni migliaia di “danni collaterali”.
il manifesto 29.10.16
Astensione in cambio di niente, Rajoy premier grazie al Psoe
Spagna. Al leader Pp oggi basterà l’«appoggio» silenzioso di almeno undici deputati socialisti
di Luca Tancredi Barone

BARCELLONA Stasera verso le nove Mariano Rajoy Brey riacquisirà le piene funzioni di presidente del governo spagnolo. Dopo essere stato sfiduciato dalla maggioranza del Congresso per tre volte di seguito in due mesi, stasera, grazie all’astensione di buona parte dei socialisti, otterrà l’ambita maggioranza di sì che gli permetterà di dare il via al suo secondo governo.
La Spagna è senza esecutivo da più di dieci mesi e la situazione di stallo avrebbe portato lunedì a convocare nuove elezioni il 18 dicembre (non a Natale, grazie a minileggina varata la settimana scorsa) se non si fosse sbloccata oggi.
Il terzo dibattito di investitura a cui si è sottoposto Rajoy giovedì non ha presentato grandi novità. Lui, come nel suo carattere, ha promesso poco e si è mosso ancora meno. Non ne aveva bisogno: il Psoe si è arreso senza chiedere nulla in cambio. Il massimo della concessione del nuovo capo dell’esecutivo è la sospensione di alcuni aspetti di un paio fra le leggi più polemiche, come la riforma educativa, ma senza ritirarne nessuna.
Ha ammesso che è «costretto» a dialogare, ma è difficile immaginare che il suo stile di governo cambi. È vero che non gode più di una maggioranza assoluta, ma nell’architettura costituzionale spagnola il governo ha comunque moltissimo potere e sarà molto difficile, anche volendo, mettergli i bastoni fra le ruote.
Tanto più che l’unica vera arma che ha il Parlamento, cioè la legge di bilancio, si deve approvare entro pochi giorni, e i socialisti non sono certo in condizioni di sollevare obiezioni. Almeno per ora. Dato il sì (dichiaratamente poco convinto) di Ciudadanos, non resta che Unidos Podemos come grande partito di opposizione. Ma, come si è visto nel dibattito di due giorni fa, sia Unidos Podemos che i socialisti hanno dedicato parte del tempo a polemizzare fra di loro, e certamente gli uni senza gli altri non hanno a oggi la possibilità di costruire un’alternativa allo strapotere popolare, anche se orfano di qualche milione di voti.
Al grido di «La Spagna ha bisogno di noi» e «La storia ci darà ragione», come sull’entrata nella Nato e sull’abbandono del marxismo, l’ex fedelissimo di Pedro Sánchez, il portavoce del gruppo parlamentare Antonio Hernando, si è arrampicato sugli specchi per giustificare come il suo «No è no» si è trasformato in un’astensione.
Per la verità, giovedì hanno salvato la faccia votando comunque no: in prima convocazione, nella sessione di investitura il candidato deve raggiungere la maggioranza assoluta dei voti, impossibile nell’attuale scenario. Per cui Rajoy, nonostante il piglio da vincitore, ha incassato per la terza volta 180 no e 170 sì. Ma oggi – in cui basta la maggioranza semplice – le cose cambieranno.
L’unica sorpresa è quanti socialisti disobbediranno al diktat dei dirigenti che gestiscono il partito decapitato. Oltre ai sette catalani, una manciata d’altri ha già dichiarato che voterà No. Mistero sul segretario defenestrato Pedro Sánchez: mentre parlava Hernando al posto suo, lui guardava il telefono senza applaudire.
Difficile credere che possa astenersi dopo quanto successo. D’altra parte, il comitato di gestione del partito ha escluso quella che poteva essere una via d’uscita meno dolorosa per i socialisti: garantire solo 11 astensioni, il minimo per far passare Rajoy, senza costringere gli altri a rimangiarsi il No.
Forse si dimetterà, ma perderebbe visibilità politica nel caso voglia tornare all’assalto della segreteria. Voci di corridoio dicono che se anche lui rompe la disciplina di voto, i «discoli» arriverebbero alla ventina, un quarto del partito. In ogni caso, la ferita continua aperta.
Intanto l’appoggio di Unidos Podemos alla manifestazione «Circonda il Congresso» sta generando dibattito dentro Podemos (meno in Izquierda Unida): secondo il numero due dei viola, Íñigo Errejón, potrebbe essere un’arma per i loro nemici se, con tanta polizia, succede qualsiasi cosa.
Appena il re firmerà la nomina, scatta il totonomi: ufficialmente nessuno si fa avanti, ma la lotta dietro le quinte è aperta: almeno alcuni dei ministri più criticati, quello degli interni in primis, potrebbero essere lasciati fuori. Ma con Rajoy, nemico dei cambiamenti, non si può mai sapere.