sabato 24 settembre 2016

Repubblica 24.9.16
Quando Truffaut intervistò Hitchcock e nacque il cinema come lo conosciamo
Il libro edito da Laffont nel 1966 fu una rivoluzione, un punto di non ritorno per generazioni di cinefili
di Emiliano Morreale

Fu pubblicato per la prima volta cinquant’anni fa “Le cinéma selon Hitchcock” di François Truffaut. Il dialogo tra i due cineasti è una pietra miliare della critica cinematografica e ha avuto un’influenza determinante sulla formazione dei registi dagli anni Sessanta in poi
Negli Usa il volume arriva mentre sta incubando la new Hollywood di Scorsese Il dialogo tra i due autori è una lezione sul metodo: il punto di vista si esprime attraverso lo stile

CINQUANT’ANNI fa arrivava nelle librerie francesi il libro di cinema forse più famoso di sempre. Tra ottobre e novembre del 1966, l’editore parigino Laffont pubblica un volume grande ed elegante, zeppo di foto: Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut. Un’intervista di oltre 200 pagine, un libro di cinema come non se n’erano mai fatti e come molti se ne faranno poi. Lo hanno ricordato, qualche giorno fa, una giornata di studi all’Università di Torino, ma già l’anno scorso se n’era riparlato in occasione del documentario Hitchcock/ Truffaut di Kent Jones, distribuito in Italia da Cinema.
L’intervista in realtà era stata fatta quattro anni prima dell’uscita del libro, nel ’62. Truffaut era uno dei giovani registi europei più celebri, dopo I 400 colpi e
Jules e Jim, Hitchcock era uno dei registi più famosi, anche grazie ai telefilm da lui prodotti e introdotti. Eppure era un regista, pensava Truffaut, più noto che conosciuto. Una decina d’anni prima, infatti, il ventenne Truffaut e i suoi coetanei Godard, Chabrol, Rohmer (critici e non ancora registi) avevano intrapreso una battaglia prendendolo a modello della “politica degli autori”. Non è il contenuto, l’impegno la cosa decisiva, dicevano, ma lo stile che è già una visione del mondo: e dunque i registi del cinema hollywoodiano, Hitchcock in testa, sono autori a pieno titolo. Ma per gli americani quel regista era ancora solo un grande tecnico, il mago del brivido e nulla più. Grazie al libro di Truffaut, invece, e al lavoro di critici come Andrew Sarris e di un altro critico-regista come Peter Bogdanovich, l’idea dell’“autore hollywoodiano” entra anche in America. Il libro andrà molto meglio negli Usa che in Francia.
Il primo incontro con Hitchcock era avvenuto in Costa Azzurra nel ’54, sul set di Caccia al ladro. Truffaut e il suo amico Chabrol, uscendo eccitati dall’incontro, erano finiti in piscina infradiciandosi. Nei racconti successivi di Hitch, i due erano vestiti da prete e da poliziotto: una maniera ironica, forse, di caratterizzare la lettura un po’ spiritualista dei critici francesi, per i quali il mago del brivido era anzitutto un cantore della tentazione, del male e della colpa.
Nel ’62 Truffaut non è più un critico ma un regista, e come regista progetta il libro: preparazione, riprese (una settimana d’incontri, 50 ore di registrazione), montaggio (sbobinatura, sistemazione del testo) e alla fine il reperimento delle immagini. In Italia non lo sapevamo, perché il libro a lungo è stato pubblicato senza foto, ma la grande novità era anche lo stretto legame tra il testo e i fotogrammi o le foto di scena, che il francese era andato a reperire in giro per l’Europa. Risultato, quattro anni di lavorazione a singhiozzo, durante i quali i due conversatori hanno il tempo di fare due film a testa: uno Marnie e Il sipario strappato, l’altro La calda amante e Fahrenheit 451 (che sono due film diversamente “hitchcockiani”, l’ultimo, poi, guarda caso storia di uomini-libro...).
Negli Usa, Il cinema secondo Hitchcock arriva mentre si sta incubando quella generazione di registi-cinefili che scaleranno la Hollywood anni 70 (il nome più esemplare è Scorsese) e diventerà un testo fondamentale per generazioni di appassionati. Senza la passione di quella generazione sarebbe oggi inimmaginabile il cinema di Tarantino o quello dei fratelli Coen. E in molti, critici o registi, hanno poi fatto i loro libri-omaggio ai maestri (fino al libro di Tornatore su Francesco Rosi). Eppure Il cinema secondo Hitchcock oggi sembra un libro che chiude una stagione d’oro della cinefilia, più di quanto non ne apra una. In Francia la moda della politica degli autori declina, i Cahiers du cinéma scoprono semiologia e psicanalisi, e infine, col ’68, la politica. È difficile, forse, immaginare che una passione come quella di Truffaut per il suo maestro abbia ancora senso per un ventenne o un trentenne di oggi. Eppure se non altro torna d’attualità la lezione di fondo: in un’epoca in cui le scuole di scrittura insegnano schemi narrativi scolastici e le serie propongono il primato della narrazione sulla messa in scena, dello showrunner sul regista. Il dialogo tra Hitchcock e Truffaut ci ricorda l’inscindibilità di contenuto e forma, l’importanza di un punto di vista sul mondo che si esprime attraverso lo stile e la maniera di guardare le cose, in una continua dialettica tra l’individualità creatrice e il sistema produttivo.
Repubblica 24.9.16
L’artista è un combattente la sua sola arma è internet
Un’estetica al servizio della verità che passa dalla poesia alla prosa
di Achille Bonito Oliva

Indubbiamente Ai Weiwei è un combattente. Pronto allo scontro in nome della causa, la sua libertà e quella degli altri. Lo fa con le opere e col comportamento sociale. Usa l’arte come lente d’ingrandimento di tragedie umanitarie e soprusi civili. Vero e proprio inviato speciale nella realtà, l’artista cinese esplora numerose geografie il suo paese ed altri più lontani. Intercetta così drammi e catastrofi che vanno dal terremoto nel Sichuan del 2008 ai naufragi dei migranti nel Mediterraneo. Internet è lo strumento che gli permette ogni esplorazione e vagabondaggio, per produrre e sviluppare un’informazione al servizio della verità e della libertà di espressione. Ecco allora l’arte trova una sua funzione sociale e partecipa all’emancipazione dei popoli attraverso processi di conoscenza legati alla velocità del web. Così smaschera la catastrofe umanitaria del terremoto cinese e costringe le reticenti autorità locali e gli imprenditori corrotti ad assumersene le responsabilità. L’accanimento di questa ricerca va oltre l’etica della pura informazione e accede invece a una pietas più attinente al patos di un’arte che sceglie di passare dalla poesia alla prosa, da una poetica dell’io a una del noi. Evidente è il richiamo al ready made di Duchamp, alla scultura sociale di Beuys e all’empatia tecnologica di Warhol. Nello stesso tempo presente è il genius loci della sua estrazione orientale anche attraverso l’uso della porcellana, il legno pregiato ed altri materiali della tradizione cinese.
Semi di girasole è il titolo dell’opera presentata alla Tate Modern di Londra nel 2011, 15 milioni di semi in porcellana in memoria delle carestie al tempo di Mao che provocarono 3 milioni di morti. In tal modo la memoria di una tragedia si tramuta nella definizione di una forma a futura memoria. In Cina sembra contare il numero e non il singolo individuo e dunque la quantità dei semi riporta l’attenzione su una catastrofe rimossa dalla politica. Invece Ai Weiwei ci ricorda che l’arte è sempre inevitabilmente politica e coinvolge il corpo sociale come spettatore o attivo partecipe.
A Kassel, per Documenta 2007 nell’opera Fairtale, ha portato con sé 1001 compatrioti, e altrettante vecchie sedie cinesi, liberi di circolare nella città tedesca e farsi un’idea della gente locale interagendo con la popolazione e col mondo dell’arte. In tal modo Ai Weiwei ha promosso uno sconfinamento pacifico e un cortocircuito antropologico di popoli lontani tra loro, un’esperienza inedita per i 1001 invitati senza vincoli o pericoli censori. In tal modo l’arte svolge un’autentica funzione liberatoria, promuove inediti contatti, e forse un’esperienza irreversibile senza possibilità di ritorno ad una obbedienza collettiva, frutto anche di un alibi ideologico.
Rapporto dunque col proprio tempo e con quello della storia. Dialogo con la storia dell’arte, anche occidentale, come si evince dalla grande installazione che scandisce l’architettura esterna di Palazzo Strozzi. Simmetria, proporzione e paradossale armonia trovano riscontro in un’installazione che restituisce all’arte il valore di intensa comunicazione.
I gommoni dei migranti sembrano stimmate visive di una memoria in transito. La sovrapposizione di una tragedia che si svolge nel presente a un passato ormai archiviato attraverso lo stile dell’architettura Rinascimentale. Ottusa è l’accusa di taluni ad Ai Weiwei di estetismo che invece tramuta il suo impegno civile e la visione di un mondo liberato nelle forme durature di un’arte senza bavagli e senza frontiere.
Io dico che l’arte, anche quella di Ai Weiwei, è un massaggio al muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva.
Repubblica 24.9.16
A Palazzo Strozzi a Firenze la mostra del maestro cinese Ai Weiwei
Tra biciclette, zainetti e selfie l’opera è un inno alla libertà
di Leonetta Bentivoglio

Ci sono molti modi di dire le cose, e l’arte contemporanea sceglie spesso il più indiretto e obliquo nel ventaglio di significati. Apre squarci interrogativi più che dare risposte. Provoca concettualmente più che coinvolgere. L’artista cinese Ai Weiwei procede in tutt’altra direzione. Con le sue opere perfide, spassose, provocanti, “spalancate” verso i sensi del visitatore, esplicite nei messaggi, limpide nel trasmetterci la rabbia politica dell’eterno dissidente, ama viaggiare nell’urgenza di una comunicazione immediata. Forse proprio a questo suo tratto coraggiosamente diretto, quasi elementare per evidenza, Ai Weiwei deve il suo enorme successo. Al suo lavoro pluridecennale Palazzo Strozzi dedica la prima, grande retrospettiva italiana, che coincide col più completo ritratto mai tributatogli.
Appena inaugurata a Firenze, la mostra, il cui titolo, Libero, è semplice e aperto come tutto il mondo di Ai Weiwei, sarà in corso fino al 22 gennaio.
La dimora rinascimentale che l’accoglie è occupata in ogni spazio dalle strategie di questo lottatore, impadronitosi del fuori, del dentro e del sotto. Spicca all’esterno una fila di gommoni appesi alle facciate come un perimetro scarlatto, scandendo le linee armoniose dell’edificio e riprendendo la sagoma delle finestre. Il monumento sta meritando quindi una “Nuova cornice” ( Reframe), e presenta così un punto di vista scioccante e ludico applicato a un vessillo della storia d’Occidente. La tragedia di profughi e migranti si specchia nella fragilità delle strutture cui aggrapparsi, emblemi spaesati sui muri di Palazzo Strozzi come i destini di chi approda in un’Europa ignota.
Nel cortile svetta Refraction, un’ala costruita con pannelli solari e ancorata al suolo. La sua tagliente incombenza suscita un effetto claustrofobico che riflette l’oppressione delle prigionie, come quella imposta ad Ai Weiwei nel 2011, quando venne chiuso per 81 giorni dalla polizia in un luogo segreto. Nel piano nobile ci si ritrova immessi dentro il labirinto di biciclette di Forever, pronte a farci immaginare l’affollamento delle strade in Cina, l’angoscia del suo traffico e l’importanza della libertà di muoversi per chi non ce l’ha. La muraglia di bici moltiplica il ricordo di Ruota di bicicletta, un ready-made di Marcel Duchamp, maestro di riferimento della gioventù newyorkese di Weiwei insieme ai surrealisti, ai dadaisti e agli esponenti della pop art.
Un’altra sala ospita Snake Bag (“Borsa Serpente”), dove 360 zainetti scolastici, omologati nel loro identico bianco e nero, si assemblano in un serpentone. Il mostro invade una parete cristallizzando la memoria del terremoto del 2008 in Sichuan, dove morirono settantamila persone. Migliaia di studenti restarono sotto le macerie di scuole crollate a causa dei materiali scadenti con cui erano state costruite, e Ai Weiwei fu in prima linea nel denunciare le colpe del governo. L’itinerario espositivo comprende anche oggetti preziosi e realizzati con tecniche raffinate, in un’oscillazione ironica e sofferta tra il riconoscimento dell’antica cultura cinese e la protesta per gli abusi del presente o del passato prossimo. Con la delicatezza della porcellana, Ai Weiwei affronta temi spaventosi quali il mercato degli organi in Cina, riproducendo pezzi anatomici. O accatasta 1.500 granchi che rammentano la presenza di questi crostacei nell’iconografia tradizionale. O plasma copie di resti umani ritrovati in uno dei campi di lavoro nei quali, durante la Rivoluzione culturale, venivano rinchiusi dissidenti come il poeta Ai Quing, padre di Ai Weiwei, che fu esiliato per vent’anni.
Sezione forte della mostra è quella dei lavori in legno, che reinterpretano metodi di falegnameria autoctoni e secolari, estranei all’uso di chiodi, viti e colla e fondati su incastri prodigiosi: Grapes lega in un grappolo 34 sgabelli innalzando un acuminato maniero capace di vincere la forza di gravità e di proliferare nella ripetizione di un modulo. Un’altra tecnica cara all’artista, ma stavolta radicata nel registro più pop della sua eclettica e multimediale indole creativa, sono i faccioni realizzati con i Lego raffiguranti personaggi che hanno subito privazioni della libertà. Per Firenze sono Dante, Filippo Strozzi (bandito dai Medici), Girolamo Savonarola e Galilei.
Si svelano nelle teche rifacimenti pregiati di Sex Toys e delle manette imposte a Ai Weiwei durante la prigionia. Ma qui acquisiscono un tono di grazia in quanto fatte con la giada. E soprattutto in queste operazioni è chiaro come nulla di selvaggio o improvvisato turbi il rigore estetico dell’artista. Lo dimostra anche il tappeto formato da migliaia di fiori di porcellana lavorati a mano di Blossom (“Fioritura”, 2015). Però altre volte, spinto da un rapporto distruttivo con le ambivalenze del suo paese, compie gesti barbari e iconoclasti: per esempio riproponendo la devastazione dell’eredità storica perpetrata dal suo governo in una serie di vasellame neolitico da lui insultato con brutali vernici per carrozzeria.
Essendo Ai Weiwei un eroe dei social, seguito da milioni di fan non solo in Cina e a dispetto dei ripetuti oscuramenti dei suoi blog, la mostra abbonda di testimonianze del suo lavoro in rete e della sua frenesia di riproduzioni di sé, dai selfie fino alle immagini di proteste virali on line e ai monitor che documentano gli sviluppi della sua vita. Compresi i numerosi inseguimenti che ha dovuto subire: geniale per humour è la raffica di “foto di sorveglianza”, lungo la quale Ai Weiwei scova e ritrae i suoi aguzzini e le frotte di segugi che ha alle calcagna. Ed emana uno sprezzo esilarante e levigato il “vaffa” del suo dito medio eretto davanti a siti intoccabili come la Casa Bianca o a quadri mitici come la Gioconda. Il piano sotterraneo di Palazzo Strozzi, detto Strozzina, è ricco di opere soprattutto degli inizi. Vi si ammira tra l’altro un’ampia carrellata di studi fotografici in bianco e nero che splendono di magnetismo nella purezza dei contrasti e nella logica nobile dei rapporti formali, facendo emergere una struggente voglia di bellezza nonostante tutto.4
La Stampa TuttoLibri 24.9.16
Anche qui un disastro di Roma
di Luciano Genta

Altro che la rinuncia alle Olimpiadi! Qui c’è un antico disastro di Roma, la disfatta di Teutoburgo, 9 dopo Cristo, ricordo liceale se non altro per il grido di Augusto: «Varo, rendimi le mie legioni»: la racconta, romanzando con fedeltà fonti storiche e letterarie, Valerio M. Manfredi, il più diretto anche se lontano inseguitore della Moyes, imperturbabile capoclassifica con i 100 punti pur scesi a 13 mila copie. Echi di «barbari» germanici anche per la Sánchez che riapre la caccia di Julián e Sandra nel sequel delle Foglie di limone, subito 3°, a ridosso di Manfredi. Altre due novità tra i primi 10, autori vicini solo per l’età (89 e 81 anni): l’intervista di Ratzinger (5°) ripercorre formazione spirituale, ricerca teologica, scelte di vita sino alla rinuncia al pontificato, dimesso ma «non fallito»; Pansa (9°) inscena da gran guascone una commedia di piaceri senili, mescolando fantasie e cronache, conversando, tramite due alter ego, con l’adorata compagna: il genere «tira», in varia primeggia la dieta «per vivere sani sino a 110 anni». Infine, 5° ingresso, c’è la cantante Emma Marrone (10°) che su Facebook precisa «non è una biografia, non è un libro», viva la sincerità. Spulciando fino al 20°, si trovano la Vinci (13°), meritato effetto Campiello, e Odifreddi (19°) con il Dizionario della stupidità: indispensabile per i tanti che han contribuito alla Teutoburgo del Salone del libro.
La Stampa TuttoLibri 24.9.16
Viva la Revolución
In America Latina la rivoluzione era un’avventura
Da Cuba ai sogni di guerriglia impossibile un secolo di utopie, dittature, dolorose cantonate
di Giorgio Fontana

Quando si recò per la prima volta in Sudamerica, nel 1962, Eric Hobsbawm era spinto come molti da ragioni non strettamente accademiche. Dopo la vittoria castrista di tre anni prima, il continente appariva agli intellettuali quale un alveo straordinario di possibilità insurrezionali. Viva la Revolución è un buon compendio di tale esperienza, anche perché contiene quasi solo analisi in presa diretta: salvo alcune eccezioni, gli articoli raccolti dal curatore Leslie Bethell datano fra i primi anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. In particolare, scrive Bethell, lo storico riteneva «che per l’America Latina […] la scelta non fosse tra un cambiamento graduale e la rivoluzione, bensì tra quest’ultima e la stagnazione o il caos». Purtroppo, molti sogni sognati nel continente finirono male. Anche per questo ha senso cominciare dalla fine del libro.
Nell’articolo conclusivo, Una relazione quarantennale con l’America Latina, Hobsbawm propone un bilancio. Forse sorprenderà l’ammissione di non aver voluto diventare «un esperto» di questa storia; ma non dovrebbe. Nell’America Latina egli vide un luogo «fatto apposta per scardinare le verità convenzionalmente accettate». Là, gli schemi concettuali della sinistra europea non bastavano a rendere ragione dei fatti: «capi di destra che diventavano ispiratori di movimenti dei lavoratori (in Argentina e Brasile), ideologi fascisti che si univano a un sindacato di minatori di sinistra per fare una rivoluzione che desse la terra ai contadini (Bolivia), l’unico Stato al mondo che ha di fatto abolito il proprio esercito (Costa Rica)», e così via. In sintesi: «Secondo i nostri standard […] quel posto semplicemente non ha senso».
Ma fu proprio lo studio di questo non senso a essere salutare. Frequentando a più riprese il Sudamerica da marxista critico, Hobsbawm ne colse l’assoluta originalità. L’indipendenza nazionale conquistata senza l’ingresso delle masse in politica; la persistenza di uno sfruttamento feudale delle haciendas al fianco del capitalismo; la centralità della povertà rurale e delle occupazioni di terre; l’enorme accelerazione urbana; la diffusione della guerriglia contadina… Tutto ciò rendeva i canoni dell’ideologia nostrana non più applicabili in modo pigro. Le stesse parole «liberalismo» e «comunismo» acquistavano un significato diverso. Al rigore storico si aggiunge così un altro pregio: l’analisi di Hobsbawm consente, ancora oggi, di liberarsi dalle tentazioni (inconsce o meno) di un colonialismo del pensiero.
Nel complesso, l’antologia è ben costruita salvo qualche articolo un po’ troppo prolisso, e forse non del tutto necessario. Uno dei suoi meriti è di offrire sia una lettura globale del fenomeno rivoluzionario in Sudamerica, sia una rassegna delle singole esperienze locali. Hobsbawm si preoccupa anche di confutare molte convinzioni errate, specie l’idea che in quel continente la rivolta abbia avuto «un’unica ricetta»; e sottolinea con amarezza lo strano «alone di irrealtà» e di scarsa analisi politica che accompagnava le guerriglie. A parte la Colombia, il Venezuela e l’Uruguay, «nessuna insurrezione rurale venne mai intrapresa sulla base di un’analisi politica seria, o con reali prospettive di successo». Né riuscì nell’impresa il glorioso Cile di Allende, la cui via pacifica e pluralista al socialismo fu stroncata con ferocia.
In effetti, queste storie terminano quasi per intero con dei fallimenti. Ma tale esito non implica che il potenziale del continente fosse in realtà scarso: al contrario. Le forze rivoluzionarie da un lato si espressero a volte goffamente o con tattiche suicide; e dall’altro furono stroncate. Per quanto concerne il primo punto, Hobsbawm era convinto fin da subito della non replicabilità dell’esperienza cubana, il cui successo fu dovuto soprattutto alla fragilità del regime di Batista. Il mito romantico da essa generato — cui si accompagnò quello di un Guevara libertario e quasi byroniano, che l’autore decostruisce già nel 1968 — portò a una sopravvalutazione del fochismo. (In effetti i fuochi di guerriglia divamparono ovunque, ma invano). E per quanto riguarda le responsabilità esterne del fallimento, un peso enorme spetta ai golpe e alle ingerenze del rigido imperialismo statunitense — su cui Hobsbawm è altrettanto severo. Il computo non è comunque negativo: nonostante il distacco e la lucidità di cui sono intrise, le pagine di Viva la Revolución ogni tanto si accendono di passione per una vicenda dove molti sono sì caduti, ma lottando.
Repubblica 249.16
Quei migranti italiani arsi vivi 115 anni fa l’America spezza l’oblio
Un monumento in Michigan per le cento vittime di uno dei più grandi disastri ferroviari degli Usa. I loro corpi furono gettati in una fossa comune
di Alberto Flores D’Arcais

NEW YORK. Quel 27 novembre 1901 era la vigilia di Thanksgiving, un freddo e cupo pomeriggio d’autunno che in Michigan significa inverno inoltrato. Vicino a Seneca, piccolo villaggio a poche miglia dal confine con l’Ohio, la Wabash Railroad aveva un solo binario. Il Continental Express viaggiava spedito alla volta di Detroit con il suo carico di famiglie che andavano a celebrare la festa del Ringraziamento, il treno numero 13 invece arrivava da New York, due carrozze letto di prima classe per i ricchi passeggeri, un vagone più economico e tre carri-bagaglio. Negli ultimi due, «ammassati come sardine», c’erano un centinaio di poveri immigrati italiani (diversi con mogli e figli al seguito) che nel Midwest e nelle miniere di Colorado e California cercavano un futuro più umano.
Erano le 6 e 45 del pomeriggio, l’impatto fu terribile. I vagoni di legno, frantumati in mille pezzi, presero fuoco per le lampade a cherosene, l’incendio e i detriti impedirono la fuga, la temperatura raggiunse i mille gradi, i vagoni si trasformarono in una trappola mortale. Sul Continental, per tanta fortuna e la presenza di spirito di un macchinista, si salvarono quasi tutti. Nei carri-bagaglio del treno numero 13 gli immigrati italiani vennero ridotti in cenere, cremati senza scampo in pochi minuti. Le cronache dell’epoca parlano di «terrificante olocausto», i primi soccorritori assistono impotenti a quella scena infernale con le fiamme che consumano i rottami, un fuoco devastante che era visibile a otto chilometri di distanza.
Le case di Seneca e Sand Creek, i due paesi più vicini, vennero trasformate in ospedali di fortuna, da Adrian (il centro più grande della zona) arrivarono medici ed infermieri. Nel giro di 24 ore, con la notizia (e qualche dettaglio raccapricciante) diffusa da tutti i giornali, migliaia di curiosi invasero i binari. I dirigenti della ferrovia diedero ordine di riaprire la linea «il più velocemente possibile» e quello che negli anni divenne noto come il “Wreck on the Wabash” — uno dei più grandi disastri ferroviari nella storia degli Stati Uniti — lasciò una scia di dubbi e qualche mistero. Una rapida inchiesta stabilì che l’incidente fu colpa del Continental Express, al treno numero 13, che aveva avuto una giornata particolarmente tribolata (ore di ritardo, un motore rotto) era stata data la precedenza. Nell’elenco ufficiale delle vittime la Wabash mise solo i 23 passeggeri con biglietti di prima e seconda classe, quel centinaio di immigranti italiani che avevano viaggiato come animali divennero morti-fantasma.
Per oltre un secolo nessuno ha saputo nulla di loro. Uomini, donne e bambini spesso ai margini della società, gli immigrati italiani che nei primi anni del Novecento raggiungevano la loro Terra Promessa erano considerati dei “diversi” nell’America vittoriana. Abitudini, religione, lingua, cibo e modo di vivere erano troppo distanti da quella “società perbene” che li considerava solo carne da lavoro. Per cento di loro quella vigilia di Thanksgiving e quel treno dal numero maledetto (negli Stati Uniti il 13 equivale al 17 napoletano) fu sinonimo di oblìo definitivo. Le ceneri e i pochi resti raccolti da qualche mano pietosa vennero ammassati in cinque piccole bare e portati — all’insaputa di tutti — nel cimitero di Oakwood ad Adrian. Nessuno si preoccupò di mettere un segno o di scrivere qualcosa su quelle casse di legno, che vennero abbandonate in una specie di fossa comune nella parte meno frequentata del cimitero (Oakwood ha oltre ventimila tombe). Ci sono voluti 115 anni. Alla fine, grazie all’impegno di una storica locale (Laurie Perkins, autrice del libro “Wreck on the Wabash”), di Kyle Griffith (sovrintendente in una scuola media della contea) che per anni ha insegnato ai suoi studenti la storia dell’immigrazione attraverso il locale disastro ferroviario, del sindaco di Adrian Jim Berryman e del consolato italiano a Detroit il mistero è stato risolto. «Ero imbarazzato per la mancanza di rispetto verso gli uomini che hanno perso la vita in quel tragico incidente e per le loro famiglie», ha raccontato Berryman che una volta scoperto il luogo della informale sepoltura, il 7 giugno scorso ha lanciato un crowdfunding (obiettivo 12mila dollari, raccolti 13mila nel giro di poco più di due mesi) per una scultura a ricordo delle vittime. Affidata all’artista italo-americano Sergio De Giusti.
Questa mattina nel cimitero di Oakwood la scultura-monumento verrà svelata durante un Memorial Service dedicato agli immigranti italiani. Il sindaco ha già pronte le parole: «Dopo 115 anni è arrivato il tempo di onorare la memoria di uomini, donne, madri, padri, figli e figlie che hanno perso la vita in uno dei più tragici incidenti della storia degli Stati Uniti».
La Stampa 24.9.16
Una spia presa dai fascisti nel ’43
Ecco chi era il vero James Bond
Inglese, venne paracadutato a Como e usava le stesse armi dell’eroe di Fleming La sua storia riscoperta da un italiano. Siena lo celebra con una medaglia d’oro
di Vittorio Sabadin

James Bond è esistito davvero, e quando era in missione usava gli stessi gadget che abbiamo visto nei film di 007: coltelli nascosti, apparecchi per trasmettere a distanza, pellicole celate nelle batterie di una pila e persino tute da sub sotto le quali indossare normali vestiti, come lo smoking che Sean Connery sfoggia uscendo dall’acqua in «Goldfinger». Richard Mallaby era uno Special Operation Executive inglese, e aveva solo 24 anni quando fu paracadutato sul Lago di Como da un bombardiere Halifax. Nell’agosto del 1943, la sua missione era prendere contatto con i gruppi partigiani, per coordinarne l’attività con il comando britannico. Prima della partenza, anche lui aveva incontrato il mister Q dell’epoca, che lo aveva dotato di una serie di dispositivi che potevano aiutarlo nella missione. Il primo era proprio una tuta a tenuta stagna che aveva protetto i suoi abiti durante il tuffo nel lago, consentendogli di arrivare a riva perfettamente asciutto.
Come sempre accade nei film di James Bond, pure nel caso di Mallaby le cose all’inizio non sono andate per il verso giusto. L’incursione nel territorio dei cattivi si è conclusa con una cattura da parte dei fascisti, che lo hanno interrogato duramente, com’è poi toccato a Daniel Craig in «Casino Royale» o a Pierce Brosnan in «La morte può attendere». Come nei film, non c’è stato però bisogno di confessare: la sua identità di agente segreto è stata scoperta dai gadget che portava con sé. Mescolati al dentifricio c’erano dei codici segreti, nel pennello da barba era nascosto un piccolo cristallo che poteva servire a costruire una radio trasmittente, nelle pile di una torcia c’erano pellicole fotografiche e sotto a un braccio l’agente segreto nascondeva un coltello.
Mallaby rischiava di essere fucilato, ma come nei film di Bond riuscì a farsi qualche amico nel campo dei cattivi. Era nato a Ceylon da genitori inglesi che si erano poi trasferiti in una proprietà di famiglia nei pressi di Siena, Villa Poggio Pinci. Parlava perfettamente italiano e riuscì a convincere i suoi aguzzini che, visto che la guerra per loro era ormai persa, avrebbero fatto meglio a portarlo a Roma, dove c’era molto da fare. In poco tempo, Mallaby conquistò la fiducia di Badoglio e divenne il tramite tra il Maresciallo e il comando anglo-americano di Algeri nel negoziato per l’armistizio. Quando Badoglio e Vittorio Emanuele III fuggirono a Pescara e poi a Brindisi, c’era anche lui ad accompagnarli. Conclusa la sua missione, Mallaby tornò a Londra come se niente fosse, senza nemmeno una Moneypenny ad aspettarlo nell’anticamera dell’ufficio di M.
Due anni dopo, nel 1945, l’agente segreto fu nuovamente mandato in Italia, questa volta attraverso il confine svizzero. Il nemico ora erano i tedeschi, che immancabilmente lo catturarono subito. Nelle mani delle SS Mallory rischiò di nuovo il plotone di esecuzione, ma riuscì invece a entrare in contatto con il comandante Karl Wolff, e a diventare anche questa volta l’uomo di collegamento nella trattativa con gli Alleati che portò alla resa degli 800.000 soldati tedeschi stanziati in Italia.
Alla vita di questo nascosto eroe della Seconda guerra mondiale ha dedicato un libro lo storico italiano Gianluca Barneschi («L’inglese che viaggiò con il Re e Badoglio»), un saggio che ha avuto il merito di risvegliare anche a Londra l’interesse dei giornali e del Foreign Office per le imprese del loro agente. Mallaby è morto a Verona nel 1981, a 62 anni, ed è sepolto nella proprietà di famiglia, a Villa Poggio Pinci. Il Comune di Asciano, il suo paese in provincia di Siena, gli ha ora conferito una medaglia d’oro, consegnata ai tre figli, per ringraziarlo del coraggio e dell’eroismo dimostrati nelle sue missioni in Italia. Giorgio VI gli aveva assegnato una semplice Military Cross, la medaglia che era stata data anche a Francesco Baracca e a Gabriele D’annunzio. Questa gli farà sicuramente più piacere.
Repubblica 24.9.16
Le università non diventino un luogo di censura
di Timothy Garton Ash

LE UNIVERSITÀ dovrebbero essere luoghi sicuri — spazi in cui la libertà di espressione è tutelata. Quando ho iniziato a occuparmi di questo tema qualche anno fa non avrei mai immaginato che le minacce alla libertà di espressione in ambito universitario sarebbero diventate oggetto di un dibattito acceso come quello odierno nel mondo anglofono.
Il rettore dell’Università di Chicago recentemente in un messaggio rivolto alle matricole ha scritto «noi non siamo favorevoli ai cosiddetti trigger warnings (segnalazioni dei contenuti di un corso o di un testo che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni o rievocare traumi), non cancelliamo gli interventi di oratori potenzialmente fonti di polemiche e non tolleriamo che si creino spazi intellettuali “sicuri”, protetti, in cui gli individui possano ritirarsi per sfuggire a idee e prospettive in contrasto con le proprie». E una fortissima polemica è scoppiata nel momento in cui l’Università di Cape Town ha annullato (a mio parere a torto) l’invito a tenere una conferenza rivolto a Flemming Rose, il giornalista che commissionò le “vignette danesi” su Maometto.
Il premier britannico Theresa May, in risposta a una interrogazione parlamentare, ha criticato il concetto di spazi sicuri. Ma il motivo principale per cui le università britanniche sono alle prese con la problematica della libertà di espressione deriva dall’obbligo di “prevenzione” loro imposto dalla normativa antiterrorismo varata dal ministero dell’Interno all’epoca in cui May ne era a capo, normativa che nella scandalosa versione originaria chiedeva agli accademici di farsi spie e censori dell’estremismo, anche non violento (mai adeguatamente definito). Così, come per la Brexit, May potrebbe essere a favore della libertà di espressione, oppure contraria.
Uno dei problemi che affliggono questo dibattito sta nel fatto che le valutazioni importanti, ardue, su cui dovrebbe concentrarsi sono offuscate dalle iperboli e dagli isterismi che le accompagnano come le turbe chiassose al seguito delle armate medievali. Questo dibattito usa un linguaggio tutto nuovo: trigger warnings, spazi sicuri, no- platforming (non dare la parola a persone o organizzazioni razziste o fasciste), microaggressioni. Ed è fortemente politicizzato.
Alla convention repubblicana di quest’anno in Ohio gli oratori uno dopo l’altro si sono guadagnati l’applauso della platea scagliandosi contro il “politicamente corretto”. Nessuno ha avuto bisogno di spiegare cosa intendesse: è bastato sparare quelle due parole per innescare una reazione pavloviana.
Ma quella che si potrebbe in senso lato definire la controparte è spesso il maggior nemico di se stessa. Il New York Times recentemente ha pubblicato un articolo sul discorso di presentazione tenuto alle matricole dalla responsabile per la diversità della Clark University. Tra gli esempi di “microaggressioni” la funzionaria includeva l’uso del maschile nelle espressioni generalizzate come «voi ragazzi» perché potrebbe essere interpretata come tesa a escludere le donne. «Grazie, ho capito che anch’io sono colpevole di microaggressioni», è stato il commento di una studentessa ispanica che si era ripetutamente macchiata di quello scellerato errore. Che tristezza, che ansia. Il campus si trasformerebbe in un asilo infantile puritano se gli studenti dovessero sempre fare attenzione a non turbare questo o quello.
Ma dopo aver parlato per ore di questo argomento con studenti e colleghi credo sia d’obbligo qualche distinzione. Tanto per cominciare l’azione pacifica, anche se provocatoria, di cambiare nome a edifici, statue, titoli, offerte formative e così via da parte degli studenti non minaccia in genere la libertà di espressione anzi, può rafforzarla.
Gli ex alunni possono brontolare finché vogliono contro il movimento per la decolonizzazione Rhodes Must Fall di Oxford minacciando di ritirare le donazioni, ma se l’attivismo studentesco ha contribuito all’iniziativa ammirevole dell’Università di Georgetown di fare ammenda per aver usato e venduto schiavi agli inizi dell’Ottocento è sicuramente un bene. È interessante notare che alcuni giovani ricercatori di Oxford hanno dato avvio a un dibattito simile riguardo alla biblioteca dell’All Souls College intitolata a Christopher Codrington, proprietario di schiavi.
Uno studente di Chicago difende i trigger warnings criticati dal rettore, sostenendo che un professore non deve far altro che avvertire i suoi alunni che il testo che andranno a leggere contiene ad esempio la descrizione esplicita di una violenza sessuale. In linea di principio tutto questo non si configura come violazione della libertà di espressione. I conduttori televisivi avvisano quando il servizio successivo contiene immagini in grado di turbare certi telespettatori, ci siamo abituati. Ma se si tratta delle Metamorfosi di Ovidio è assurdo, si passa il segno. Va bene vigilare sui possibili effetti terrorizzanti, ma se il brivido è moderato e giustificato, che bisogno c’è?
Lo stesso studente spiega che gli “spazi sicuri” sono zone del campus in cui «gli studenti, in particolare coloro che hanno subito traumi o si sentono emarginati, ma non solo loro, possono parlare con tranquillità delle proprie esperienze», e fa l’esempio di un centro gestito da un’organizzazione ebraica. Se si tratta solo di questo ancora una volta può essere di sostegno alla libertà di espressione: le persone possono parlare più liberamente se sentono di essere “tra di loro”, e dato che si isolano spontaneamente dovrebbero essere liberi di farlo (è interessante chiedersi se il concetto di spazio sicuro si applichi a quel genere di bianchi privilegiati che in Inghilterra chiamiamo Hooray Henrys). Ma non è questa spesso l’accezione del termine nelle università britanniche e americane. Si vorrebbe invece che tutto l’ateneo fosse uno spazio sicuro. Ho sentito spesso dire da studenti britannici che invitare un oratore fascista o transfobico nel loro college è come «accoglierlo nel soggiorno di casa».
E’ qui che chiunque crede che la libertà di espressione in un’università sia fondamentale deve mettere dei paletti. Perché gli studenti che ad esempio chiedono di vietare a Germaine Greer di parlare in un determinato campus (per le sue opinioni sulle transgender) pensano che un gruppo di studenti abbia il diritto di impedire ad altri studenti di ascoltare un intervento che in realtà questi ultimi desidererebbero sentire. Questo
no- platforming è in realtà una censura esercitata da studenti sugli studenti. Sostenere che realmente un individuo possa non essere “al sicuro” perché in un’aula all’estremità opposta del campus una persona esprime opinioni che questo individuo considera offensive o traumatizzanti nei propri confronti significa abusare del termine.
In realtà l’interrogativo che dovremmo porci è che tipo di spazio sia l’università. E la risposta, che spiega anche in parte la confusione, non può essere che questa: vari tipi di spazio in cui dovrebbero valere criteri differenti.
Quindi nessuno dovrebbe essere obbligato a far entrare Donald Trump nel suo dormitorio o ad accoglierlo come ospite d’eccezione alla serata ispanica. Né vorrei vederlo in cattedra nella facoltà di scienze politiche né a tenere conferenze sui rapporti razziali. Ma vorrei che lo invitassero a parlare in un forum studentesco e sono certo che gli altri oratori e il pubblico gli darebbero una bella strigliata.
Penso di poter affermare che l’erosione della libertà di espressione nelle grandi università occidentali per ora è marginale e limitata ad alcune tematiche particolari.
Ma dobbiamo vigilare perché le iniziative sia degli studenti che del governo potrebbero essere la punta di un iceberg. Per questo assieme a Ken MacDonald, ex procuratore capo e attualmente preside di un college di Oxford, ho formulato una dichiarazione sulla libertà di espressione il cui testo completo è disponibile sul sito web dell’Università di Oxford ed è stato adottato formalmente da un certo numero di college, tra cui quello dove insegno.
«La libertà di espressione è la linfa dell’università», esordisce e prosegue osservando che «questo significa inevitabilmente che i membri dell’ateneo si trovano a confrontarsi con opinioni considerate da alcuni traumatizzanti, estreme o offensive. L’università deve quindi promuovere la libertà di espressione all’interno di un contesto di solida civiltà».
Agli occhi di molti potrà sembrare un’affermazione scontata, ma in certi momenti una posizione liberale fondamentale va espressa in forma esplicita e questo è uno di quei momenti.
Traduzione di Emilia Benghi
Repubblica 24.9.16
I tre silenzi sulle diacone
di Alberto Melloni

HA INIZIATO i propri lavori questa settimana la commissione istituita da papa Francesco sul diaconato femminile: atto interno alla vita della chiesa ma cruciale per la fisionomia del cattolicesimo romano del secolo XX.
La commissione, per certi versi, ha un compito “facile”: deve suggerire solo quando e come “restaurare” un ministero femminile attestato nel Nuovo Testamento, là dove Paolo saluta la greca Febe, “diacono della chiesa di Cencre”. “Diacono”, non “diaconessa”, come si farà al concilio di Nicea, indicando figure che non avevano ricevuto l’imposizione delle mani.
Nella fluida situazione della prima comunità neotestamentaria c’è dunque un appiglio lessicale e teologico: che non basterà a chi sta cercando di creare la “maggioranza ostile” al papa che è loro mancata in materia matrimoniale.
Tutti, per altro verso, sono consapevoli che una “restaurazione” del diaconato potrebbe ridursi ad una operazione sterile. Il concilio Vaticano II “restaurò” ad esempio il diaconato permanente, come ministero di una chiesa serva e povera che scioglieva il nesso fra celibato e ministero affermatosi solo alla fine del primo millennio. L’esito è stato modesto: il diacono è rimasto l’unico ministro sposato della chiesa latina (fino alla decisione di Benedetto XVI di ammettere preti e vescovi sposati, ma solo se provenienti dalla chiesa anglicana) e s’è ridotto al ruolo di un chierichettone nella liturgia e di capufficio dei volontari fuori da essa.
La “restaurazione” del diaconato femminile (dunque di “diacone” ordinate e/o di “diaconesse” prive dell’imposizione delle mani) potrebbe fare la stessa fine: una onorificenza per suore e per nonne, senza impatto sulla riforma e sulla missionarietà della chiesa.
Eppure la commissione sulle diacone potrebbe segnare anche la rottura di tre assordanti silenzi che soffocano le chiese da decenni.
Il primo è il silenzio sul sacerdozio che tutte le donne e tutti gli uomini battezzati hanno già: quello che la chiesa latina chiama sacerdozio comune (in opposizione al sacerdozio ministeriale che viene dal sacramento dell’ordine). La stantia cultura che rivendicava la promozione dei “laici” — sudditi desiderosi di essere mobilitati e promossi — che si è rigenerata nell’attivismo e nel clericalismo dei movimenti, non è ancora stata scalzata da una teologia sulla dignità di quelli che il codice di diritto canonico chiama Christifideles. Se santa Febe facesse un miracolo, la commissione o un sinodo sul ministero potrebbero essere l’occasione per interrogarsi su questo.
L’altro riguarda il ripensamento teologico di una espressione — in persona Christi — grazie alla quale la cultura della subordinazione femminile del mondo antico ha vinto la concezione cristiana del battesimo in Cristo nel quale non c’è più “né maschio né femmina”. Molte chiese si sono liberate da quel paradigma alla fine del secolo XX ordinando pastore, prete e vescove cristiane in possesso dei doni di Dio necessari alla santità di una comunità: la chiesa cattolica reagì alla accelerazione con una chiusura che voleva essere “definitiva” e dichiarando nel 1994 che il tema era “indisponibile” alla chiesa. La successione apostolica al maschio-Gesù degli apostoli- maschi vincolava la capacità di agire in persona Christi a un solo genere: come se la mascolinità di Gesù non fosse una componente necessaria alla verità dell’incarnazione, ma un privilegio sessista. Ciò che è normativo di Gesù non è la sua mascolinità dichiarata dalla nudità della croce (il velo del crocifisso serve a nascondere la circoncisione non il sesso): ma la croce e la morte di croce alla quale ogni cristiano, maschio o femmina, è unito nel battesimo trinitario. Portare le donne nella sfera dell’unico ordine sacro romperebbe una reticenza e ristabilirebbe un equilibrio necessarissimo alla cristologia.
Il terzo silenzio con cui la commissione sul diaconato femminile si misura è quello sul sacerdozio ministeriale maschile ora in essere, prigioniero di un misero duello di retoriche celibatarie e anticelibatarie. Oggi in larghe parti della chiesa si vive una alternativa fra celibato ed eucarestia: perché in assenza di celibi da ordinare, si condannano le comunità a vivere senza eucarestia: una alternativa in cui un naso sano sente odore di zolfo. E che va affrontato senza furbizie e senza superficialità: non dal papa solo, ma dai vescovi che non possono nascondersi dietro un dito.
I non pochi nemici di Francesco, giovani o vegliardi, non sono contrari a che questa discussione si apra: sperano l’arcipelago antibergogliano si palesi, man mano che si avvicinano le due scelte — la nomina dell’arcivescovo di Milano e del vicario di Roma — dalle quali dipenderà non solo il futuro conclave, ma anche l’unità presente d’una chiesa. Che il papa chiama a non essere una federazione pelagiana di attivismi, ma una comunione di quelli che il Vangelo definisce “servi inutili”, e che sono gli unici indispensabili.
Repubblica 24.9.16
L’amaca
di Michele Serra
Se uno ha quattro soldi da investire, gli dicono più o meno questo: o te li giochi in Borsa, o li nascondi sotto una mattonella, come i nonni contadini. Oppure li spendi tutti al tabarin con le donnine (variante per le signore: i gigolo), come i rovinafamiglie d’altri tempi. Altra opzione non è data perché il risparmio inteso come paziente lievitazione del gruzzolo, semplicemente non esiste più. Tra la speculazione e il nulla, tra l’azzardo e lo zero, non esiste terra di mezzo: i titoli di Stato, che erano il classico rifugio del piccolo risparmio, quello prudente, quello giudizioso, hanno tassi di rendimento intorno allo zero (e anche sotto) in tutto il mondo. Quanto al famoso mattone, viene da sorridere pensando alle certezze, neanche tanto remote, dei milioni di italiani fermamente convinti che “i soldi investiti nelle case tornano sempre indietro”. La morte del risparmio è un cambiamento storico, anche se se ne parla poco. Certifica, a leggerla bene, la morte del ceto medio: chi ha il sangue freddo e le risorse per farlo (pochi!) diventa scommettitore, tutti gli altri si trasformano in spettatori spaventati e impotenti. Il capitalismo non è più un’occasione per tutti, come prometteva di essere e in qualche fase storica è quasi riuscito a essere. Sta diventando un gioco per pochissimi. Quando gli esclusi diventeranno troppi, il tavolo sarà rovesciato.
il manifesto 24.9.16
Miguel Benasayag e il cervello colonizzato dal silicio
Intervista. Parla il filosofo e psicoanalista argentino, ospite a «Next», il salone europeo della ricerca
di Riccardo Mazzeo

La psicoanalisi deve rinunciare alle sue pretese di scientificità se vuol cogliere le tendenze profonde nella realtà sociale e quanto esse si riflettano sulla dimensione individuale. Miguel Benasayag sostiene questo cambiamento di prospettiva da molti anni. Non nega cioè che la psicoanalisi possa aiutare uomini e donne in forte sofferenza psichica. Più realisticamente, invita a mettere in relazione una tecnica di intervento psicoanalitico a quanto si muove nella società. Usa un lessico mutuato dalla filosofia francese – l’«essere in situazione» di Jean-Paul Sartre, ma anche il Michel Foucault di Storia della follia – da molti anni. È questo il filo rosso che unisce saggi molti diversi tra loro, da L’epoca delle passioni tristi a Oltre le passioni tristi a La salute a ogni costo (i primi libri due pubblicati da Feltrinelli, il terzo da Vita e Pensiero).
È un punto di vista maturato all’interno del suo lavoro di «operatore sociale e psicoanalitico» che svolge in Francia seguendo giovani «a rischio», «ammalati di lavoro», «depressi sociali», ma che assume un «sapore» diverso se applicato al ruolo delle tecnologie digitali nella percezione della realtà, come testimonia il dialogo su Il cervello aumentato, l’uomo diminuito (Erickson). Nel confronto vis-à-vis con la rete, Benasayag sostiene che l’uso immersivo del computer sta amplificando alcune funzioni cognitive del cervello, a scapito tuttavia di quella caratteristica specifica dell’animale umano che è la socialità e la «naturale» attitudine a costruire relazioni con i suoi simili attraverso il linguaggio. Sono questi i temi del suo intervento all’iniziativa «Next. Umano post-umano» in corso a Trieste da ieri (Miguel Bensayag parlerà oggi). L’intervista è avvenuta prima dell’inizio della manifestazione triestina.
Nella prefazione al libro «Il cervello aumentato, l’uomo diminuito», si legge: «Forse la nostra capacità di accettare i limiti umani si è andata a nascondere in una piega della Storia e riaffiorerà in un momento più propizio, forse bisogna solo aspettare che il pendolo temerariamente sospinto in una corsa folle verso l’attuale estremo di egocentrismo assetato di trasparenza e di immortalità, giunto al suo approdo, rioscillerà tornando a una dimensione che abbandoni il farnetico del trans e del post (transumanismo, postumanismo…) per rientrare nell’alveo dell’umano».
Siamo uomini e le donne della crisi, della fine di un mondo, ma dipende da noi fare in modo che ciò non accada. Il mondo che finisce, quello che Foucault chiamava l’epoca dell’uomo, è stato segnato dall’esilio dell’uomo dal mondo e dal suo ecosistema. Si è costruita questa finzione in cui noi eravamo il soggetto di un luogo disincantato che costituiva il nostro oggetto. Era stata dichiarata guerra alla natura, e si doveva vincerla. Ogni costrizione sarebbe dovuta sparire con la promessa che l’uomo, divenuto il proprio profeta e il proprio messia, aveva fatto a se stesso.
La «guerra», come in fondo ciascuna guerra, non ha avuto che vinti, e siamo qui per dire che forse è il momento di finirla con l’esilio, che è il momento di ritornare a essere vivi fra i vivi, come scriveva Prigogine, che è tempo di creare una «nuova alleanza». L’umanesimo, che sembra così bello visto dall’Occidente, è stato il nome del colonialismo. Bartolomeo de Las Casas spiegava che anche gli indiani erano umani, di un’umanità però ancora non realizzata. Realizzare l’umanità è stato il compito del colonialismo, dell’addestramento delle vite dal razzismo fino all’epoca del capitalismo.
La crisi di quel mondo ci lascia la constatazione dura e amara del fatto che ogni guerra contro la natura è né più né meno che un suicidio. In quel momento si sarebbe creduto, un po’ ingenuamente, che la piccola umanità si fermasse un momento per riflettere, per valutare, per fare amicizia con il suo mondo della vita, vivi tra vivi. Contrariamente a quanto credeva Platone, l’uomo è un essere che affonda le sue radici nella terra, fra le altre creature a loro volta territorializzate.
E invece no: nel momento della crisi del modello della dominazione, le cose sono andate diversamente, alla crisi dell’impotenza e alla minaccia ha fatto eco un incontro davvero catastrofico, alla nostra umanità che affondava nella disperazione è giunta una nuova promessa, una nuova tentazione di vincere la natura, di schiacciare qualunque costrizione. Come la colomba di cui parlava Kant, la quale credeva di poter volare molto meglio se avesse eliminato la resistenza dell’aria.
Nell’«Epoca delle passioni tristi» ha reso evidente il fatto che il dilagare di malattie psichiche non riguardi tanto le singole persone quanto piuttosto la società per la deriva in cui è incorsa. Una posizione vicina a quella espressa di Zygmunt Bauman ne «Retrotopia», un volume in uscita Polity Retrotopia. Che cosa suggerisce come via, magari molteplice, d’uscita da questo cul de sac?
I nostri contemporanei sono lanciati in questa nuova avventura di eliminazione di qualunque limite, di qualunque costrizione, di qualunque regolazione organica, e credono che senza regolazioni, senza limiti, la libertà totale ci sia, più che promessa, dovuta.
Ma nella loro fascinazione e nella loro stupidità i nostri contemporanei ignorano appunto la differenza che faceva Kant fra limiti e confini: se i confini possono essere aboliti, i limiti, che possono cambiare, sono la condizione stessa della vita; senza limiti non c’è vita.
Se tutto è possibile, se il mondo post-organico su cui delirano ricercatori e banchieri è possibile, lo sarà sotto il segno della morte e della tristezza.
Meeting a Trieste
Il confine tra l’«umano e il post-umano
«Umano Post-umano» è il tema di Next, il salone europeo della ricerca organizzato dal comune di Trieste, l’università, la Regione Friuli Venezia Giulia, l’Area Science Park e la Scuola Internazionale di Studi avanzati. Con oltre 100 appuntamenti, l’iniziativa vuole esplorare il ruolo delle tecnologia e della robotica nella realtà contemporanea. Dall’«Etica della robotica» allo sviluppo dei Big Data, filosofi, ricercatori e psicoanalisti affronteranno i temi che si sono imposti con la diffusione della Rete e la progressiva automazione del lavoro manuale e intelelttuale. Durante Next, sarà presentato in anteprima del volume «Macchine intelligenti» di John E. III Kelly (Egea edizioni).
il manifesto 24.9.16
Il capitalismo delle piattaforme
Accordo Facebook e Israele per mettere sotto controllo la Rete, mentre le voci della vendita di Twitter scuotono Wall Street
di Benedetto Vecchi

Facebook, Twitter, Amazon, Netflix e Google sono esempi di quel «capitalismo delle piattaforme» considerato la frontiera della produzione della ricchezza. Il loro business è dato dalle informazioni che ogni utente lascia dietro di sé nelle sue navigazioni in Rete. Siti frequentati, contatti attivati, contenuti scaricati. ogni elemento è buono per costruire profili individuali e per accumularli in enormi archivi (i Big Data). All’interno di uno scambio luciferino – uso gratuito di servizi e applicazioni in cambio della cessione della proprietà sui propri dati individuali – è una forma di produzione della ricchezza sfiorata dalla crisi globale.
Finora la discussione è stata un affare per addetti ai lavori o relegata in ambiti di produzione teorica radicali. Ma poi irrompono nella scena mediatica alcune notizie e il nodo del «capitalismo delle piattaforme» torna a turbare i mouse dei «connessi h.24». La prima riguarda Facebook, la seconda Twitter.
Mark Zuckeberg si è presentato davanti alle telecamere con il premier israeliano Benjamin Netanyahu per parlare di un accordo stilato con Israele quasi fosse un capo di stato. La società statunitense e il capo del governo si sono messi d’accordo per monitorare le comunicazioni sul social network, prevenire eventuali propositi di attacco a Israele e «bannare» pagine ostili allo stato israeliano. La seconda notizia si basa su indiscrezioni riguardanti il possibile acquisto di Twitter da parte di Google e di SalesForces. L’effetto dei rumors è stato quasi immediato: il titolo di Twitter ha avuto una impennata a Wall Street.
Sono solo due esempi di come il «capitalismo delle piattaforme» sia qualcosa di più che non una suggestione accademica. Le implicazioni sono molte. Facebook diventa un guardiano dei contenuti veicolati dal social network, con buona pace della privacy e della libertà di espressione. La notizia su Twitter segnala che i cinguettii nella Rete possono smuovere miliardi di dollari.
Una volta attestata la rilevanza di quanto accade in Rete, rimane da chiarire il perché quella delle «piattaforme» sia la nuova frontiera del capitalismo.
Tutto ha avuto origine da un  patto luciferino difficile da mettere in discussione. Si arriva in rete e le società garantiscono framework, programmi informatici e applicazioni gratuiti per comunicare, scrivere, fare di conto, leggere libri e vedere filmati. A patto però tutte le informazioni sulla navigazioni, gusto e contenuti possano essere usati da quelle stesse società per fare affari, cioè vendere spazi pubblicitari e per attirare i singoli in siti che propongono applicazioni che gratuite proprio non sono. È una forma questa di «economia della condivisione» che ha portato molti economisti a blaterare di società postcapitalista.
Ma quel che viene omesso è che le informazioni sono cedute altrettanto gratuitamente e che costituiscono le merci essenziali per «il capitalismo delle piattaforme».
Qui siamo in un territorio dai confini porosi e in continuo divenire. Ad esempio, dopo decenni di difesa forsennata e liberticida della proprietà intellettuale, il capitalismo delle piattaforme ha bisogno, invece, di un regime misto tra programmi informatici open source e algoritmi tutelati rigidamente da brevetti, come nel caso di Google.
Tramonta così la possibilità di promuovere una produzione non proprietaria di programmi informatici alternativa a quella dominante. Quel che invece è imposta è una produzione open source subalterna a una stringente logica capitalistica. All’angolo è messa anche l’idea che la libera circolazione della conoscenza metta in discussione le strutture di potere esistente.
La conoscenza deve cioè essere libera di circolare. Guai infatti a limitare il suo incessante movimento, perché si bloccherebbe quella «innovazione dal basso» verso la quale le imprese esprimono una vera e propria bramosia. È la logica «estrattiva» delle imprese che manifesta la sua natura parassitaria: le imprese si appropria ex post di quanto prodotto durante la navigazione in Rete, riservandosi la gestione del coordinamento e di elaborazione dei dati raccolti.
Il mistero del capitalismo delle piattaforme sta in questa appropriazione «a posteriori». Dopo anni di elogi della sharing economy, il lessico registra la critica che è maturata verso di essa. E se attivisti e militanti radicali hanno cominciato a parlare di «platform cooperativism», alludendo alla possibilità di sviluppare attività economiche con una base mutualistica e solidaristica, l’espressione «capitalismo delle piattaforme» segnala che tale possibilità sarà ostacolato con ogni mezzo. Con accordi come quello tra Facebook e lo Stato di Israele. O con monopoli come quello che si verrebbe a creare se Google acquistasse Twitter.
Repubblica 24.9.16
Parla Sundararajan
“La sharing economy è il nuovo capitalismo”
intervista di Giuliano Balestreri

MILANO.  Meglio la sharing economy del quantitative easing della Bce. Almeno per rilanciare l’economia: «Con l’aumento dell’offerta, cresce voglia di consumare. E la condivisione dei beni aumenta la disponibilità monetaria, migliorando l’allocazione delle risorse». Arun Sundararajan, professore alla New York University, è uno dei massimi esperti di sharing economy di cui parlerà oggi al Festival di Altroconsumo #ioCondivido. Eppure il professore non nasconde i dubbi sul termine sharing sottolineando che di condiviso non c’è nulla: «Quando iniziammo a parlare di social network con Facebook e Twitter dimenticammo che la socializzazione era un’altra cosa. È amicizia, amore, è stare insieme nella vita reale, non virtuale. Oggi parliamo di una condivisione più intima come una casa piuttosto di una stanza d’hotel, ma ci riferiamo sempre un servizio a pagamento».
Qual è la definizione giusta?
«Parliamo di una nuova offerta di servizi che vengono venduti. Non siamo di fronte a concetti rivoluzionari, ma stiamo assistendo a una transizione verso un nuovo capitalismo. La sharing economy è qualunque mercato che aiuti lo scambio individuale attraverso una piattaforma decentralizzata, da Airbnb a Bla-Blacar».
Non è troppo parlare di nuovo capitalismo?
«Si sta delineando una nuova architettura sociale. Il consumatore è sia fruitore che produttore di beni e servizi. E i collaboratori si trasformano in microimprenditori. I giganti che arriveranno sul mercato si poggeranno sulle spalle di persone indipendenti e senza di esse il loro giro d’affari, basato sulle commissioni incassate per le singole operazioni, non potrebbe prosperare».
In questo modo verrà stravolto il concetto stesso del contratto di lavoro.
«Sì, ma le prospettive sono ottime. Le barriere all’ingresso si sono abbassate: non si parla di fare concorrenza a Google o Facebook, ma a piattaforme che offrono servizi continuamente migliorabili. Mi viene in mente il caso di Juno, la start up newyorkese che minaccia Uber offrendo lo stesso servizio, ma chiedendo agli autisti una commissione pari alla metà di quella dei rivali».
I regolatori nazionali che ruolo giocano?
«La condivisione è una cosa molto europea perché la società americana è individualista. Eppure il ruolo dei regolatori è molto diverso: negli Usa non si interviene fino a quando le cose non vanno male, da voi accade esattamente il contrario, nulla inizia senza il via libera delle authority. E questo rallenta tutto».
Repubblica 24.9.16
Shopping nella casa delle fucilazioni l’ultimo sfregio alle vittime di Stalin
Mosca, sfuma il progetto di fare un museo nell’edificio collegato alla sede dei Servizi
di Nicola Lombardozzi

MOSCA. I fantasmi di via Nikolskoja 23, tra la Piazza della Lubjanka e le torri del Cremlino, devono essere molto inquieti di questi tempi. Da quando l’ultimo proprietario di questo anonimo palazzo zarista nel centro di Mosca ha deciso di trasformare in un centro commerciale di lusso quella che per tutti i moscoviti è invece Rasstrelnij Dom, la Casa delle Fucilazioni.
Un tragico luogo della memoria che molti avrebbero voluto trasformare in un museo del terrore staliniano nel disinteresse totale del Comune e della autorità statali. Sede del collegio militare supremo, via Nikolskoja 23 divenne famosa per i processi sommari contro oppositori e dissidenti. Chi entrava da quel portone spesso spariva, condanato a morte e probabilmente giustiziato negli scantinati dello stesso Palazzo. Un numero spaventoso di vittime anonime insieme a nomi celebri come quelli degli scrittori Babel, Pilniak, Kataev, Tretyakov, il regista teatrale Mejerchold, militari sospetti di tradimento come il generale Tuchacevskij, o bolscevichi caduti improvvisamente in disgrazia come Bukharin e Zinovev. Solo nei due anni tra il 1936 e il 1938, i giudici di Stalin comminarono in quel palazzo 31.456 condanne a morte. La voce popolare mai smentita, ma confermata solo da testimonianze indirette vuole che molti imputati venissero fucilati subito dopo le sentenze e seppelliti in fosse comuni. Ai familiari, che proprio in quel palazzo andavano a chiedere notizie, veniva negata ogni informazione. E solo dopo attese che a volte duravano anni, veniva data una falsa comunicazione più o meno standardizzata: “il suo congiunto è stato condannato a dieci anni di campo di concentramento con divieto di corrispondenza”.
La Casa delle Fucilazioni e tutta l’area che la circonda è al centro di leggende metropolitane legate all’orrore. Come quella di una rete di tunnel che collegherebbe via Nikolskoja 23 con la Lubjanka e con altri palazzi del quartiere e dove sarebbero seppelliti migliaia di cadaveri. Quando, negli scavi per una costruzione poco distante, furono trovati, otto anni fa, i resti di un antico cimitero del 1600, molti si convinsero che tutta l’area fosse una gigantesca fossa comune dello stalinismo. Ipotesi azzardata, ma forse non del tutto lontana dalla realtà.
La decisione del propietario, tal Vladimir Davidi, grossista di profumi, di cancellare tutto realizzando un centro commerciale lascia ovviamente sconcertati gli attivisti di Memorial che da anni indagano sui crimini del regime sovietico. «È folle e blasfemo come costruire una sala da ballo ad Auschwitz», commenta il co-presidente della Ong Ian Racinskij. Sia Memorial che altre fondazioni come Arknazor che si occupa del patrimonio urbano, appena quattro anni fa avevano applaudito alla decisione del Comune di riconoscere il palazzo come parte del retaggio culturale della città impedendo all’allora proprietario di abbatterlo per costruire un grattacielo. Ma una volta salvata, la Casa delle Fucilazioni, avrebbe meritato di diventare un museo o comunque un punto di riferimento sacro della memoria. Il direttore della fondazione “Museo del Gulag”, Roman Romanov ci spera ancora: «Abbiamo chiesto più volte al Comune di comprare il Palazzo. Ci dicono che sarebbe troppo costoso. Adesso ci rivolgeremo direttamente a questo signor Davidi. Non ha calcolato la pessima pubblicità che si farebbe».
il manifesto 24.9.16
I signori della guerra non vogliono la tregua
Siria. Quali sono gli obiettivi delle potenze regionali e globali e perché i loro interessi non contemplano un cessate il fuoco. Escalation militare ad Aleppo: il governo lancia una nuova offensiva
di Chiara Cruciati

L’unico output della tregua è l’escalation militare: a suggellarla è stato giovedì sera l’esercito del presidente Assad che ha lanciato una nuova controffensiva su Aleppo. Mentre all’Onu i 23 paesi dell’International Syria Support Group chiudevano il meeting con un nulla di fatto, sul sito del governo appariva un messaggio ai residenti: state lontani dalle postazioni dei gruppi armati (difficile visto che sono nascosti tra i civili) e raggiungete i checkpoint dell’esercito (ancora più difficile vista l’assenza di corridoi umanitari).
Già 150 i raid sui quartieri est controllati dalle milizie, 90 le vittime. Tra i target anche centri della locale protezione civile. E ieri pomeriggio una fonte interna ha paventato la possibilità di una prossima offensiva via terra.
Dichiarazioni che non fanno pensare alla volontà di dialogare, stesso messaggio inviato dalle continue violazioni della tregua compiute la scorsa settimana dalle opposizioni. Dietro il paravento diplomatico (ieri il segretario di Stato Usa Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov parlavano ancora, incredibilmente, di rivedersi oggi per cercare un accordo) stanno interessi difficili da scalfire, specchio delle diverse strategie impiegate sul disastrato campo di battaglia siriano.
Se è vero che tutti vogliono risolvere il conflitto, perché dopo 5 anni e mezzo e 450mila morti, si combatte ancora? Perché gli obiettivi dei signori della guerra non sono stati del tutto raggiunti. Assad, dato per spacciato ma rinvigorito dall’intervento russo, punta oggi a chiudere islamisti e moderati in enclavi circondate dal governo, territorialmente discontinue. Lo fa con l’esercito ma anche con gli accordi di Homs e Daraya, costringendo all’evacuazione i “ribelli” e spedendoli tutti a Idlib, in mano ad al-Qaeda.
Le opposizioni non accettano il ben che minimo compromesso, forti dei balbettii internazionali che non sanno distinguere tra forze effettivamente legittimate dalla popolazione per prendere parte al futuro della Siria e quelle il cui obiettivo non è la democrazia ma un califfato sunnita. Continuando a ricevere armi e protezione con cui si rafforzano, gli islamisti si stanno creando una base di consenso nelle zone assediate, fertili alla propaganda anti-governativa.
La Turchia non ha ancora ottenuto zona cuscinetto e scomparsa del progetto politico e geografico della kurda Rojava e accende la guerra con invasioni ostili al dialogo. Approccio che condivide con il Golfo, il grande finanziatore del conflitto, che – seppur non abbia fatto saltare Assad – ha ridotto la Siria in macerie, mera ombra del paese leader che era.
L’Iran, che con uomini e denaro tiene in piedi Damasco, vuole scansare il pericolo di una frammentazione del paese alleato in cui tanto ha investito e che gli garantisce, insieme ad Hezbollah, di opporre all’asse sunnita un asse sciita altrettanto potente.
Infine, la guerra fredda Usa-Russia. Washington, annichilita dal ritorno del Cremlino, vuole evitare che la Siria resti nella sfera russa e non disdegna una frammentazione che ne faccia un soggetto debole e controllabile. E si allea con chiunque, gruppi impresentabili ma nei fatti le sole opposizioni.
Mosca vuole tornare super potenza a livello globale, sia sul piano politico che economico: la Siria, in tal senso, non è che campo di battaglia di una contrapposizione politico-strategica molto più ampia, nella quale non è la diplomazia a definire gli equilibri di potere, ma gli eserciti e gli affari.
E le alleanze si mescolano, i cambi di casacca sono repentini. Ieri il voltafaccia dell’ex al-Nusra: dopo aver ricevuto per anni armi e denaro dalla Turchia, ha fatto appello alle opposizioni perché si contrappongano all’invasione turca a nord: «Vietiamo di combattere sotto qualsiasi potere regionale o coalizione internazionale – dice il comunicato chiaramente scritto nella veste di leader delle opposizioni sunnite – L’intervento Usa sostiene il Pkk a danno delle regioni sunnite». Al solito, il mostro che si ribella allo sponsor anche se ne condivide gli scopi.
il manifesto 24.9.16
Da Homs ad Amman, accolti dalla Palestina
Profughi . Decine di famiglie di rifugiati siriani hanno trovato accoglienza a Nasser, un campo palestinese non riconosciuto dove da decenni vivono migliaia di profughi della Nakba e nella Naksa. Intanto la Giordania inasprisce le misure che frenano l'afflusso di nuovi profughi
di Michele Giorgio


AMMAN «È stato un viaggio lungo, durato tre mesi, da Homs fino alla frontiera con la Giordania«. Firas Hussein, 47 anni, parla a bassa voce, fissando un armadietto malandato nella stanza, come se il film di quella fuga dalla guerra, dalla morte, gli scorresse all’improvviso davanti agli occhi. «Ogni giorno percorrevamo qualche chilometro con trasporti di fortuna o a piedi – racconta – i combattimenti e le sparatorie bloccavano le strade. Molte notti le abbiamo trascorse in case semidistrutte, abbandonate. Quando abbiamo visto la frontiera e poi Zaatari (il più noto dei campi per profughi siriani in Giordania, ndr) pensavano di aver raggiunto il paradiso. Invece era l’inferno, la vita lì era impossibile. Dopo qualche giorno siamo scappati e siamo venuti qui, nel campo di Nasser, dove ci hanno accolto i fratelli palestinesi».
Hussein, sua moglie e i suoi figli sono una delle tante di famiglie siriane che hanno trovato una casa a Nasser, un campo palestinese non riconosciuto alla periferia estrema di Amman dove vivono migliaia di rifugiati della Nakba (1948) e della Naksa (1967). Uomini, donne e bambini che godono di pochissimi servizi. Le Nazioni Unite garantiscono aiuti umanitari, la scuola per i bambini e poco più. Per il governo giordano, il campo di Nasser di fatto non esiste, è solo un ammasso di case alla periferia della capitale. In queste povere abitazioni, in queste stradine strette e sporche, camminano ora anche Firas Hussein, i suoi familiari e tanti siriani scappati dalla guerra.
Si apre la porta della stanza, piano piano. Si sentono voci di donne. Una bambina fa capolino, poi scappa via. «Ad Homs avevamo una abitazione vera, qui viviamo come possiamo, sopravviviamo grazie a loro», prosegue Firas, indicando con un cenno della testa Abu Mujahed e Abu Mahmoud, seduti davanti a lui, palestinesi che a Nasser ci sono nati e cresciuti e forse ci moriranno senza tornare nella loro terra. «Non abbiamo soldi – prosegue Firas – con il contributo che ci passano le organizzazioni umanitarie paghiamo l’affitto e compriamo qualche scatoletta, un po’ di riso, patate…Non ho vergogna ad ammettere che delle volte cerco di recuperare qualcosa dal cassonetto dei rifiuti giù sulla strada principale». Il suono lontano di una campanella segnala la fine delle lezioni nella scuola dell’Unrwa. I bambini come stormi di uccelli si disperdono veloci nelle strade del campo. A scuola in Giordania ora ci vanno anche i piccoli siriani. Il governo ha dato il via libera dopo aver ottenuto assicurazioni di ulteriori finanziamenti al regno hashemita. E’ un punto sul quale re Abdallah e altri esponenti dell’esecutivo battono molto in sede internazionale. «I nostri bambini possono andare a scuola, hanno la loro vita. Invece noi adulti non possiamo lavorare, il governo lo vieta, ed è dura quando devi dare da mangiare ad una famiglia. La carità non basta», commenta Firas.
Nonostante il divieto i circa 700mila profughi siriani in Giordania fanno di tutto per lasciare i campi e per raggiungere una città o uno dei 125 insediamenti informali nei governatorati settentrionali di Mafraq e Irbid, alla ricerca di un lavoro. Tanti preferiscono andare ad Amman, dove riescono a trovare più facilmente occupazioni in nero entrando però in conflitto con i disoccupati giordani. Tareq Barakat, 19 anni di Deraa, fino a qualche settimana fa viveva a Azraq, nel deserto orientale della Giordania, destinato a diventare il campo più grande con una popolazione totale di 130.000 profughi.»Ad Azraq stanno allestendo alloggi prefabbricati e portano roulotte – riferisce Barakat – presto ci saranno anche due scuole e un ospedale ma per me è solo una grande prigione. Esercito e polizia intimano di non uscire alla gente, di non lasciare il campo. Stando lì ho capito che sarei rimasto a marcire e sono scappato, perchè voglio lavorare e non passare il tempo su di un materasso aspettando che finisca la guerra in Siria». Anche Tareq Barakat vive a Nasser.»Non posso permettermi di pagare un affitto ad Amman e qui ho trovato una famiglia (palestinese) che mi ospita per pochi dinari». Il giovane racconta di sparatorie, esecuzioni sommarie, di distruzioni immense in Siria. Ma non ha alcuna voglia di partire per l’Europa come hanno fatto tanti altri siriani.»Voglio tornare lì, in Siria, voglio tornare a Deraa», dice alzando gli occhi al cielo.
Chi è riuscito a raggiungere Amman si reputa fortunato, nonostante le difficoltà e i divieti delle autorità. A nord la Giordania ha deciso di chiudere i confini, ha detto basta ad altri profughi e non lascia avvicinare i giornalisti, ufficialmente per ragioni di sicurezza dopo l’attentato suicida compiuto dall’Isis che ha ucciso sette guardie di frontiera vicino Rukban, lo scorso 21 giugno. Un passo catastrofico per i 75mila rifugiati che in quella zona vivono intrappolati in una terra di nessuno. Un recente rapporto di Amnesty International, che include immagini riprese dai satelliti, rivela la crescita delle dimensioni di Rukban. Se un anno fa c’erano 363 tende e altri rifugi di fortuna, adesso se ne contano oltre 8mila. La popolazione ha difficoltà ad accedere al cibo e cure mediche e vive in precarie condizioni igienico-sanitarie. L’epatite ha ucciso 10 profughi nel mese di giugno.»La situazione del campo – ha commentato Hassan Tirana, di Amnesty – è una fotografia cupa delle conseguenze del fallimento della condivisione delle responsabilità circa la crisi globale dei rifugiati. Per effetto di questo fallimento molti paesi confinanti con la Siria hanno chiuso le loro frontiere ai profughi».
Le cose non vanno molto meglio a Zaatari, dove in passato gli abitanti hanno protestato con forza contro le condizioni di vita. Governo e monarchia confermano la linea dura che maschera la difficoltà di trovare una risposta adeguata alle tensioni tra profughi e cittadini giordani già insofferenti verso i rifugiati palestinesi che pure vivono nel Paese da decenni.»Da un punto di vista sociale sono cambiate tante cose negli ultimi 15 anni» spiega l’analista Mouin Rabbani»dopo la guerra e l’occupazione anglo-americana dell’Iraq, la popolazione giordana accolse centinaia di migliaia di profughi iracheni. Non li amava però li accettava anche perché molti tra questi erano benestanti, portarono con loro tanti soldi e procurarono persino occasioni di lavoro ai giordani. I siriani sono più simili ai giordani degli iracheni ma la gente vuole cacciarli via lo stesso perché, essendo poveri, sono pronti a fare ogni lavoro togliendolo in teoria ad un giordano».
Nessuna tensione tra palestinesi e siriani a Nasser. «Penso che in situazione del genere dare una mano a chi ne ha bisogno sia prioritario – dice Abu Mujahed – Ed è questo che la gente del campo sta facendo con generosità. Con i nuovi arrivati talvolta emergono differenze, opinioni politiche diverse…Ad esempio io non credo che quella in corso in Siria sia una rivoluzione genuina, per me è un complotto di Israele e Stati Uniti, mentre Firas (Hussein) pensa che sia giusto abbattere Bashar Assad. Questo però non impedisce un rapporto sereno tra di noi, Siamo entrambi profughi». Abu Mujahed, indossa una uniforme militare e al collo porta una vistosa kufiye palestinese. Si augura che il mondo torni ad occuparsi della questione palestinese.»Adesso tutti parlano dei profughi siriani ed è giusto così. Hanno la priorità – sottolinea il palastinese – però non dovete dimenticarci. Se i siriani hanno diritto di tornare alle loro case, nella loro terra, quel diritto lo abbiamo anche noi palestinesi».
il manifesto 24.9.16
Charlotte per strada, in pace
Stati uniti. Non è stato applicato il coprifuoco annunciato. Trump si esprime, Hillary rimane silente
di Marina Catucci

NEW YORK Centinaia di persone hanno continuato a protestare per le strade di Charlotte, per la terza notte di fila, sfilando pacificamente in un corteo attraverso la città per più di cinque ore, chiedendo giustizia per Keith Lamar Scott, e fermandosi nel punto in cui un manifestante è stato colpito alla testa durante la notte di mercoledì.
Si tratta del ventiseienne, Justin Carr, morto ieri a seguito di un colpo di pistola che l’ha raggiunto la sera prima durante un momento di scontri caotici. L’account ufficiale della polizia ha subito sostenuto che il colpo non è stato sparato da un poliziotto, ma questa versione è stata messa in discussione da alcuni testimoni oculari. La polizia di Charlotte al momento è sotto accusa e osservazione da parte dei cittadini della città (e non solo), a causa del filmato dell’uccisione di Scott, ripresa dalla telecamera posta sul cruscotto della macchina della Ncpd e che non viene reso pubblico come chiedono i manifestanti.
«I video visionati dalla famiglia hanno generato più nuove domande che risposte» ha raccotnato l’avvocato della famiglia. Ma oltre ai video della polizia ce n’è anche un altro realizzato con il cellulare dalla moglie di Keith L. Scott. Nel video si mostrano i momenti prima e dopo l’incidente, si sente la voce della moglie che prega il marito di uscire del suo camion, e le sue suppliche alla polizia affinché non gli spari in quanto disarmato.
Le manifestazioni sono proseguite a partire dalla sera e durante la notte, in modo per lo più pacifico, tanto che la polizia non ha applicato il coprifuoco che sarebbe dovuto entrare in vigore a partire dalla mezzanotte.
Gli unici momenti di tensione si sono verificati quando la protesta ha bloccato l’autostrada e la polizia ha lanciato lacrimogeni e usato lo spray urticante per disperdere la folla. A questa mossa non ha corrisposto un’azione violenta così come non sono avvenute aggressioni nei riguardi dei media, come durante la notte precedente. La popolazione nelle strade era diversa.
Volti e atteggiamenti diversi rispetto a quelli della sera precedente, molti manifestanti si rivolgevano direttamente ai poliziotti neri per ricordare loro da dove vengono: «Sei anche tu uno del quartiere – ha detto una ragazza ripresa in un video- Lascia la divisa dell’oppressore e aiuta la tua stessa gente».
Commenti alle vicende in corso a Charlotte non sono mancati dalle file dei politici americani; ha brillato per assoluta mancanza di lettura quella di Robert Pittenger, rappresentante repubblicano proprio del North Carolina che ha dichiarato alla Bbc che la ragione degli scontri nasce dal fatto che «I neri odiano i bianchi, perché i bianchi hanno successo e loro no», affermazione ritrattata ore più tardi e di cui si è scusato, ma che ormai aveva fatto abbastanza parlare.
Ha fatto parlare anche la dichiarazione di Trump, durante un comizio giovedì sera: «Abbiamo alcuni problemi reali e un paese ferito – ha detto- Molti americani stanno guardando i disordini a Charlotte svolgersi davanti ai loro occhi sugli schermi televisivi. Altri sono testimoni del caos e la violenza in prima persona». Si e detto poi preoccupato perché proteste e disordini danneggiano la posizione internazionale degli Stati uniti.
«Il nostro paese fa brutta figura davanti al mondo. Come possiamo essere leader quando non riusciamo nemmeno a controllare le nostre città? – ha chiesto Trump – Onoriamo e riconosciamo il diritto di tutti gli americani di riunirsi pacificamente e protestare , ma non esiste un diritto ad essere violenti o a minacciare la sicurezza e la pace altrui».
Dopo di ciò Trump ha aggiunto che la droga è un «grande fattore di ciò che si sta guardando in televisione»; anche se la sua campagna più tardi ha precisato che in quel passaggio The Donald non si stava riferendo ai disordini a Charlotte.
Nessun commento da parte di Hillary Clinton, invece, impegnata in un serie infinita di raccolta fondi per una campagna che diventa sempre più complessa.
il manifesto 24.9.16
Trump e il populismo
Stati uniti. Gli americani sono ben consci del «patto col diavolo» che i democratici hanno stretto in questi anni con le élite economiche: dopo la convention Hillary si è dedicata prevalentemente a raccogliere fondi. Il sostegno di Wall Street significa il distacco da quei milioni di americani che campano alla meglio, alle prese con l’insicurezza economica e con la sensazione di impotenza politica. Quegli americani che una candidatura di Bernie Sanders avrebbe potuto convincere
di Fabrizio Tonello

Alle elezioni del prossimo novembre potrebbe emergere una maggioranza relativa di cittadini che invoca legge e ordine a qualsiasi costo, favorevole a espellere 11 milioni di immigrati, a sopprimere la protezione dell’ambiente, la progressività del sistema fiscale e il diritto all’aborto: un panorama politico da brividi. Nel 1933, il nazismo andò al potere manipolando gente perbene, che voleva solo vivere in una «Germania ordinata».
Lo stesso potrebbe fare Donald Trump: occorre quindi chiedersi perché molti americani onesti voteranno per lui. Una parte della risposta sta in un vecchio libro di Michael Kazin, The Populist Persuasion, che traccia una storia del populismo dal 1890 ad oggi. Oggi sono degli estremisti di destra che si sono impadroniti del termine «populismo» ma quando il People’s Party fu fondato a St. Louis nel 1892, il suo programma era di battersi contro «La più crudele delle aristocrazie, quella del denaro».
Il partito intendeva «rimettere il governo della Repubblica nelle mani della gente comune», spazzando via i politici repubblicani asserviti ai miliardari di allora: i Morgan, i Rockefeller, i Carnegie.
Nel 2016, il populismo americano ha un miliardario come candidato.
La campagna per la presidenza nel 1896 fu aspra e il democratico-populista William Jennings Bryan avrebbe senza dubbio vinto se dietro il repubblicano William McKinley non ci fossero stati i miliardi dei robber barons e l’intelligenza del direttore della campagna elettorale Marcus Hanna. Prevalse McKinley, per soli seicentomila voti.
Il populismo trovò poi un altro canale di espressione: il proibizionismo. Oggi esso ci appare una stravaganza ma fu un movimento durevole e potente, che si batteva tra l’altro per rivendicazioni progressiste come il voto alle donne e il riconoscimento dei sindacati. Il suo zelo messianico era però ovviamente autoritario.
L’altro peccato originale del movimento era il razzismo. I sindacati erano all’avanguardia nel rivendicare la chiusura delle frontiere agli immigranti, in particolare italiani, ebrei e cinesi, esattamente come vuol fare Trump oggi. L’interesse di limitare la concorrenza di manodopera a basso costo sul mercato del lavoro si tingeva spesso di disprezzo per questi «animali» portati in America al solo scopo di «aumentare i profitti di corporation straniere (…) e procacciare bestiame per le frodi elettorali» (un altro tema di cui si discute molto quest’anno). Zelo missionario e xenofobia sono quindi correnti profonde e di lunga durata nella società americana.
Il peso dei principi religiosi e dei «valori» familistici nella rinascita di un populismo di destra è stato certamente determinante negli ultimi 40 anni, ma in un certo senso il New Deal era «stato vittima del proprio successo». Le riforme di Franklin Roosevelt e l’irripetibile boom postbellico avevano trasformato milioni di famiglie operaie in ceti medi proprietari di una casetta nei sobborghi residenziali. Sono questi lavoratori bianchi che oggi reagiscono alle turbolenze economiche e al senso di perdita di controllo sulla propria vita portati dal neoliberismo prendendosela con Washington e con l’establishment. Il loro conservatorismo culturale li ha resi ostili a un partito democratico, visto sempre più come l’organizzazione dei neri (Obama), delle donne (Hillary Clinton) e degli omosessuali (la sentenza della Corte Suprema che ha legalizzato il matrimonio gay).
Due mesi e mezzo di campagna di Clinton sembrano aver ottenuto l’effetto opposto a quanto gli strateghi del partito democratico speravano: la coalizione populista-conservatrice al seguito di Trump si è rafforzata e consolidata in misura inimmaginabile fino a solo poche settimane fa. Perché?
Una risposta parziale è che gli americani sono ben consci del «patto col diavolo» che i democratici hanno stretto in questi anni con le élite economiche: dopo la convention Hillary si è dedicata prevalentemente a raccogliere fondi. Il sostegno di Wall Street significa il distacco da quei milioni di americani che campano alla meglio, alle prese con l’insicurezza economica e con la sensazione di impotenza politica. Quegli americani che una candidatura di Bernie Sanders avrebbe potuto convincere.
Corriere 24.9.16
Ombre e luci, errori e successi nella breve vita di Kennedy
risponde Sergio Romano

Ho letto Il secolo breve di Eric Hobsbawn. Ignoravo che il libro trasudasse marxismo! Tra i
tanti giudizi discutibili sulle figure di primo piano del Novecento, c’è questo, riferito a John
Fitzgerald Kennedy: «Il presidente degli Usa più sopravvalutato del secolo». Potrei avere un giudizio da lei su JFK?
Gabriele Spazzarini

Caro Spazzarini,
Quando si candidò alla presidenza degli Stati Uniti, Kennedy ebbe un netto successo nel Collegio elettorale dove ogni Stato della Federazione può contare su un numero di grandi elettori corrispondente alla sua importanza demografica. Ma il calcolo dei voti popolari gli dette una vittoria particolarmente risicata: il 49,7% dei suffragi contro il 49, 5% a Richard Nixon. Il risultato dimostrò che il giovane senatore del Massachusetts aveva un numero di oppositori pressoché eguale a quello dei suoi partigiani. Piaceva ai giovani, ai cattolici, agli intellettuali, ai veterani della Seconda guerra mondiale (si era distinto in un pericoloso scontro navale nel Pacifico) e a molti immigrati europei di seconda e terza generazione. Ma non piaceva al Sud, dove era considerato troppo liberal, a una parte del mondo protestante e agli ambienti conservatori dove il partito repubblicano raccoglieva tradizionalmente i suoi voti. È questa probabilmente la ragione per cui affrontò il problema delle condizioni di vita della grande comunità afro-americana con maggiori esitazioni e prudenze del suo successore, Lyndon Johnson.
Nelle grandi questioni internazionali il consuntivo della sua presidenza è ineguale. Ebbe un infelice incontro con il leader sovietico Nikita Kruscev a Vienna, nell’aprile del 1961, dove si dimostrò esitante e malfermo. Ma gli tenne testa con coraggio e buon senso durante la crisi dei missili cubani nell’anno seguente. Avallò, anche se di malavoglia, l’operazione organizzata dalla Cia contro il regime di Fidel Castro nella Baia dei Porci, ma evitò di impiegare l’aviazione americana e di trasformare una mal concepita avventura in un impopolare conflitto fra Davide e Golia. Non fece la guerra ai vietcong, come farà il suo successore, ma aumentò considerevolmente il numero dei consiglieri militari americani in Vietnam.
Gli aspetti meno positivi della sua presidenza furono riscattati dalla tragica morte a Dallas il 22 novembre 1963. Pochi presidenti furono allora altrettanto amati e rimpianti. Ma il tempo ha reso il giudizio sulla sua persona meno entusiasticamente positivo. Qualche storico preferisce ricordare che la sua elezione fu dovuta anche ai rapporti che il padre (un discusso imprenditore e uomo politico) aveva con la malavita. Altri criticano il suo familismo, particolarmente evidente nella decisione di dare al fratello Robert la carica delicata di Attorney General (una funzione che corrisponde grosso modo a quella del ministro della Giustizia nei governi europei). E altri infine sostengono che non poteva ignorare i progetti del fratello Robert per la eliminazione fisica di Fidel Castro e il sovvertimento del suo regime con l’aiuto di alcuni mafiosi.
Ai lettori che desiderano leggere uno studio della sua presidenza consiglio il libro di un brillante consigliere della Casa Bianca, Arthur Schlesinger, pubblicato in italiano da Rizzoli con il titolo I mille giorni di John F. Kennedy .
Corriere 24.9.16
Apre il museo dei neri. Obama sfida Trump: «Visitalo e capirai»

NEW YORK Sarà un museo interattivo nel senso più profondo del termine. I trentaseimila oggetti che raccontano le sofferenze, le umiliazioni, i trionfi dei neri d’America si confronteranno, dialogheranno con le vicende di oggi. Con gli afroamericani uccisi dalla polizia. Con le marce di protesta. Con l’opera e l’eredità politica del primo presidente «black» degli Stati Uniti d’America.
Oggi apre a Washington lo «Smithsonian National Musuem of African American History & Culture», dopo tredici anni dal via libera del Congresso e dopo quattro anni di lavori.
La storia qui è dentro l’attualità. Tra soli due giorni, lunedì 26, Hillary Clinton e Donald Trump daranno vita al primo dibattito presidenziale. Gli scontri di Charlotte e le tensioni razziali saranno al centro della discussione. L’attenzione sarà concentrata su Trump soprattutto. Ieri il candidato repubblicano si è espresso, ancora una volta, in modo controverso. Prima ha detto che «le vittime principali delle violente dimostrazioni di Charlotte sono gli afro americani che vivono in queste comunità e che vogliono solo fare crescere i loro figli nella pace e nella sicurezza». Poi ha affermato che «le comunità afro americane versano nelle condizioni peggiori di sempre, cose mai viste, mai, mai, mai». Barack Obama, che terrà il discorso inaugurale del museo da lui fortemente appoggiato, gli ha risposto: «Persino un bambino di otto anni direbbe che la condizione di schiavitù non era una cosa buona per i neri. Invito Trump a visitare il nuovo museo di Washington. Quello che dobbiamo fare è usare la nostra storia per spingerci ancora di più sulla strada del progresso»
«La nostra storia», dice il presidente degli Stati Uniti, riassumendo il senso del progetto concepito da Lonnie G. Bunch III: documentare il cammino degli afroamericani non come un processo separato, ma come un passaggio fondamentale nella costruzione dell’identità americana.
L’idea si materializza nell’edificio disegnato da David Adjave e realizzato insieme con l’architetto Philip Freelon, i vincitori della gara internazionale bandita nel 2009. La forma a corona con tre piani si ispira all’arte Yoruba, dell’Africa occidentale, mentre l’ingresso a porticato rimanda alle case della diaspora, a New Orleans, ai Caraibi. Infine la struttura in metallo color bronzo è un richiamo al duro lavoro degli schiavi afroamericani in Louisiana e altrove. Anche la posizione nella geografia di Washington non è casuale: da una parte la Casa Bianca, dall’altra i monumenti alla memoria dei grandi presidenti e di Martin Luther King.
L’itinerario della visita è un viaggio che comincia con le prime navi che nel XVII secolo trasportavano i neri in catene. Il piano terra è quello delle privazioni, delle brutalità. C’è il Ku Klux Klan; c’è la bara di Emmett Till, ragazzo linciato nello stato del Mississippi nel 1955 perché accusato di aver avuto una relazione con una donna bianca; ci sono i mercati degli schiavi. Ma ci sono anche documenti che finora erano stati omessi dalle altre istituzioni culturali. Per esempio Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti, uno dei Padri fondatori, l’uomo che fece scrivere nel secondo paragrafo della dichiarazione di indipendenza: «tutti gli uomini sono stati creati uguali», era in realtà proprietario di circa 600 schiavi.
Poi si sale e al visitatore si dischiude il formidabile talento dei «black people». La musica, la letteratura, lo sport.
Corriere 24.9.16
Veto di Obama alle cause contro l’Arabia Saudita
di Massimo Gaggi

Ha aspettato fino all’ultimo minuto consentitogli dalla legge. Poi Barack Obama ha messo il veto su una controversa norma approvata di recente all’unanimità dal Congresso — quella che consente alle famiglie delle vittime dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 di ricorrere in tribunale contro il governo dell’Arabia Saudita — esponendosi per la prima volta nei suoi otto anni alla Casa Bianca alla prospettiva di essere scavalcato dal Parlamento americano: quasi certamente, infatti, il veto presidenziale sarà cancellato da un altro voto a larga maggioranza delle Camere. Per anni il Parlamento a maggioranza repubblicana ha legato le mani di Obama nella sua attività di governo. Ma l’umiliazione di un veto rispedito al mittente anche dai suoi compagni di partito, i democratici, il presidente non l’ha mai subito. Ha deciso di esporsi allo smacco, a pochi mesi dalla fine del suo mandato, perché è convinto che questa legge diventerà un precedente assai pericoloso per il governo Usa, i suoi diplomatici e i militari che operano all’estero: c’è il rischio di rappresaglie giudiziarie da parte di altri Paesi, alleati compresi.
Washington potrebbe essere chiamata a rispondere nei tribunali di varie nazioni dei «danni collaterali» — come l’uccisione di civili — provocati da missioni antiterrorismo. Il caso più sensibile è quello dei «droni», gli aerei robot che, quando attaccano un bersaglio come un convoglio di auto nelle quali viaggiano capi dell’Isis o di Al Qaeda, spesso colpiscono anche innocenti, come gli autisti. Quanto la questione sia sensibile lo si è visto nel recente accordo per l’indennizzo alla famiglia di Lo Porto. Washington ha pagato ma ha tenuto a sottolineare che si è trattato di una scelta volontaria, non si un obbligo di diritto internazionale.
Le preoccupazioni di Obama sono fondate, ma nel clima della vigilia elettorale il Congresso le ha ignorate. Lo «speaker» della Camera, il repubblicano Paul Ryan, ma anche la leader democratica Nancy Pelosi riconoscono le ragioni della Casa Bianca ma non cambiano rotta. Obama sperava in un ripensamento che non c’è stato. Poi ha aspettato fino all’ultimo sperando che, col Parlamento prossimo allo scioglimento per il voto dell’8 novembre, la questione sarebbe tornata in aula solo dopo le elezioni. Ma il Congresso chiuderà i battenti il 30 settembre e la pressione per un voto immediato è fortissima.
Repubblica 24.9.16
In Spagna
Podemos divisa Iglesias vacilla E l’ex fidanzata passa al nemico
di Alessandro Oppes

MADRID. Questa volta non provano neppure a dire che non è vero, che è la solita stampa che esagera. La frattura all’interno di Podemos è sotto gli occhi di tutti perché sono loro, gli amici-nemici Pablo Iglesias e Íñigo Errejón, ad aver fatto scoppiare la bomba in modo fragoroso con un duro scambio dialettico via Twitter. Divergenze che vengono da lontano, tra il leader e il numero due della formazione, aggravate dal modesto risultato ottenuto alle politiche del 26 giugno scorso. In un meeting elettorale a La Coruña (domani si vota per le regionali in Galizia e Paese Basco) Iglesias aveva detto che «è impossibile essere decenti in politica senza far paura agli svergognati che rubano». A stretto giro di posta, Errejón replica cinguettando: «Ai potenti facciamo già paura. Non è questa la sfida: lo è sedurre quella parte del nostro popolo che ancora non si fida di noi». Sorpreso per l’attacco, Iglesias twitta stizzito: «Sì, compañero Errejón. Però in giugno abbiamo smesso di sedurre un milione di persone. Parlando chiaro ed essendo differenti seduciamo di più».
Due visioni strategiche opposte, più radicale quella del segretario generale, più moderata quella del segretario politico. Ora Iglesias sembra voler attribuire ai tatticismi di Errejón (che spingeva per facilitare un governo dei socialisti) la perdita di quel milione di voti. Il fronte “errejonista” pensa invece che quella disfatta abbia a che fare con l’alleanza con i comunisti di Izquierda Unida, voluta proprio dal numero uno di Podemos.
Con lo spettro di una terza tornata elettorale in un anno (si potrebbe tornare alle urne a dicembre) nel partito si è scatenata una battaglia decisiva in cui per la prima volta viene messa in discussione la leadership di Iglesias. E lo snodo fondamentale sarà la conquista della segreteria regionale di Madrid, la federazione più importante. Errejón sponsorizza la candidatura di Rita Maestre, portavoce del governo municipale (e sua ex fidanzata) e di Tania Sánchez (la ex di Iglesias, già dirigente di Izquierda Unida, a sorpresa passata sul fronte contrario). Colto in contropiede, Iglesias sibila che «si possono trovare candidature migliori».
il manifesto 24.9.16
Corbyn, il partito liquido e il Pd
di Marco Almagisti e Paolo Graziano

Domani sapremo se il leader del Labour party britannico Jeremy Corbyn riuscirà ad ottenere la riconferma quale segretario in singolar tenzone con il moderato Owen Smith. Nel breve volgere di un anno, è la seconda volta che il partito laburista affronta le primarie. Cosa di per sé già molto inusuale e, pertanto, interessante perché mostra come la classe politica rappresentata dall’élite partitica (parlamentari e membri della vecchia guardia blairiana) non si sia rassegnata ad aver perso il controllo del partito nel settembre del 2016. E, nonostante l’entusiasmo in termini numerici suscitati dalla nuova leadership (da maggio 2015 a gennaio 2016 gli iscritti sono passati da poco più di 200mila a 388mila, giungendo ora a quota 500mila), la vecchia guardia blairiana, predominante in parlamento, è riuscita a ottenere una seconda tornata di primarie per cercare di ribaltare gli equilibri di forza interni al Labour.
È una partita politica molto importante e delicata, per diversi motivi di interesse più generale. In primo luogo, si tratta di una battaglia tra due anime del partito laburista e due modi di intendere la sinistra. Smith rappresenta l’anima New Labour, cioè una «sinistra» che ha deciso di sostenere il mercato apportando alcune – limitate – correzioni redistributive volte principalmente a rassicurare il proprio elettorato tradizionale e a non ostacolare capitali e imprenditori. Corbyn rappresenta l’anima più sociale (non a caso è appoggiato da numerosi rappresentanti sindacali) del partito e già l’anno scorso ha sorpreso molti vincendo le primarie post-elettorali. Dato per spacciato nel 2015, Corbyn si è guadagnato attenzione e rispetto grazie ad una campagna orientata a ricostruire relazioni con le porzioni della società rese più insicure e vulnerabili dalla crisi e rivelatasi molto efficace soprattutto perché molto partecipata da chi ha visto in lui una risposta alla deriva centrista del partito. Non a caso, Peter Mandelson, già influente consigliere di Tony Blair, ha sottolineato che «una coalizione limitata a raccogliere il settore statale, gli attivisti sindacali, la classe media metropolitana, i giovani idealisti e le minoranze etniche urbane non [potrà rappresentare] mai una maggioranza elettorale», tralasciando che le fortune politiche di Barack Obama negli Usa scossi dalla crisi economica si sono fondate proprio su una cosiffatta coalizione sociale.
Inoltre, la partita in corso è importante perché potrebbe dirci qualcosa circa la forza dei nuovi partiti «liquidi» animati principalmente dagli eletti, quale quello costruito da Blair e dalla sua cerchia in oltre dieci anni di governo del paese. La leadership di Blair ha favorito la trasformazione del Labour in partito di eletti che fanno politica in doppiopetto, in televisione e nei salotti della finanza – con un accento in perfetto stile Oxbridge -, anziché stare ad ascoltare i più deboli ed eventualmente scendere in piazza a fianco di lavoratori e lavoratrici vittime delle politiche di austerità. Il confronto tra i due candidati è anche importante perché pone al centro della discussione il rapporto tra partito e movimenti: molto tenue, se non addirittura inesistente nel caso di Smith; molto più articolato e fertile nel caso di Corbyn che ha in più occasioni prestato ascolto e attenzione alle proposte provenienti da altri settori della società civile.
Nel caso in cui Corbyn dovesse spuntarla, sarebbe una vittoria significativa di un modello di partito sociale che avrebbe molto da dire anche ad altri partiti della tradizione socialista europea o che ad essa fanno riferimento. Come ad esempio al Partito democratico, che sta attraversando una crisi, forse non ancora del tutto manifesta, simile a quella che ha toccato il partito laburista inglese. Certo, forse il Corbyn d’Italia non si intravede ancora. Ma mai porre un freno alla (terrena) provvidenza.