sabato 14 aprile 2018

il manifesto 14.4.18
Manfred Spitzer: «il rischio è la demenza digitale»
Un'intervista con il direttore della Clinica psichiatrica e del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm, già professore ad Harvard e autore di numerosi saggi che focalizzano diversi problemi legati all’utilizzo massiccio di digital media
di Michele Coralli


Non solamente violazioni della privacy, ma anche danni alla salute. Mai come in questo momento il mondo digitale sembra essere messo sotto accusa. E si tratta di accuse pesanti, soprattutto per quanto riguarda le conseguenze sulle future generazioni. A dirlo è Manfred Spitzer, direttore della Clinica psichiatrica e del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm, già professore ad Harvard e autore di numerosi saggi che focalizzano diversi problemi legati all’utilizzo massiccio di digital media (Demenza digitale e Solitudine digitale, per Corbaccio). La tesi è lapidaria: l’abuso dei nuovi strumenti rende «malati» e gli effetti creano conseguenze drammatiche, sia sulle capacità cognitive che sull’empatia necessaria per avere rapporti sociali fisiologici.
Professor Spitzer, quali sono i dispositivi che causano demenza e solitudine?
Attualmente il più tossico è lo smartphone perché ha più di 4 miliardi di utenti. È connessione costante e fruizione informatica permanente. Si può giocare, guardare video e televisione. La questione più critica è quella di dare questi apparecchi ai bambini senza alcuna supervisione, prima che essi siano maggiorenni.
Sembra che lei stia parlando di qualcosa di molto simile a una droga…
Di fatto lo è. Coloro che hanno una dipendenza da facebook attivano i medesimi centri cerebrali. Sappiamo con certezza che non è un problema di come rappresentare questa dipendenza. Abbiamo le diagnosi. Quindi penso che dovremmo trattare gli smartphone come facciamo con fumo e alcool.
Lei è molto critico anche sull’uso del computer nelle scuole…
Sì, i ragazzi non imparano meglio attraverso i computer. Questo è stato dimostrato innumerevoli volte. I bambini entrano in multitasking ovvero si distraggono e non seguono in modo corretto. Il computer così non velocizza l’apprendimento, né lo incrementa.
In Italia il sistema educativo a molti sembra antiquato.
Non c’è niente di male nei sistemi educativi antiquati. Lo ripeto: il computer non va bene per imparare. Quando hai un’attività mentale esterna (outsearched mental activity), questa non prende posto all’interno del tuo cervello. Mentre è proprio quell’attività a coincidere con l’apprendimento, altrimenti non impari. Per esempio, se fai un esercizio aritmetico nella tua testa, lo apprendi. La stessa cosa vale per l’ortografia. Se non si allena la specifica area del cervello chiamata ippocampo, si diventerà molto meno in grado di imparare.
Come è la situazione in Germania?
Diverse persone che lavorano in ambito economico oggi si accorgono che molti giovani che iniziano a lavorare non sono più in grado di calcolare percentuali o frazioni, anche se in possesso di maturità. Quindi la Germania dei prossimi 20 anni potrebbe essere destinata a perdere capacità nelle esportazioni.
Quindi cosa possiamo fare?
Il fattore di rischio preminente nello sviluppo della demenza è l’educazione. Più sei istruito, più sei protetto. Oggi abbiamo bisogno di riavviarla senza i computer, non «googleando» ogni cosa, perché non si può usare Google se non si sa nulla. Spesso il cervello viene paragonato a un computer, ma è completamente sbagliato. Il cervello non ha una Cpu e nemmeno un disco fisso. Ci sono cento miliardi di neuroni che si parlano, cambiando le loro interconnessioni. Questi cambiamenti consistono nella memoria, il parlarsi tra loro nell’elaborazione. Non c’è differenza tra elaborazione (processing) e stoccaggio (storage). Quando si parte da una mente istruita la demenza può arrivare anche 200 anni dopo. Ma come in ogni discesa, dipende da che altezza si parte: più si è in alto, più ci vorrà tempo per arrivare in fondo.
Repubblica 14.4.18
Grandi classici
Il latino è più vivo che mai. Ora anche in hit parade
Corsi per manager in lingua, riviste di enigmistica. E ora anche un libro che traduce i successi pop
di Irene Maria Scalise


Ballare al ritmo di «Vah! Sumus in medio Itinere, vah! vivimus in prece », cantata da Bon Jovi? Si può. Commuoversi ascoltando «Sunt septem horae et quindecim dies ex quo sustulisti amorem » di Sinéad O’Connor? Fatto. Benvenuti nel magico mondo del Pop turns Latin. Sono centinaia i testi pop tradotti nel libro Latin Rocks On della linguista Sarah Rowley (una laurea in lettere antiche ad Oxford), amministratrice della pagina twitter @Latin-RocksOn. Chi invece preferisce l’enigmistica può sbizzarrirsi con Hebdomada Aegnigmatum, parole crociate 2.0 nella lingua di Virgilio. Se poi l’obiettivo è fare affari, allora meglio iscriversi al corso Business Latin – il latino per il manager moderno, previsto per il mese di maggio a Roma. Anche le discussioni a scuola e i messaggini con i compagni si possono scambiare ora in “ latino vivo”. E c’è il Latin Camp per impratichirsi in estate. A quanto pare, le lingue morte non sono morte per nulla. Anzi, sono così appassionati i tweet di chi segue LatinRocksOn, che molti professori hanno deciso di usare le traduzioni di Rihanna o Madonna nelle scuole. «Ho avuto l’idea di tradurre le canzoni in latino - spiega Rowley - dopo aver spiegato, inutilmente, ai miei amici quanta gioia mi aveva dato negli anni studiarlo. E poiché la musica è un fattore di unione, ho pensato di sdoganare il latino in musica per renderlo più accessibile».
Perché studiare latino come se fosse una lingua viva nel 2018? «È incredibilmente utile per i bambini - aggiunge Rowley - ma è importante anche per gli adulti perché è una combinazione meravigliosa di logica e matematica ed è un linguaggio creativo e fantasioso» . Il ricavato delle vendite del libro, che contiene più di cento canzoni, sarà devoluto in beneficenza all’associazione Classic For Alls che raccoglie fondi per incentivare nelle scuole lo studio dei classici».
È invece arrivata a 10 mila iscritti in tutto il mondo Hebdomada Aenigmatum, la prima rivista di enigmistica in latino. Racconta il fondatore Luca Desiata: «Contiene cruciverba, rebus, crucipuzzle, giochi di parole, una striscia di Snupius e un Sudoku coi numeri romani. Sono iscritti appassionati di ogni età e, dal 2016, abbiamo lanciato la versione in greco antico chiamata Onomata Kechiasmena » . C’è anche una radio finlandese che trasmette per alcuni miniti le notizie del giorno nella lingua di Cicerone.
E se nei colloqui di lavoro il latino fa curriculum, ed è sempre più spesso apprezzato al momento delle assunzioni perché denota un approccio logico, in molte scuole si sta diffondendo l’insegnamento del “ latino vivo”. Il primo a suggerirlo è stato il linguista danese Hans Henning Orberg. Il metodo è portato in Italia da Luigi Miraglia, direttore dell’Accademia Vivarium Novum. Funziona così: tra i ragazzi si punta alla padronanza linguistica, prima di quella grammaticale. In pratica si chiacchiera e si scherza in latino senza irrigidirsi se c’è qualche errore. Infine, per non perdere il passo in estate, spopolano i Latin Camp. Simili ai nostri English Camp, permettono ai ragazzi di studiare i lirici latini al costo di 700 euro a settimana.
Repubblica 14.4.18
Revisionismi
L’Europa assalita dai vuoti di memoria
Il mito del ratto di Europa in un dipinto greco antico
di Simonetta Fiori


Non è stato facile costruirla. E oggi non è facile difenderla dalle critiche di segno diverso che piovono da svariate parti del vecchio continente, a cominciare dal Regno Unito e dai paesi dell’Est, e ora anche dall’Italia. Nella Casa della storia europea il condominio appare piuttosto agitato. E non potrebbe essere altrimenti: tra Brexit, pulsioni separatiste e l’onda nera di Orbán non tira aria da Inno alla gioia e tanto meno da celebrazioni memoriali condivise. Ed è proprio per queste fibrillazioni che il museo di Bruxelles – nato con l’obiettivo di dare un fondamento storico alla nozione di cittadinanza europea – appare una sfida necessaria. Ma in che modo è stato realizzato? Qual è l’idea di Europa che scaturisce da questo progetto, il più grande investimento del Parlamento sul piano della politica della memoria? E — questione centrale — è possibile il racconto condiviso di una comune storia europea, tra le infinite lacerazioni politiche e religiose che segnano passato e presente?
Che la questione sia complessa è dimostrato anche dalla difficile gestazione dell’House of European History, proposta nel 2007 dall’allora presidente Hans Gert Pöttering e inaugurata solo lo scorso anno dopo un finanziamento di 56 milioni di euro e un lavoro politico-culturale rimasto sotterraneo: anche questa una scelta contestata da chi avrebbe preferito un confronto più aperto e trasparente tra gli storici.
Quale il risultato dopo dieci anni di discussioni? Marcello Verga, presidente dell’Istituto di storia mediterranea al Cnr e da sempre attento alle politiche della memoria della Ue, ne sottolinea il profilo sfocato, come se per approdare a un passato comune si fosse lavorato nella direzione di una sottrazione dei valori e dei simboli della “storia d’Europa”. «Ne è scaturito un progetto di storia politica tra il XIX e il XX secolo per molti versi senz’anima, senza le donne e gli uomini in carne d’ossa, senza un chiaro punto di vista che non sia una generica linea di progresso e di affermazione dei valori di libertà». Una storia che rinuncia ad affrontare i nodi più problematici di questa parte del mondo. «Può sorprendere che nei cinque piani del bel palazzo Eastman non si parli mai né di religione né di migrazione. E colpisce che il discorso sulla colonizzazione riesca volutamente ambiguo. L’assenza di ogni riferimento alla religione vuol forse dire che si intende proporre una storia d’Europa all’insegna della secolarizzazione? O significa piuttosto la rinuncia della Casa a confrontarsi con uno degli elementi che più caratterizzano l’heritage europeo?».
Ma è possibile raccontare in modo condiviso la storia di centinaia di milioni di uomini e donne che sono stati separati da guerre e mille altri conflitti? «Io credo di sì», risponde Verga, «ma solo a condizione di non nascondere le divisioni politiche, religiose e culturali che sono parte essenziale del loro patrimonio. E a condizione di assumere, sia pure attraverso un racconto espositivo unitario, una pluralità di punti di osservazione della storia europea. La casa di Bruxelles sembra assumere una prospettiva continentale che guarda all’area mediterranea dal Nord come fosse una sorta di periferia della vera storia europea e ancora all’Europa dell’Est come fosse l’Oriente d’Europa». Anche lo storico Carlo Spagnolo, che alle memorie divise d’Europa ha dedicato un fascicolo della rivista Ricerche storiche, contesta alla Maison di Bruxelles uno sguardo incompatibile con la nozione di casa comune. «Una casa allude alla costruzione di una comunità, quindi dovrebbe riconoscere dignità a prospettive contrastanti.
Altrimenti il rischio è di fare l’apologetica dell’esistente, quasi non ci fossero state alternative, scelte costose e conflitti che ci portiamo dentro e possono riaffiorare in fasi di profondi cambiamenti». Sul piano culturale, secondo Spagnolo, il limite principale consiste nell’assimilare la storia d’Europa alla storia dell’integrazione europea. «Si tratta invece di due vicende diverse e persino opposte». Ma il punto che gli appare più debole è il ricorso al totalitarismo come direttrice memoriale. «Il totalitarismo non è un concetto univoco. E usare oggi una nozione così ricca di significati diversi rischia di riaccendere i conflitti che si vorrebbe superare. In altre parole, una storia d’Europa che muova dal totalitarismo corrisponde a una lettura autocritica del passato da parte della Germania ma non è adeguata a rendere conto delle esperienze di molti altri paesi europei». Il rischio – ha rilevato altrove Filippo Focardi – è di rigettare tutte le colpe sui tedeschi (per la Shoah) e sui russi (per il comunismo). Ma in questo modo gli altri paesi non sono sollecitati a fare i conti con le proprie pagine buie. Altri sguardi critici sono emersi durante un dibattito alla Treccani al quale ha partecipato anche Beatrice Dupont, curatrice della Casa venuta in Italia per presentare il museo. «È vero che non c’è stato un confronto largo tra gli storici europei», ammette la studiosa, «ma non oso immaginare il chiasso che ne sarebbe scaturito. E quale sarebbe potuto essere l’esito: un compromesso per rendere tutti contenti?». Secondo Dupont l’unica critica davvero convincente riguarda la mancanza nell’esposizione di un chiaro punto di vista, ma è vista come un’opportunità: «C’è chi ci accusa di preferire l’Europa di Hitler e Stalin a quella di Gutenberg o Chopin. Ma c’è anche chi si sorprende perché si aspettava un museo di propaganda e invece si è ritrovato davanti un discorso critico sull’Europa». La scelta di non dare delle risposte definitive e di lasciare molto spazio a domande aperte «non è una soluzione museale facile», dice Dupont. «Ma l’abbiamo ritenuta utile nel contesto attuale dell’Unione Europea». Una storia con molti interrogativi e poche risposte certe: anche questo uno specchio inquietante della nostra attuale condizione di europei.
Repubblica 14.4.18
I segreti del primo uomo nello spazio l’archivio di Gagarin pubblicato online
L’iniziativa del ministero della Difesa russo a mezzo secolo dalla scomparsa dell’astronauta
di Rosalba Castelletti


MOSCA Carattere tranquillo e gioioso», «socievole con i compagni e gentile ed educato nei rapporti umani», «devoto alla causa del partito e alla madrepatria socialista». Sono alcune delle qualità attribuite al giovane Jurij Gagarin, il primo uomo a conquistare lo spazio a bordo della Vostok 1, dal Centro di addestramento per cosmonauti che oggi porta il suo nome. La valutazione è uno dei documenti diffusi su Internet dal ministero della Difesa russo a 57 anni dal volo in orbita attorno alla Terra: ottantotto minuti appena per entrare nella storia.
Il giudizio riporta anche l’altezza, 165 centimetri, e il peso, 68 chilogrammi. Gagarin, si nota, è «in buona salute e forma fisica».
Ex giocatore di basket, ha dimostrato una «buona coordinazione di movimenti» e non si è ammalato un sol giorno nel 1960. «Di etnia russa e origini contadine», Jurij Alekseevich viene descritto come «comunicativo», «socievole», «tenace», «disciplinato», «ottimista» e «dall’umorismo sano». «Ha una buona condotta militare e un bell’aspetto», prosegue il giudizio che conclude che, con un voto medio 4,8 su 5, Gagarin è uno degli allievi «più preparati» del Centro di addestramento. Farà parte del gruppo di ventuno candidati selezionati nel 1960 per i primi voli spaziali del programma Vostok e l’anno dopo diverrà il primo uomo a superare i confini dell’atmosfera.
La “kharakteristica” di Gagarin, la valutazione che accompagnava l’homo sovieticus a ogni passaggio di carriera, era stata declassificata già nel 2009, ma è ora disponibile a un più ampio pubblico grazie alla pagina web camera. mil. ru/ gagarin2018.
Sul sito è possibile trovare anche lo stato di servizio militare di Gagarin, in cui sono riportati in ordine cronologico tutti i cambiamenti nella vita civile e militare dell’ufficiale di carriera.
Al punto 29, ad esempio, è stato aggiunto a mano il nome della moglie, Valentina Goriaciova, e delle due figlie, Elena e Galina.
Ci sono inoltre gli ordini con cui il ministero della Difesa dell’Urss gli conferì il grado di luogotenente il 5 novembre 1957 e, il 12 aprile 1961, giorno del suo leggendario volo, quello di maggiore saltando il grado di capitano. “Pojekhali!”, “Partiamo!”, fu la prima parola pronunciata da Gagarin al distacco dalla piattaforma. Poi, in orbita, la celebre frase: «Vedo la Terra azzurra». Fu decorato da Nikita Krusciov con l’Ordine di Lenin, la massima onorificenza sovietica, e diventò eroe nazionale dell’Unione Sovietica.
Altri due documenti del 1961 riportano il via libera del capo della sua unità militare ai suoi viaggi nell’Est e Ovest Europa, a Cuba, in Canada e Brasile: il tour nel mondo voluto dai vertici del Partito comunista. Vi sono infine ritagli di articoli di giornali in lingua inglese sulla storica impresa compiuta da Gagarin a soli 27 anni. Il sito del ministero della Difesa evidenzia e traduce in russo uno stralcio del Pakistan Time che recita: «Tutta l’umanità sarà orgogliosa dell’impresa sovietica di aver lanciato un uomo nello spazio e averlo riportato indietro in vita». In un altro passaggio sottolineato, viene citato un esperto norvegese, Erik Tandberg, che definisce il volo «un nuovo trionfo sovietico».
Cinquantasette anni dopo, come ha rivelato lo scorso gennaio un sondaggio dell’istituto Vtsiom, quel giovane socievole e gioioso resta l’«idolo della Russia del Ventesimo secolo». Quest’anno è caduto anche un altro anniversario: il cinquantenario della sua scomparsa. Jurij aveva solo 34 anni. Un incidente aereo gli tolse la vita il 27 marzo del 1968. Il primo uomo a volare tra le stelle morì in cielo.
il manifesto 14.4.18
Statua di Marx a Treviri, un regalo dalla Cina
di S. Can.


BERLINO Polemiche a Treviri per la statua di Karl Marx che sarà posata in centro storico il 5 maggio per celebrare il 200 esimo anniversario. Alta 6 metri, pesante oltre 2 tonnellate porta la firma dell’artista Wu Weishan ed è stata donata dalla Repubblica popolare cinese.
È stata accettata solo dopo un lungo dibattito in consiglio comunale: da una parte Ulrich Delius, direttore della Società per i popoli minacciati, che denunciava il «regalo velenoso»; dall’altra il sindaco Wolfram Leibe che ha difeso il «filosofo Marx: uno dei più grandi cittadini di questa città che non dovremmo mai nascondere».
Repubblica 14.4.18
Amnesty denuncia
Cina, più condanne a morte che in tutto il resto del mondo
di Filippo Santelli


PECHINO, CINA Quantificare in maniera precisa non è possibile, per Pechino resta un segreto di Stato. Ma Amnesty International non ha dubbi: nel 2017, ancora una volta, il boia della Cina è stato il più impegnato al mondo, eseguendo «più condanne a morte che tutti gli altri Paesi messi insieme». «Migliaia» di persone destinate alla pena capitale, stima l’organizzazione nel suo ultimo report sulla base di notizie raccolte e sentenze ufficiali depositate, contro le 993 giustiziate nel resto del globo (-4% rispetto al 2016).
Scrive Amnesty che la Cina ha introdotto maggiori garanzie su equo processo e confessioni coatte. La pena di morte però resta applicabile per 46 reati diversi, di cui molti non violenti. Diminuiscono le esecuzioni legate a reati economici come la corruzione, ma restano frequenti nei casi di omicidio e traffico di droga, comprese due “esibizioni di massa” in cui a 23 persone sono state lette le sentenze di fronte a migliaia di spettatori. E a preoccupare in maniera particolare Amnesty è un ulteriore buco nero di informazione nel buco nero cinese, quello che riguarda la regione dello Xinjiang, popolata da una minoranza musulmana per cui il regime, sotto l’insegna della lotta al terrorismo, ha introdotto durissime misure di sicurezza. Solo una sentenza capitale è stata depositata, scrive Amnesty, lasciando intendere che molte altre potrebbero essere state eseguite nel silenzio.
La Stampa 14.4.18
Boldrini e Asia Argento a New York
“Eroine in Usa, insultate in Italia”
La deputata e l’attrice al centro del Women in The World di Tina Brown
di Carole Hallac


Il Women in the World Summit, l’annuale conferenza su tematiche femminili organizzata dalla giornalista Tina Brown, si è aperta con l’audio della registrazione segreta di Ambra Battilana Gutierrez, la modella italiana che ha collaborato con le autorità per incastrare Harvey Weinstein. Le voce supplicante di Gutierrez che cerca di fermare le avances insistenti del produttore fanno rabbrividire il pubblico nell’auditorio del Lincoln Center, in gran parte femminile.
Il movimento #MeToo è al centro della conferenza a cui partecipano anche il Premio Oscar Viola Davis, Hillary Clinton e la first lady canadese Trudeau. Ad affrontare il tema degli abusi sessuali è Ronan Farrow, il figlio di Woody Allen che con il suo reportage sul «New Yorker» ha aperto il caso Weinstein. Nel mirino, questa volta, c’è la misoginia in Italia, raccontata dalla stessa Gutierrez, da Asia Argento e da Laura Boldrini, tre donne che hanno in comune anni di attacchi e insulti sui social media. «Siamo eroine, ma non in Italia, solo nel resto del mondo», ha detto la Argento, la cui testimonianza ha aiutato Ronan Farrow a realizzare l’articolo incriminante su Weinstein. Una situazione paradossale, secondo Farrow, che vuole fare luce sulla «cultura tossica» del Belpaese sotto la proiezione di una grande bandiera tricolore.
Boldrini ha condiviso le violente intimidazioni subite per aver difeso i diritti delle donne e degli emigrati: la sua effige bruciata in piazza, il sindaco che le augura di essere violentata dagli emigranti, Salvini che la ritrae con una bambola gonfiabile, gli attacchi di Grillo che ha chiesto ai suoi milioni di follower «cosa fareste alla Boldrini se fosse con voi in macchina?», fino a ricevere una pallottola per posta e minacce sulla pagina Facebook di sua figlia.
La parlamentare ha spiegato come in Italia esistono valide associazioni per le donne, ma sono piccole e non molto influenti, e che i media sono più interessati a coprire movimenti femminili all’estero, come #MeToo. «Da noi le donne hanno paura a denunciare il molestatore - ha detto -. Hanno paura di non essere credute. Temono che se parlano perderanno il posto di lavoro. È la prova di un forte pregiudizio contro le donne in un Paese dove 9 milioni di donne hanno subito aggressioni sessuali sul lavoro, 3,5 milioni sono vittime di stalking e ogni 60 ore una donna viene uccisa dal marito o compagno».
Asia Argento ha aperto il suo articolo scritto in occasione della conferenza con alcuni degli attacchi subiti dopo aver denunciato Weinstein: «Puttana, bugiarda, traditrice, opportunista. Quello che è venuto fuori dall’Italia era così disgustoso - denuncia dal palco l’attrice - come mettere il dito nella piaga».
Lo stesso Farrow ha pregato la Argento di lasciare il Paese dopo il contraccolpo subito a seguito dell’articolo del «New Yorker», mentre Boldrini l’ha incoraggiata a restare e combattere insieme alle altre donne. «Gli attacchi verso di me hanno gettato benzina sul fuoco - spiega l’attrice -. La sofferenza di essere non capita mi ha resa ancora più guerriera e mi fa sentire unita alle altre donne, sorelle, con cui condivido lo stesso trauma. Continueremo a combattere».
il manifesto 14.4.18
La Germania «scopre» i nazisti nell’esercito
Caserme nere. Svastiche, «Heil Hitler» e canti Ss: esaminati 431 casi nelle forze armate tedesche. La ministra della Difesa: «Tolleranza zero»
di Sebastiano Canetta


BERLINO Caserme nere: l’esercito di nazisti incistato nelle forze armate tedesche. Mezzo migliaio di militari di carriera che hanno giurato fedeltà alla Bundesrepublik ma rimangono fedeli solo agli ideali del Terzo Reich. Soldati in servizio armato, operativi ogni giorno nelle basi in Germania quanto nella cornice delle missioni Nato in Afghanistan o Africa e sul fronte del reclutamento come provano i 23 nuovi arruolati dall’inizio dell’anno.
Camerati con la doppia divisa, che si raccontano senza segreti ma giusto ai microfoni nascosti piazzati dal Mad (il servizio d’intelligence militare) e solo grazie a un’interrogazione parlamentare della Linke. «Abbiamo solamente bisogno di fare il vaccino contro la febbre gialla, poi andiamo in Mali e spariamo in testa ai negri» è la più sintomatica delle intercettazioni all’attenzione del Bundestag.
È il primo caso politico della legislatura per la ministra della Difesa Ursula Von der Leyen (Cdu) appena riconfermata dalla cancelliera Angela Merkel. Ed è anche il «solito» vecchio problema della mancata epurazione del nazismo, che a Berlino non si risolve neppure dopo aver ascoltato le registrazioni degli altri 431 eventi analoghi ammessi ufficialmente dal governo.
In attesa che «chi esibisce la svastica venga buttato fuori dall’esercito», come pretende la deputata Linke Ulla Jelpke, vale la pena di scorrere l’istantanea dell’ultimo cunicolo del verminaio nero illuminato dalla recente indagine degli agenti del Mad. Saltano agli occhi le bandiere rosse con la croce uncinata appese alle pareti dei dormitori, si può ascoltare il nazirock in libera uscita dalle radio di ufficiali e graduati, si registrano i video postati sul web dalla caserma scanditi da «Heil Hitler» e dai canti delle SS, come quello rimbalzato sui media locali.
È la Bundeswehr in formato Wermacht sfuggita al controllo della Grande coalizione che ha governato nell’ultimo lustro, scappata letteralmente di mano ai vertici delle forze armate incapaci anche solo di rallentare il fenomeno: solo l’anno scorso sono venuti a galla 289 nuovi casi della «palude bruna» denunciata dalla Linke in Parlamento. Tolleranza zero è l’ennesima richiesta alla ministra Von der Leyen, che dovrebbe smettere di «chiudere un occhio e agire, invece, per asciugare il pantano nero tra le truppe» riassume Jelpke, delegata agli Interni.
«Fino a oggi c’è stata troppa indulgenza da parte dei comandanti delle caserme nei confronti di chi dispone di un’arma da fuoco: sia con i nazisti che con i Reichsbürger» (gli estremisti di destra che non riconoscono la Repubblica federale).
La verità è che «le forze armate in Germania hanno un problema con la destra» fa notare la Linke; una vera e propria patologia squadernata nei faldoni con le intercettazioni telefoniche infarcite di battute xenofobe e considerazioni oltre i limiti della legge. Malattia apparentemente incurabile, come prova il nulla di fatto seguito alla passata denuncia della galassia neo-nazista infiltrata nell’esercito (raccontata lo scorso novembre dal manifesto) emersa con l’«Informativa sulle attività anti-costituzionali nelle forze armate» allegata alla risposta del governo Merkel all’interrogazione dei Verdi.
Appena qualche mese prima era scoppiato il clamoroso scandalo del tenente Franco Albrecht, aggregato nel 2009 all’Accademia militare francese di Saint Cyr dove si era diplomato con una tesi sulla «strategia di cambiamento politico e sovversione» prima di spacciarsi per rifugiato siriano in un centro-profughi dell’Assia. Faceva il paio con la tecnica della «False-Flag», gli attentati con falsa rivendicazione per far ricadere la responsabilità sui rifugiati, pianificati a inizio maggio da Maximilian T., di stanza proprio allo stesso reparto Albrecht a Strasburgo. Secondo la procura di Karlsruhe «preparava il piano per un attacco alla sicurezza nazionale in nome dell’ideologia di estrema destra». All’epoca nell’alloggio del soldato neo-nazista spuntò perfino la lista dettagliata dei target istituzionali: dal ministro socialdemocratico della giustizia all’ex presidente della Repubblica. Solo in quel momento la ministra Von der Leyen si convinse a ordinare l’immediata perquisizione delle caserme nei 16 Land, denunciando in parallelo l’«inattività» dei vertici dell’esercito. Da allora non è cambiato niente.
il manifesto 14.4.18
Mattarella nella palude
di Norma Rangeri


«Valuterò come uscire dallo stallo». Il verbo è declinato al futuro. Alla fine del secondo giro di consultazioni, il presidente Mattarella assicura che troverà il modo perché «si concluda positivamente il confronto tra i partiti». Il Quirinale prende ancora tempo e si appella a tutti gli attori della trattativa perché si facciano carico del bisogno del paese di avere «un governo nel pieno delle sue funzioni». Il presidente del consiglio e i ministri prossimi venturi dovrebbero, questo l’auspicio del Colle, essere indicati da una mediazione tra i partiti. La parola chiave è «stallo», anche se l’impressione è quella di essere scivolati ormai in una palude.
La scelta di non affidare subito a una figura istituzionale come la presidente del senato Casellati, un incarico esplorativo per smuovere le acque, ha lasciato un po’ spiazzati i 5Stelle. Che già si erano ritrovati con le spalle al muro dopo aver visto sfumare, in diretta televisiva, la promessa del leader della Lega di servire sul piatto la testa di Berlusconi.
Magari una berlusconiana di ferro potrebbe trovare il modo di consigliare Berlusconi a mollare un po’ la presa per far nascere un governo con i 5Stelle. Con scarse possibilità di riuscita nei confronti di chi sembra tornato al gusto della performance e alla tecnica del giocoliere, per niente intenzionato a farsi da parte. Va in Molise per prendere qualche voto, così come Salvini batte le piazze del Friuli per vincere a mani basse ai danni di Forza Italia.
Nessuno dei due locali test elettorali giocherà un ruolo decisivo nella contesa interna al centrodestra. Piuttosto ruvida se a Salvini arriva anche l’avvertimento, dal giornale di famiglia, a non superare il confine tra «cambiamento e tradimento». Naturalmente detto «per il suo bene».
Se la missione di esploratore fosse invece affidata alla terza carica dello stato, il pentastellato presidente della camera, Fico, in questo caso a doversi mostrare ragionevole dovrebbe essere chi rivendica 11 milioni di voti, convincendosi a togliere di mezzo quel «o io o il diluvio».
Invece Mattarella, per il momento e fino alla prossima settimana, lascia tranquilli i presidenti di camera e senato, e rimette la palla nelle mani dei partiti.
Come ha detto ieri il presidente emerito Napolitano, «il compito di Mattarella è difficile e urgente». Difficile perché è chiaro che la soluzione non c’è ancora, e nell’agenda del capo dello stato l’urgenza è data dalle impegnative priorità di carattere economico sociale, e internazionale con la guerra alle porte di casa.
Chissà se, a parte la solidarietà, offerta al suo successore, Napolitano abbia anche dispensato qualche buon consiglio. Quando lui si trovò in una situazione difficile, chiamò una «riserva della repubblica» e gli affidò la guida del governo. Ma oggi, un “governo del presidente” vorrebbe dire fingere di non aver sentito il gran botto del 4 marzo. Affidare la soluzione della crisi a una figura che non rappresenti in alcun modo il voto degli elettori, non convince il Quirinale che, infatti, continua a chiamare in causa i partiti.
Se la soluzione per la formazione del governo trova i protagonisti impantanati, i comprimari non lo sono in minor misura. La condizione in cui versa il Pd è così a rischio di spaccatura che Renzi ora chiede (e ottiene) di rinviare l’assemblea nazionale. La giustificazione ufficiale è sempre la stessa: non interferire con le consultazioni. Ma se è vero che dalle parti del Nazareno sono in maggioranza d’accordo nel restare fuori dai giochi per presidiare, a prescindere, i banchi dell’opposizione, non si capisce perché rinviare un’assemblea che dovrebbe ratificare questa scelta e dare un nome e un volto al nuovo segretario.
A meno che Renzi non senta traballare la sua maggioranza, non più così solida da consentirgli di avviare la svolta macroniana e restituirgli in qualche modo lo scettro del comando. Magari da spendere in una ravvicinata campagna elettorale (in primavera si vota comunque per le europee) nel caso di un governo balneare che prepari elezioni anticipate.
il manifesto 14.4.18
Corbyn attacca May: «Prende ordini da Trump»
Labour pacifista. «Londra dovrebbe spingere per un’inchiesta indipendente guidata dall’Onu»
di Leonardo Clausi


LONDRA Nel coro anglo-franco-americano di voci bianche (nell’altro senso) che minaccia un attacco missilistico contro il regime di Assad per punirne l’uso di armi chimiche a Douma col rischio di scatenare così la terza guerra mondiale mentre si è già in piena «seconda» guerra fredda, c’è una voce stonata: è quella di Jeremy Corbyn.
IL LEADER LABOUR ha accusato ieri il governo britannico guidato da Theresa May di «attendere istruzioni» da Donald Trump. «Ma l’amministrazione Usa sta dando allarmanti segnali contradditori», ha poi aggiunto, forse uno dei pochi dati di fatto in mezzo a un guazzabuglio di accuse e contro-accuse dove l’oggettività ha ormai da lungo tempo ceduto il posto alla propaganda. «Altri bombardamenti, altri morti, un’altra guerra non salveranno vite – ha detto Corbyn – faranno solo altre vittime, spargeranno solo la guerra altrove. Londra dovrebbe spingere per un’inchiesta indipendente guidata dall’Onu sull’orrendo attacco con armi chimiche dello scorso fine settimana, così da portare a giudizio i responsabili».
LO STESSO CORBYN, che propende per una soluzione politica, in un’intervista rilasciata alla Bbc ha elencato i rischi di una degenerazione del conflitto: «Cosa succederebbe se gli americani abbattessero un aereo russo o viceversa? Sembra che all’Onu ci sia preoccupazione riguardo una possibile escalation: ebbene, preoccupati dovremmo esserlo tutti. C’è il rischio di una guerra russo-americana nei cieli della Siria». Entrambe le superpotenze «hanno enormi forze e capacità militari: è il momento che tutte e due si rendano conto che devono fermarsi nell’interesse di tutti ed esercitare sui rispettivi alleati nella regione, e fuori, tutta la pressione di cui sono capaci e, nel caso russo, sul governo siriano».
Corbyn è il secondo leader nella storia del Labour a non fare la claque a Washington (il primo fu Harold Wilson durante la guerra del Vietnam) e a muoversi in simbiosi con i Tories in questioni di politica estera e interventi militari. Le sue dichiarazioni giungono a caldo dopo la riunione in cui Theresa May ha ricevuto il benestare del proprio governo sulla necessità di rispondere all’uso di armi chimiche e che questo «non può rimanere impunito». Salvo poi non aggiungere altro, in linea con le oscillazioni via Twitter della politica estera americana.
I RISCHI SONO CHIARI anche ad alcuni deputati conservatori non allineati con il governo sulla questione Siria e che si sono uniti ai laburisti nell’invocare un dibattito parlamentare su possibili iniziative militari britanniche a fianco degli americani e dei francesi. Per via della cosiddetta prerogativa reale, la premier avrebbe la possibilità di far entrare il Paese in guerra senza consultare il Parlamento, ma dopo l’invasione illegale dell’Iraq nel 2003 by Bush & Blair si è giunti a più miti consigli. Il voto parlamentare così informalmente reintrodotto ha consentito di impedire a David Cameron intervenire sempre in Siria, cinque anni fa.
il manifesto 14.4.18
I target del Pentagono: raid su basi senza russi e sanzioni all’Iran
Siria. «Cane pazzo» Mattis si veste da pompiere per evitare lo scontro tra superpotenze. Le ultime opzioni per frenare l’interventismo della Casa bianca: missili su siti dell’esercito siriano, comunicati prima al Cremlino. Il vescovo di Aleppo: «In Siria state facendo quel che avete fatto all’Iraq»
di Chiara Cruciati


La guerra, che sembrava imminente, ha rallentato la corsa. A frenarla è James ’Cane Pazzo’ Mattis, generale dalla biografia non certo pacifista: comandante dei marines in Iraq, protagonista della sanguinosa battaglia di Fallujah, ex responsabile militare Usa per il Medio Oriente e il Nord Africa, «teorico» del piacere di uccidere musulmani, l’attuale capo del Pentagono da incendiario si è fatto pompiere.
In queste ore, febbrili, lavora per evitare l’escalation e soprattutto un devastante scontro con la Russia. Lo fa prendendo tempo, dicendo di voler attendere le prove del presunto attacco chimico, ma soprattutto valutando altre opzioni.
Tra queste, raid su basi dove non sia presente personale russo, centri dove sarebbero depositate armi chimiche (di cui l’Onu nel luglio 2014 aveva però certificato la rimozione) e altre installazioni. Centri militari da cui, secondo il fronte anti-Assad, il governo ha rimosso l’equipaggiamento strategico per spostarlo nelle basi russe di Latakia, Tartus e Hmeimim, nell’idea di salvarli dalla distruzione.
In tutto, secondo gli esperti, gli Usa avrebbero individuato circa dieci target, che verrebbero comunicati prima alla Russia per impedire la deflagrazione di un conflitto ingestibile. Infine, tra le opzioni non belliche, nuove sanzioni economiche a Damasco.
Non solo: Parigi, Londra e Berlino insistono per nuove sanzioni contro l’Iran, forma di pressione nel caso siriano: l’idea è individuare figure legate alla guerra siriana da presentare al presidente Trump in cambio di un attacco.
Intanto ieri lo scontro si è spostato al Palazzo di Vetro. Sono volate parole grosse, sebbene il clima bellico si stia stemperando. Durante il vertice di urgenza del Consiglio di Sicurezza, chiesto giovedì dalla Russia, il più agguerrito è stato l’ambasciatore francese Delattre, voce del bellicoso presidente Macron, che forse nella Siria vede ancora una «proprietà» coloniale a cui imporre il futuro.
«Nel decidere di usare ancora una volta armi chimiche – ha detto Delattre – il regime ha raggiunto un punto di non ritorno. La Francia si farà carico delle proprie responsabilità per porre fine all’intollerabile minaccia alla sicurezza collettiva». Andrebbe ricordato in tale contesto, mentre le potenze occidentali parlano di necessità di intervenire in Siria, che l’intervento è già realtà.
Da sette anni attori internazionali e regionali sono parte attiva del conflitto, tramite la sponsorizzazione attiva (finanziamenti e armi) di milizie di opposizione di matrice per lo più islamista. Parigi ha già bombardato la Siria, dopo la strage del Bataclan, quando colpì Raqqa occupata dallo Stato Islamico per poi abbandonarla alla propria tragedia.
Da parte loro gli Usa hanno ucciso dall’agosto 2014 (quando Obama intervenne a seguito del massacro Isis di yazidi a Sinjar, Iraq, anche loro presto dimenticati) ad aprile 2018 almeno 16.213 civili tra Siria e Iraq, secondo i dati della nota ong di monitoraggio delle vittime di guerra, Airwars.
Dà altri numeri l’ambasciatrice Usa Haley: Damasco, ha detto, ha usato armi chimiche almeno 50 volte dal 2011, senza fonire dettagli o prove. Risponde la Russia con l’ambasciatore Nebenzia che accusa Stati uniti, Francia e Gran Bretagna di utilizzare la montatura del gas (ieri Mosca ha detto di avere le prove che dimostrerebbero la responsabilità del Regno unito nell’imbastire lo «show») per rovesciare il presidente siriano Assad: «Continuiamo a vedere pericolosi preparativi militari per un atto di forza illegale su uno Stato sovrano, che costituirebbe una violazione delle leggi internazionali», ha detto Nebenzia che ha poi chiesto a Washington una de-escalation per impedire «ripercussioni sulla sicurezza mondiale».
Una versione condivisa dal vescovo caldeo di Aleppo e presidente della Caritas siriana, monsignor Audo: «Sia fatta luce su tutto ed emerga la verità, non come hanno fatto con l’Iraq in cui hanno distrutto il paese dicendo che c’erano le armi chimiche. Così come hanno fatto con l’Iraq lo stanno facendo ora con la Siria».
Repubblica 14.4.18
A Gaza un nuovo venerdì di sangue
di Vincenzo Nigro


TEL AVIV, ISRAELE Terzo venerdì di proteste dei palestinesi di Gaza alla frontiera con Israele. È la cosiddetta “marca del ritorno”, una protesta che da Gaza dovrebbe portare a superare i confini di Israele, in quella terra che 70 anni fa in parte era ancora palestinese e oggi è israeliana. I palestinesi però sono costretti a fermarsi prima della recinzione che segna il confine, chi va avanti viene bersagliato dai soldati israeliani, che per non fare avvicinare la folla alla rete sparano proiettili veri e di gomma e lanciano anche centinaia di candelotti lacrimogeni. Le vittime questa volta sarebbero di meno: un morto, rispetto alle decine dei due venerdì scorsi, e circa 700 feriti, fra cui però i colpiti da colpi d’arma da fuoco sono solo alcune decine (gli altri sono intossicati dai gas).
Sulla stampa israeliana, occupata da decine di articoli e analisi in vista del possibile blitz contro Usa in Siria, le valutazioni sulla battaglia di Gaza sono ancora incerte. Sul Jerusalem Post l’ex capo dell’intelligence militare Amos Yadlin ricorda che in effetti «sia Hamas che Israele cantano vittoria a Gaza». Israele perché in effetti i manifestanti per ora non sono riusciti ancora a superare il confine in massa, e l’esercito è riuscito a controllare la situazione, facendo un numero di vittime sempre inferiore.
Hamas invece canta vittoria perché comunque è riuscita ad offrire al popolo di Gaza una dinamica diversa da quella che la Striscia viveva nei mesi scorsi: è stata organizzata una manifestazione a cui migliaia di palestinesi comunque ogni settimana aderiscono. Un evento che distoglie dalla incapacità, dai fallimenti economici e politici del movimento islamico nella gestione della Striscia.
Un collaboratore palestinese dell’agenzia Ansa scriveva di come Hamas abbia organizzato ieri la marcia, con decine di autobus che hanno raccolto manifestanti alla fine dalla preghiera nelle moschee e hanno percorso strade tenute libere dal traffico privato anche per lasciare spazio alle ambulanze.
In questi giorni anche la propaganda di Hamas è cambiata: i cartelloni lungo le strade oltre ad esaltare i “martiri”, i terroristi uccisi in varie azioni, adesso hanno i volti del Mahatma Gandhi, di Martin Luther King e Nelson Mandela.
Leader pacifisti utilizzati da un movimento classificato terroristico dagli Usa e dalla Ue oltre che da Israele.
il manifesto 14.4.18
Gaza, sangue sul Venerdì delle bandiere
Marcia del Ritorno. Almeno un palestinese è stato ucciso e quasi mille feriti, molti dei quali da proiettili, nel terzo venerdì di proteste contro il blocco israeliano della Striscia. Netanyahu e Lieberman si complimentano con esercito e tiratori scelti.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Vogliamo vivere come tutti gli altri nel mondo» si affannava a spiegare ieri ai ‎giornalisti Omar Hamada, un muratore, «siamo venuti qui per farci vedere dal ‎mondo. Con il ‘venerdì delle bandiere’ vogliamo dire che la vita a Gaza è ‎miserabile». Mentre parlava gruppi di giovani dell’accampamento di al Safieh ‎bruciavano e calpestavano bandiere israeliane e davano alle fiamme pneumatici, ‎come il 6 aprile, sollevando grandi nuvole di fumo denso per coprire la visuale ai ‎tiratori scelti israeliani. In un altro dei cinque accampamenti della “Marcia del ‎Ritorno” cominciata a Gaza il 30 marzo, un manifestante è riuscito ad issare una ‎grande bandiera con i colori della Palestina a 25 metri di altezza proprio davanti alle ‎linee di demarcazione con Israele. Decine di metri più dietro migliaia uomini, ‎donne, bambini osservavano, sventolando bandiere, quanto stava accadendo a ‎ridosso delle linee di demarcazione con Israele o erano impegnati nelle attività ‎sociali previste nei tendoni. Nel campo Malaka i più anziani raccontavano e ‎spiegavano la Nakba, la catastrofe palestinese del 1948, ai bambini esortandoli a ‎non dimenticare i villaggi di origine delle loro famiglie. Ma i più piccoli per ore ‎hanno anche giocato al calcio e assistito a corse di cavalli e cammelli. La Marcia del ‎Ritorno è anche questo.‎
 Non per il governo Netanyahu e le forze armate isareliane che ieri hanno ripetuto ‎che la “Marcia del Ritorno” non è resistenza pacifica e popolare ma una iniziativa ‎orchestrata dal movimento islamista Hamas «per compiere attentati terrioristici». E ‎i cecchini che nelle ultime settimane avevano ucciso oltre 30 palestinesi e ferito ‎altre migliaia, ieri non hanno certo smesso di prendere di mira i palestinesi che si ‎avvicinavano, correndo, alle barriere tra Gaza e Israele. Il bilancio di vittime fatto ‎dal ministero della sanità fino a ieri sera parlava di un morto, Islam Herzallah, 28 ‎anni, e quasi mille feriti. Molti sono stati intossicati dai gas lacrimogeni lanciati dai ‎soldati ma tanti altri sono stati colpiti da munizioni vere o ricoperte di gomma. ‎Negli ospedali alcuni sono giunti in condizioni critiche. Tra i feriti 16 paramedici e ‎giornalisti. Le ambulanze hanno fatto la spola per ore tra la fascia orientale di Gaza ‎e gli ospedali dove i medici hanno dovuto fare miracoli di fronte all’alto numero di ‎feriti e cercare di salvare e stabilizzare i più gravi. A nulla è servito l’appello a ‎cessare l’uso della forza lanciato a Israele da Magdalena Mughrabi di Amnesty ‎International. «Nelle ultime due settimane il mondo ha guardato con orrore le forze ‎israeliane – ha denunciato Mughrabi – mentre ricorrevano ad un uso eccessivo e ‎letale della forza contro dimostranti, minorenni inclusi, che invocavano soltanto la ‎fine della politica brutale di Israele verso Gaza». Il Segretario generale dell’Onu, ‎Antonio Guterres, è tornato a chiedere una indagine indipendente sulle uccisioni dei ‎palestinesi.
Il portavoce militare Jonathan Conricus ha descritto un quadro totalmente diverso ‎del “Venerdì delle bandiere”. Ha riferito di lanci di bombe incendiarie e di un ‎ordigno esplosivo, di tentativi di sfondare le barriere e di entrare nel territorio di ‎Israele. Poi ha lanciato un avvertimento al mondo: «Non lasciatevi ingannare dalla ‎cortina fumogena e dai civili. Le cosiddette dimostrazioni non sono null’altro che ‎un altro tentativo di Hamas di terrorizzare Israele». Il premier Netanyahu, con un ‎post su facebook, si è detto «fiero dei cittadini che sono giunti nel Sud di Israele per ‎sostenere i nostri soldati. Questa è la risposta migliore a quanti vorrebbero ‎denigrare i soldati che difendono il nostro Stato». Si è riferito agli israeliani hanno ‎espresso sostegno ai soldati rispondendo al sit-in di qualche giorno fa della sinistra ‎pacifista contro il tiro al piccione dei cecchini verso i manifestanti di Gaza. Anche il ‎ministro della difesa, Avigdor Lieberman, si è congratulato con i militari. «Voglio ‎ringraziare i nostri soldati e gli ufficiali – ha detto – per il loro lavoro da ‎professionisti e per la loro moralità nella protezione del nostro confine». ‎Lieberman ha dato sostegno alla proposta presentata l’11 aprile alla Knesset dal suo ‎collega di partito (Yisrael Beitenu) Robert Ilatov che, se convertita in legge, punirà ‎con la reclusione da cinque a dieci anni che accuseranno l’esercito israeliano di ‎crimini di guerra attraverso la diffusione di video e altri materiali. Ilatov prende di ‎mira in particolare le ong israeliane per i diritti umani B’Tselem, Machsom Watch e ‎Breaking the Silence che definisce anti-israeliane e pro-palestinesi. Proprio ieri ‎Breaking The Silence ha pubblicato la presa di posizione di cinque ex cecchini ‎dell’esercito contro le uccisioni di palestinesi disarmati e che non rappresentavano ‎alcun pericolo reale. ‎
il manifesto 14.4.18
Gaza, sangue sul Venerdì delle bandiere
Marcia del Ritorno. Almeno un palestinese è stato ucciso e quasi mille feriti, molti dei quali da proiettili, nel terzo venerdì di proteste contro il blocco israeliano della Striscia. Netanyahu e Lieberman si complimentano con esercito e tiratori scelti.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Vogliamo vivere come tutti gli altri nel mondo» si affannava a spiegare ieri ai ‎giornalisti Omar Hamada, un muratore, «siamo venuti qui per farci vedere dal ‎mondo. Con il ‘venerdì delle bandiere’ vogliamo dire che la vita a Gaza è ‎miserabile». Mentre parlava gruppi di giovani dell’accampamento di al Safieh ‎bruciavano e calpestavano bandiere israeliane e davano alle fiamme pneumatici, ‎come il 6 aprile, sollevando grandi nuvole di fumo denso per coprire la visuale ai ‎tiratori scelti israeliani. In un altro dei cinque accampamenti della “Marcia del ‎Ritorno” cominciata a Gaza il 30 marzo, un manifestante è riuscito ad issare una ‎grande bandiera con i colori della Palestina a 25 metri di altezza proprio davanti alle ‎linee di demarcazione con Israele. Decine di metri più dietro migliaia uomini, ‎donne, bambini osservavano, sventolando bandiere, quanto stava accadendo a ‎ridosso delle linee di demarcazione con Israele o erano impegnati nelle attività ‎sociali previste nei tendoni. Nel campo Malaka i più anziani raccontavano e ‎spiegavano la Nakba, la catastrofe palestinese del 1948, ai bambini esortandoli a ‎non dimenticare i villaggi di origine delle loro famiglie. Ma i più piccoli per ore ‎hanno anche giocato al calcio e assistito a corse di cavalli e cammelli. La Marcia del ‎Ritorno è anche questo.‎
 Non per il governo Netanyahu e le forze armate isareliane che ieri hanno ripetuto ‎che la “Marcia del Ritorno” non è resistenza pacifica e popolare ma una iniziativa ‎orchestrata dal movimento islamista Hamas «per compiere attentati terrioristici». E ‎i cecchini che nelle ultime settimane avevano ucciso oltre 30 palestinesi e ferito ‎altre migliaia, ieri non hanno certo smesso di prendere di mira i palestinesi che si ‎avvicinavano, correndo, alle barriere tra Gaza e Israele. Il bilancio di vittime fatto ‎dal ministero della sanità fino a ieri sera parlava di un morto, Islam Herzallah, 28 ‎anni, e quasi mille feriti. Molti sono stati intossicati dai gas lacrimogeni lanciati dai ‎soldati ma tanti altri sono stati colpiti da munizioni vere o ricoperte di gomma. ‎Negli ospedali alcuni sono giunti in condizioni critiche. Tra i feriti 16 paramedici e ‎giornalisti. Le ambulanze hanno fatto la spola per ore tra la fascia orientale di Gaza ‎e gli ospedali dove i medici hanno dovuto fare miracoli di fronte all’alto numero di ‎feriti e cercare di salvare e stabilizzare i più gravi. A nulla è servito l’appello a ‎cessare l’uso della forza lanciato a Israele da Magdalena Mughrabi di Amnesty ‎International. «Nelle ultime due settimane il mondo ha guardato con orrore le forze ‎israeliane – ha denunciato Mughrabi – mentre ricorrevano ad un uso eccessivo e ‎letale della forza contro dimostranti, minorenni inclusi, che invocavano soltanto la ‎fine della politica brutale di Israele verso Gaza». Il Segretario generale dell’Onu, ‎Antonio Guterres, è tornato a chiedere una indagine indipendente sulle uccisioni dei ‎palestinesi.
Il portavoce militare Jonathan Conricus ha descritto un quadro totalmente diverso ‎del “Venerdì delle bandiere”. Ha riferito di lanci di bombe incendiarie e di un ‎ordigno esplosivo, di tentativi di sfondare le barriere e di entrare nel territorio di ‎Israele. Poi ha lanciato un avvertimento al mondo: «Non lasciatevi ingannare dalla ‎cortina fumogena e dai civili. Le cosiddette dimostrazioni non sono null’altro che ‎un altro tentativo di Hamas di terrorizzare Israele». Il premier Netanyahu, con un ‎post su facebook, si è detto «fiero dei cittadini che sono giunti nel Sud di Israele per ‎sostenere i nostri soldati. Questa è la risposta migliore a quanti vorrebbero ‎denigrare i soldati che difendono il nostro Stato». Si è riferito agli israeliani hanno ‎espresso sostegno ai soldati rispondendo al sit-in di qualche giorno fa della sinistra ‎pacifista contro il tiro al piccione dei cecchini verso i manifestanti di Gaza. Anche il ‎ministro della difesa, Avigdor Lieberman, si è congratulato con i militari. «Voglio ‎ringraziare i nostri soldati e gli ufficiali – ha detto – per il loro lavoro da ‎professionisti e per la loro moralità nella protezione del nostro confine». ‎Lieberman ha dato sostegno alla proposta presentata l’11 aprile alla Knesset dal suo ‎collega di partito (Yisrael Beitenu) Robert Ilatov che, se convertita in legge, punirà ‎con la reclusione da cinque a dieci anni che accuseranno l’esercito israeliano di ‎crimini di guerra attraverso la diffusione di video e altri materiali. Ilatov prende di ‎mira in particolare le ong israeliane per i diritti umani B’Tselem, Machsom Watch e ‎Breaking the Silence che definisce anti-israeliane e pro-palestinesi. Proprio ieri ‎Breaking The Silence ha pubblicato la presa di posizione di cinque ex cecchini ‎dell’esercito contro le uccisioni di palestinesi disarmati e che non rappresentavano ‎alcun pericolo reale. ‎

Repubblica 14.4.18
A Gaza un nuovo venerdì di sangue
di Vincenzo Nigro


TEL AVIV, ISRAELE Terzo venerdì di proteste dei palestinesi di Gaza alla frontiera con Israele. È la cosiddetta “marca del ritorno”, una protesta che da Gaza dovrebbe portare a superare i confini di Israele, in quella terra che 70 anni fa in parte era ancora palestinese e oggi è israeliana. I palestinesi però sono costretti a fermarsi prima della recinzione che segna il confine, chi va avanti viene bersagliato dai soldati israeliani, che per non fare avvicinare la folla alla rete sparano proiettili veri e di gomma e lanciano anche centinaia di candelotti lacrimogeni. Le vittime questa volta sarebbero di meno: un morto, rispetto alle decine dei due venerdì scorsi, e circa 700 feriti, fra cui però i colpiti da colpi d’arma da fuoco sono solo alcune decine (gli altri sono intossicati dai gas).
Sulla stampa israeliana, occupata da decine di articoli e analisi in vista del possibile blitz contro Usa in Siria, le valutazioni sulla battaglia di Gaza sono ancora incerte. Sul Jerusalem Post l’ex capo dell’intelligence militare Amos Yadlin ricorda che in effetti «sia Hamas che Israele cantano vittoria a Gaza». Israele perché in effetti i manifestanti per ora non sono riusciti ancora a superare il confine in massa, e l’esercito è riuscito a controllare la situazione, facendo un numero di vittime sempre inferiore.
Hamas invece canta vittoria perché comunque è riuscita ad offrire al popolo di Gaza una dinamica diversa da quella che la Striscia viveva nei mesi scorsi: è stata organizzata una manifestazione a cui migliaia di palestinesi comunque ogni settimana aderiscono. Un evento che distoglie dalla incapacità, dai fallimenti economici e politici del movimento islamico nella gestione della Striscia.
Un collaboratore palestinese dell’agenzia Ansa scriveva di come Hamas abbia organizzato ieri la marcia, con decine di autobus che hanno raccolto manifestanti alla fine dalla preghiera nelle moschee e hanno percorso strade tenute libere dal traffico privato anche per lasciare spazio alle ambulanze.
In questi giorni anche la propaganda di Hamas è cambiata: i cartelloni lungo le strade oltre ad esaltare i “martiri”, i terroristi uccisi in varie azioni, adesso hanno i volti del Mahatma Gandhi, di Martin Luther King e Nelson Mandela.
Leader pacifisti utilizzati da un movimento classificato terroristico dagli Usa e dalla Ue oltre che da Israele.

il manifesto 14.4.18
I target del Pentagono: raid su basi senza russi e sanzioni all’Iran
Siria. «Cane pazzo» Mattis si veste da pompiere per evitare lo scontro tra superpotenze. Le ultime opzioni per frenare l’interventismo della Casa bianca: missili su siti dell’esercito siriano, comunicati prima al Cremlino. Il vescovo di Aleppo: «In Siria state facendo quel che avete fatto all’Iraq»
di Chiara Cruciati


La guerra, che sembrava imminente, ha rallentato la corsa. A frenarla è James ’Cane Pazzo’ Mattis, generale dalla biografia non certo pacifista: comandante dei marines in Iraq, protagonista della sanguinosa battaglia di Fallujah, ex responsabile militare Usa per il Medio Oriente e il Nord Africa, «teorico» del piacere di uccidere musulmani, l’attuale capo del Pentagono da incendiario si è fatto pompiere.
In queste ore, febbrili, lavora per evitare l’escalation e soprattutto un devastante scontro con la Russia. Lo fa prendendo tempo, dicendo di voler attendere le prove del presunto attacco chimico, ma soprattutto valutando altre opzioni.
Tra queste, raid su basi dove non sia presente personale russo, centri dove sarebbero depositate armi chimiche (di cui l’Onu nel luglio 2014 aveva però certificato la rimozione) e altre installazioni. Centri militari da cui, secondo il fronte anti-Assad, il governo ha rimosso l’equipaggiamento strategico per spostarlo nelle basi russe di Latakia, Tartus e Hmeimim, nell’idea di salvarli dalla distruzione.
In tutto, secondo gli esperti, gli Usa avrebbero individuato circa dieci target, che verrebbero comunicati prima alla Russia per impedire la deflagrazione di un conflitto ingestibile. Infine, tra le opzioni non belliche, nuove sanzioni economiche a Damasco.
Non solo: Parigi, Londra e Berlino insistono per nuove sanzioni contro l’Iran, forma di pressione nel caso siriano: l’idea è individuare figure legate alla guerra siriana da presentare al presidente Trump in cambio di un attacco.
Intanto ieri lo scontro si è spostato al Palazzo di Vetro. Sono volate parole grosse, sebbene il clima bellico si stia stemperando. Durante il vertice di urgenza del Consiglio di Sicurezza, chiesto giovedì dalla Russia, il più agguerrito è stato l’ambasciatore francese Delattre, voce del bellicoso presidente Macron, che forse nella Siria vede ancora una «proprietà» coloniale a cui imporre il futuro.
«Nel decidere di usare ancora una volta armi chimiche – ha detto Delattre – il regime ha raggiunto un punto di non ritorno. La Francia si farà carico delle proprie responsabilità per porre fine all’intollerabile minaccia alla sicurezza collettiva». Andrebbe ricordato in tale contesto, mentre le potenze occidentali parlano di necessità di intervenire in Siria, che l’intervento è già realtà.
Da sette anni attori internazionali e regionali sono parte attiva del conflitto, tramite la sponsorizzazione attiva (finanziamenti e armi) di milizie di opposizione di matrice per lo più islamista. Parigi ha già bombardato la Siria, dopo la strage del Bataclan, quando colpì Raqqa occupata dallo Stato Islamico per poi abbandonarla alla propria tragedia.
Da parte loro gli Usa hanno ucciso dall’agosto 2014 (quando Obama intervenne a seguito del massacro Isis di yazidi a Sinjar, Iraq, anche loro presto dimenticati) ad aprile 2018 almeno 16.213 civili tra Siria e Iraq, secondo i dati della nota ong di monitoraggio delle vittime di guerra, Airwars.
Dà altri numeri l’ambasciatrice Usa Haley: Damasco, ha detto, ha usato armi chimiche almeno 50 volte dal 2011, senza fonire dettagli o prove. Risponde la Russia con l’ambasciatore Nebenzia che accusa Stati uniti, Francia e Gran Bretagna di utilizzare la montatura del gas (ieri Mosca ha detto di avere le prove che dimostrerebbero la responsabilità del Regno unito nell’imbastire lo «show») per rovesciare il presidente siriano Assad: «Continuiamo a vedere pericolosi preparativi militari per un atto di forza illegale su uno Stato sovrano, che costituirebbe una violazione delle leggi internazionali», ha detto Nebenzia che ha poi chiesto a Washington una de-escalation per impedire «ripercussioni sulla sicurezza mondiale».
Una versione condivisa dal vescovo caldeo di Aleppo e presidente della Caritas siriana, monsignor Audo: «Sia fatta luce su tutto ed emerga la verità, non come hanno fatto con l’Iraq in cui hanno distrutto il paese dicendo che c’erano le armi chimiche. Così come hanno fatto con l’Iraq lo stanno facendo ora con la Siria».

il manifesto 14.4.18
Corbyn attacca May: «Prende ordini da Trump»
Labour pacifista. «Londra dovrebbe spingere per un’inchiesta indipendente guidata dall’Onu»
di Leonardo Clausi


LONDRA Nel coro anglo-franco-americano di voci bianche (nell’altro senso) che minaccia un attacco missilistico contro il regime di Assad per punirne l’uso di armi chimiche a Douma col rischio di scatenare così la terza guerra mondiale mentre si è già in piena «seconda» guerra fredda, c’è una voce stonata: è quella di Jeremy Corbyn.
IL LEADER LABOUR ha accusato ieri il governo britannico guidato da Theresa May di «attendere istruzioni» da Donald Trump. «Ma l’amministrazione Usa sta dando allarmanti segnali contradditori», ha poi aggiunto, forse uno dei pochi dati di fatto in mezzo a un guazzabuglio di accuse e contro-accuse dove l’oggettività ha ormai da lungo tempo ceduto il posto alla propaganda. «Altri bombardamenti, altri morti, un’altra guerra non salveranno vite – ha detto Corbyn – faranno solo altre vittime, spargeranno solo la guerra altrove. Londra dovrebbe spingere per un’inchiesta indipendente guidata dall’Onu sull’orrendo attacco con armi chimiche dello scorso fine settimana, così da portare a giudizio i responsabili».
LO STESSO CORBYN, che propende per una soluzione politica, in un’intervista rilasciata alla Bbc ha elencato i rischi di una degenerazione del conflitto: «Cosa succederebbe se gli americani abbattessero un aereo russo o viceversa? Sembra che all’Onu ci sia preoccupazione riguardo una possibile escalation: ebbene, preoccupati dovremmo esserlo tutti. C’è il rischio di una guerra russo-americana nei cieli della Siria». Entrambe le superpotenze «hanno enormi forze e capacità militari: è il momento che tutte e due si rendano conto che devono fermarsi nell’interesse di tutti ed esercitare sui rispettivi alleati nella regione, e fuori, tutta la pressione di cui sono capaci e, nel caso russo, sul governo siriano».
Corbyn è il secondo leader nella storia del Labour a non fare la claque a Washington (il primo fu Harold Wilson durante la guerra del Vietnam) e a muoversi in simbiosi con i Tories in questioni di politica estera e interventi militari. Le sue dichiarazioni giungono a caldo dopo la riunione in cui Theresa May ha ricevuto il benestare del proprio governo sulla necessità di rispondere all’uso di armi chimiche e che questo «non può rimanere impunito». Salvo poi non aggiungere altro, in linea con le oscillazioni via Twitter della politica estera americana.
I RISCHI SONO CHIARI anche ad alcuni deputati conservatori non allineati con il governo sulla questione Siria e che si sono uniti ai laburisti nell’invocare un dibattito parlamentare su possibili iniziative militari britanniche a fianco degli americani e dei francesi. Per via della cosiddetta prerogativa reale, la premier avrebbe la possibilità di far entrare il Paese in guerra senza consultare il Parlamento, ma dopo l’invasione illegale dell’Iraq nel 2003 by Bush & Blair si è giunti a più miti consigli. Il voto parlamentare così informalmente reintrodotto ha consentito di impedire a David Cameron intervenire sempre in Siria, cinque anni fa.

il manifesto 14.4.18
Mattarella nella palude
di Norma Rangeri


«Valuterò come uscire dallo stallo». Il verbo è declinato al futuro. Alla fine del secondo giro di consultazioni, il presidente Mattarella assicura che troverà il modo perché «si concluda positivamente il confronto tra i partiti». Il Quirinale prende ancora tempo e si appella a tutti gli attori della trattativa perché si facciano carico del bisogno del paese di avere «un governo nel pieno delle sue funzioni». Il presidente del consiglio e i ministri prossimi venturi dovrebbero, questo l’auspicio del Colle, essere indicati da una mediazione tra i partiti. La parola chiave è «stallo», anche se l’impressione è quella di essere scivolati ormai in una palude.
La scelta di non affidare subito a una figura istituzionale come la presidente del senato Casellati, un incarico esplorativo per smuovere le acque, ha lasciato un po’ spiazzati i 5Stelle. Che già si erano ritrovati con le spalle al muro dopo aver visto sfumare, in diretta televisiva, la promessa del leader della Lega di servire sul piatto la testa di Berlusconi.
Magari una berlusconiana di ferro potrebbe trovare il modo di consigliare Berlusconi a mollare un po’ la presa per far nascere un governo con i 5Stelle. Con scarse possibilità di riuscita nei confronti di chi sembra tornato al gusto della performance e alla tecnica del giocoliere, per niente intenzionato a farsi da parte. Va in Molise per prendere qualche voto, così come Salvini batte le piazze del Friuli per vincere a mani basse ai danni di Forza Italia.
Nessuno dei due locali test elettorali giocherà un ruolo decisivo nella contesa interna al centrodestra. Piuttosto ruvida se a Salvini arriva anche l’avvertimento, dal giornale di famiglia, a non superare il confine tra «cambiamento e tradimento». Naturalmente detto «per il suo bene».
Se la missione di esploratore fosse invece affidata alla terza carica dello stato, il pentastellato presidente della camera, Fico, in questo caso a doversi mostrare ragionevole dovrebbe essere chi rivendica 11 milioni di voti, convincendosi a togliere di mezzo quel «o io o il diluvio».
Invece Mattarella, per il momento e fino alla prossima settimana, lascia tranquilli i presidenti di camera e senato, e rimette la palla nelle mani dei partiti.
Come ha detto ieri il presidente emerito Napolitano, «il compito di Mattarella è difficile e urgente». Difficile perché è chiaro che la soluzione non c’è ancora, e nell’agenda del capo dello stato l’urgenza è data dalle impegnative priorità di carattere economico sociale, e internazionale con la guerra alle porte di casa.
Chissà se, a parte la solidarietà, offerta al suo successore, Napolitano abbia anche dispensato qualche buon consiglio. Quando lui si trovò in una situazione difficile, chiamò una «riserva della repubblica» e gli affidò la guida del governo. Ma oggi, un “governo del presidente” vorrebbe dire fingere di non aver sentito il gran botto del 4 marzo. Affidare la soluzione della crisi a una figura che non rappresenti in alcun modo il voto degli elettori, non convince il Quirinale che, infatti, continua a chiamare in causa i partiti.
Se la soluzione per la formazione del governo trova i protagonisti impantanati, i comprimari non lo sono in minor misura. La condizione in cui versa il Pd è così a rischio di spaccatura che Renzi ora chiede (e ottiene) di rinviare l’assemblea nazionale. La giustificazione ufficiale è sempre la stessa: non interferire con le consultazioni. Ma se è vero che dalle parti del Nazareno sono in maggioranza d’accordo nel restare fuori dai giochi per presidiare, a prescindere, i banchi dell’opposizione, non si capisce perché rinviare un’assemblea che dovrebbe ratificare questa scelta e dare un nome e un volto al nuovo segretario.
A meno che Renzi non senta traballare la sua maggioranza, non più così solida da consentirgli di avviare la svolta macroniana e restituirgli in qualche modo lo scettro del comando. Magari da spendere in una ravvicinata campagna elettorale (in primavera si vota comunque per le europee) nel caso di un governo balneare che prepari elezioni anticipate.

il manifesto 14.4.18
La Germania «scopre» i nazisti nell’esercito
Caserme nere. Svastiche, «Heil Hitler» e canti Ss: esaminati 431 casi nelle forze armate tedesche. La ministra della Difesa: «Tolleranza zero»
di Sebastiano Canetta


BERLINO Caserme nere: l’esercito di nazisti incistato nelle forze armate tedesche. Mezzo migliaio di militari di carriera che hanno giurato fedeltà alla Bundesrepublik ma rimangono fedeli solo agli ideali del Terzo Reich. Soldati in servizio armato, operativi ogni giorno nelle basi in Germania quanto nella cornice delle missioni Nato in Afghanistan o Africa e sul fronte del reclutamento come provano i 23 nuovi arruolati dall’inizio dell’anno.
Camerati con la doppia divisa, che si raccontano senza segreti ma giusto ai microfoni nascosti piazzati dal Mad (il servizio d’intelligence militare) e solo grazie a un’interrogazione parlamentare della Linke. «Abbiamo solamente bisogno di fare il vaccino contro la febbre gialla, poi andiamo in Mali e spariamo in testa ai negri» è la più sintomatica delle intercettazioni all’attenzione del Bundestag.
È il primo caso politico della legislatura per la ministra della Difesa Ursula Von der Leyen (Cdu) appena riconfermata dalla cancelliera Angela Merkel. Ed è anche il «solito» vecchio problema della mancata epurazione del nazismo, che a Berlino non si risolve neppure dopo aver ascoltato le registrazioni degli altri 431 eventi analoghi ammessi ufficialmente dal governo.
In attesa che «chi esibisce la svastica venga buttato fuori dall’esercito», come pretende la deputata Linke Ulla Jelpke, vale la pena di scorrere l’istantanea dell’ultimo cunicolo del verminaio nero illuminato dalla recente indagine degli agenti del Mad. Saltano agli occhi le bandiere rosse con la croce uncinata appese alle pareti dei dormitori, si può ascoltare il nazirock in libera uscita dalle radio di ufficiali e graduati, si registrano i video postati sul web dalla caserma scanditi da «Heil Hitler» e dai canti delle SS, come quello rimbalzato sui media locali.
È la Bundeswehr in formato Wermacht sfuggita al controllo della Grande coalizione che ha governato nell’ultimo lustro, scappata letteralmente di mano ai vertici delle forze armate incapaci anche solo di rallentare il fenomeno: solo l’anno scorso sono venuti a galla 289 nuovi casi della «palude bruna» denunciata dalla Linke in Parlamento. Tolleranza zero è l’ennesima richiesta alla ministra Von der Leyen, che dovrebbe smettere di «chiudere un occhio e agire, invece, per asciugare il pantano nero tra le truppe» riassume Jelpke, delegata agli Interni.
«Fino a oggi c’è stata troppa indulgenza da parte dei comandanti delle caserme nei confronti di chi dispone di un’arma da fuoco: sia con i nazisti che con i Reichsbürger» (gli estremisti di destra che non riconoscono la Repubblica federale).
La verità è che «le forze armate in Germania hanno un problema con la destra» fa notare la Linke; una vera e propria patologia squadernata nei faldoni con le intercettazioni telefoniche infarcite di battute xenofobe e considerazioni oltre i limiti della legge. Malattia apparentemente incurabile, come prova il nulla di fatto seguito alla passata denuncia della galassia neo-nazista infiltrata nell’esercito (raccontata lo scorso novembre dal manifesto) emersa con l’«Informativa sulle attività anti-costituzionali nelle forze armate» allegata alla risposta del governo Merkel all’interrogazione dei Verdi.
Appena qualche mese prima era scoppiato il clamoroso scandalo del tenente Franco Albrecht, aggregato nel 2009 all’Accademia militare francese di Saint Cyr dove si era diplomato con una tesi sulla «strategia di cambiamento politico e sovversione» prima di spacciarsi per rifugiato siriano in un centro-profughi dell’Assia. Faceva il paio con la tecnica della «False-Flag», gli attentati con falsa rivendicazione per far ricadere la responsabilità sui rifugiati, pianificati a inizio maggio da Maximilian T., di stanza proprio allo stesso reparto Albrecht a Strasburgo. Secondo la procura di Karlsruhe «preparava il piano per un attacco alla sicurezza nazionale in nome dell’ideologia di estrema destra». All’epoca nell’alloggio del soldato neo-nazista spuntò perfino la lista dettagliata dei target istituzionali: dal ministro socialdemocratico della giustizia all’ex presidente della Repubblica. Solo in quel momento la ministra Von der Leyen si convinse a ordinare l’immediata perquisizione delle caserme nei 16 Land, denunciando in parallelo l’«inattività» dei vertici dell’esercito. Da allora non è cambiato niente.

La Stampa 14.4.18
Boldrini e Asia Argento a New York
“Eroine in Usa, insultate in Italia”
La deputata e l’attrice al centro del Women in The World di Tina Brown
di Carole Hallac


Il Women in the World Summit, l’annuale conferenza su tematiche femminili organizzata dalla giornalista Tina Brown, si è aperta con l’audio della registrazione segreta di Ambra Battilana Gutierrez, la modella italiana che ha collaborato con le autorità per incastrare Harvey Weinstein. Le voce supplicante di Gutierrez che cerca di fermare le avances insistenti del produttore fanno rabbrividire il pubblico nell’auditorio del Lincoln Center, in gran parte femminile.
Il movimento #MeToo è al centro della conferenza a cui partecipano anche il Premio Oscar Viola Davis, Hillary Clinton e la first lady canadese Trudeau. Ad affrontare il tema degli abusi sessuali è Ronan Farrow, il figlio di Woody Allen che con il suo reportage sul «New Yorker» ha aperto il caso Weinstein. Nel mirino, questa volta, c’è la misoginia in Italia, raccontata dalla stessa Gutierrez, da Asia Argento e da Laura Boldrini, tre donne che hanno in comune anni di attacchi e insulti sui social media. «Siamo eroine, ma non in Italia, solo nel resto del mondo», ha detto la Argento, la cui testimonianza ha aiutato Ronan Farrow a realizzare l’articolo incriminante su Weinstein. Una situazione paradossale, secondo Farrow, che vuole fare luce sulla «cultura tossica» del Belpaese sotto la proiezione di una grande bandiera tricolore.
Boldrini ha condiviso le violente intimidazioni subite per aver difeso i diritti delle donne e degli emigrati: la sua effige bruciata in piazza, il sindaco che le augura di essere violentata dagli emigranti, Salvini che la ritrae con una bambola gonfiabile, gli attacchi di Grillo che ha chiesto ai suoi milioni di follower «cosa fareste alla Boldrini se fosse con voi in macchina?», fino a ricevere una pallottola per posta e minacce sulla pagina Facebook di sua figlia.
La parlamentare ha spiegato come in Italia esistono valide associazioni per le donne, ma sono piccole e non molto influenti, e che i media sono più interessati a coprire movimenti femminili all’estero, come #MeToo. «Da noi le donne hanno paura a denunciare il molestatore - ha detto -. Hanno paura di non essere credute. Temono che se parlano perderanno il posto di lavoro. È la prova di un forte pregiudizio contro le donne in un Paese dove 9 milioni di donne hanno subito aggressioni sessuali sul lavoro, 3,5 milioni sono vittime di stalking e ogni 60 ore una donna viene uccisa dal marito o compagno».
Asia Argento ha aperto il suo articolo scritto in occasione della conferenza con alcuni degli attacchi subiti dopo aver denunciato Weinstein: «Puttana, bugiarda, traditrice, opportunista. Quello che è venuto fuori dall’Italia era così disgustoso - denuncia dal palco l’attrice - come mettere il dito nella piaga».
Lo stesso Farrow ha pregato la Argento di lasciare il Paese dopo il contraccolpo subito a seguito dell’articolo del «New Yorker», mentre Boldrini l’ha incoraggiata a restare e combattere insieme alle altre donne. «Gli attacchi verso di me hanno gettato benzina sul fuoco - spiega l’attrice -. La sofferenza di essere non capita mi ha resa ancora più guerriera e mi fa sentire unita alle altre donne, sorelle, con cui condivido lo stesso trauma. Continueremo a combattere».

Repubblica 14.4.18
Amnesty denuncia
Cina, più condanne a morte che in tutto il resto del mondo
di Filippo Santelli


PECHINO, CINA Quantificare in maniera precisa non è possibile, per Pechino resta un segreto di Stato. Ma Amnesty International non ha dubbi: nel 2017, ancora una volta, il boia della Cina è stato il più impegnato al mondo, eseguendo «più condanne a morte che tutti gli altri Paesi messi insieme». «Migliaia» di persone destinate alla pena capitale, stima l’organizzazione nel suo ultimo report sulla base di notizie raccolte e sentenze ufficiali depositate, contro le 993 giustiziate nel resto del globo (-4% rispetto al 2016).
Scrive Amnesty che la Cina ha introdotto maggiori garanzie su equo processo e confessioni coatte. La pena di morte però resta applicabile per 46 reati diversi, di cui molti non violenti. Diminuiscono le esecuzioni legate a reati economici come la corruzione, ma restano frequenti nei casi di omicidio e traffico di droga, comprese due “esibizioni di massa” in cui a 23 persone sono state lette le sentenze di fronte a migliaia di spettatori. E a preoccupare in maniera particolare Amnesty è un ulteriore buco nero di informazione nel buco nero cinese, quello che riguarda la regione dello Xinjiang, popolata da una minoranza musulmana per cui il regime, sotto l’insegna della lotta al terrorismo, ha introdotto durissime misure di sicurezza. Solo una sentenza capitale è stata depositata, scrive Amnesty, lasciando intendere che molte altre potrebbero essere state eseguite nel silenzio.

il manifesto 14.4.18
Statua di Marx a Treviri, un regalo dalla Cina
di S. Can.


BERLINO Polemiche a Treviri per la statua di Karl Marx che sarà posata in centro storico il 5 maggio per celebrare il 200 esimo anniversario. Alta 6 metri, pesante oltre 2 tonnellate porta la firma dell’artista Wu Weishan ed è stata donata dalla Repubblica popolare cinese.
È stata accettata solo dopo un lungo dibattito in consiglio comunale: da una parte Ulrich Delius, direttore della Società per i popoli minacciati, che denunciava il «regalo velenoso»; dall’altra il sindaco Wolfram Leibe che ha difeso il «filosofo Marx: uno dei più grandi cittadini di questa città che non dovremmo mai nascondere».

Repubblica 14.4.18
I segreti del primo uomo nello spazio l’archivio di Gagarin pubblicato online
L’iniziativa del ministero della Difesa russo a mezzo secolo dalla scomparsa dell’astronauta
di Rosalba Castelletti


MOSCA Carattere tranquillo e gioioso», «socievole con i compagni e gentile ed educato nei rapporti umani», «devoto alla causa del partito e alla madrepatria socialista». Sono alcune delle qualità attribuite al giovane Jurij Gagarin, il primo uomo a conquistare lo spazio a bordo della Vostok 1, dal Centro di addestramento per cosmonauti che oggi porta il suo nome. La valutazione è uno dei documenti diffusi su Internet dal ministero della Difesa russo a 57 anni dal volo in orbita attorno alla Terra: ottantotto minuti appena per entrare nella storia.
Il giudizio riporta anche l’altezza, 165 centimetri, e il peso, 68 chilogrammi. Gagarin, si nota, è «in buona salute e forma fisica».
Ex giocatore di basket, ha dimostrato una «buona coordinazione di movimenti» e non si è ammalato un sol giorno nel 1960. «Di etnia russa e origini contadine», Jurij Alekseevich viene descritto come «comunicativo», «socievole», «tenace», «disciplinato», «ottimista» e «dall’umorismo sano». «Ha una buona condotta militare e un bell’aspetto», prosegue il giudizio che conclude che, con un voto medio 4,8 su 5, Gagarin è uno degli allievi «più preparati» del Centro di addestramento. Farà parte del gruppo di ventuno candidati selezionati nel 1960 per i primi voli spaziali del programma Vostok e l’anno dopo diverrà il primo uomo a superare i confini dell’atmosfera.
La “kharakteristica” di Gagarin, la valutazione che accompagnava l’homo sovieticus a ogni passaggio di carriera, era stata declassificata già nel 2009, ma è ora disponibile a un più ampio pubblico grazie alla pagina web camera. mil. ru/ gagarin2018.
Sul sito è possibile trovare anche lo stato di servizio militare di Gagarin, in cui sono riportati in ordine cronologico tutti i cambiamenti nella vita civile e militare dell’ufficiale di carriera.
Al punto 29, ad esempio, è stato aggiunto a mano il nome della moglie, Valentina Goriaciova, e delle due figlie, Elena e Galina.
Ci sono inoltre gli ordini con cui il ministero della Difesa dell’Urss gli conferì il grado di luogotenente il 5 novembre 1957 e, il 12 aprile 1961, giorno del suo leggendario volo, quello di maggiore saltando il grado di capitano. “Pojekhali!”, “Partiamo!”, fu la prima parola pronunciata da Gagarin al distacco dalla piattaforma. Poi, in orbita, la celebre frase: «Vedo la Terra azzurra». Fu decorato da Nikita Krusciov con l’Ordine di Lenin, la massima onorificenza sovietica, e diventò eroe nazionale dell’Unione Sovietica.
Altri due documenti del 1961 riportano il via libera del capo della sua unità militare ai suoi viaggi nell’Est e Ovest Europa, a Cuba, in Canada e Brasile: il tour nel mondo voluto dai vertici del Partito comunista. Vi sono infine ritagli di articoli di giornali in lingua inglese sulla storica impresa compiuta da Gagarin a soli 27 anni. Il sito del ministero della Difesa evidenzia e traduce in russo uno stralcio del Pakistan Time che recita: «Tutta l’umanità sarà orgogliosa dell’impresa sovietica di aver lanciato un uomo nello spazio e averlo riportato indietro in vita». In un altro passaggio sottolineato, viene citato un esperto norvegese, Erik Tandberg, che definisce il volo «un nuovo trionfo sovietico».
Cinquantasette anni dopo, come ha rivelato lo scorso gennaio un sondaggio dell’istituto Vtsiom, quel giovane socievole e gioioso resta l’«idolo della Russia del Ventesimo secolo». Quest’anno è caduto anche un altro anniversario: il cinquantenario della sua scomparsa. Jurij aveva solo 34 anni. Un incidente aereo gli tolse la vita il 27 marzo del 1968. Il primo uomo a volare tra le stelle morì in cielo.

Repubblica 14.4.18
Revisionismi
L’Europa assalita dai vuoti di memoria
Il mito del ratto di Europa in un dipinto greco antico
di Simonetta Fiori


Non è stato facile costruirla. E oggi non è facile difenderla dalle critiche di segno diverso che piovono da svariate parti del vecchio continente, a cominciare dal Regno Unito e dai paesi dell’Est, e ora anche dall’Italia. Nella Casa della storia europea il condominio appare piuttosto agitato. E non potrebbe essere altrimenti: tra Brexit, pulsioni separatiste e l’onda nera di Orbán non tira aria da Inno alla gioia e tanto meno da celebrazioni memoriali condivise. Ed è proprio per queste fibrillazioni che il museo di Bruxelles – nato con l’obiettivo di dare un fondamento storico alla nozione di cittadinanza europea – appare una sfida necessaria. Ma in che modo è stato realizzato? Qual è l’idea di Europa che scaturisce da questo progetto, il più grande investimento del Parlamento sul piano della politica della memoria? E — questione centrale — è possibile il racconto condiviso di una comune storia europea, tra le infinite lacerazioni politiche e religiose che segnano passato e presente?
Che la questione sia complessa è dimostrato anche dalla difficile gestazione dell’House of European History, proposta nel 2007 dall’allora presidente Hans Gert Pöttering e inaugurata solo lo scorso anno dopo un finanziamento di 56 milioni di euro e un lavoro politico-culturale rimasto sotterraneo: anche questa una scelta contestata da chi avrebbe preferito un confronto più aperto e trasparente tra gli storici.
Quale il risultato dopo dieci anni di discussioni? Marcello Verga, presidente dell’Istituto di storia mediterranea al Cnr e da sempre attento alle politiche della memoria della Ue, ne sottolinea il profilo sfocato, come se per approdare a un passato comune si fosse lavorato nella direzione di una sottrazione dei valori e dei simboli della “storia d’Europa”. «Ne è scaturito un progetto di storia politica tra il XIX e il XX secolo per molti versi senz’anima, senza le donne e gli uomini in carne d’ossa, senza un chiaro punto di vista che non sia una generica linea di progresso e di affermazione dei valori di libertà». Una storia che rinuncia ad affrontare i nodi più problematici di questa parte del mondo. «Può sorprendere che nei cinque piani del bel palazzo Eastman non si parli mai né di religione né di migrazione. E colpisce che il discorso sulla colonizzazione riesca volutamente ambiguo. L’assenza di ogni riferimento alla religione vuol forse dire che si intende proporre una storia d’Europa all’insegna della secolarizzazione? O significa piuttosto la rinuncia della Casa a confrontarsi con uno degli elementi che più caratterizzano l’heritage europeo?».
Ma è possibile raccontare in modo condiviso la storia di centinaia di milioni di uomini e donne che sono stati separati da guerre e mille altri conflitti? «Io credo di sì», risponde Verga, «ma solo a condizione di non nascondere le divisioni politiche, religiose e culturali che sono parte essenziale del loro patrimonio. E a condizione di assumere, sia pure attraverso un racconto espositivo unitario, una pluralità di punti di osservazione della storia europea. La casa di Bruxelles sembra assumere una prospettiva continentale che guarda all’area mediterranea dal Nord come fosse una sorta di periferia della vera storia europea e ancora all’Europa dell’Est come fosse l’Oriente d’Europa». Anche lo storico Carlo Spagnolo, che alle memorie divise d’Europa ha dedicato un fascicolo della rivista Ricerche storiche, contesta alla Maison di Bruxelles uno sguardo incompatibile con la nozione di casa comune. «Una casa allude alla costruzione di una comunità, quindi dovrebbe riconoscere dignità a prospettive contrastanti.
Altrimenti il rischio è di fare l’apologetica dell’esistente, quasi non ci fossero state alternative, scelte costose e conflitti che ci portiamo dentro e possono riaffiorare in fasi di profondi cambiamenti». Sul piano culturale, secondo Spagnolo, il limite principale consiste nell’assimilare la storia d’Europa alla storia dell’integrazione europea. «Si tratta invece di due vicende diverse e persino opposte». Ma il punto che gli appare più debole è il ricorso al totalitarismo come direttrice memoriale. «Il totalitarismo non è un concetto univoco. E usare oggi una nozione così ricca di significati diversi rischia di riaccendere i conflitti che si vorrebbe superare. In altre parole, una storia d’Europa che muova dal totalitarismo corrisponde a una lettura autocritica del passato da parte della Germania ma non è adeguata a rendere conto delle esperienze di molti altri paesi europei». Il rischio – ha rilevato altrove Filippo Focardi – è di rigettare tutte le colpe sui tedeschi (per la Shoah) e sui russi (per il comunismo). Ma in questo modo gli altri paesi non sono sollecitati a fare i conti con le proprie pagine buie. Altri sguardi critici sono emersi durante un dibattito alla Treccani al quale ha partecipato anche Beatrice Dupont, curatrice della Casa venuta in Italia per presentare il museo. «È vero che non c’è stato un confronto largo tra gli storici europei», ammette la studiosa, «ma non oso immaginare il chiasso che ne sarebbe scaturito. E quale sarebbe potuto essere l’esito: un compromesso per rendere tutti contenti?». Secondo Dupont l’unica critica davvero convincente riguarda la mancanza nell’esposizione di un chiaro punto di vista, ma è vista come un’opportunità: «C’è chi ci accusa di preferire l’Europa di Hitler e Stalin a quella di Gutenberg o Chopin. Ma c’è anche chi si sorprende perché si aspettava un museo di propaganda e invece si è ritrovato davanti un discorso critico sull’Europa». La scelta di non dare delle risposte definitive e di lasciare molto spazio a domande aperte «non è una soluzione museale facile», dice Dupont. «Ma l’abbiamo ritenuta utile nel contesto attuale dell’Unione Europea». Una storia con molti interrogativi e poche risposte certe: anche questo uno specchio inquietante della nostra attuale condizione di europei.

Repubblica 14.4.18
Grandi classici
Il latino è più vivo che mai. Ora anche in hit parade
Corsi per manager in lingua, riviste di enigmistica. E ora anche un libro che traduce i successi pop
di Irene Maria Scalise


Ballare al ritmo di «Vah! Sumus in medio Itinere, vah! vivimus in prece », cantata da Bon Jovi? Si può. Commuoversi ascoltando «Sunt septem horae et quindecim dies ex quo sustulisti amorem » di Sinéad O’Connor? Fatto. Benvenuti nel magico mondo del Pop turns Latin. Sono centinaia i testi pop tradotti nel libro Latin Rocks On della linguista Sarah Rowley (una laurea in lettere antiche ad Oxford), amministratrice della pagina twitter @Latin-RocksOn. Chi invece preferisce l’enigmistica può sbizzarrirsi con Hebdomada Aegnigmatum, parole crociate 2.0 nella lingua di Virgilio. Se poi l’obiettivo è fare affari, allora meglio iscriversi al corso Business Latin – il latino per il manager moderno, previsto per il mese di maggio a Roma. Anche le discussioni a scuola e i messaggini con i compagni si possono scambiare ora in “ latino vivo”. E c’è il Latin Camp per impratichirsi in estate. A quanto pare, le lingue morte non sono morte per nulla. Anzi, sono così appassionati i tweet di chi segue LatinRocksOn, che molti professori hanno deciso di usare le traduzioni di Rihanna o Madonna nelle scuole. «Ho avuto l’idea di tradurre le canzoni in latino - spiega Rowley - dopo aver spiegato, inutilmente, ai miei amici quanta gioia mi aveva dato negli anni studiarlo. E poiché la musica è un fattore di unione, ho pensato di sdoganare il latino in musica per renderlo più accessibile».
Perché studiare latino come se fosse una lingua viva nel 2018? «È incredibilmente utile per i bambini - aggiunge Rowley - ma è importante anche per gli adulti perché è una combinazione meravigliosa di logica e matematica ed è un linguaggio creativo e fantasioso» . Il ricavato delle vendite del libro, che contiene più di cento canzoni, sarà devoluto in beneficenza all’associazione Classic For Alls che raccoglie fondi per incentivare nelle scuole lo studio dei classici».
È invece arrivata a 10 mila iscritti in tutto il mondo Hebdomada Aenigmatum, la prima rivista di enigmistica in latino. Racconta il fondatore Luca Desiata: «Contiene cruciverba, rebus, crucipuzzle, giochi di parole, una striscia di Snupius e un Sudoku coi numeri romani. Sono iscritti appassionati di ogni età e, dal 2016, abbiamo lanciato la versione in greco antico chiamata Onomata Kechiasmena » . C’è anche una radio finlandese che trasmette per alcuni miniti le notizie del giorno nella lingua di Cicerone.
E se nei colloqui di lavoro il latino fa curriculum, ed è sempre più spesso apprezzato al momento delle assunzioni perché denota un approccio logico, in molte scuole si sta diffondendo l’insegnamento del “ latino vivo”. Il primo a suggerirlo è stato il linguista danese Hans Henning Orberg. Il metodo è portato in Italia da Luigi Miraglia, direttore dell’Accademia Vivarium Novum. Funziona così: tra i ragazzi si punta alla padronanza linguistica, prima di quella grammaticale. In pratica si chiacchiera e si scherza in latino senza irrigidirsi se c’è qualche errore. Infine, per non perdere il passo in estate, spopolano i Latin Camp. Simili ai nostri English Camp, permettono ai ragazzi di studiare i lirici latini al costo di 700 euro a settimana.

il manifesto 14.4.18
Manfred Spitzer: «il rischio è la demenza digitale»
Un'intervista con il direttore della Clinica psichiatrica e del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm, già professore ad Harvard e autore di numerosi saggi che focalizzano diversi problemi legati all’utilizzo massiccio di digital media
di Michele Coralli


Non solamente violazioni della privacy, ma anche danni alla salute. Mai come in questo momento il mondo digitale sembra essere messo sotto accusa. E si tratta di accuse pesanti, soprattutto per quanto riguarda le conseguenze sulle future generazioni. A dirlo è Manfred Spitzer, direttore della Clinica psichiatrica e del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm, già professore ad Harvard e autore di numerosi saggi che focalizzano diversi problemi legati all’utilizzo massiccio di digital media (Demenza digitale e Solitudine digitale, per Corbaccio). La tesi è lapidaria: l’abuso dei nuovi strumenti rende «malati» e gli effetti creano conseguenze drammatiche, sia sulle capacità cognitive che sull’empatia necessaria per avere rapporti sociali fisiologici.
Professor Spitzer, quali sono i dispositivi che causano demenza e solitudine?
Attualmente il più tossico è lo smartphone perché ha più di 4 miliardi di utenti. È connessione costante e fruizione informatica permanente. Si può giocare, guardare video e televisione. La questione più critica è quella di dare questi apparecchi ai bambini senza alcuna supervisione, prima che essi siano maggiorenni.
Sembra che lei stia parlando di qualcosa di molto simile a una droga…
Di fatto lo è. Coloro che hanno una dipendenza da facebook attivano i medesimi centri cerebrali. Sappiamo con certezza che non è un problema di come rappresentare questa dipendenza. Abbiamo le diagnosi. Quindi penso che dovremmo trattare gli smartphone come facciamo con fumo e alcool.
Lei è molto critico anche sull’uso del computer nelle scuole…
Sì, i ragazzi non imparano meglio attraverso i computer. Questo è stato dimostrato innumerevoli volte. I bambini entrano in multitasking ovvero si distraggono e non seguono in modo corretto. Il computer così non velocizza l’apprendimento, né lo incrementa.
In Italia il sistema educativo a molti sembra antiquato.
Non c’è niente di male nei sistemi educativi antiquati. Lo ripeto: il computer non va bene per imparare. Quando hai un’attività mentale esterna (outsearched mental activity), questa non prende posto all’interno del tuo cervello. Mentre è proprio quell’attività a coincidere con l’apprendimento, altrimenti non impari. Per esempio, se fai un esercizio aritmetico nella tua testa, lo apprendi. La stessa cosa vale per l’ortografia. Se non si allena la specifica area del cervello chiamata ippocampo, si diventerà molto meno in grado di imparare.
Come è la situazione in Germania?
Diverse persone che lavorano in ambito economico oggi si accorgono che molti giovani che iniziano a lavorare non sono più in grado di calcolare percentuali o frazioni, anche se in possesso di maturità. Quindi la Germania dei prossimi 20 anni potrebbe essere destinata a perdere capacità nelle esportazioni.
Quindi cosa possiamo fare?
Il fattore di rischio preminente nello sviluppo della demenza è l’educazione. Più sei istruito, più sei protetto. Oggi abbiamo bisogno di riavviarla senza i computer, non «googleando» ogni cosa, perché non si può usare Google se non si sa nulla. Spesso il cervello viene paragonato a un computer, ma è completamente sbagliato. Il cervello non ha una Cpu e nemmeno un disco fisso. Ci sono cento miliardi di neuroni che si parlano, cambiando le loro interconnessioni. Questi cambiamenti consistono nella memoria, il parlarsi tra loro nell’elaborazione. Non c’è differenza tra elaborazione (processing) e stoccaggio (storage). Quando si parte da una mente istruita la demenza può arrivare anche 200 anni dopo. Ma come in ogni discesa, dipende da che altezza si parte: più si è in alto, più ci vorrà tempo per arrivare in fondo.

venerdì 13 aprile 2018

Repubblica 13.4.18
Non solo Facebook
Anche lo Zuckerberg cinese chiede scusa “Socialismo tradito”
di Filippo Santelli


PECHINO, CINA Il tono, composto e dimesso, è proprio lo stesso di Zuckerberg.
Invece che al Parlamento però, in Cina le scuse si rivolgono al Partito. E se del rispetto della privacy non ci si deve preoccupare poi tanto, quello dell’ortodossia comunista va messo sopra ogni altra cosa.
«Sono profondamente addolorato» per aver lanciato un servizio che «collide con i valori fondamentali socialisti», ha scritto in una nota ufficiale Zhang Yiming, il 34 enne a capo di Bytedance, impero di app e contenuti digitali a cui centinaia di milioni di cinesi ogni giorno incollano gli occhi. Startup valutata 20 miliardi, una delle più grandi al mondo, che ha fatto spesso accostare questo occhialuto e nerdissimo ingegnere informatico al fondatore di Facebook. Ora anche nella necessità di fare ammenda.
Perché il Partito sembra non gradire più le app di Zhang.
Quelle più serie come l’aggregatore di notizie Tuotiao, di cui l’autorità per i media ha bloccato il download per tre settimane. E quelle più frivole attraverso cui tanti giovani trovano un canale di sfogo e ironia. La piattaforma video Houshan, spezzoni di vita reale di persone qualunque dati in pasto alla Rete, è stata crocifissa dalla tv di Stato per i profili gestiti da mamme minorenni, una «glorificazione della gravidanza precoce». Mentre mercoledì è stata bloccata Neihan Duanzi, una applicazione per condividere barzellette e gag, con parecchia volgarità e qualche intrusione di pornografia. Nulla di politicamente sensibile. Ma la censura spara con il bazooka da quando Xi Jinping, negli stessi emendamenti in cui si incoronava a vita, ha introdotto i “valori fondamentali socialisti” in Costituzione. La polizia delle parole, riorganizzata e rafforzata, ha vietato ogni forma di parodia di film o opere storiche, bando ai The Jackal locali, e ha oscurato nei negozi digitali diverse app di notizie. Quasi a voler mostrare che neppure la piazza digitale, le sue celebrità e i suoi imprenditori sono sopra le regole. Zhang, nonostante 4 miliardi di dollari di patrimonio e schiere di ammiratori, ha abbassato il capo: «Negli ultimi anni abbiamo concentrato tutti gli sforzi nell’espandere il business, ma siamo rimasti indietro nel costruire un sistema di filtri».
Parole che calzano a pennello anche a Facebook e Twitter, per le annunciate battaglie contro propagatori di odio o fake news.
Questa però è la Cina, e i filtri che il suo Zuckerberg ha iniziato a programmare servono ad altro: «Assicurare che solo le informazioni positive siano distribuite».
Corriere 13.4.18
Quei sette milioni di figli venuti al mondo con la fecondazione assistita
La fecondazione eterologa è una forma di procreazione medicalmente assistita che consiste in un programma di fecondazione in vitro utilizzando spermatozoi od ovociti donati, attraverso banche del seme, alla coppia interessata alla nascita. Si ricorre all’eterologa quando uno dei partner ha problemi di sterilità
di Elena Tebano


Sono trascorsi 40 anni da quando è nata la prima bambina concepita con la fecondazione assistita in vitro, Louise Brown, all’ospedale di Oldham, nel Regno Unito. Da quel 25 luglio 1978 si calcola siano 7 milioni i neonati venuti al mondo grazie a queste tecniche, diventate via via più complesse. E saranno sempre di più: secondo i dati presentati la settimana scorsa all’Ebart di Barcellona (uno dei principali congressi internazionali di medicina della riproduzione), continuano ad aumentare al ritmo di mezzo milione all’anno. In particolare in Europa, il continente dove più si ricorre alla fecondazione assistita: si è passati dai 100 mila cicli del 1995 ai 700 mila del 2014. L’Italia è l’ottavo Paese al mondo per numero di trattamenti (l’Istituto superiore di sanità registra 55 mila cicli di fecondazione in vitro iniziati nel 2015, l’ultimo per cui sono disponibili i dati, 10 mila gravidanze e 7.700 bambini nati nello stesso anno).
Una rivoluzione silenziosa che tocca uno degli aspetti più intimi e fondamentali della vita umana: come la diffusione della pillola ha separato la sessualità dalla riproduzione, le nuove tecniche di fecondazione assistita hanno separato la riproduzione dalla sessualità, ponendo interrogativi etici e morali senza precedenti, soprattutto quando si parla di fecondazione eterologa e maternità surrogata. Se da sempre infatti gli esseri umani sono disposti a fare di tutto pur di avere i figli che vogliono, oggi — come dimostra il caso del bimbo cinese nato da «genitori» morti 4 anni prima — è possibile realizzare l’impensabile. Basta entrare nei laboratori della clinica Eugin (uno dei maggiori gruppi privati che si occupano di fecondazione assistita in Europa) a Barcellona per rendersene conto: medici e tecnici in camice si aggirano sotto le luci soffuse per non correre rischi di danneggiare i gameti, tenendo in mano i vetrini che contengono i futuri figli di qualcun altro: embrioni fecondati in vitro, grazie agli spermatozoi o — più spesso — gli ovuli provenienti da donatori o donatrici.
Il diffondersi della riproduzione assistita dipende soprattutto dalla scelta (o dalla necessità) sempre più frequente di rimandare il momento in cui diventare genitori. Magari senza avere la consapevolezza di quali sono i limiti per la vita riproduttiva delle donne: «Dai 33-34 anni la quantità e la qualità degli ovociti peggiora molto — spiega Mario Mignini Renzini, responsabile dell’unità Ginecologia degli Istituti clinici Zucchi di Monza —. A 43 anni 95 donne su 100 non riescono ad avere figli neppure con la fecondazione assistita se usano i loro ovuli». Spesso gli aspiranti genitori lo scoprono solo quando tentano invano di avere un bambino. Persino i medici sono poco informati: secondo uno studio dell’Università di Torino la metà dei ginecologi italiani ritiene che il limite della fertilità per le donne sia tra i 44 e i 50 anni.
«Sempre più spesso, dopo aver tentato inutilmente la fecondazione assistita — spiega Antonio La Marca, Coordinatore clinico Eugin a Modena — gli aspiranti genitori scelgono la strada dell’eterologa, la fecondazione in vitro in cui l’ovulo o lo spermatozoo è donato da una terza persona». In Italia è legale dal 2014 per le coppie eterosessuali (tra le condizioni c’è che sia il futuro padre che la futura madre siano ancora in vita). Nel 2015 ne sono stati fatti 2.800 cicli, e sono nati così 601 bambini, mentre sono stati comprati all’estero — una pratica denunciata dalla Chiesa cattolica e da una parte del movimento femminista come sfruttamento commerciale — oltre tremila contenitori di ovociti e duemila di spermatozoi, soprattutto da Repubblica Ceca, Scandinavia, Grecia, Spagna e Svizzera. Rimane illegale la maternità surrogata, anche se si stima che circa 200 coppie italiane all’anno la facciano all’estero.