sabato 8 luglio 2006

il manifesto 8.7.06
Palestina
Una campagna per spezzare il silenzio
di Geraldina Colotti


«Chiediamo l'intervento delle Nazioni unite nei territori occupati», dice la scrittrice palestinese Suad Amyr, nativa di Ramallah, conosciuta in Italia per il romanzo «Sharon e mia suocera». Suad è intervenuta ieri a Piazza Farnese nella serata di solidarietà con la Palestina ridotta allo stremo. Il primo atto pubblico di una campagna europea che prevede il sostegno concreto alla popolazione sotto assedio, mediante una raccolta di fondi che verrà consegnata direttamente agli abitanti. Un'idea che ha preso corpo nei mesi scorsi per far fronte all'emergenza umanitaria dovuta al taglio dei fondi deciso dall'Unione europea, e che adesso assume carattere d'urgenza. Fra i progetti previsti, l'acquisto di un generatore per l'ospedale, sostegno all'agricoltura, acquisto di materiali per la scuola.
«Il cartello di associazioni, sindacati ed esponenti politici che appoggia la campagna ha un obiettivo prevalentemente pratico: aiutare la popolazione. Ma essenziale è anche un'informazione corretta sull'occupazione in Palestina», dice Simonetta Cossu di Liberazione, che ha promosso la campagna insieme al manifesto, Left, Carta, La Rinascita. «E non si tratta solo di una questione umanitaria - afferma l'europarlamentare Luisa Morgantini - dobbiamo aiutare i palestinesi a essere liberi di decidere, fermando l'occupazione militare. Non si può stilare ogni giorno la lista dei morti. Ci vuole una forza di interposizione internazionale».
«Il governo di Hamas - dice ancora Suad Amyr - ha costituito un arretramento per la libertà delle donne e per la laicità - ma è stato il prodotto di un'elezione democratica. E poi perché punire un intero popolo per il rapimento di un solo soldato? I nostri morti contano dunque così poco?». A Piazza Farnese, c'erano anche i 7 giovani calciatori di Gaza che, venuti in Italia per partecipare al torneo Altrimondiali, ora non possono più tornare a casa. Revoca dell'embargo e sanzioni contro Israele - sia ad opera dei governi europei o mediante il boicottaggio dei prodotti da parte della società civile - è stata anche la richiesta dell'International solidarity mouvement, che ha manifestato ieri in un sit-in davanti a Palazzo Chigi.
E a Torino, sit-in in Piazza Castello, promosso da un cartello di associazioni umanitarie: «a Gaza, migliaia di malati cronici sono in imminente rischio di morte per la mancanza di cure causata dall'embargo israeliano, statunitense ed europeo», diceva il comunicato degli organizzatori. Identica richiesta alla comunità internazionale: «Fermiamo la mano di Israele».

il manifesto - lettere - 8.7.06
l'opinione*
È maturo il tempo per una sinistra europea


Il dibattito sul tema di una nuova soggettività della sinistra e dell'unità a sinistra ha avuto in questi anni un andamento da fiume carsico. Spesso sommerso, riappare per poi di nuovo scomparire, e così via, nascosto e nei fatti per lo più negato. Molte le ragioni.
Oggi però lo scenario con cui ci misuriamo da un lato presenta nuove condizioni per la piena emersione e sviluppo del problema, dall'altro rende necessario affrontarlo con impegno e decisione. Concorre anche a definire questo scenario sia la presenza di tutte le forze politiche della sinistra al governo del paese, sia l'accelerazione in atto nella costruzione del Partito democratico, con la conferma di questo sbocco conclusivo per una parte delle dinamiche che si sono determinate nella sinistra con la crisi del movimento operaio e delle sue formazioni storiche.
Sul nostro versante, non interessato a questo sbocco, non serve certo un nuovo piccolo partito, né un agglomerato di forze fra loro profondamente eterogenee ed unite solo da ciò che non si condivide.
Occorre avviare un processo su fondamenta nuove e definite, per un soggetto politico della sinistra in grado di rispondere all'esigenza di una rappresentanza politica radicata nelle lotte sociali, sul lavoro, sull'ambiente e sui diritti, in grado di favorire e valorizzare il rapporto tra le nuove sensibilità e le diverse soggettività, e il ruolo decisivo dei lavoratori e delle lavoratrici in quanto potenziale insostituibile soggetto sociale collettivo di trasformazione della realtà oggi esistente. Negli ultimi decenni si è sempre più imposto nel mondo un modello sociale e economico fondato sull'ingiustizia sociale e su un rapporto distruttivo con la natura, alla cui base c'è la pretesa di ridurre il lavoro a merce, con la coerente conseguenza della crisi della democrazia e del prodursi di guerre.
E' in questo quadro che si pone il problema di uscire dalle scelte del riformismo (debole, senza popolo e senza spazi reali) e di superare l'impotenza di una critica che non riesca ad aprire la strada a una credibile e radicale alternativa. Ripensare in questo senso la realtà vuol dire partire dal rifiuto del piano inclinato che assume il modello sociale e economico di questi decenni (sia quando lo si critica sia quando lo si condivide) come l'unica realtà economica possibile, al massimo suscettibile di qualche intervento di adattamento migliorativo. E' questo piano inclinato la prospettiva più insidiosa che ci viene proposta, che porta in sé le ragioni del travolgimento delle conquiste del passato, compreso l'attacco alla Costituzione.
La costruzione di una nuova soggettività della sinistra pone il problema di misurarsi con la definizione di una idea sociale e economica alternativa al modello attuale che sappia tradurre in un progetto politico le ragioni dell'opposizione all'attuale realtà, con respiro europeo e internazionale e nel contempo con l'ambizione di misurarsi coi problemi di governo. Un'idea sociale e economica alternativa al modello attuale in grado di riaprire la strada a una dialettica sociale democratica non fondata quindi su un unico punto di vista, quello del capitale, e di rendere possibile un rapporto non distruttivo tra sviluppo e natura.
Lavoro, ambiente, valorizzazione delle soggettività sono al centro della nostra ricerca. La partecipazione e una radicale democrazia, il rifiuto della violenza e della guerra sono connotati vincolanti su cui fondare la stessa ricerca di nuove forme e di una nuova rappresentanza, che cerchi risposta all'attuale crisi della politica e dei partiti con la sempre più evidente separazione dalla società e lo svuotamento delle funzioni di rappresentanza dei partiti stessi, tendenzialmente ridotti a ceto politico e neonotabilato.
Nella prospettiva in cui ci poniamo si antepongono i contenuti progettuali a logiche di calcolo politico strumentale, nella consapevolezza che l'esperienza storica e le contraddizioni del nostro secolo rendono necessaria una discontinuità con la sinistra che abbiamo conosciuto. Pensiamo a una modalità che, sulla base della condivisione di alcuni contenuti fondamentali, sia aperta e regolata da criteri di massima democraticità e che guardi a una sinistra europea, considerando la dimensione europea riferimento indispensabile delle nostre stesse prospettive.
Si sta avviando un processo che va progressivamente riempito di analisi e di proposte.
Non è più tempo da fiume carsico.
E' tempo che emergano scelte e contributi di tutti i soggetti che condividono la necessità di costruire una nuova soggettività della sinistra e su queste basi il problema di un nuovo soggetto politico e dell'unità della sinistra, riaprendo la possibilità della rappresentanza politica del lavoro e degli interessi sociali alternativi a quelli dominanti.
Il Seminario che si svolgerà a Orvieto il 14-15 luglio è stato organizzato e promosso come contributo a questo processo, con particolare non casuale attenzione ai temi della pace, del lavoro, dell'ambiente e delle forme della politica.

* sen. Piero Di Siena, Associaz. per il Rinnovamento della Sinistra; on. Pietro Folena, pres. Comm. Cultura della Camera; Gianfranco Pagliarulo, dir.ettore di «Sinistra», 'Assoc. nazionale Rossoverde; Tiziano Rinaldini, rete Uniti a Sinistra, sindacalista

Repubblica 8.7.06
La Rossanda e Bertinotti tra politica e clima-mundial
"Noi del vecchio Pci come l'Italia del calcio"


ROMA - Se il comunismo è come un gioco di squadra, e in queste settimane gli azzurri del calcio sembrano aver letto e digerito tutto Marx, il nostro mondo è pur sempre dominato dai solisti, dai grandi fuoriclasse alla Platini. Pochi e potenti in un mare di gregari. Fatta la conta, i comunisti sono dei perdenti?
Rossana Rossanda ha inchiodato Fausto Bertinotti al dilemma epocale. Per il presidente della Camera parlare di comunismo, seppure a fine giornata, è come l'aspirina per l'influenzato, lo tonifica fino a galvanizzarlo. E ieri sera, alla festa dell'Unità di Roma, i motivi di eccitazione erano raddoppiati dalla presenza della nobildonna della sinistra italiana, giornalista ammirata (e temuta) per le virtù dei suoi scritti, capopopolo senza piazze, sola e potente grazie alla sua macchina da scrivere. L'occasione di tornare a discutere del suo libro, La ragazza del secolo scorso, è un buon motivo per riepilogare la fatica di essere stati comunisti e di esserlo ancora e di essere giudicata, almeno nell'ultimo quarto di vita trascorso, come «una demente». Non è l'orribile giudizio che ferisce Rossanda, quanto il patimento di non aver vinto la partita: «Sono arrivata nella zona Cesarini della vita. Per me conta il risultato e devo dire che la vittoria non c'è stata».
Ah, qui Bertinotti interroga il suo amato Kavafis: «Conta il viaggio. Pensa a quante sono state le conquiste dei lavoratori, pensa agli immigrati meridionali che giungevano nelle nebbie del nord, a quel che sono riusciti a conquistare, alle lotte di fabbrica, ai diritti di vivere una vita più degna. Conta il viaggio, conta la quantità di percorso ultimato. Non avere fretta, non vorrai mica concludere tutto con la tua vita?».
Il viaggio e l´approdo, il mare e poi l'isola. Concreta nell'obiettivo, dal tono solennemente algido, «immodesta, devo riconoscere che la modestia non è mai stata una mia virtù», Rossanda non si dà pace scorrendo i dettagli della sua vita, le debolezze di donna: «Ero consigliere comunale, ero deputato, ero colta e pensante ma se mi arrivavano d'improvviso all'orecchio le note di Sophysticated Lady o The Man In Love, ecco affiorare le fantasie inconfessate da ragazza, avanzavo fasciata di lamè in sale improbabili, in una mano la sigaretta e nell'altra il "Tractatus" di Wittgenstein».
Rossanda deve arrendersi e trovare nelle minuzie della vita quotidiana i sogni e le virtù della "grande idea", il socialismo.
Oggi la signora ha 82 anni, vede come tutti gli italiani le partite di calcio, si appassiona agli azzurri: «Ho visto le partite del Mondiale e ho capito che la bellezza è il gioco di squadra. Un gioco nel quale ciascuno non gioca solo per sè, ma guarda anche quello che fanno gli altri. È una cosa che somiglia a quello eravamo noi del Pci di una volta...».
(a.cap.)

il manifesto - cultura - 8.7.06
La macchina gioiosa del libertinaggio
Il piacere sessuale non subordinato all'idea di monogamia, di famiglia, di procreazione e coabitazione obbligatorie. Citando Epicuro e dimenticando il Sessantotto. «Teoria del corpo amoroso. Per un'erotica solare» di Michel Onfray
di Mario Gamba


Peccato che Michel Onfray pensi alla libertà sessuale come a un «mito». Lo ha detto nel corso di una presentazione a Roma del suo libro Teoria del corpo amoroso. Per un'erotica solare, uscito in Francia nel 2000 e ora in Italia presso l'editore Fazi (traduzione di Gregorio De Paola, pp. 218, euro 14). Libertà sessuale è una espressione che sembra invecchiata. Diciamo allora, seguendo le formule preferite dallo stesso Onfray: il piacere sessuale non subordinato all'idea del ricongiungimento con la metà mancante di ciascuno di noi - secondo un altro mito, platonico stavolta, vedi la narrazione di Aristofane nel Simposio -, all'idea dell'unico/a partner per una vita, all'idea della famiglia, della procreazione, della coabitazione più o meno obbligatoria.
Diciamo: non il desiderio di un oggetto d'amore eletto per sempre e connotato eticamente per via del dominio di venti secoli di pensiero giudaico-cristiano, dominio culturale e fondamento di ogni dispositivo disciplinare in fatto di comportamenti sessuali, quindi dominio politico, anzi biopolitico, ma il desiderio di tutti gli oggetti di piacere possibili, a cominciare da se stessi, omo e etero, per il semplice soddisfacimento di un bisogno e per il gioco creativo dell'erotismo. Momenti dell'esistenza, questi, il bisogno soddisfatto e la non disgiunta invenzione di raffinate-eccessive-illimitate-colte-differenti modalità di incontro erotico, che esaltano le forme del tutto immanenti della spiritualità umana.
A proposito del suo Corpo amoroso Onfray dice, appunto, che il modo di vita creativamente libertino che vi viene illustrato è un «mito». Intendendo, seccamente: qualcosa che non è realizzabile. Non dice se pensa a ora o all'eternità. Peccato. Soprattutto perché sembra dimenticare che c'è pur stato un periodo recente in cui i suoi stessi temi - culto e pratica del piacere, critica feroce, sapientemente distruttiva, della famiglia, rivendicazione della sessualità non legata a ordinamenti cardine delle società disciplinari, in primis il matrimonio ma anche la coppia pretesa simbiotica in realtà istituzionale - erano pane quotidiano per il movimento sessantottino.
Tutto quello che Onfray riassume con la formula libertinaggio diffuso era uno dei nodi teorici di una politica di sovversione ed era una pratica di vita agitata seducente convulsa angosciata gioiosa tenera curiosa emozionata che modellava le giornate, i corpi, le relazioni, i dibattiti, le predicazioni di una moltitudine. Onfray, che si dichiara appartenente a una sinistra libertaria e un po' anarchica e addirittura simpatizzante della Ligue Communiste Révolutionnaire, secondo lui non più trotzkista, dovrebbe aver sentito parlare di tutto ciò, anche se non ne ha fatto esperienza diretta dato che nel 1968 aveva nove anni. E allora perché parlare di un «mito»? Nel senso che si è detto? Forse perché quel fattore fondamentale e fondante della prassi rivoluzionaria sessantottesca è stato oscurato con la sconfitta, il riflusso, la restaurazione, e perché il movimento odierno, il movimento di Seattle, il movimento plurale dei soggetti che si formano nel lavoro cognitivo, contro il lavoro, non nomina né dibatte né agita temi attinenti alla libertà sessuale, dandola per acquisita, chissà, ma poi non è difficile vedere un ritorno anche lì di modelli (di valori, temiamo...) come la coppia, il matrimonio, la famiglia? Se Onfray ha in mente questo, e i dati di fatto non gli darebbero torto, non è per questo autorizzato a pensare che non c'è speranza, già oggi, di veder muoversi intorno a noi, con leggerezza, con intelligenza, con consapevole innocenza, con autorevole creatività, i corpi amorosi di cui pure auspica l'avvento. In un mondo che gli sembra una terra desolata dove l'afflizione del piacere è regola, e magari in questa lamentazione gli sfugge qualche variante, qualche risvolto.
Forse il motivo è un altro. Michel Onfray è in cerca di un materialismo integrale e conseguente. Lo poggia sulla riscoperta e sull'utilizzo in chiave attuale di pensatori come Democrito ed Epicuro. Non occulta i loro limiti (per noi, oggi) di meccanicismo o di tensione ascetica, specie quando viene posta la questione del piacere, della sua sostanza, della visione delle relazioni sessuali che ne consegue. Ma loro due rimangono punti di riferimento e, soprattutto, punti di partenza. Di Lucrezio apprezza la fondazione di una teoria solipsistica del piacere e probabilmente dell'amore. E la illustra in termini effettivamente suggestivi: «... si gode del piacere dell'altro in quanto lo si accende, si soffre di non poterlo provocare, ma non si gode il piacere dell'altro». Non fa cenno dei grandi critici della famiglia molto amati nell'era tendenzialmente libertaria come Morton Schatzman (La famiglia che uccide, Feltrinelli, 1973) o come Ken Loach (Family Life, 1971), né degli utopisti scientifici di un'affermazione dell'eros nella civiltà tecnologica matura come Herbert Marcuse. Il suo ideale libertino non ha moti di simpatia per un ricco corpo di idee venuto alla luce e persino a una certa popolarità intorno al Sessantotto. Ma dentro c'era la forte vocazione anti-dogmatica del pensiero critico, c'era una fuga dal materialismo dialettico sovietico e da tutti i suoi antecedenti, magari gli stessi Democrito ed Epicuro mal interpretati.
Il materialismo sessantottesco si nutriva più di psicoanalisi (magari criticata nella sua pratica terapeutica in quanto possibile veicolo di «normalizzazione», ma certo riconosciuta eversiva nei suoi concetti base) che di atomismo e di idraulica del binomio desiderio-piacere di alcuni pur mirabili presocratici. Però alla libertà per il piacere, alla ricerca di forme di vita basate sul piacere e da rendere «comuni», ci credeva sul serio, la voleva affermare sul serio. L'eros era già una componente essenziale delle forme di vita di una generazione che si avviava verso il superamento del dominio assoluto del capitale e tentava nelle attività di lavoro immateriale ormai prossime a diventare principali di sperimentare un proprio «comando», di creare «zone liberate».
Il sovversivo e pre-insurrezionale del Sessantotto è un libertino convinto. Convinto che la rivoluzione o è libertina o non è. Quello del 2006, esitante a darsi una dimensione politica, potrebbe utilmente chiedersi se il cosmopolitismo e la molteplicità del postmoderno non invitino a un allargamento, a uno sconfinamento, finalmente, dello spirito libertino. Onfray non ha desiderio di rivoluzione, ecco l'eccesso che si nega. Lui che nelle prime pagine del libro ricava la sua teoria dell'eccesso, in modo piano, diretto, materialistico «alla presocratica», dallo stato di beatitudine e di desiderio totale soddisfatto del feto che nuota nel liquido amniotico. Poi c'è la nascita... Si nasce dannati in quanto si nasce? Onfray risponde no visto che critica non la nascita ma, in modo piacevolmente corrosivo, i padri della chiesa e i sessuofobi di ogni altra risma (come del resto già aveva fatto nel suo precedente e fortunato libro, il Trattato di ateologia). Dispiacerebbe scoprire che intimamente, da materialista distante dal pensiero critico, sia tentato di rispondere sì. Altri - ma un Michel Onfray come compagno di strada è veramente plausibile - si avventurano a giocare carte libertine ancora una volta. Possibilmente senza mitologie.

giovedì 6 luglio 2006

dalla newsletter della LIBRERIA AMORE E PSICHE

Carlo Augusto Viano è nato ad Aosta il 10 luglio 1929 e si è laureato in Filosofia nella Facoltà di Lettere dell'Università di Torino nel 1952. In questa Facoltà è stato allievo e assistente di Nicola Abbagnano; poi ha insegnato nelle Università di Milano e Cagliari. Attualmente è professore ordinario di Storia della filosofia nella Facoltà di Lettere dell'Università di Torino. E' anche membro del Comitato direttivo della Rivista di filosofia, del Comitato Nazionale di Bioetica, dell'Accademia Europea e socio nazionale dell'Accademia delle Scienze di Torino. Ha dedicato i propri studi alla storia della filosofia e all'etica. Nel primo campo si è occupato di filosofia antica e di filosofia moderna classica. Ha inoltre diretto in collaborazione con Pietro Rossi, per l'editore Laterza, la pubblicazione di una grande Storia della filosofia in sei volumi. Nel volume sull'antichità Carlo Augusto Viano ha scritto numerosi capitoli, sui filosofi presocratici, i sofisti, Socrate, Platone, Aristotele ed Epicuro.Dalla sua esperienza di storico della filosofia ha ricavato una serie di lavori sulla filosofia come istituzione culturale, quale si è venuta delineando nella tradizione occidentale, con particolare attenzione per il linguaggio dei filosofi e il loro pubblico. Come membro del Comitato nazionale di Bioetica e nella propria attività accademica Carlo Augusto Viano continua a interessarsi di etica, con particolare riguardo alla bioetica, alla quale ha dedicato diversi saggi.

Nel corso dell'incontro alla Libreria Amore e Psiche di Venerdì 7 2006, il professor Viano ci parlerà del suo ultimo libro: ‘Laici in Ginocchio’ (Laterza 2006)

Altri libri consigliati di Carlo Augusto Viano:
· ‘Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni’ (Einaudi 2005)
· ‘Etica pubblica’ (Laterza 2002)
(un grazie particolare ad Annalina Ferrante per la segnalazione di questi volumi e per la biografia di Viano)

«La psicoanalisi di Freud fu un tentativo di estendere la spiegazione scientifica ai fenomeni psichici poi divenne un ingrediente fondamentale della cultura antiscientifica - chiarisce Viano - che trova spazio nelle pagine culturali di certi mass media ed è ampiamente accolta dall’intellighenzia della sinistra radical chic». Del resto, il freudismo «è stato più un fatto letterario, un poema autobiografico, che non terapeutico in senso stretto, e lo si sapeva: servì e serve per tenere in piedi ancora quel che resta del marxismo».
Epicentro dell’operazione la Francia di Foucault e Sarte e l’esistenzialismo e la Germania di Adorno e Marcuse, la Scuola di Francoforte. «In Italia quel fervore culturale agì su Franco Basaglia e sulla chiusura dei manicomi in nome della malattia mentale come fatto sociale e non per una teoria scientifica - prosegue -. Quell’operazione fu possibile, e non lo si dice mai, perché erano arrivati i farmaci». Tra gli anni ’50 e ’60 ci si accorse del fallimento del marxismo. «Era a tutti evidente il fallimento delle teorie economiche di Marx: di fronte all’adesione delle masse alla società capitalistica che portava benessere economico e
miglioramento delle condizioni di vita, lo sfruttamento come appropriazione o plusvalore non stava più in piedi e così fu sostituito da domino o repressione interiorizzate: il lavoratore non è più sfruttato ma dominato».
Altra teoria di Marx fallita? «La crisi, la catastrofe del capitalismo - risponde il filosofo - da una parte l’incapacità del capitalismo di fronteggiare le sue crisi interne e dall’altra l’inevitabile catastrofe. Queste previsioni non si erano avverate e ci si servì del freudismo per poter dire: non c’è benessere ma disagio e malessere profondo e interiorizzato».

In: "Matrimonio di convenienza. Freud in aiuto a Marx. Così negli anni 60 si scoprì un fallimento" di Carlo Patrignani in Left n.20





Liberazione - Cultura - 7.7.06
È nelle librerie la riedizione di “Politica e psicoanalisi” (insieme ad altri saggi) di Herbert Marcuse. Alla luce delle teorie freudiane il filosofo tedesco affronta la crisi dell’autorità tradizionale e i processi di formazione della soggettività
Liberarsi da Edipo per scoprire sessualità e gioco
di Mario Pezzella


Non più costretto a differenziarsi dal padre, il figlio della società dei consumi è sgravato da ogni conflitto. Ma ciò non significa che sia scomparsa ogni forma di dominio

Quale rapporto esiste fra le trasformazioni economiche e politiche di una società e la vita psichica profonda degli individui che la compongono? In che modo il desiderio di felicità, i sogni dell’Eros, lo smarrimento di sè, contribuiscono a costruire rapporti di dominio e tentativi di liberazione? A partire dalla pubblicazione degli studi sull’autorità e la famiglia a cura di Horkheimer nel 1936, alcuni autori della Scuola di Francoforte hanno cercato di rispondere a queste domande, trovando un punto d’incontro fra la critica marxiana e il pensiero di Freud.
Particolarmente interessante a proposito è il saggio “Obsolescenza della psicanalisi”, contenuto in Psicanalisi e politica (Manifestolibri, pp.128, euro 15,00), un volume a cura di Roberto Finelli, che raccoglie diversi saggi di Herbert Marcuse. Rispetto alla descrizione freudiana del complesso di Edipo, dobbiamo- secondo Marcuse - prendere atto della scomparsa e dell’indebolimento della figura paterna all’interno della famiglia: la crisi della sua autorità tradizionale modifica i processi di formazione della soggettività. Non più costretto
a conquistare la propria individuazione differenziandosi dal padre, il figlio della società dei consumi è apparentemente sgravato da ogni conflitto e dipendenza personale.
Ciò non vuol dire però che sia scomparsa ogni forma di dominio. L’autorità è ora immediatamente collettiva, trasmessa dagli organi omologati della società delle merci. L’Io che non si differenzia attraverso il conflitto col padre, trova un immediato modello identitario nell’ideale del gruppo, rischiando la regressione verso gli stadi preedipici della personalità. All’identificazione con istanze collettive si accompagna una desublimazione della morale sessuale, che solo apparentemente porta maggiore libertà.
Inizialmente, Marcuse intende Eros come un principio immediatamente liberatorio. Eros è l’antitesi positiva all’educazione repressiva, la quale concentra la sessualità in senso genitale e devia le energie libidiche dell’uomo verso il lavoro. Se prima questo sacrificio era reso necessario dallo strapotere della natura, con le conquiste della tecnica e delle forze produttive è divenuto superfluo. Eros potrebbe recuperare la sua potenza polimorfa in rapporti umani fondati sul gioco e sul dono, e non sul potere.
D’altra parte, soprattutto negli ultimi scritti, Marcuse distingue Eros e sessualità; la desublimazione della sessualità, invece che condurre a una società liberata, permette di intensificare il consumo e la fascinazione delle merci. Il desiderio è deviato sui surrogati immaginari forniti dall’industria culturale e diviene un ulteriore strumento di controllo e deprivazione dell’autonomia individuale.
«Il sorgere e la mobilitazione delle masse produce un dominio autoritario in forma democratica» afferma Marcuse. Nella sua forma attuale, un simile regime deve continuamente intensificare e rinnovare i consumi e le immagini di merce, perchè è in realtà esposto a un’angoscia costante e profonda. Liberata dai legami affettivi col padre e da ogni riferimento alla morale o all’autorità, la debole personalità narcisista resta vittima di una aggressività inconsapevole, che può essere dirottata secondo gli interessi delle classi dominanti, ma anche portare a un dissolvimento del gruppo. Partito dalla critica dell’autorità repressiva, Marcuse giunge a una visione dialettica più complessa, in cui la scomparsa degli interdetti tradizionali può trasformarsi in una rivalutazione del pensiero negativo e della negatività in genere, esplicitata in particolar modo nella seconda parte di L’Uomo a una dimensione (non basta rivalutare Eros contro Thanatos ma riapproriarsi in chiave politica e rivoluzionaria della forza negatrice per rivolgerla contro l’orientamento impresso dal dominio alla storia).
Il modello freudiano, che a suo modo insisteva sull’autonomia e la forza differenziante dell’individuo, viene così salvato dall’obsolescenza. Il dialogo paritario con l’altro e con la sua differenza può acquisire una forma di decisionalità e autorevolezza, capace di sostituire il padre scomparso e di non dissolversi nella Grande Madre preedipica della società dei consumi. La fraternità è l’idea rivoluzionaria che ritorna più spesso in queste pagine di Marcuse, anche se essa stessa non è esente da rischi. Esisterebbe cioè una dinamica che dall’interno induce gli individui a negare una possibile liberazione e a ricostruire rapporti asimmetrici di signoria e servitù. In questo senso ha ragione Finelli quando, respingendo ogni facile utopismo, attira l’attenzione sulla natura «bina e ambivalente dell’affettività umana, di cui l’invidia e l’aggressività verso l’altro fanno parte», non meno del desiderio di riconoscimento paritario e di liberazione dell’Eros. E’ nello spazio di questo conflitto sempre aperto tra relazione di signoria e di fraternità, che si iscrive lo spazio mai deciso una volta per tutte della politica e della formazione psichica che indissolubilmente lo accompagna.


il manifesto 7.7.06
serata a Roma per la Palestina
Né muri, né silenzi
E' ora di dire tutti insieme basta alle stragi, al terrore, alle violenze.


Chiediamo che Israele fermi la sua macchina da guerra e faccia valere la ragione. Chiediamo l'immediato rilascio del soldato israeliano. Non sono i carri armati, né le aggressioni, né i sequestri a costruire condizioni di pace, di giustizia e di convivenza. E' ora che i governi dei paesi europei, a partire dal nostro governo, intraprendano una nuova politica, rispettosa delle risoluzioni delle Nazioni unite e del parere della Corte dell'Aja, ripristinando gli impegni presi con l'Autorità nazionale palestinese in materia di aiuti e di assistenza, promuovendo con determinazione e coerenza il tavolo del confronto e del negoziato tra le parti.
Questo favorirà anche la ricomposizione dei contrasti dentro la società palestinese. E' necessario confermare l'appoggio ed il sostegno al processo democratico ed ai suoi risultati , come unica risposta a chi opera per dividere le varie componenti palestinesi, per creare conflitto e caos. Il recente accordo tra Fatah e Hamas dimostra che il dialogo e il rispetto danno buoni risultati, che la violenza ed il terrore seminano solo odio e disastri.
Tra pochi giorni saranno passati due anni dal parere della Corte di Giustizia dell'Aia del 9 luglio 2004 che dice: «L'edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, sta costruendo nel territorio palestinese occupato, ivi compreso all'interno e sui confini di Gerusalemme est, e il regime che lo accompagna,sono contrari al Diritto internazionale...».
Ma la costruzione del Muro e le sue drammatiche conseguenze sulle condizioni di vita dei palestinesi continuano a demolire le speranze di pace e di giustizia.
E' urgente, quindi, far sentire tutte le voci possibili della società civile e quella di una nuova politica che chiedano il reciproco riconoscimento, la fine dell'occupazione, lo smantellamento del muro e la nascita di uno Stato palestinese indipendente che possa vivere in pace e sicurezza accanto a quello di Israele.
Sosteniamo la società civile israeliana democratica nella sua opposizione a questa escalation di violenza.
Questa sera a piazza Farnese una serata, dal titolo Né muri, né silenzi, per dire basta con le violenze, l'occupazione e il muro: per uno stato palestinese indipendente fondato sul diritto internazionale, accanto allo stato di Israele
Per una nuova politica estera in Italia e in Europa: pace, giustizia, diritti in Medio oriente. Oltre agli intervcnti di Alessandra Mecozzi, Paolo Nerozzi e Luisa Morgantini ci sarà un videomessaggio do Moni Ovadia e la proiezione di due video: La vita oltre il muro e Nè muri né silenzi di Shapira e Sabbah.
Arci, Associazione per la pace, Associazione Ong italiane, Associazione Giuristi democratici, Beati i costruttori di pace, Casa della Pace, Cgil, Donne in nero, Ebrei contro l'occupazione, Fiom-Cgil, Fgci, Fotografi senza frontiere, Giovani comunisti, Ics, La Rinascita, Libera, Mezzaluna rossa palestinese, Pax Christi, il manifesto, Liberazione, Carta, Left
Aderiscono: Prc-Sinistra europea, PdCI, Punto critico, Verdi


il manifesto 7.7.06
Foucault
Incursioni oltre i confini del liberalismo
di Judith Revel


Le pratica e le tecnologie del governare studiate dal filosofo francese fanno parte, con lo stato e la società, del grande trittico del pensiero politico

«Governare la vita», un importante volume che analizza i corsi di Michel Foucault dedicati al legame tra popolazione e governo e tra biopolitica e liberalismo


Con qualche colpevole e tutto sommato comprensibile pigrizia, ci si aspetta spesso che il titolo di un libro identifichi il contenuto delle pagine che propone alla lettura. Da questo punto di vista, Governare la vita. Un seminario sui corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979) (Ombre Corte, pp. 154, euro 13), piccolo e densissimo volume curato da Sandro Chignola, si presenta al contrario, e in modo assai provocatorio, come l'equivalente editoral-filosofico dei «falsi amici» linguistici. In effetti, benché il libro sembri offrire - attraverso il riferimento esplicito alle lezioni che Foucault dedica successivamente ai due binomi «governamentalità/popolazione» e «biopolitica/liberalismo» negli ultimi anni '70 - una leggibilità immediata, e indichi chiaramente come perni della sua indagine un'azione semplice (governare) e lo spazio di applicazione di quest'ultima (la vita) -, non si può immaginare titolo più ostico, ma anche - proprio per questa ragione - più allettante.

L'oggetto del pensiero
In primo luogo, perché l'insieme di pratiche e di tecnologie che Foucault individua come un governare devono immediatamente misurarsi sia con la nozione classica del governo (e, successivamente, con i due altri termini del grande trittico del pensiero politico moderno: lo stato e la società), sia con l'emergenza parallela nelle analisi del filosofo francese sui temi della «soggettivazione» e della libertà. Ma anche perché la vita, che viene precisamente fatta oggetto di governo e che va descritta come materia e, al tempo stesso, come posta in gioco di una nuova serie di poteri (biopoteri, per l'appunto), ci costringe in realtà a misurare quanto sia difficile una sua definizione lineare.
Un libro-trappola, insomma, che dischiude a partire da questa doppia difficoltà sbandierata fin dal suo titolo un'indagine appassionnante e che, attraverso i cinque interventi presentati - oltre a quello dello stesso Chignola, che firma anche la prefazione, quelli di Michel Senellart, Bruno Karsenti, Alessandro Pandolfi e Adelino Zanini -, propone altrettante ipotesi di lettura che si presentano in realtà come un tentativo di applicare a Foucault stesso il metodo che egli applicava ai suoi campi di ricerca: un paziente lavoro di problematizzazione.
Negli due ultimi anni della sua ricerca, infatti, Foucault usava la nozione di problematizzazione in modo specifico: non per indicare il modo in cui ci si rappresenta un oggetto precostituito, né per mostrare come un insieme di discorsi possa dare consistenza ad un oggetto che non preesisteva ad essi, ma per formulare il principio di un'analisi che cercasse di capire «l'insieme di pratiche discorsive o non-discorsive che fa entrare qualcosa nel gioco del vero e del falso e lo costituisce come oggetto per il pensiero».
Quasi trent'anni dopo queste lezioni al Collège de France, Governare la vita ci offre dunque cinque esercizi di problematizzazione applicati al lavoro stesso di Foucault, che hanno tutti il merito di rilanciarne la grande ricchezza e l'evidente complessità.
Sandro Chignola, rifacendosi nel suo saggio all'importanza assunta nell'ultimo Foucault alla filosofia kantina - meno il Kant delle Critiche che quello degli opuscoli sulla storia - e vedendovi giustamente il fondamento di un vero e proprio pensiero dell'attualità, evoca la necessità che Foucault aveva di «diagonalizzare il presente con la storia». Paradossalmente, e mentre Foucault rischia ormai di diventare una figura fin troppo liscia nella storia del penserio contemporaneo, il libro ha il pregio di procedere al contrario: diagonalizza quella storia con il nostro presente e ridà spazio ad un tema che non riguarda solo la comprensione del pensiero foucaultiano ma che interroga il nostro sguardo su di essa.

Dall'antagonismo all'agonismo
Innumerevoli, dunque, i problemi e le ipotesi formulate nel seminario all'origine del volume. In primo luogo, lo spostamento, tra il '76 e il '78, delle analisi foucaultiane dalla guerra alla «governamentalità» o, per dirlo con Michel Senellart, «dall'antagonismo all'agonismo», vale a dire da un'analitica dei poteri incentrata sulla loro natura bellica ad un lavoro di reperimento di tutte le forme di rapporto che, anche al di fuori della sfera classica del politico, si danno allo stesso tempo come «incitamento» e come «lotta». L'ipotesi «discontinuista» di Senellart - contrariamente alla lettura che ne danno studiosi come Pasquale Pasquino o Colin Gordon - consiste nell'assumere pienamente la rottura con un'indagine che era stata inizialmente incentrata sui dispositivi di potere e che viene invece ridefinita come problematizazione di una serie di rapporti inediti la cui emergenza non solo eccede il semplice quadro della sovranità e della norma nella sua vesta giuridica, ma permette anche una nuova genealogia della formazione della razionalità occidentale.
Dai dispositivi ai rapporti, dunque. Da qui l'urgenza di analizzare «le identità stabilite a partire di complessi di forze», integrando fin dal principio quell'altra diagonale che viene rappresentata dalla «soggettivazione» e che sboccierà, nell'81, nel corso «Soggettività e verità».
Il secondo problema, che vi è legato, e che viene ampiamente sottolineato da Bruno Karsenti, consiste nell'interrogare l'ambiguità di questo spostamento: il passaggio alla tematica della governamentalità come rapporto non impone forse un allargamento del concetto di potere come «azione sull'azione degli uomini», secondo la bella espressione di Foucault? E non significa forse pensare il politico in modo esogeno a partire dalla funzione pastorale del governo e, successivamente, come un'economia della vita?
Sull'economia politica e sul modo in cui Foucault ripensa interamente il liberalismo come biopolitica, le pagine di Adelino Zanini sono di particolare efficacia: il liberalismo, nonostante le numerose approssimazioni che si possono trovare in Foucault, viene in effetti letto contemporaneamente come modello politico di gestione delle popolazioni e come riformulazione della political economy. L'analisi della seconda e il legame che essa instituisce con la prima permette allora, secondo Zanini, una genealogia di questa finzione che è l'homo oeconomicus.
Ma per Karsenti quest'adozione di un punto di vista esterno (economico, certo, ma prima ancora pastorale) permette forse di pensare che «Foucault non ci parla più del potere». D'altra parte, il tema dell'«esogeneità» al potere implica per Karsenti la ricerca opposta di un fuori che permetta invece una «rivoluzione antipastorale». Quell'investimento politico del concetto di fuori - che segnava già il lavoro di Foucault negli anni '60 e che veniva esplicitamente mutuato da Maurice Blanchot - è senz'altro di grande fascino ma lascia un po' perplessi: non è forse contemporanea di questi corsi al Collège de France la convinzione più volte ripetuta dal filosofo che «il margine è un mito» e che «la parola del di fuori è un sogno che non cessiamo di riproporre»? E rimanere all'interno di una lettura che contrappone il «dentro» al «fuori» - anche a patto di distinguere un fuori «interno» e un fuori «esterno» (la possibilità di una rivoluzione antipastorale) non porta alla riproduzione del vecchio schema sullo spazio disciplinare che le nuove analisi del governo biopolitico della vita erano volte a superare?
Da questo punto di vista, l'intervento di Chignola, che prende spunto dalla lettura foucaultiana del testo di Kant Che cos'è l'Illuminismo? è di particolare spessore nella misura in cui permette di cogliere ciò che in Foucault si presenta allo stesso tempo come riconoscimento delle determinazioni storiche, sociali, economiche, epistemiologiche che danno forma al nostro presente, e come possibilità di una «internesteriorità» (il neologismo di Chignola non è così distante dalla «piega» deleuziana o dalla figura del nastro di Moebius che tanto piaceva a Lacan), di una «attualità» che valga come differenza possibile.
Foucault, in uno dei due testi che dedica a Kant, parla di franchissement possible, laddove franchir significa allo stesso tempo varcare, entrare e oltrepassare. La vecchia traduzione italiana del testo, ripresa qui da Chignola, propone invece, in modo asssai infelice, «superamento», come se il fantasma dell'Aufhebung hegeliana non fosse sempre in agguato. Ma ciò tuttavia rimane centrale nella elaborazione presentata in questo volume è la sottolineatura di un'ontologia dell'attualità definita come «liberazione dei possibili dalla genealogia di un presente di cui viene svelata la contingenza, l'intima struttura temporale». I problemi del tempo, della storia e della storicizzazione sono precisamente al centro del testo di Alessandro Pandolfi.

Le maschere del potere
In un saggio di lacuni anni fa Dominique Seglard contrapponeva lo storicismo di Meinecke (che egli stesso riconosceva essere nato dallo «spirito costantemente attivo del platonismo») a quello di Foucault, secondo il quale è necessaria l'evenementalizzazione degli universali attraverso la loro iscrizione in complessi pratici. E' proprio quella decostruzione «storico-evenemenziale» che Pandolfi sceglie di applicare al concetto di popolazione, mostrando come la «natura» della popolazione sia a sua volta il nucleo centrale della politica moderna.
La costruzione storico-politica dell'universalità della natura come fondamento di una governamentalità biopolitica - che a sua volta si applica ad un nuovo découpage, quello della popolazione come insieme di viventi avendo in comune uno o più caratteristiche naturali - viene restituita da Pandolfi per quella che è: «Le positività non si giustificano da sé, non sono verità e realtà autoevidenti. (...) L'accettabilità di un universale o di una categoria ratifica la naturalizzazione e normalizzazione della loro arbitrarietà dal punto di vista epistemologico e della loro violenza sotto il profilo politico». Un modo per ricordare, forse, che lungi dall'essere scomparso nella biopolitica, il potere costruisce nuove maschere - la natura, l'impolitico, la vita - e dispiega nuove reti. E che il compito che Foucault ci lascia è precisamente di rendere visibile ciò che ha fatto della propria invisibilità il segno della sua efficacia.



Agenzia stampa Il Velino 7.7.06
Camera, Bertinotti scrive a Meeting internazionale antirazzista

Roma, 7 lug (Velino) - Il presidente della Camera dei deputati, Fausto Bertinotti, ha inviato il seguente messaggio al responsabile del settore immigrazione dell’Arci nazionale, Filippo Miraglia: “Sono lieto di rivolgere il mio più cordiale saluto agli amici dell’Arci, alle autorità presenti e a tutti gli intervenuti al Meeting internazionale antirazzista, giunto quest’anno alla sua XII edizione. Il vostro tradizionale incontro, incentrato quest’anno sul tema dell’integrazione, rappresenta un’importante occasione di confronto tra tutti coloro che hanno a cuore l’espansione ed il radicamento dei diritti dei migranti. Il problema dell’integrazione non può essere ridotto a una questione di semplice ordine pubblico. Le recenti e sempre più drammatiche vicende degli sbarchi di immigrati, le storie incredibilmente dolorose che spesso le precedono rendono testimonianza di vere e proprie emergenze umanitarie che necessitano di interventi nuovi e di una effettiva strategia culturale. Nella nuova dimensione multietnica della società contemporanea, realizzare un modello di convivenza pienamente rispondente ai principi dello Stato di diritto costituisce una cornice indispensabile per la costruzione di un sereno e costruttivo dialogo tra popoli e culture. La società civile del nostro paese, grazie alla mobilitazione di movimenti, organizzazioni, associazioni – ha aggiunto Bertinotti – ha saputo farsi sempre promotrice di esperienze di accoglienza e di apertura alle diversità che sono certo potranno costituire un patrimonio prezioso per la formulazione di politiche sull’immigrazione sempre più avanzate, sia a livello nazionale che comunitario. Dalle risposte che l’ Europa saprà dare oggi a queste sfide dipenderà gran parte del suo sviluppo, del suo progresso civile e del suo contributo alla realizzazione di un futuro fondato sulla pace e sul sicuro rispetto dei diritti umani. Rivolgo a tutti voi – ha concluso Bertinotti – i miei più sinceri auguri per il successo dei vostri lavori e di buon lavoro per la realizzazione dei vostri progetti futuri”. (com) 17:35
Liberazione mercoledì 5 luglio 2006
Campagna di solidarietà e di informazione promossa da Liberazione, il manifesto, Carta, Left
La Palestina ha bisogno di noi.
Noi abbiamo bisogno della Palestina


«La Palestina ha bisogno di noi. Noi abbiamo bisogno della Palestina» è il titolo della campagna nazionale che “Liberazione”, “il manifesto”, “Carta” e “Left” hanno promosso per portare solidarietà alle popolazioni palestinesi allo stremo. La campagna sarà presentata il 7 luglio a Roma in piazza Farnese. Quello che segue è l’appello con il quale chiediamo il contributo di voi lettori. Nei prossimi giorni pubblicheremo il numero di conto corrente e l’elenco dei progetti cui saranno destinati i fondi raccolti.

Abbiamo bisogno che il diritto e i diritti prevalgano in quella terra e che nasca uno Stato palestinese, finalmente libero, democratico, che possa vivere in pace a fianco dello Stato di Israele, con Gerusalemme capitale condivisa.

La Palestina ha bisogno di noi da sempre, da quando non esiste. Ancora di più oggi che è stretta in una morsa micidiale. Una morsa fatta da un lato da una politica internazionale ostile, indifferente e silenziosa, concentrata sulla “sicurezza” di Israele, senza capire che la vera sicurezza per israeliani e palestinesi sta nella realizzazione delle legittime aspirazioni palestinesi e di una pace giusta e duratura, che parta dal reciproco riconoscimento e si fondi sul diritto internazionale e le risoluzioni Onu.

Dall’altro, l’occupazione militare che continua e si inasprisce, con decine di vittime sotto i bombardamenti, mentre crescono violenze e tensioni all’interno della stessa società palestinese. Una situazione sociale e politica, ogni giorno più grave, che è favorita anche dall’isolamento in cui è stato costretto un governo eletto democraticamente, ma “sgradito” alla comunità internazionale.

Una realtà drammaticamente ignorata, anzi incrementata dalla decisione di Israele di non versare i dazi dovuti, degli Usa e della Unione europea di tagliare i fondi alla Autorità nazionale palestinese, che ha ridotto buona parte della popolazione alla disoccupazione, alla fame, alla disperazione. Grazie alla pressione della società civile internazionale, quei fondi saranno parzialmente erogati, ma l’emergenza sanitaria e sociale è sempre più acuta e continua a fare vittime.

Intanto, a due anni dal parere della Corte internazionale di giustizia dell’Aia, che ne ha sancito l’illegalità, prosegue la costruzione del Muro. Linea di frattura che definisce fisicamente la separazione brutale tra il diritto riconosciuto e quello disprezzato, il Muro continua implacabile nel suo tracciato di oltre 700 km, annettendo ulteriori territori palestinesi e sottraendo possibilità di lavoro e di vita.

Per queste ragioni Liberazione, il manifesto, Carta e Left promuovono una campagna che prenderà le mosse il 7 luglio nel corso della giornata di mobilitazione europea a piazza Farnese (ore 20.00), e farà arrivare direttamente i fondi raccolti alle strutture sanitarie e sociali indicate, nel mese di novembre. Lo facciamo in un tempo in cui parlare di Palestina è scomodo e ignorato. Lo facciamo perché abbiamo un enorme bisogno di un mondo in cui il diritto internazionale e i diritti fondamentali siano rispettati senza eccezione alcuna, in cui a nessuno sia concesso violarli. E’ l’unica via per chi voglia davvero costruire pace e giustizia in Medio Oriente, nel cuore delle speranze di pace nel mondo.

Fra le prime adesioni: Arci, Assopace, Ass. Ong italiane, Ass. Giuristi Democratici, Beati i Costruttori di pace, Cgil, Donne in Nero.


Liberazione - Cultura 5 luglio 2006
Franco Fortini, il diario di un intellettuale complessivo
di Romano Luperini


In libreria “Un giorno o l’altro”, opera incompiuta dello scrittore toscano, realizzata tra il ’45 e gli anni ’80. Lettere, appunti, frammenti autobiografici legati allo straordinario dibattito che animò la sinistra nell’immediato dopoguerra

“Un giorno o l’altro” (Quodlibet, pp. 593, euro 35,00), è una sorta di diario al quale Franco Fortini lavorò per oltre un quindicennio, selezionando e commentando suoi interventi privati e pubblici, editi ed inediti, realizzati dal ’45 agli anni ’80. Purtroppo la morte, avvenuta nel ’94, gli impedì di portare a compimento un lavoro di riflessione straordinaria sul passato e sul presente. La fase avanzata di realizzazione del diario ne ha tuttavia permesso la pubblicazione da parte di questo piccolo ma coraggioso editore di Macerata. Il testo è corredato da una introduzione di Romano Luperini, docente universitario di letteratura italiana, della quale pubblichiamo alcuni stralci.

Un giorno o l’altro. Diversi anni fa. Ricordo il gesto con cui Ruth Leiser mi consegnò il plico; ricordo la prima impressione e, subito, i dubbi. Quasi cinquecento pagine fitte di appunti: i frammenti, i documenti, le ossessioni, le passioni politiche culturali e letterarie di una vita passata in pubblico. Mentre scorrevo quelle pagine che attraversavano anche la mia esistenza di intellettuale e di militante, e vi cercavo riscontri, verifiche, conferme e smentite, mi chiedevo chi potesse, nelle generazioni successive alla mia, riconoscersi ancora in quella vicenda. Se infatti il libro avesse solo un valore storico-filologico (e certo questo valore lo ha), avrebbe senso pubblicarlo? Non per questo era stato pensato. Per Fortini destinatari del libro sono coloro «che una passione muove o rode non troppo diversa da quella dell’autore» (p. 536): solo così avrebbero potuto «colmare gli spazi vuoti»: segnati dalle voci dei compagni di percorso, degli avversari, degli scomparsi e ritrasformare in storia una cronaca. Ma dove sono finiti gli eredi di quei compagni? Chi è mosso o morso ancora da quelle passioni? Chi da una fede e da un intento comuni? Le passioni - la fede, l’intento - di Fortini sono quelle di un figlio della Terza Internazionale, di un intellettuale marxista il cui primum è politico e che avverte il bisogno urgente, in qualsiasi momento della propria vita, di «fare il punto sulla situazione», di individuare gli amici e i nemici di un conflitto in atto, di indicare le contraddizioni, la tattica, la strategia di una battaglia in cui ci sono schieramenti netti, scelte drastiche e urgenti. Che vuole interpretare religiosamente “i segni dei tempi”, ma per modificarli materialmente (il Vecchio Testamento e i Vangeli, Hegel, Marx e Lenin, la teologia e la politica hanno per Fortini, come per l’ultimo Benjamin, un lato comune).

Si aggiungano poi, ad accrescere le difficoltà del lettore d’oggi, l’ambiguità del genere (e dunque della strategia di lettura che la strategia di scrittura implicita in un genere di per sé suggerisce), la riluttanza o la desuetudine di fronte a una autobiografia che non è né affondata nelle miserie dell’inconscio e del privato né costruita sull’ordine di un orgoglioso cursus honorum e/o di una sapienza retrospettiva (le forme oggi dominanti del gusto autobiografico), ma immaginata come «controversia con se stesso», opera incessante di controllo tanto sugli altri quanto su sé, il carattere stesso non finito dell’opera che richiede un supplemento di interpretazione, la mancata funzione rassicurante degli autocommenti posteriori, d’altronde sempre più radi a mano a mano che si procede nella lettura, in quanto essi stessi implicati nella ricerca, parti in causa della controversia, tanto che l’autore dichiara infine di non essere più capace di capire «quale delle due parti fosse il testo e quale il commento».

Ma non è solo questione di assenza di un destinatario. E’ un intero contesto storico che si è collassato e dissolto. Fortini rappresenta una tipologia ormai scomparsa d’intellettuale capace: a) di leggere politicamente il mondo interpretandolo nella globalità e nella interrelazione dei suoi aspetti (è l’esperienza, la lezione ermeneutica, direi, della Terza Internazionale, quale si ritrova per esempio nello storico Hobsbawm, alla cui autobiografia, Anni interessanti, mi è capitato spesso di pensare leggendo queste pagine) e b), in quanto scrittore, di praticare la poesia come la narrativa, la saggistica come l’oratoria, il verso lirico, epico e epigrammatico come la sceneggiatura di un film, la traduzione in versi e in prosa, la canzone e l’articolo come il comizio, di muoversi fra la cultura dell’Occidente e dell’Oriente, fra letteratura, teatro, pittura, cinema, filosofia, sociologia del lavoro e delle comunicazioni di massa, organizzazione industriale e storia del movimento operaio, psicologia, storia delle religioni, antropologia, cinema, scuola, sindacato, editoria. Un intellettuale complessivo: che può citare Chateaubriand come Gramsci, Freud come Goethe, Lenin come Manzoni, Lu Xun come de Martino, Rilke come Simone Weil, scrivere una pagina su Manet e sulla ricorrenza di una rima e scriverne una sulla guerriglia o sull’organizzazione del lavoro in fabbrica. Che conosce gli specialismi, ma non li pratica nella loro separatezza, convogliandoli piuttosto, e superandoli, in una ambizione di totalità. Lontanissimi dunque dalla parcellizzazione, dalla separazione e distinzione dei ruoli oggi imperante. La sua è una figura d’intellettuale che nel trentennio successivo alla guerra aveva ancora un certo corso (in ciò Pasolini, naturalmente è il più vicino a Fortini, ma si possono aggiungere Volponi, Sciascia, Calvino e Leonetti, e magari, malgré lui, forse, Sanguineti, ultimo esemplare, in fondo, di una specie in via d’estinzione).

Questo diario in pubblico mostra bene come allora fosse ben viva e operante una società letteraria; fra i membri della quale scriversi una lettera era impresa intellettuale e cerimoniale non meno impegnativa che elaborare un saggio per una rivista o un capitolo per un libro. Una società in cui i dissidi erano profondi, ma gli avversari finivano comunque per legittimarsi a vicende come interlocutori interni alla stessa civiltà.

Interlocutori di queste pagine sono Vittorini, Sereni, Pasolini, Luzi, della Volpe, Baldacci, Cases, Calvino, Giudici. Ma anche Alicata, Salinari (e, dietro, naturalmente, Togliatti), Nenni, Panzieri, Rossanda, persino Mussi. Non c’era solo una società letteraria, dunque, ma una comunità civile, in cui fra il politico e l’uomo di cultura s’intrecciavano discussioni e rapporti e in cui la reciproca distanza e separazione non erano abissali. Mentre oggi il politico fa il politico di mestiere, come lo scrittore fa lo scrittore di mestiere, ognuno chiuso nel proprio particolare.

Di questa società civile oggi si sta perdendo persino la memoria. Questo diario può aiutarci a ricostruirne il reticolo, i rapporti fra i gruppi, le redazioni, i partiti, le case editrici, e anche a ricordarne e magari a criticarne significati e simboli.




aprileonline.info 6.7.06
Partito Democratico, dove porta questo treno?
Un errore, passare dal ''se'' al ''come''. Un errore puntare, di fatto, sulla messa in crisi dei partiti politici e su quello più al centro della partita in gioco, i DS
di Gianni Zagato*


Tra l’Assemblea della sinistra DS e il Consiglio nazionale del partito il prossimo 13 luglio, si è messo in mezzo ieri l’altro Gad Lerner. Non più “se” fare il Partito Democratico italiano, ma “come” farlo, qui ed ora. Progetto, statuto, percorso, strumenti, modalità. Tutto ben definito in meno di una giornata, condotta a tamburo battente come in un palinsesto televisivo di quelli che Gad sa davvero realizzare bene, col cipiglio e la fierezza di un grande infedele come sa essere. Del resto, non è uno che mandi a dire le cose che sente. Aveva detto chiaramente il giorno prima su “Repubblica” che i DS si dovevano sciogliere come partito per poter concorrere a costruirne un altro.
Mettiamo in fila le cose. La Sinistra DS al Quirino aveva invocato posizioni politiche chiare e la necessità di uscire da una situazione di stallo. Giunti a questo punto, aveva detto Mussi, ci sono due strade percorribili. Una correzione esplicita di rotta politica di fronte all’impossibilità di una fusione tra DS e Margherita; oppure si vada in tempi certi verso l’approdo del partito democratico. Nel primo caso, si può e si deve ragionare sul tipo di alleanza con la stessa Margherita e dentro l’intera coalizione dell’Unione, muovendo dalle posizioni di una sinistra socialista autonoma e unitaria. Nel secondo caso, la sinistra DS non potrà stare dentro un nuovo partito che avrà tolto la “sinistra” dal lessico politico italiano e forse anche europeo. La richiesta di un Congresso, fatta propria in questi giorni anche da esponenti autorevoli della stessa maggioranza, è la conseguenza logica, democratica, di come uscire da uno stallo politico che può rapidamente tramutarsi in scacco matto.

Il Consiglio nazionale dei DS, convocato il prossimo 13 luglio a Roma, ha precisamente questa pratica sul suo tavolo. L’impressione che si ricava è che Gad Lerner abbia finito ieri per complicare le cose in primo luogo a Fassino e ai democratici di sinistra, perché ha bocciato una ad una tutte le diverse “vie di uscita” che erano state pensate nell’intento di reggere l’impatto senza “perdere pezzi”. Niente Federazione, nessun approdo al socialismo europeo, centralità delle primarie. Ed in più Rutelli che si dice pronto a far partire i congressi di base della Margherita già a settembre, facendo sua l’accelerazione verso il partito democratico. Qui ci sarebbe bisogno di un maggior raccordo della “cabina di regìa” istituita da DS e Margherita. Perché se la domenica si dice a noi che il “congresso subito” destabilizza il governo Prodi, dunque non è opportuno, non si può dire il martedì che quello della Margherita può partire già da settembre. Non ci può essere una discussione, quella della Margherita, che unifica e rafforza ed un’altra, quella dei DS, che destabilizza e dunque è opportuno rinviare. Almeno su questo dovremmo essere d’accordo.

Oggi ci troviamo di fronte ad una accelerazione, messa in atto dal protagonismo decisionale dei sindaci e dalla saldatura che si è palesemente compiuta tra loro ed il premier sul rilancio di un progetto che mantiene intatte se non accresciute le sue contraddizioni, ma che vuole giungere il più rapidamente possibile alla meta, anche drammatizzando sui treni “che non passeranno più”. Proprio questa accelerazione accresce le difficoltà politiche del gruppo dirigente dei DS, perché ora i sindaci cambiano l’agenda e il calendario.

C’è bisogno di un atto politico, nuovo e forte, da parte del gruppo dirigente dei DS. Quel treno su cui o si sale adesso, subito, o non ripasserà mai più, non è indifferente dove si dirige una volta che lascia l’Italia e s’incammina in Europa. Si dica che la stazione del socialismo europeo non si tocca. E lo si dica subito, prima di un’altra Pontignano. Perché i DS non possono cercare faticosamente al loro interno di non perdere pezzi e poi venire quotidianamente scomposti, smontati e messi all’angolo, indeboliti da chi poi li vorrebbe alleati in qualcosa di nuovo.
Non è precisamente questo, prima di tutto, che mette a rischio il procedere dell’azione di governo? Se questo percorso politico è un treno in corsa su cui affrettarsi a salire, come non vederne i contraccolpi che esso può arrecare proprio al governo e all’intera coalizione? Un processo di questa portata non può non ridisegnare l’intero sistema politico italiano e dunque forzarne i tempi non potrà che provocare altre frammentazioni politiche, ridislocazioni, contraccolpi su ognuno dei partiti coinvolti, con ripercussioni inevitabili sulla quotidiana azione di governo del Paese.

Un errore, dunque, passare dal “se” al “come”. Un errore puntare, di fatto, sulla messa in crisi dei partiti politici e su quello più al centro della partita in gioco, i DS. Un errore contrapporre di nuovo la dinamicità della “società civile” alla “staticità” dei partiti politici, senza vedere che la crisi degli uni è anche la speculare crisi dell’altra. Un errore, infine, spingere tutti in fretta a salire sull’ultimo treno. Dove ci può mai portare l’ultimo treno, possiamo chiedercelo?

*coordinatore organizzativo area Sinistra DS





aprileonline.info 6.7.06
Partito democratico, una cornice sul vuoto
Dibattito a sinistra. Invece di discutere sul quando e come dar vita alla nuova forza politica, interroghiamoci sul perché e con chi farla
di Marcello Marani


Ho partecipato al convegno “Incontriamoci nel Partito democratico”, tenutosi a Roma il 17 giugno scorso al teatro Quirino, a cui hanno partecipato aderenti di tutta Italia assieme a Giovanna Melandri, Franceschini, Santagata e Berselli.
Purtroppo, essendoci state carenze organizzative, si è trattato di un incontro abbastanza controproducente perché i quattro del tavolo hanno parlato molto ed ascoltato poco ripetendosi e parlandosi addosso, mentre poco spazio è stato dato a noi presenti, invitati per: “Dire la nostra”, cosa che mi ha fatto inviare una vibrata protesta agli organizzatori, rimasta senza risposta.

Da lì ho preso la decisione che a questi inviti non intendo più né aderire né partecipare se non viene garantita la possibilità di intervenire perché sono stanco di sentirmi ripetere le solite menate, che hanno il sapore dei “chaiers de dolences” senza che emergano proposte sul come venirne fuori.

Infatti gran parte della discussione si è sviluppata sul quando farlo, tra chi lo voleva subito adducendo che di tempo se ne è perso anche troppo e chi invitava alla prudenza dicendo che la gatta frettolosa…, e sul come farlo, e qui si assisteva ad una specie di laboratorio alchemico e tutti a dare gli ingredienti ed i dosaggi.

Io credo invece che si dovrebbe rispondere nell’ordine a tre domande e precisamente, perché farlo, come farlo e con chi farlo, poiché se formalmente sembriamo tutti d’accordo nel volere una nuova forza politica sotto l’ombrello dell’unità, poi come per la Nazionale di calcio ciascuno la vorrebbe a propria immagine e somiglianza e quindi avremmo qualche milione di nuovi partiti democratici, all’insegna de il mio è meglio del tuo, alla faccia dell’unità.
Forse sarebbe il caso di rileggere Guicciardini ed uscire dal proprio “particulare” per avere una concezione più generale che non dimentichi l’appello di Marx: “Proletari di tutto il mondo unitevi” magari sostituendo il vocabolo proletari con “lavoratori”.

E vengo in forma schematica a rispondere alle tre domande partendo dal perché farlo.
Oggi più che mai c’è bisogno in Italia di un partito “Riformatore per l’alternativa”, cominciando col costruire una democrazia partecipata e non delegata, dato che attualmente la sovranità del popolo ha la durata di cinque minuti soli ad ogni tornata elettorale, il tempo di entrare in cabina, votare e restituire la scheda, e poi se ne riparla alla prossima elezione. Sarebbe invece assolutamente sterile un partito “Riformista per l’alternanza”, dato che la vera alternativa in Italia sarebbe quella, dopo avere salvato la vecchia Costituzione originale, di smetterla di tenerla imbalsamata ma cominciare a diffonderla per farla conoscere e ad attuarla per dimostrarne tutta la potenzialità.

Come farlo? Il metodo migliore sarebbe quello di azzerare tutte le oligarchie partitocratriche che in questi ultimi vent’anni, hanno degradato i partiti, da momenti di partecipazione e scuole di democrazia, ai famosi laboratori alchemici dove si effettuano dosaggi tra componenti fondati non sulla visone di un servizio da dare a tutti gli elettori, ma più prosaicamente tesi alla conservazione del potere e se possibile nell’avere poltrone più comode.

Con chi farlo? Con tutti coloro che si riconoscono nello spirito e nella lettera della nostra Costituzione che dovrebbe rappresentare appunto il Vangelo laico, che siano essi comunisti o liberali, omo o eterosessuali, lai ci o credenti senza discriminazione alcuna, rinunciando a coltivare ciascuno il proprio orticello per avere campi fertili di messi da poter raccogliere, dopo beninteso averli coltivati e fecondati.

Per questo ho grossi dubbi che tale sogno possa avverarsi, anche perché, specie nei piccoli centri assistiamo ad operazioni assurde come quella di vedere alleati, per esempio nel comune di Rignano Flaminio, i Comunisti Italiani, con la destra della CdL, e con sindaco di An, mentre in un paese limitrofo, Morlupo, il Prc., facendo una sua seconda lista per dispetto all’Unione, ha consentito il prevalere di un’altra lista di destra per meno di 70 voti.
E per fortuna non conosco le amministrazioni degli altri paesi del circondario ma mi dicono che c’è di tutto e di più, mascherato con l’ipocrisia delle cosiddette liste civiche, che rappresentano solo la foglia di fico per nascondere la vergogne delle partitocrazie imperanti che non hanno neppure il coraggio di mostrarsi con la propria faccia. Tanto che quando noi spiriti liberi e cani sciolti ci indigniamo per queste squallide operazioni, le risposte sono sempre che “I voti non hanno odore”, “Così si vince”, “Così fan tutti” e che anzi, “loro” sono peggio di noi e “loro” sarebbero poi quelli con cui si dovrebbe fare il nuovo partito. E nel frattempo nelle sezioni abbiamo manipoli di generali senza le truppe ed in special modo senza i giovani.

Non proviamo poi a riferirci ad esempio ad un codice etico: se appena appena ci permettiamo di accennare a Zapatero, ecco che tutti si fanno cogliere da crisi epilettiche e convulsioni, quasi avessimo fatto le più oscene proposte possibili.



dalla Libreria Amore e Psiche:
LUGLIO IN LIBRERIA


Sabato 15 Luglio ore 19.00
‘Il mare color del vino’
consigli di lettura sul Mediterraneo di
Rossella Cococcia e Camilla Ariani

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Venerdi 21 Luglio pre 19.00
incontro con MICHELE RANCHETTI
docente di Storia della Chiesa all’Università di Firenze, è tra l’altro uno dei piu illustri traduttori italiani
perché la sua traduzione di Freud appena uscita viene ritirata dalle librerie?
vedi: ‘Freud, il Santo’ di Cecilia Iannaco e Simona Maggiorelli
in Left n.21 2/8 Giugno 2006

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è uscito il libro "Il regista di matrimoni" di Marco Bellocchio (Marsilio 2006)
Il volume contiene un’intervista al regista e una all’attore Sergio Castellitto (entrambe a cura di Fabio Ferzetti), la sceneggiatura e i disegni preparatori del film di Marco Bellocchio.
il dvd di "Buongiorno, notte" di Marco Bellocchio è ancora disponibile
è uscito l’ultimo libro di Sàndor Màrai "La Sorella" (Adelphi 2006)
è uscito "I ragazzi di Teheran" di Antonello Sacchetti (Infinito edizioni 2006)
è uscito "Lettere a Clizia" di Eugenio Montale (Mondadori 2006)
è uscito il libro di Adriana Pannitteri "Madri assassine. Diario da Castiglione delle Stiviere" (Gaffi 2006)
è uscito il dvd del film di Carlos Reygadas "Battaglia nel cielo"
Venite a scoprire il nostro nuovissimo reparto di cinema!!!!
Fino a fine Luglio una vasta offerta di titoli a partire da 7,99 euro.
in più… un’accurata selezione dei titoli più interessanti della storia del cinema!

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mercoledì 5 luglio 2006

il manifesto 5 luglio 2006
«Pronto ad andarmene subito»
Parla Cesare Salvi: un conto è allearsi, un altro fondersi. E se i Ds lo faranno io lascerei immediatamente. Non possiamo essere l'unico paese europeo senza una sinistra socialista
di Antonio Massari


«Se i Ds dovessero sciogliersi nel Partito democratico sono pronto ad andarmene immediatamente». Il diessino Cesare Salvi, presidente della commissione giustizia del senato, è assolutamente contrario alla confluenza dei Ds nell'eventuale partito democratico. E aggiunge: «E chiaro che in Italia è necessaria l'alleanza con una forza di centro. Ma un conto è allearsi, un conto fondersi. Non vorrei che passassimo dall'anomalia del passato, una sinistra a egemonia comunista, all'anomalia dell'unico paese europeo senza una sinistra di ispirazione socialista».
Onorevole Salvi, ma se davvero i Ds si sciogliessero nel partito democratico, per chi dissente non può bastare rifiutarsi di aderire: quale sarebbe il passo successivo?
Contribuire alla nascita di un nuovo soggetto della sinistra. Una sinistra socialista e democratica. Se il partito democratico dovesse diventare realtà io mi batterei immediatamente per realizzare questo risultato.
Probabilmente non sarebbe solo, nei Ds, a lavorare su questo progetto. ma questo nuovo soggetto avrà pur bisogno di dialogare con altre forze di sinistra.
Certamente avremmo il compito di dialogare con Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi. Su questo non c'è dubbio.
Crede che sia possibile?
Credo che tutti, se lo scenario del partito democratico dovesse trasformarsi in realtà, dovrebbero assumersi delle responsabilità all'interno della sinistra. Rifondazione e Pdci inclusi. Su questo sono ottimista. Mi sembra che Rifondazione abbia già avviato un'importante riflessione al suo interno, riguardo la Sinistra europea, e il tema dell'unità a sinistra è sempre seguito con attenzione dai Comunisti italiani.
Intanto ieri, all'hotel Radisson di Roma nel «Forum per la costruzione del partito democratico», è stata impressa un'accelerazione sul progetto.
E' vero e questo non mi piace: ma voglio andare al di là delle modalità, a mio avviso poco democratiche, con cui questo partito, che si dice appunto «democratico», sta andando avanti. Sono contrario a questo progetto per tre ragioni.
Ce le spieghi.
Innanzitutto mi aspetto che venga convocato un congresso per decidere se i Ds vogliono o no dar vita a questo nuovo partito. Senza questo passaggio, il processo sarebbe inaccettabile. In secondo luogo, l'appartenenza al socialismo fa riferimento a una storia, a un punto di vista critico, a un dibattito che è ancora in corso. Esiste un prezzo di storia ancora valido e l'obiettivo - mi pare che Rutelli in questo sia abbastanza chiaro - è proprio sradicare questa tradizione. In secondo luogo, rischia di essere messo in discussione il principio della laicità dello Stato. Il socialismo la intende come separazione dalla Chiesa, esistono concetti come multi-culturalismo e relativismo che non possono andare dispersi, mentre la Margherita, a mio avviso, ha posizioni diverse che non esiterei a definire integraliste. Infine: io mi chiedo a quale forza sociale dovrebbe fare riferimento il partito democratico. C'è un moderatismo implicito, in questa operazione.
Tutte prospettive che, alla nascita del partito democratico, potrebbero confluire in un nuovo soggetto politico di sinistra?
Certo. Ma ripeto: mi auguro che il partito democratico non nasca dallo scioglimento dei Ds.
Eppure, in queste ore, persino Prodi dice di avere fretta. Pare che la sua nascita stia diventando una componente fondamentale per l'equilibrio del governo.
E' un'idea totalmente sbagliata. La nascita di questo soggetto politico potrebbe portare solo tensioni all'interno della coalizione di governo. In questo modo la sinistra corre il rischio di sentirsi emarginata, potrebbe temere di essere esclusa; mi sembra chiaro che si accentuerebbero soltanto i conflitti interni.

Comitato per la scuola della Repubblica - newsletter del 5.7.06
Il Senato ha prorogato la legge Moratti: una scelta sbagliata e pericolosa!
di Corrado Mauceri


Nei giorni scorsi il Senato ha approvato il ddl di conversione del D.L. n. 173/06 con alcuni emendamenti che, tra l’altro, prorogano di altri 18 mesi la delega della legge Moratti al Governo per adottare "ulteriori disposizioni correttive e integrative dei decreti legislativi con il rispetto dei medesimi criteri e principi direttivi ..." limitatamente ai decreti ancora "sotto delega" e cioè: DD. lgvi 15/4/2005 n. 76 (sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione), 15/4/2005 n. 77 (sull’alternanza scuola-lavoro), 17/10/2005 n. 226 (sul secondo ciclo), 17/10/2005 n. 227 (formazione degli insegnanti).

Quale è l’effetto di tale proroga? L’efficacia della legge-delega della Moratti è prorogata al fine di adottare "disposizioni correttive ed integrative" dei decreti legislativi emanati dal precedente Governo, fermo restando ovviamente, ai sensi dell’art. 76 Cost., "il rispetto dei medesimi criteri e principi direttivi" della legge Moratti.

La prima ed immediata reazione non può che essere di stupore: dall’abrogazione delle leggi Moratti, da moltissimi ritenuta prioritaria alla vigilia delle elezioni, ci troviamo alla proroga della legge Moratti!

Poiché non si può ovviamente pensare che la nuova maggioranza si sia improvvisamente ed unanimemente convertita al morattismo, non conoscendo le reali motivazioni di tale provvedimento (sarebbe opportuno che le forze politiche dell’UNIONE socializzassero tutte le questioni attinenti la politica scolastica, anche per evitare le non encomiabili esperienze del precedente governo di centro-sinistra) si possono prospettare soltanto delle ipotesi.

L’ipotesi più plausibile, considerate le difficoltà della maggioranza in Senato, potrebbe essere quella di utilizzare lo strumento della proroga della delega allo scopo di modificare i decreti adottati dal precedente Governo, evitando in tale modo lo scoglio dell’iter parlamentare.

L’altra ipotesi potrebbe essere quella di "prendere tempo" per consentire interventi legislativi modificativi non solo di alcuni aspetti dei decreti legislativi, ma anche della stessa legge delega; per esempio un primo intervento legislativo potrebbe riguardare l’elevamento dell’obbligo scolastico che implicherebbe però una "modifica" di ampie parti della legge Moratti.

Si deve subito precisare che entrambe le ipotesi non giustificano in alcun modo un provvedimento di proroga della legge Moratti che pertanto è un grave errore politico, sia sotto il profilo del contenuto sia del messaggio politico, molto probabilmente causato da scarsa attenzione.

La prima ipotesi implica difatti un intervento del Governo di centro-sinistra sui decreti "sotto delega" che però, per essere legittimo, deve essere comunque attuativo delle finalità della legge Moratti!; non sarebbe difatti possibile utilizzare la "proroga" per introdurre per es. l’obbligo scolastico o per eliminare il sistema duale del secondo ciclo, ecc.

Il Governo di centro-sinistra si propone di intervenire nell’ambito delle finalità stabilite dalle leggi Moratti? Ovviamente non è nemmeno pensabile; ma se è così, la proroga non si può utilizzare e quindi è del tutto inutile; difatti qualsiasi intervento che utilizzi la proroga in contrasto con la legge Moratti sarebbe illegittimo.

L’altra ipotesi (cioè quella di prendere tempo) è sbagliata perchè anche in tale caso la proroga sarebbe del tutto inutile; difatti la proroga non sospende l’efficacia dei decreti emanati dal precedente Governo, quindi non serve per prendere tempo; serve solo a perder tempo; difatti, finchè non saranno abrogati con interventi legislativi , i decreti saranno efficaci.

Per "prendere tempo" con un uso molto spregiudicato della "proroga", prevista per interventi "correttivi ed integrativi", il Governo dovrebbe adottare un decreto delegato formalmente attuativo della legge Moratti, ma nella sostanza volto alla "sospensione" dei decreti già in vigore; sarebbe però un provvedimento molto discutibile e politicamente molto pericoloso.

In conclusione non si riesce a comprendere la ragione di tale "proroga"; peraltro se c’è una qualche ragione che fuori dal Palazzo non si riesce a comprendere, sarebbe stato opportuno indicarla, se non proprio discuterla.

Allo stato la proroga ci sembra un provvedimento certamente sbagliato e molto ambiguo e per certi aspetti paradossale; nel programma dell’UNIONE è previsto che "con gli atti dei primi mesi di Governo, in radicale discontinuità con gli indirizzi e le scelte di centro-destra, abrogheremo la legislazione vigente in contrasto con il nostro programma"

Il primo atto del Governo è stata però la proroga della legge delega della Moratti; non è un segnale incoraggiante!

Peraltro la "proroga" riguarda la parte della legge Moratti relativa ai decreti "sotto delega", rimane in ogni caso il decreto n. 59 relativo al I ciclo che è già in vigore e non più modificabile in sede delegata; finora il movimento dei genitori e degli insegnanti ne ha limitato i danni; il governo cosa intende fare entro il 1 settembre? Allo stato non pare possibile altra soluzione che l’abrogazione immediata di detto decreto.

Senza dubbio il Governo deve fare i conti con la realtà delle forze in Parlamento e di ciò tutti dobbiamo tenere conto ed agire con il massimo senso di responsabilità; nel contempo dobbiamo tutti tenere presente che il programma è il "patto" che tutti dobbiamo osservare; taluni aspetti del programma sono molto discutibili (per usare un eufemismo) come per es. il sistema nazionale formato da scuole statali e scuole private paritarie (!); se per senso di responsabilità non si mette in discussione questa parte infelice del programma, con lo stesso senso di responsabilità si deve però garantire la corretta attuazione di quella parte che prevede "con gli atti dei primi mesi di governo" la discontinuità e l’abrogazione delle leggi Moratti che in quanto eversive si devono ritenere in contrasto con il programma dell’UNIONE.

Confidiamo pertanto che la vicenda della "proroga" sia stato un passo sbagliato e che le forze politiche dell’UNIONE prendano un’iniziativa immediata e concreta per realizzare con provvedimenti inequivoci e coerenti quella discontinuità rispetto alle leggi Moratti che la scuola attende e cioè l’abrogazione immediata per poter avviare le riforme coerenti con i principi costituzionali.

Deve essere comunque chiaro: il 1 settembre non si possono applicare le leggi Moratti.

Corrado Mauceri
(Comitato di Firenze "Per la scuola della Repubblica")





È ora di dire tutti insieme basta alle stragi, al terrore, alle violenze.

Chiediamo che Israele fermi la sua macchina da guerra e faccia valere la ragione. Chiediamo l’immediato rilascio del soldato israeliano. Non sono i carri armati, né le aggressioni, né i sequestri a costruire condizioni di pace, di giustizia e di convivenza.

È ora che i Governi dei paesi europei, a partire dal nostro Governo, intraprendano una nuova politica, rispettosa delle risoluzioni delle Nazioni Unite e del parere della Corte dell’Aja, ripristinando gli impegni presi con l’Autorità Nazionale Palestinese in materia di aiuti e di assistenza, promuovendo con determinazione e coerenza il tavolo del confronto e del negoziato tra le parti.
Questo favorirà anche la ricomposizione dei contrasti dentro la società palestinese. È necessario confermare l’appoggio ed il sostegno al processo democratico ed ai suoi risultati, come unica risposta a chi opera per dividere le varie componenti palestinesi, per creare conflitto e caos. Il recente accordo tra Fatah e Hamas dimostra che il dialogo ed il rispetto danno buoni risultati, che la violenza ed il terrore seminano solo odio e disastri.

Tra pochi giorni saranno passati due anni dal parere della Corte di Giustizia dell'Aia del 9 luglio 2004 che dice:
«L’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, sta costruendo nel territorio palestinese occupato, ivi compreso all’interno e sui confini di Gerusalemme est, e il regime che lo accompagna,sono contrari al Diritto internazionale...
Israele è obbligato a porre termine alle violazioni del Diritto internazionale di cui è l’autore; è tenuto a cessare immediatamente i lavori di costruzione del muro... di smantellare immediatamente l’opera situata in questo territorio e di abrogare immediatamente o privare immediatamente di effetti l’insieme degli atti legislativi e regolamentari che vi si riferiscono...

Israele è obbligato a riparare tutti i danni causati con la costruzione del Muro...
Tutti gli Stati sono obbligati a non riconoscere la situazione illecita derivante dalla costruzione del Muro e di non prestare aiuto o assistenza al mantenimento della situazio ne creata da questa costruzione; tutti gli Stati parti della Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra, dal 12 agosto 1949, sono inoltre obbligati nel rispetto della Carta delle Nazioni unite e del Diritto internazionale, a far rispettare da Israele il Diritto internazionale umanitario incorporato in questa Convenzione».
Ma la costruzione del Muro e le sue drammatiche conseguenze sulle condizioni di vita dei palestinesi continuano a demolire le speranze di pace e di giustizia.
È urgente, quindi, far sentire tutte le voci possibili della società civile e quella di una nuova politica che chiedano il reciproco riconoscimento, la fine dell’occupazione, lo smantellamento del muro e la nascita di uno Stato palestinese indipendente che possa vivere in pace e sicurezza accanto a quello di Israele.
Sosteniamo la società civile israeliana democratica nella sua opposizione a questa escalation di violenza.

Arci, Associazione per la pace, Associazione ONG italiane, Associazione Giuristi democratici, Beati i costruttori di pace, Casa della Pace, CGIL, Donne in nero, Ebrei contro l’occupazione, FIOM-Cgil, FGCI, Fotografi senza frontiere, Giovani comunisti, ICS, La Rinascita, Libera, Mezzaluna rossa palestinese, Pax Christi,
Aderiscono: Prc-Sinistra europea, PdCI, Punto critico, Verdi


il Programma della Manifestazione
PALESTINA: né muri né silenzi
ROMA, 7 LUGLIO 2006
PIAZZA FARNESE, DALLE 20.00 ALLE 24.00


Intervengono:
  • Suad Amiry, palestinese, autrice del libro «Sharon e mia suocera»
  • Sabri Mohammad Atyieh, Ambasciatore della Delegazione generale palestinese in Italia
  • Moni Ovadia, regista e attore teatrale
  • Giannarelli, Labate, Maselli e Monicelli, registi del film «Lettere dalla Palestina»
  • Luisa Morgantini, parlamentare europea
  • Paolo Nerozzi, segreteria nazionale Cgil
  • Patrizia Sentinelli, viceministra agli Affari esteri
  • Francesco Napoletano, parlamentare
  • Associazioni Promotrici

Presentazione della Campagna promossa da: Liberazione, Carta, il Manifesto, Left
«LA PALESTINA HA BISOGNO DI NOI. NOI ABBIAMO BISOGNO DELLA PALESTINA»

•VIDEO DI BRUNA ORLANDI, MICHELA SECHI, GIOVANNI LUCCI
«La vita oltre il muro»

•VIDEO DI NANDINO CAPOVILLA

«né muri né silenzi»

•DANZA DABKHE


CONCERTO DEL GRUPPO Maram Oriental Ensemble

(Newsletter from Sinistra Europea sent on July 05 2006)
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domenica 2 luglio 2006

Il Giornale 4.7.06
Vezzi e vizi, che disastro i genitori di sinistra
di Redazione


I genitori di sinistra sono genitori che fanno danni. Peggio di Pollon combina-guai, il cartone animato con la biondina che mette sottosopra l'Olimpo. Animato da una buona volontà al limite del pedagogismo evangelico, convinto che il buonismo sia una missione da trasmettere all'adolescente che gioca alla Playstation, il genitore di sinistra produce disastri. Non lo fa apposta, ma lo fa. Nel caso che ci interessa, produce figli un po' spostati: alcuni picchiatelli, altri nemici metafisici di papà e mamma, altri ancora tutte e due le cose insieme.
Siamo arrivati al trentennale di Porci con le ali, i Rocchi e le Antonie d'oggi hanno sempre a che fare con lo stesso personaggio: il padre e la madre di sinistra doc, certificati progressisti. Epperò incapaci di comunicare. Due sinistre che si guardano in cagnesco da un lato all'altro del tinello, due Internazionali a confronto. Rocco e Antonia andavano al «Mamiani», e pure Silvio e Valentina, i protagonisti di Come te nessuno mai, il must mucciniano del 1999 sull'eterna crisi familiare.
Scarsa originalità ma nuda sincerità: anche qui non si comunica, e così Gabriele, il Muccino-grande, fa i conti con Silvio, il Muccino-piccolo, cresciuto a pane, Nutella e «Mamiani» in un esercizio di «ecumenico sinistrismo moderato, nostalgico e liceale» (parole su www.dvd.it).
I genitori di sinistra non capiscono e non s'adeguano. Men che mai l'ultradepressa Laura Morante e l'eterno insoddisfatto Fabrizio Bentivoglio, in parole povere due lettori-tipo di Repubblica, alle prese con Nicoletta Romanoff, la figlia superficiale che da grande vuole fare la velina in Ricordati di me (2003), a suo modo ritratto del fallimento del Sessantotto trentacinque anni dopo. Sognavo la rivoluzione e mia figlia sogna i pacchi di Bonolis, bella fregatura.
Qui di seguito, quattro amare sorprese che il genitore di sinistra può ritrovarsi dentro casa. O, più spesso, fuori (retta di mantenimento esclusa).
IL FIGLIO-TALE-E-QUALE
Riproduce quasi meccanicamente vezzi, pregi e vizi della genitorialità progressista. Il prototipo è la Margherita Rossi Chaillet del paolovirziano Caterina va in città (2003). Stenio Solinas aveva stanato i difetti dei genitori di destra, «melassa retorica dell'impegno, dei sacrifici, dei buoni voti...». Ma il ritratto della famiglia di Margherita, con appartamento di mamma a Piazza Farnese, è atrocemente esatto. Il padre è un barone dell'accademia letteraria che s'è messo con l'assistente e, pur canuto e stanco, ha fatto un bebè e dunque non si fila più la figlia. La madre è l'editor di una casa editrice alle prese con l'eterno esaurimento, Michele Placido e Roberto Benigni (peggio gli ultimi due). Sfumazza per casa, non sia mai che cucini. E non ha libertà d'accesso alla stanza di Margherita: che beve, si tatua, si fa le canne eternamente scontenta e già pronta per l'analisi collettiva di Massimo Fagioli, si veste come un sacco di patate con la kefia, fa i girotondi e legge Sergej Esenin (il che spiega tante cose), è insomma a tredici anni la prefigurazione di un parlamentare dei Ds.
IL FIGLIO CAMERATA
Non ne può più del genitore impegnatissimo tra raccolte di firme per Amnesty International e seminari sul berlusconismo come infezione democratica, De Gregori e soprattutto Vecchioni gli stanno sulle balle e Che Guevara pure: perché sono i miti di mamma e papà, roba che puzza di naftalina. Così fa l'opposto, e si trasforma in quello che negli anni Novanta si chiamava «fasciobar»: genericamente di destra, ribellismo da curva, estetica Ray Ban. La sconfitta del genitorismo di sinistra è stata tratteggiata l'anno scorso da Roberto Cotroneo, che s'è appostato davanti a un liceo romano per scoprire che «i ragazzi tra i 13 e i 15 anni si dichiarano, spesso e volentieri, di destra, e qualcuno dice di essere fascista». Ma non solo: «Sono di destra anche quando vengono da famiglie di sinistra» ovvero «gente cresciuta nel fallimento della politica, e nell'idea che se esiste Berlusconi qualche fallimento nelle idee di sinistra dei propri genitori deve esserci». Particolare non secondario: Cotroneo, che a Roma abita dalle parti di piazza Caprera dove scrive i suoi libri, si era appostato davanti al «Giulio Cesare», lo stesso liceo dove venticinque anni prima per Venditti Marx e Nietzsche si davano la mano. Qui Nietzsche dà la mano a Paolo Di Canio e Cotroneo parla di suo figlio che, al pari dei pargoli di tanti suoi amici di sinistra, è una specie di pop-fascista del 2006, che si scarica la suoneria di Faccetta nera.
IL FIGLIO-NAZI-DISPERATO
È il Martino Bux immaginato da Mario Desiati in Vita precaria e amore eterno (Mondadori, 2006). Famiglia di Castiglioni, sicilianissima e immigrata dalla «landa di “nisciuni”» al Laurentino 38, con la madre matta e stretto da una morsa micidiale: il padre, attivista del Pci eternamente animato dalle buone intenzioni e comunque disilluso, e l'amata fidanzata, Toni Farnesi, di famiglia borghese, rappresentazione del più insopportabile moralismo no global che Bux vorrebbe sodomizzare ma non ci riesce. Il povero Martino prima diventa un «Houellebecq di Tor di Quinto», un fascista per sfida che fa il saluto romano perché «più è volgarmente proibito più è lecito», poi appende una bandiera americana in mezzo agli arcobaleni della pace a San Lorenzo, poi scopriamo che è scimunito dall'inizio del libro. Per forza, in una situazione come questa, tra padre, fidanzata e call center.
IL FIGLIO-IMMUNO-REPRESSO
Cresce accumulando una marea di frustrazioni non riconosciute. Il documento più interessante di questo stato d'animo è La ballata delle prugne secche di Pulsatilla (Castelvecchi, 2006), scoperta dal rabdomante di talenti Alberto Castelvecchi, che fugge da Foggia e si dirige prima a Milano e poi a Roma. Principessa dei blog, di Pulsatilla si capisce tutto a pag. 11: «Crescere in una famiglia di sinistra significa avere genitori piuttosto giovanili, e avere genitori piuttosto giovanili, nel novanta per cento dei casi, significa avere a che fare con due incapaci». Il padre le mostra un preservativo a dodici anni per garantire una formazione «non sessuofoba», la madre prima la spinge alla colonia estiva e allo scoutismo, poi al «consumo critico» che sfocia «in aperto girotondinaggio». Niente televisione. Lo straordinario viaggio pulsatilliano, distillato di sociologia generazionale in mezzo ai feticci contemporanei, dal sesso alla cosmetica, dagli elenchi in latinorum dei piselli a quelli dei fidanzati, dalle gag irresistibili ai motti del tipo «la cellulite è come la mafia. Non esiste», mostra sempre la strafottenza di quella che non si diverte mai, che c'è una Foggia in ogni città. Con quei genitori così, tutto il resto è noia.

Il Giornale 4.7.06
L’errore storico di vedere nel sesso un potere innocuo
di Ruggero Guarini


La mia nota di domenica su sesso & religione mi ha procurato una raffica di proteste. Ma come puoi sostenere che la chiesa non è o non è mai stata sessuofobica? E affermare il sesso è spaventoso? E rinnegare il tuo amatissimo Nietzsche, che nel concetto giudaico-cristiano di «peccato» vide il seme di ogni sessuofobia religiosa? Be', io non sono un sessuòfobo. Ma non sono neanche un sessuòfilo. E considero la sessuofobia più o meno pericolosa come la sessuofilia. Comunque non ho affatto sostenuto un'idiozia come quella che consisterebbe nel pensare che nella storia della teologia cattolica (e più in generale nel discorso giudaico-cristiano), la condanna del «peccato della carne» non sia fondamentale. Ho affermato soltanto che in tutta la storia dell'Occidente questa condanna non ha mai prodotto effetti così perniciosi come nell'età paleo-capitalistica.
Mi sembra infatti evidente che l'impulso sessuofobico non si sia mai manifestato in forme terrificanti e grottesche come quelle che si dispiegarono nell'Ottocento borghese, soprattutto nell'area protestante, e in modi peculiarmente grotteschi nell'età vittoriana. E che ciò accadde per ragioni che poco o niente hanno a che fare con la religione cattolica, ma molto invece con quell'idolatria del Lavoro che a mio sommesso parere fu la vera «fede» dell'Ottocento borghese.
Non ho nemmeno detto che il sesso è spaventoso. Ho detto che è sciocco immaginare che il suo potere sia del tutto innocuo. E ho creduto opportuno ricordare che a trovarlo abbastanza inquietante, prima dei teologi cristiani, furono i poeti pagani, che nei loro miti non fecero in fondo altro che evocare le profonde relazioni fra il sesso, il sangue, il dolore, la follia e la morte.
Per quanto infine riguarda l'attacco di Nietzsche al discorso giudaico-cristiano, esso sembrerebbe un po' meno univoco se lui stesso avesse dato più rilievo a un elemento che aveva appreso dal grande Burckhardt, e al quale del resto lui stesso accennò di sfuggita in alcune penetranti osservazioni sul danno arrecato dalla riforma protestante allo spirito dell'Occidente moderno provocando col suo ritorno a un monoteismo rigoroso un fatale arresto dell'evoluzione che il cattolicesimo, e in particolare la Chiesa di Roma, fra il XIII e il XVI secolo, avevano intrapreso in senso neopagano, evoluzione attestata dai molti elementi politeistici versati nel monotoeismo giudaico. Non è forse cosa arcinota che la dottrina trinitaria, il culto mariano e il culto dei santi sono tre concezioni di manifesta origine ellenistica? E che comunque nulla è meno ebraico e monoteistico dell'incantevole fiaba della nascita di un Salvatore dal grembo di una mortale fecondata dall'Eterno?
E poi Nietzsche, forse a causa del fatto che era figlio di un pastore protestante, su certi punti fondamentali della teologica cattolica si dimostrò non molto informato. Per esempio, proprio in rebus mariologicis, risulta che confondeva il dogma della verginità di Maria con quello della sua immacolata concezione. Due cose abissalmente diverse, visto che il primo dogma afferma che Maria concepì Cristo senza perdere la verginità, mentre il secondo asserisce che nacque sine macula, cioè monda del peccato originale.

Corriere della Sera 4.7.06
Proposta degli ebrei italiani «Superare l’ora di religione»
Il presidente Morpurgo al premier: modello antistorico per la scuola di oggi
di Andrea Garibaldi


ROMA - C’è Prodi seduto nella platea del congresso delle Comunità ebraiche e il presidente Claudio Morpurgo si rivolge a lui quando afferma: «Noi chiediamo nuove soluzioni che permettano di superare l’antistorico modello dell’insegnamento dell’ora di religione cattolica nella scuola». Spiegherà poi che la richiesta va inserita nella tutela della laicità dello Stato, «uno Stato non indifferente nei confronti del fenomeno religioso, ma neutrale». Aggiungerà che la sua idea è di sostituire l’ora di religione con la «storia delle religioni». Prodi non replica. La «provocazione» di Morpurgo suscita invece interesse in campo ds. E preoccupazione dentro la Margherita. Giorgio Tonini, già presidente degli universitari cattolici, senatore ds, dice: «La proposta di Morpurgo è utile. Ma si tratterebbe di rivedere il Concordato, quindi di instaurare una complessa trattativa fra Stato e Chiesa cattolica. Consideriamo però la composizione delle nostre scuole, sempre più frequentate da stranieri, e il fatto che la religione è un tema centrale per comprendere i conflitti politici e culturali». E allora? «Oggi la religione a scuola è insegnata da personale certificato dalle autorità cattoliche. Sulle questioni religiose i ragazzi sono molto ignoranti. Credo che la scuola dovrebbe essere pervasa dallo "spirito di Assisi", l’incontro delle diverse religioni. Così, nulla impedisce allo Stato italiano di inserire da subito nei programmi l’insegnamento della storia delle religioni».
Anche Valdo Spini fa parte dei Ds, è deputato dell’Ulivo, di religione valdese, ed è convinto che «la formazione religiosa si fa nelle chiese». Aggiunge: «In attesa di cambiamenti più grandi, invito gli organi collegiali delle scuole a chiamare a parlare i rappresentanti di tutte le religioni». Cosa pensa della proposta che fece il cardinale Renato Martino, di insegnare il Corano ai bimbi musulmani? «Si può considerare un’"apertura" della Chiesa cattolica, ma sbagliata. Bisogna offrire una conoscenza critica». Marco Cappato è dirigente della Rosa nel Pugno: da qui venne la proposta di superare il Concordato. Spera che «ora si riapra il dibattito». Dice che basterebbe inserire nei programmi di filosofia la questione del rapporto dell’uomo con il mistero e con il sacro e nei programmi di storia la storia delle religioni.
Molto perplesso sulla «provocazione» di Morpurgo è Renzo Lusetti, deputato della Margherita: «Non corriamo troppo. La religione cattolica è prevalente nel Paese. Il Concordato dell’83, opera di un laico come Craxi, prevede il diritto per gli studenti di partecipare o meno all’ora di religione. Non mi pare che adesso ci siano le condizioni per cambiare, anche se aumenta sempre di più l’attenzione per l’ebraismo e per l’Islam».
E dall’opposizione? Giorgia Meloni, An, vicepresidente della Camera afferma che già oggi, in molti casi, l’ora di religione si trasforma in storia delle religioni e che molti docenti sono laici. Nessuna modifica è necessaria.


il manifesto 2.7.06
Carceri Bertinotti risponde a Antigone: «La camera discuterà l'amnistia»

Sollecitato dall'appello pubblicato ieri sul «manifesto» il presidente della camera Fausto Bertinotti ritiene che «il segno più importante per i detenuti sia iscrivere nel calendario dei lavori parlamentari della camera il provvedimento di clemenza per l'amnistia e l'indulto». Antigone e il garante dei detenuti di Firenze Corleone avevano chiesto al presidente una sessione speciale estiva dedicata ai problemi del carcere e della giustizia: clemenza ma anche authority nazionale di garanzia, nuovo codice penale, reato di tortura, affettività dietro le sbarre e giustizia minorile.

Repubblica 3.7.06
Le parole più dette del mondo
di Alessandra Retico


ROMA - "Lavorare" anziché "giocare", "problema" sì ma non "soluzione", "uomo" il doppio di "donna". "Persona" piace molto, usata tantissimo, è parola bella e astratta, asessuata, corrispettivo umano di "cosa", dentro ci puoi mettere tutto, oggetti e usi moltiplicati nel suo spazio neutro. Ma è soprattutto "tempo", che tempo fa e non c´è più tempo, è tempo di andare e tempo scaduto: declinazioni infinite su un perno di poche lettere, time è parola che il mondo anglosassone usa di più secondo i compilatori di un compendio al dizionario Oxford che stila la classifica dei vocaboli più frequenti nel linguaggio comune. Manca, è poco, che ore sono, oggi, questa settimana, da un anno e persino da una vita. È qui la vera ossessione dell´epoca, lo spirito, appunto, dei tempi.
I tempi di tutti visto che l´inglese viene parlato dalla maggior parte delle persone su questa terra e tantissimo su internet, dove i linguisti di Oxford sono andati a pescare le proprie fonti, giornali online e blog (i diari di bordo sul web), fiction e news. Dunque linguaggio quotidiano e modernissimo, dove insomma ti aspetteresti sms, chat e smart, reset e cool a bizzeffe. Invece no. Nella top 25 del volumetto, 11esima edizione, obiettivo quello di misurare l´evolvere della lingua, neanche un´occorrenza così, nessun privilegio alla nuova grammatica della rete, assenti neologismi e barbarismi, parliamo come sempre e come in passato, non vecchi, ma tradizionali sì. Gli inglesi precisano: come gli anglosassoni prima dell´invasione normanna (1066). È una sorpresa, forse delle più curiose, le parole sono radici grosse. Che stanno lì, solide, a volte corrotte e abusate, maltrattate, però sono elastiche e sanno flettersi per significare il XXI secolo, parlano di come siamo e cosa vogliamo proprio adesso.
E adesso per noi è tempo. È primo sul podio perché sta in mezzo a molte frasi fatte e proverbi «che agli inglesi piace molto ripetere», spiega Angus Stevenson, tra i curatori del libro. Ma è tutta la foresta di significati accessori e traslati, direbbe il tecnico che è tutta l´area semantica legata che colpisce nella frequenza d´uso: "anno", (3) "giorno" (5), "vita" (9), "parte" (11), "settimana" (17). Spadroneggia e non è un caso in un´epoca così. Ed è questo il punto, nemmeno il resto delle parole in lista sono senza un pensiero. Le parole le cose, diceva il filosofo francese Foucault. Seconda posizione per persona, quarta per way, che è strada ma anche modo e molte altre cose (18 significati in inglese), sesta per thing, "cosa". Parole da riempire di significati, campi arati da seminare. L´astrattezza e la neutralità, ma anche le possibilità racchiuse nel vago, nelle conversazioni anche scritte, sono le migliori, o almeno le preferite (e si pensi all´uso di "cosa" nelle intercettazioni).
Parlano anche di sesso e di politica le parole: maschio occupa il settimo gradino, "donna" il 14esimo. Anche qui una puntualità culturale, la società di internet non così progressista e rosa, neanche qui le quote piacciono granché. E maschia, virile, marziale: "guerra" si piazza al 49esimo posto, pace non rientra neanche tra le prime 100. I significati mettono i brividi. Infatti piace molto "lavoro" (16) mentre gioco e riposo sembrano impronunciabili (anche loro fuori dai primi 100), non è che tranquillizzi molto, anche se spiega. Così come il "denaro", che Benjamin Franklin legò come un nodo al tempo creando una massima per la globalizzazione anzitempo, vale soltanto la 65esima posizione. C´è "problema" (24), ma non c´è "soluzione" (fuori dalla lista), siamo molto tormentati. Le "mani" battono gli "occhi" (10 e 13), fare anziché guardare, e "governo" (government, 20) è la parola più lunga. Parliamo corto, monosillabico, ecco la nostra modernità. Non c´è tempo.

Corriere della Sera 3.7.06
«Partito democratico, giusto essere prudenti»
Violante: il via la prossima primavera? Troppo presto. Ma anche Mussi sa che la Quercia non basta più
di Monica Guerzoni


ROMA - «Io non freno, sono una persona prudente». Luciano Violante, presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, non getta il cuore oltre l’ostacolo. Non per il partito democratico, almeno. Per lui il nuovo soggetto riformista è «una necessità», ma non è cosa che si possa costruire dall’oggi al domani. Presidente Luciano Violante, il partito democratico vale la scissione della Quercia ?
«Io credo che i valori della nostra sinistra potranno essere meglio rappresentati se sono all’interno del partito democratico. Perché se il nuovo soggetto perde un pezzo rilevante della sinistra rischia di essere un partito che innalza le sole bandiere del moderatismo, cosa che non interessa, credo, né ai Ds né alla Margherita».
Mussi ha detto che, se si fa il nuovo partito, lui non ci sarà.
«Ma ho visto che anche Mussi, e lo ritengo importante, ha riconosciuto l’insufficienza degli attuali partiti rispetto alle domande che vengono dalla società».
Angius parla di processo elitario e oligarchico, concorda?
«Io dico che non è un processo elitario, nel momento in cui ne stanno discutendo partiti, amministratori e cittadini liberi e volenterosi, i tre lati della democrazia. Anch’io ho la preoccupazione che segnalava Angius, cioè che possa essere la sommatoria delle gerarchie. Ma se fosse così non ci starei per nulla. Nessuno pensa che debba essere una aggregazione di gruppi dirigenti. Come ha detto bene Fassino, il partito democratico deve nascere dal basso e dall’alto».
La minoranza chiede il congresso. E così il dalemiano Angius.
«Decideremo al consiglio nazionale come e quando avviare il percorso. Non è che ci dobbiamo impiccare alla primavera o all’autunno. Ci deve essere un congresso che deve consentire di discutere serenamente, vedendo se c’è una maggioranza di compagni che sono d’accordo. E tenendo presente che non si tratta della trasformazione della ditta».
E di cos’altro, sennò?
«Non si tratta di trasformare i Ds in partito democratico come è accaduto col passaggio da Pds a Ds, si tratta di partecipare alla costruzione di questo partito. Se riusciremo a farlo non sarà la trasformazione della Quercia, ma una forza politica alla quale aderiscono anche cittadini comuni, amministratori, dirigenti e militanti di diversi partiti politici del centrosinistra. Un processo generale, non un cambio di etichetta. Perché i partiti che nascono da esigenze di gruppi dirigenti tramontano subito, sono puri meccanismi di potere».
Come deve nascere, allora?
«Rispondendo alle domande che l’attuale sistema politico non riesce a soddisfare. Ne elenco tre. Il blocco generazionale da Paese della terza età, la questione del merito nella società, nel mercato, nelle istituzioni e l’orizzonte europeo».
Siete disposti a lasciare il Pse per costruire con la Margherita una nuova famiglia europea?
«Questo lo decideremo insieme, vedremo se ci sono le condizioni anche all’interno del Pse. Se siamo all’inizio della corsa non si può dire dove è fissato il traguardo».
State ripiegando sulla federazione ?
«Ho visto che Mussi ne parla. La federazione può essere la tappa oppure il dato finale. Ripeto, è un processo che comincia liberamente, come si fa a dire già adesso dove va a finire? Nella relazione di Mussi, peraltro interessante, manca l’analisi delle domande nuove della società. Se la necessità di un processo di ricomposizione dei partiti se la pongono anche Berlusconi, Fini e Casini, non si può dire che il problema non esista».
Ma lei ci crede davvero?
«Il partito democratico è una necessità. Ma un processo politico complesso è fatto di stop and go , non è una strada tutta in discesa. È giusto essere prudenti, perché poi quando si lancia il cuore troppo oltre l’ostacolo si resta senza un cuore al di qua dell’ostacolo».
Anche lei come D’Alema teme ripercussioni sul governo?
« Il governo deve andare avanti con scelte di grande qualità come le liberalizzazioni, che sono proprie di un partito democratico. Certamente dobbiamo stare attenti a condurre avanti questo itinerario, anche per il fatto che abbiamo responsabilità di governo. Quindi il processo non solo non deve indebolire Prodi, ma deve rafforzarlo».
C’è chi fissa l’asticella al 2007 e chi al 2009, e lei?
«Io voglio far bene. Parlare di date adesso, dire 2007, 2008 o 2009 è prematuro e in larga parte presuntuoso ».
Che fa presidente, frena?
«Queste sono categorie giornalistiche. Io non freno, sono una persona prudente e so che i processi politici non si traducono in realtà solo perché li ha pensati qualcuno. Se mi dicessero: ci vediamo la primavera prossima per fare il partito democratico, direi no grazie, è troppo presto. Cominciamo a lavorare, intanto».

Repubblica 2.7.06
Spettro scissione per la Quercia
Mussi: se nasce il partito democratico noi fuori
di g.d.m.

Per ora la minoranza intende dare battaglia dentro i Ds ma rifiuta l'ingresso in segreteria
Il leader del correntone chiede il congresso in autunno: si rinunci al progetto o si diano tempi certi

ROMA - Un appello alla chiarezza, ma forse sarebbe più giusto dire un ultimatum. «A Fassino dico, le strade ormai sono due: o si accetta che il progetto di fusione Ds-Margherita non ce la fa con una correzione di rotta politica o si va all'approdo del Partito democratico in tempi certi», scandisce Fabio Mussi in un´affollata assemblea della sinistra ds al Teatro Quirino di Roma. O sì o no. Se è sì, però, «quel nuovo soggetto politico non potrà essere il mio, il nostro partito». E un migliaio di militanti, amministratori locali, dirigenti nazionali applaude convinto quello che è a tutti gli effetti l'annuncio di una futura scissione.
La battaglia, per il momento, il correntone la farà dentro la Quercia. Tappa dopo tappa, a cominciare dal consiglio nazionale del 13 luglio, fino al congresso che le minoranze (e non solo loro, come dimostra l'uscita di Gavino Angius nei giorni scorsi) vogliono subito, il prima possibile. «È giusto che gli unici a non potersi esprimere siano gli iscritti dei Ds? - si chiede polemico Marco Fumagalli -. A noi si spiega che vengono prima il governo, poi la Finanziaria. Ma l´associazione per il Partito democratico fa già le tessere». In platea ascoltano la relazione di Mussi, due dalemiani di ferro Gianni Cuperlo e Alfredo Reichlin. Anche l'ambasciatore di Prodi Mario Barbi segue tutto il dibattito con grande attenzione. Scopre così, sulla sua pelle, quanto sia radicata, nell´area del correntone, l'opposizione netta al sogno del Professore, quanto sarà difficile arrivare al traguardo senza smarrire per strada qualche compagno e qualche pezzo di elettorato. Per dirla con il lombardo Agostino Agostinelli il nuovo soggetto ricorda «Frankestein, una creatura nata senza il principio di precauzione». Difficile tornare indietro rispetto a posizioni simili.
Il correntone punta tutto sul richiamo al socialismo europeo, sull'evocazione della parola "sinistra" che non deve sparire dal panorama politico e non deve essere annacquata in un'operazione che viene considerata moderata. E non bastano i richiami al Pse fatti dal segretario Fassino. «Se solleviamo la questione dell'identità socialista non ci sentiamo affatto retrogradi», spiega Mussi. E qui si vede quanto le carte si siano mischiate. Da ulivista convinto, il ministro della Ricerca aveva avversato lo sforzo per la Cosa 2 dalemiana incentrata sulla nascita (sul tentativo, per meglio dire) di un grande partito socialista. Ora la situazione è ribaltata. Ma non c'è da stupirsi. Il tema dell'identità ha grande presa, attraversa il mondo diessino, il mondo sindacale vicino alla Quercia. Dal palco prendono la parola l'esponente della maggioranza Walter Tocci e il segretario confederale della Cgil Paolo Nerozzi. Con accenti diversi, naturalmente, ma con lo stesso segno di attenzione per i dubbi che emergono da questa corrente.
Lo sbocco prefigurato da Mussi, nel caso di una rottura vera e propria dentro il partito, è ancora allo stato embrionale. Sarà un percorso graduale e il correntone non esclude di avere alla fine ragione, quando il partito democratico non nascerà. «Fassino ci aveva chiesto di entrare nella segreteria del partito. Abbiamo risposto: no grazie», rivela Mussi. Faranno un'altra strada, gli oppositori del partito democratico. «Penso a un manifesto per un progetto di sinistra italiana - dice capo della minoranza -. E daremo vita a una fondazione». Con un'avvertenza: «E ovviamente non ci fermeremo allo stadio culturale».

Repubblica 2.7.06
I timori di D'Alema: rischiamo la perdita di pezzi e ripercussioni sul governo. Fassino irritato con la minoranza
"Così non possiamo reggere" e spunta l'ipotesi federazione
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Così il partito non regge». L'avvertimento di Massimo D'Alema era arrivato già domenica scorsa, alla fine del vertice ulivista con Romano Prodi e i dirigenti di Ds e Dl in un albergo di Roma. Uscendo il ministro degli Esteri aveva spiegato a Piero Fassino che l'opposizione al progetto del Partito democratico stavolta sarebbe stata trasversale alla Quercia. Non i soliti «renitenti» del correntone, dell'area di Cesare Salvi e della mozione ecologista guidata da Fulvia Bandoli. Profetiche, quelle parole. Infatti, durante la settimana, sono arrivati gli attacchi di Gavino Angius, i dubbi di Violante, Finocchiaro, Caldarola, la preoccupazione anche di chi viene dal partito-fratello come Dario Franceschini, capogruppo dell'Ulivo e quindi particolarmente interessato ai problemi dei Ds. La conferma poi è arrivata ieri in maniera fragorosa all'assemblea della sinistra diessina. Un «no» secco al partito democratico, la minaccia di una scissione figlia dell'improvvisa apertura di uno spazio politico che il correntone non ha quasi mai avuto. Quello del richiamo al socialismo europeo, a un'identità di sinistra. «Certo non andremo a fare gli indipendenti con Rifondazione», è la certezza di Marco Fumagalli.
D'Alema teme dunque ripercussioni sulla tenuta del governo e «la perdita di pezzi consistenti» dentro la Quercia, come ha confidato ai suoi fedelissimi. Ha sorpreso un po' tutti la presenza ieri in platea, al Teatro Quirino di Roma, dei dalemiani Gianni Cuperlo e Alfredo Reichlin. Tutti tranne Fabio Mussi che aveva avvertito un cambiamento di clima nella maggioranza diessina e ha invitato i due dirigenti sapendo che avrebbero accettato. A molti, soprattutto agli uomini del correntone, è sembrato la conferma di come Fassino, nella partita sul nuovo soggetto, sia stretto in mezzo tra minoranza e dalemiani. Il segretario però è convinto che non sia così. Si sente tutti i giorni con D'Alema. Lo ha fatto ieri e l'altro ieri, avendo la conferma del patto sottoscritto al momento della formazione del governo. Ma la nettezza della posizione di Mussi non è stata gradita e il leader del partito ha fatto scatenare i suoi fedelissimi, compresi i segretari regionali di Emilia e Toscana, cioè la spina dorsale del partito. Per far dire loro che il percorso del partito democratico è tracciato e bisogna andare fino in fondo.
Prodi è in altre faccende affaccendato, ma anche lui teme la frenata sulla nuova forza. Ieri ha spedito il suo ambasciatore all´assemblea del correntone. «Non capisco perché la sinistra dei Ds non possa avere un ruolo nel partito democratico. Con le sue idee, con le sue posizioni socialiste», è stato il commento preoccupato di Mario Barbi, prodiano doc. Poco lontano dal Quirino, la Bandoli ha riunito la corrente ecologista e anche lì si è frenato parecchio. «Troppa fretta e poca democrazia - è l'allarme della Bandoli -. La lettera di Prodi per il comitato direttivo è stata un errore. Non si fa un partito nuovo con otto apprendisti stregoni». Dagli ambientalisti della Quercia è uscita la proposta di una federazione, cioè di un passaggio intermedio. Proposta sostenuta anche da Bruno Trentin «sul modello della Federazione dei lavoratori metalmeccanici». A una federazione forse non direbbe di no il correntone. Questa è stata l'impressione di Cuperlo e Reichlin, ieri. «Un percorso federativo potrebbe vederli dentro». E alla federazione direbbe di sì anche la Margherita.
Sarebbe un ritorno alla famigerata Fed, cioè un passo indietro? I sostenitori giurano di no. Ma il nuovo partito non ha solo i «frenatori». Ci sono anche gli «acceleratori». Per Gregorio Gitti, che martedì riunisce l'associazione del partito democratico, «l'avventura è già cominciata». E Michele Salvati su "Europa" propone: «Chiediamo al popolo delle primarie di iscriversi al Partito democratico. Dieci euro a testa e si parte».