sabato 18 giugno 2016

La Stampa TuttoLibri 18.6.16
Un tragico lessico famigliare
Il figlio del Migliore fu l’agnello sacrificale
Il ragazzo fragile che Togliatti “dimenticò” a Modena in clinica psichiatrica per 31 anni
di Sergio Pent


Documento storico dettagliato e sofferto, esplorazione del passato attraverso i luoghi oscuri della politica e delle utopie sociali. Un’altra parte del mondo di Massimo Cirri, si colloca in queste dimensioni di studio postumo che raggruppa la Storia in un blocco compatto di accadimenti necessari a suggellare un’epoca, e stenta – proprio per questo – a trovare la collocazione ideale in una collana di narrativa. Non è, infatti, una rivisitazione romanzata del Partito Comunista Italiano, ma si basa su precise ricostruzioni che – questo si può condividere - rendono vivo come un romanzo l’impegno politico di Palmiro Togliatti, uno degli ultimi grandi utopisti del secolo veloce. Un’altra parte del mondo, a dire il vero, è quella che cerca oltre l’orizzonte del mare Aldo Togliatti, il figlio fragile e imbelle del «Migliore», quello che nasce timido e cresce solo e infine si perde in un disagio estremo che lo vedrà trascorrere gli ultimi trentun anni della sua vita appartata in una clinica privata di Modena per malati psichici.
La storia raccontata da Cirri avrebbe potuto davvero essere un romanzo, ma l’autore si intrufola come un oscuro visitatore del futuro negli angoli – pubblici e privati – di una storia familiare che è innanzitutto storia collettiva, comune e comunista. L’ombra di Aldo Togliatti segna le stagioni di impegno del padre, ma anche della madre Rita Montagnana, rampollo di una bella stirpe di idealisti borghesi di Torino. Il destino è spesso nel nome che ci portiamo addosso, e il destino di Aldo – fin da subito – è quello dell’agnello sacrificale immolato sull’altare del Partito.
Le vicende procedono in parallelo, e la minuziosa ricostruzione degli accadimenti ci consente di mettere in luce un periodo storico di enormi fermenti crollati con la caduta del mito di Stalin e con l’avvento di un’epoca di pesanti contraddizioni politiche. Ma il percorso di Aldo Togliatti è un filo di memorie discrete che attraversano tutti i grandi eventi, dai quali lui fu sempre tenuto in disparte, anche se la famiglia lo obbligò a frequentare la rigida scuola di Ivanovo in Russia, destinata ai figli dei leader comunisti del mondo. Cirri ricostruisce con diligenza – talvolta un po’ didascalica – quel lungo periodo, in cui Aldo riuscì a trovare una sua dimensione di esile confronto con altri giovani «espatriati». Ma il ritorno in Italia, nella Torino del dopoguerra, coincide con le prime avvisaglie della sua indole solitaria, prevale la paura delle responsabilità, l’assenza – e l’ombra comunque incombente – del padre contribuiscono a creare in lui una bolla di diffidenza nella quale gradualmente rimarrà imprigionato.
Una volta lo trovano sul molo a Civitavecchia, un’altra addirittura a Le Havre, scambiato per un barbone, ma il coraggio di abbandonare quella vita di sacrifici e di rinunce non lo trova mai, ed è inevitabile, per «Aldino», seguire la parabola politica – anche quella discendente, anche quella della sua «scandalosa» unione con Nilde Iotti – del glorioso genitore, esiliandosi definitivamente dal mondo, spegnendosi nel silenzio di Villa Igea nel 2011, a 86 anni.
Ciò che colpisce, in questo intenso vagabondaggio tra le pieghe della Storia, è l’elenco di personaggi ormai dimenticati che hanno sfiorato la gloria, lottato, sognato un futuro diverso e migliore, anch’essi alla ricerca di un’altra parte del mondo, come Aldo Togliatti che, però, si limitò a immaginarlo dal suo eremo di silenzi e di paure. In questo, il coraggioso impegno documentale di Cirri è un suggello definitivo e privo di omissioni su un momento storico che avrebbe potuto modificare, chissà come, chissà quanto, le prospettive politiche del futuro. Quello in cui stiamo annaspando rassegnati.

Repubblica 18.6.16
È nel sangue l’anima nera del nazismo
Il sacro mistero delle origini
La garanzia perpetua dell’identità
La purezza da preservare contro le contaminazioni
Un saggio di Johann Chapoutot sulle basi insieme eugenetiche e giuridiche di un’ideologia di morte
I nemici da abbattere sono il monoteismo cristiano-giudaico il diritto romano, la filosofia dei Lumi e la Rivoluzione francese
di Ezio Mauro


Davanti a loro, nel giorno più importante, fiori, foglie e rami di quercia. Poi una torciera che raffigura la runa della vita, con una fiamma su ognuno dei due candelabri. In fondo, la bandiera con la croce uncinata e il busto del Führer. «Dio è qui, con la Germania e gli Avi: siete in balia del popolo eterno», ammonisce un ragazzo della gioventù hitleriana che parla per primo. E subito dopo una fanciulla della Lega delle Giovani Tedesche ricorda: «Può compiere questa unione solo chi è di sangue e anima puri». A questo punto, tenendosi per mano, gli sposi dicono sì e dai due fuochi ne accendono un terzo. Dopo averli dichiarati marito e moglie nel nome del Reich, l’ufficiale di stato civile pronuncia l’atto di fede nell’eternità del sangue germanico: «L’infinita catena dei vostri avi è davanti a voi perché il sangue che scorre nelle vostre vene un tempo apparteneva a loro. E già sentite i figli e i figli dei figli nati dal vostro
sangue che vi parlano per dirvi: siete un anello della catena, sappiate che la dovete trasmettere al pari dell’opera e del sangue». Una pausa e poi: «Tutti voi che siete qui riuniti, ascoltate il sangue che scorre in voi, e tacete».
C’è un vero e proprio verbale di matrimonio nazionalsocialista nel 1942, trovato a Posen da Edouard Conte e Cornelia Essner (ne riferiscono in Culti di sangue, Carocci) che spiega da un lato la paganizzazione dei rituali religiosi e dall’altro l’ossessione del sangue che sta all’origine di tutte le ossessioni naziste, contenendo in sé il mistero sacro delle origini, la garanzia perpetua dell’identità, la promessa perenne dell’eternità e del dominio negli spazi della terra e del tempo. Oltre all’angoscia della dissoluzione e della rovina che insegue il nazismo nel suo continuo muoversi tra la vita e la sua negazione, convinto dell’immortalità simbolica che il sangue assicura al popolo portando la sua sostanza fuori dal tempo, ma anche della fragilità a cui è esposta questa essenza collettiva: minacciata dal peccato della contaminazione che interrompe il ciclo del ritorno alla purezza delle origini, corrompe il popolo nella sua natura profonda e spezza la catena sacra degli antenati condannando gli avi senza più discendenti al buio del nulla nordico.
È un’autonarrazione mitologica e insieme biologica del ritorno alle origini, quando i germani vivevano nelle foreste in comunione con la natura scoprendo il divino che l’attraversa ovunque, nell’infanzia felice di una razza incontaminata che dava vita a un popolo innocente di cittadini- soldati. Qui è sepolto il segreto del sogno di dominio che il nazismo vuole risvegliare come un destino smarrito: una norma vitale ed eterna che detta l’azione, la politica, il costume e la morale e che diventa un imperativo nei secoli, quello di difendere la razza per proiettarla nella perennità. Per fare questo è necessario ritrovare il tempo felice delle origini per legare i vivi ai morti, procreando e combattendo per arrivare infine a regnare.
Non è soltanto follia ideologica. C’è un vero e proprio corpus di studi, di diritto, di scienze, di teorie che legano insieme il terrore e la biologia, l’eugenetica e la criminologia in una costruzione che cerca di dare un fondamento collettivo di senso all’impresa razziale del regime per reggere il peso impossibile del crimine con cui si realizza, scusandolo all’ombra di un dovere che discenda dalla storia. Oggi uno studio di Johann Chapoutot ( La legge del sangue, Einaudi) indaga proprio il meccanismo del «pensare e agire da nazisti» attraverso uno sforzo documentale enorme, con l’analisi di 50 filmati didattici e soprattutto 1200 articoli e discorsi di scienziati, accademici, studiosi che si ingegnano a dare una base scientifica alle teorie biopolitiche del partito.
Nella confusione di un’epoca travagliata, con la catastrofe della Grande Guerra, il tramonto dell’impero, il primo trauma da fine del mondo, l’unico punto certo è il fondamento della razza, cioè il sangue. «Gli Stati scompaiono, le classi mutano, i destini degli uomini si trasformano — dice Hitler — Qualcosa ci resta e ci deve restare: il popolo in sé e per sé, in quanto sostanza di carne e di sangue ». Il flusso biologico infatti non è individuale ma condiviso da una famiglia, dalla stessa comunità, dalla razza, è comune ai viventi, ai morti e ai non ancora nati, preservarlo è un dovere. Ma per recuperare la purezza ritornando all’origine il cammino della razza va ripulito dalle contaminazioni culturali che lo hanno indebolito e fiaccato: il monoteismo giudaico-cristiano prima di tutto, che insegna incredibilmente a porgere l’altra guancia a un popolo abituato a pregare non in ginocchio ma in piedi, con il palmo delle mani rivolto verso il cielo, e caccia il divino dal mondo disprezzando la natura, fino a ridurla ad una valle di lacrime. Poi il diritto romano che ha colonizzato giuridicamente la Germania, quindi i Lumi con il loro universalismo dei di- ritti, e infine la Rivoluzione Francese che predica un’uguaglianza «non compatibile con la vita reale », una libertà malintesa, una fraternità insensata perché «la poiana non avrà mai il suo nido insieme con il pipistrello». Decretato l’inganno dei diritti universali che aprono la strada «alla plebe cosmopolita», la sola realtà capace di meritare «che si viva e si muoia in suo nome» è la razza che serve la vita ubbidendo alle stesse leggi degli animali e delle piante, in una gerarchia nazista del vivente che colloca in alto gli ariani e tutti gli animali da preda, poi le razze miste, quindi gli slavi e i neri e al gradino più basso gli asiatici, con gli ebrei a parte, Unrasse, non razza. La politica che deriva da questa concezione non può che essere biologica perché ubbidisce alle leggi della vita così come il diritto assolve una funzione esclusivamente biologica liberando il popolo dagli incroci razziali per ricondurlo alle purezza. La razza germanica è biologicamente morale nella sua natura, la natura detta la norma e forma la cultura, perché infine è il sangue a imporre i suoi valori, spazzando ogni dubbio. La fedeltà, motto delle SS, è alla radice proprio questo, «fedeltà all’ordine della creazione divina, alle leggi della vita, alla voce del sangue».
Spogliata la vita di ogni metafisica, la religione di qualsiasi spiritualità, resta la nuda ritualità, che Himmler vuole convertire al culto della razza. Così i manuali delle SS codificano le forme dei candelabri rituali e le misure dei dolci per le feste, i simboli runici appaiono sui pugnali, i defunti vanno orientati verso l’eterno Nord, le corone funebri non avranno più fiori insignificanti ma rami di conifere tedesche, l’abete rosso, l’abete verde e il pino d’inverno, le foglie di quercia e di faggio d’estate. L’arcaico e l’antico si legano all’istinto, nel nome della natura primigenia e del sangue eterno, che va protetto per poter essere preservato e rinnovato nella trasmissione.
Nascono così nel 1933 i Tribunali di sanità ereditaria che ordinano la sterilizzazione obbligatoria — anche contro la volontà dell’individuo — di coloro la cui riproduzione non è desiderabile, pronunciando 400 mila sentenze in 12 anni. Il culto del sangue approda all’inumano. Che il ministro dell’Interno, Wilheim Frick, rovescia nel suo contrario: «L’aiuto sociale ai malati, ai deboli e agli inferiori rappresentava il vero crimine verso il popolo, perché portava alla sua fine. Esigere che individui difettosi non possano più generare altri scarti è l’atto più umano dell’umanità». E il giornale delle SS, Das Schwarze Korps, deride il vangelo di Matteo che chiama beati i poveri di spirito: «Nessun uomo ragionevole può sostenere l’esistenza di diritti per gli idioti nell’aldiqua. Nessuno, per contro, contesta loro i diritti che hanno nell’aldilà: il regno dei cieli è loro spalancato».
Separato dall’uomo e dalla coscienza, idolatrato come principio germinale, il sangue pretende sempre di più. Nell’autunno del 1939 Hitler firma l’ordine di far assassinare i malati ereditari, handicappati fisici e mentali. Di fronte alle proteste, il dottor Eugen Stahle, uno dei responsabili del piano, spiega che «là dove regna veramente la volontà di Dio, nel cuore della natura, non si trovano tracce di pietà per il debole e per il malato». E il medico, che tradisce il giuramento di Ippocrate? Basta pensare che il medico «non deve più servire la persona ma la vita eterna — dice Werner Kroll, dell’istituto sanitario governativo — : nel senso di un flusso sanguigno permanente, quel flusso che irriga il corpo del nostro popolo».
Così il corpo singolo non conta più, se non come strumento riproduttore di un corpo mistico collettivo, la salute non è più questione privata, l’individuo scompare ma poiché il destino è nel sangue, la sostanza vitale che lo lega alla razza e al suo divenire gli dà il senso dell’eternità. A questo punto, la biologia entra nella criminologia, ogni dissenso politico viene trattato come un errore biologico, il difetto biologico provoca una colpa giuridica: e viceversa. E biologicamente, attraverso il sangue, si arriva alla responsabilità penale dell’intera famiglia, alla detenzione collettiva. Leggete le antiche saghe nordiche, ammonisce Himmler: «Quando un uomo tradisce il suo sangue è malvagio, anticamente veniva annegato nelle paludi. Doveva essere tolto di mezzo, come noi sradichiamo le ortiche».
Per logica conseguenza, anche il nemico di guerra da ideologico diventa biologico, perché attenta all’eternità della razza e al suo destino di dominatrice. E i trattati internazionali come Versailles violano le leggi della natura — dice nel suo studio Chapoutot — proprio perché la diplomazia costringe la biologia ostacolando l’espansione del popolo più forte, segna una sproporzione intollerabile tra la terra tedesca insufficiente e il sangue germano ricco e creatore. La legislazione sul matrimonio verrà sconvolta, proprio perché il matrimonio è il laboratorio del controllo di Stato sulla trasmissione purificata del sangue. Ci sono esperimenti autorizzati di poligamia, per garantire la riproduzione, sposalizi in presenza di un solo coniuge per preservarla, macabre nozze col morto, favorite dal Führer. Le SS si muoveranno in tutta la Polonia occupata per cercare di «intercettare il sangue tedesco nascosto», con il ratto dei bambini strappati alle loro famiglie per farli “rinascere” in mezzo al loro vero popolo di sangue. Il sangue degli altri, dei popoli occupati, dovrà servire esclusivamente per il lavoro, con una nuova scuola elementare di soli 4 anni «per imparare a contare fino a 500 e a scrivere il proprio nome — promette Himmler — . Quanto alla lettura, non la ritengo indispensabile».
Fin qui porta il sangue, fino al momento in cui si spalanca l’abisso della “soluzione finale” per gli ebrei d’Europa. D’altra parte il nazismo era nato col culto del sangue. La decorazione più prestigiosa del regime era la medaglia all’Ordine del Sangue, il cimelio onorato dal Führer era la Blutfahne, la bandiera di sangue con la svastica del fallito putsch di Monaco nel 1923. Si capisce che Hitler nel marzo del ’45 confidi che «il popolo è perduto», perché la guerra ha sacrificato il sangue “migliore”, lasciando sopravvivere “gli infimi”. La sconfitta è del sangue, per i nazisti «l’unico vero tesoro del nostro popolo, l’unica certezza reale in un mondo dove tutto è finitudine e passaggio».
IL LIBRO Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti ( Einaudi, traduzione di Valeria Zini, pagg. 472, euro 32)

Corriere 18.6.16
Raggi: «Se vinciamo per loro è finita»
di Valeria Costantini


«Hanno capito che se entriamo noi in quelle stanze e governiamo per loro è finita! Combattiamo fino all’ultimo voto». Virginia Raggi chiama a raccolta il popolo grillino dalla piazza sul mare di Ostia. Tra aquiloni per coreografia e persino «tifosi rumeni», la candidata a sindaco della Capitale del Movimento 5 Stelle sale sul palco a più riprese per incitare la folla di quasi duemila persone (piazza dei Ravennati però non è stracolma come sperato). Poi intorno alle 21 spezza la suspense e ufficializza la sua squadra. «Io rispetto gli altri professionisti che mi hanno chiesto riservatezza ma ecco chi sara con me: un uomo che si è sempre battuto contro il consumo del suolo e contro i palazzinari, Paolo Berdini all’Urbanistica. All’ambiente e sostenibilità una donna che conosce bene l’Ama, Paola Muraro. A qualità della vita e sport, il grande del rugby Andrea Lo Cicero, mentre alla Cultura una persona eccezionale, segretario del Cae, Luca Bergamo». La Raggi arriva sul lido con il treno, insieme a Luigi Di Maio che già all’inizio della manifestazione ricorda alla folla come nessuno credesse a questo risultato. «Dicevano che non saremmo mai arrivati da nessuna parte senza compromessi – esordisce il vicepresidente della Camera – siamo al ballottaggio nella Capitale d’Italia, ora puniamoli con il voto». La Raggi parla in terza persona ricordando come la campagna elettorale gli altri — il PD non viene mai nominato — l’hanno «improntata su di me, noi sul futuro della città». «Non è che la Raggi dice no — spiega — dice no alle cose inutili. La Raggi dice di sì ai tagli agli sprechi, dice sì all’Atac pubblica. La Raggi dice sì a una città vivibile, sì al miglioramento dei parchi e delle aree verdi, sì a una città funzionale». Alessandro Di Battista ironizza: «Aiutateci a convincere gli indecisi ma non attaccattevi al telefono come Maria “Etruria” Boschi». Grande assente Beppe Grillo, rimasto in forse fino all’ultimo ma che ha preferito il passo di lato. «Riempiamo le piazze senza Beppe ma questo è il suo trionfo. Il movimento cammina con le sue gambe, lui lo aveva detto», sostiene Di Battista. L’ovazione poi per Paola Taverna che scherza: «Roma ritrova il tuo orgoglio, diranno che se vinciamo si estingueranno le balene, il Tevere diventerà rosso… manca l’invasione delle cavallette ma quelle siete voi che ve siete magnati tutto». Al coro di «Virginia Raggi sindaco di Roma», l’avvocatessa pentastellata saluta Ostia: «Siamo nel municipio sciolto per mafia, da qui ricominciamo una nuova era».

Repubblica 18.6.16
Virginia in piazza “Per questi è finita”
di Mauro Favale


«MENTRE io parlavo di Roma loro parlavano solo di me. Perfino delle mie orecchie. E che ci posso fare, so’ così». Virgina Raggi sente la vittoria vicina. Dal palco di piazza dei Ravennati, Ostia, roccaforte dei 5 Stelle con quel 44% al primo turno, prova a dissimulare. Dice: «Dobbiamo fare l’ultimo sforzo». Ricorda: «Il risultato non è scontato». Suggerisce: «Convincete amici e parenti, raccontate cos’è stata Roma governata dai vecchi partiti». Ma è evidente che la candidata dell’M5S sente di avere la vittoria in tasca.
PIÙ sciolta, meno emozionata, più naturale rispetto a due settimane fa, alla chiusura in Piazza del Popolo, l’avvocata che potrebbe diventare la prima donna a sedere sulla poltrona di sindaco della capitale prova a scuotersi di dosso quelli che definisce «schizzi di fango». Il riferimento è alla storia della mancata comunicazione di una consulenza ricevuta, in qualità di legale, dalla Asl di Civitavecchia, sulla quale il Pd ha insistito per tutto il giorno. «Perché io un lavoro, prima di entrare in politica, ce l’avevo. Loro, invece, cosa possono scrivere? “Politico a vita”?», sottolinea.
La piazza applaude, sorride, la invoca o fischia, anche, quando si parla di Olimpiadi. «Quanti le ritengono fondamentali per Roma? », chiede. La gente rumoreggia. Poi, parlando di sè in terza persona, ricorda, invece, i suoi «tanti sì»: «Virginia Raggi dice sì al taglio degli sprechi, all’Atac pubblica, a una città più vivibile, a più fondi per il sociale. E loro? Solo silenzio». Ad ascoltarla, in piazza dei Ravennati, davanti al pontile, nel cuore di Ostia, ci sono tantissimi simpatizzanti del MoVimento, gli stessi presenti due settimane fa nel centro di Roma.
Molti sono venuti per vedere da vicino i big: Luigi Di Maio («Raggi non sarà sola ma avrà una squadra dietro di lei. Faremo gruppo. Quella che per gli altri è una critica, in realtà è una grande forza»), Alessandro Di Battista («L’unico programma del Pd è il fango quotidiano contro l’M5S», dice prima di chiudere da showman, lanciando al volo il microfono al tecnico sul palco) o Paola Taverna («Le cavallette ci sono state, noi siamo il Ddt»). Tra i presenti c’è Micaela Quintavalle, la leader del combattivo sindacato Atac “Cambia-menti” (il nome ce l’ha tatuato su una spalla): «Aveva ragione la Raggi quando ha parlato di “coincidenze” sullo sciopero Ugl in contemporanea con la partita dell’Italia — dice — è una donna onesta e competente. E ascolta i lavoratori. L’Atac guarirà se lei sarà sindaco. Io la sostengo ».
Poco lontano c’è “il padrone di casa”, Paolo Ferrara, ex capogruppo M5S in X Municipio prima che venisse sciolto per mafia. Al primo turno ha incassato oltre 3500 preferenze. «E ho speso solo 600 euro per la campagna elettorale. Ci scriverò un libro», spiega sorridendo e stringendo mani.
Intanto, la Raggi (arrivata a Ostia usando il trenino della Roma-Lido) dal palco parla del «nostro caro avversario», Roberto Giachetti, il suo sfidante e ricorda il voto del candidato dem per «la Fornero, il jobs act», tutti provvedimenti che questa gente vede come fumo negli occhi. La piazza si infiamma di nuovo quando rivendica le battaglie dei 5 Stelle e dice: «Dove governiamo abbiamo fatto bene e fatto ripartire le città. Le televisioni non lo dicono perché se noi entriamo in quelle stanze con la maggioranza per loro è finita».
Poi, quando torna sul palco per la chiusura, dopo aver annunciato solo un piccolo pezzo della sua squadra, ammette: «Certo che sento il peso di questa responsabilità. Ma lo porto su spalle leggere perché insieme a me ci sono tante persone bellissime. E poi con me ci siete tutti voi». Giù, tra il pubblico, qualcuno indossa una maschera della Raggi. «Con me in Campidoglio i sindaci sarete voi», aveva detto la candidata. In cielo, intanto, volteggiano gli aquiloni col simbolo dei 5 Stelle. Qui in piazza sono tutti certi: «Ormai è fatta».

La Stampa 18.6.16
Pd-M5S, radiografia di una sfida che si ripete da quattro anni
Dal 2012 Dem in vantaggio al primo turno 21 volte su 23, ma i grillini al secondo conquistano 12 sindaci recuperando fino al 54% dei voti
di Giuseppe Salvaggiulo


La Stampa ha raccolto i dati dei 600 ballottaggi avvenuti nelle elezioni comunali dal 2010 e ha selezionato quelli che hanno visto protagonista il Movimento 5 Stelle da quando è stato fondato, meno di sette anni fa. I dati sono pubblicati in sintesi nel grafico e analiticamente su www.lastampa.it. In vista delle sfide di domani, in cui il M5S partecipa a 21 ballottaggi (partendo in svantaggio in 15 città), è interessante evidenziare dinamiche che si ripetono negli anni e in Comuni profondamente diversi per dimensione, collocazione geografica, situazione sociale e politica.
Il Movimento 5 Stelle, fondato nel 2009 al teatro Smeraldo di Milano, esordisce nelle elezioni comunali nel 2010 e accede per la prima volta ai ballottaggi nel 2012. Da allora ha partecipato a 23 sfide contro il Pd: in 21 città partendo in svantaggio (anche con pesanti handicap) e conquistandone comunque 12 con dieci rimonte completate e nessuna subita.
Non solo. Le vittorie dei candidati di centrosinistra si concentrano tra il 2012 e il 2014. L’anno scorso ha sempre vinto il Movimento: cinque sindaci su cinque, di cui tre grazie a una rimonta.
Performance del genere sono da attribuire alla grande capacità del Movimento di pescare nell’elettorato che non lo ha votato nella prima tornata. In media, e a prescindere dall’esito finale, tra primo e secondo turno i candidati del Pd riescono a guadagnare il 13,6%, quelli pentastellati il 43%.
Il balzo più eclatante si verifica nel 2013 a Ragusa. Il candidato grillino Federico Piccitto parte dal 15,64% al primo turno, 14 punti meno del rivale Giovanni Cosentini del Pd. Al ballottaggio vince con il 69,35% (+53,71%!), quintuplicando i voti in valore assoluto. La rimonta più clamorosa si verifica a Mira, in provincia di Venezia, nel 2012: Alvise Maniero parte con oltre 25 punti di ritardo, ma diventa sindaco staccando il Pd Michele Carpinetti di cinque.
I candidati vincenti del M5S prevalgono ai ballottaggi con scarti medi del 32,1%, quasi il doppio rispetto ai candidati del Pd che vincono in media con il 17,3% di divario. Nelle undici vittorie del Pd nei confronti del M5S i candidati partivano con ampi vantaggi, avendo conquistato al primo turno più del 41% dei voti. E talvolta hanno resistito a fatica come accaduto a Pier Mauro Pioli, candidato dei Democratici a Garbagnate Milanese nel 2012. Al primo turno aveva ottenuto il 43,66%, mentre l’avversario pentastellato Matteo Afker si era fermato al 10,68%. Ma Afker recupererà 30 punti al Pd, s’arrampicherà al ballottaggio fino al 48% e mancherà la vittoria per soli 300 voti.
Che i ballottaggi siano favorevoli al M5S lo dimostra la conquista, con grandi rimonte, di città complesse e popolose (oltre 150 mila abitanti) come Parma e Livorno. Dove i candidati grillini passarono tra primo e secondo turno da 17 mila a 51 mila voti (Pizzarotti) e da 16 mila a 36 mila voti (Nogarin).
«Il Movimento 5 Stelle è il partito più trasversale del sistema politico italiano» spiega Roberto D’Alimonte, politilogo e direttore del Centro studi elettorali dell’università Luiss. Si tratta di un dato scientifico calcolato su un indice che misura le «seconde preferenze» degli elettori dei candidati esclusi dai ballottaggi. Questo dato smentisce la tesi per cui ai ballottaggi, scegliendosi «il male minore», sarebbero favoriti i candidati moderati. Prosegue D’Alimonte: «Il M5S pesca elettori da destra, centro e sinistra grazie a due fattori. Primo: la sua carta vincente è la canalizzazione della rabbia, del malessere sociale contro l’establishment. La rabbia non ha colore, non fa distinzioni politologiche. Secondo fattore: i grillini combinano istanze diverse coprendo tutto lo spettro politico: reddito di cittadinanza (uguaglianza e solidarietà, sinistra) e nuove carceri (ordine e repressione, destra). E sui temi sensibili non si sbilanciano. Immigrazione? Aperti agli stranieri, ma per il reato di clandestinità. Unioni civili? Favorevoli, ma non alle stepchild adoption».
I ballottaggi nei Comuni sono anche il sistema elettorale più vicino all’Italicum e possono prefigurarne gli esiti. Spiega D’Alimonte, che dell’Italicum si proclama «lo zio» perché ne ispirò l’impostazione: «Si tratta sicuramente del miglior sistema possibile per il M5S, in tempi di mutamento delle basi sociali della democrazia, il cui driver non è l’Europa, scelta come capro espiatorio, ma la rivoluzione tecnologica che crea un sentimento di rabbia di massa, insicurezza e paura. Sentimenti di cui i grillini si nutrono perché ormai essi sono i nuovi rottamatori, da quando Renzi è andato al governo».
(ha collaborato Margaret Spiegelman)

Corriere 18.6.16
Il voto «minore» che ha assunto una valenza molto politica
di Massimo Franco


Probabilmente è vero quanto sostiene l’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna: e cioè che il Movimento 5 Stelle è una «macchina da ballottaggi», perché prende voti dovunque e sfrutta a proprio vantaggio la stanchezza degli elettori al secondo turno. Ma nel voto amministrativo di domani si ha la sensazione che a favorirlo non sarà tanto la stanchezza, quanto la rabbia elettorale. La prospettiva è che si scarichino di colpo sul governo responsabilità e risentimenti covati a lungo nella pancia dell’opinione pubblica; e solo in parte attribuibili a Matteo Renzi.
Certo, colpisce che un candidato come Giuseppe Sala inviti gli elettori a «pensare a me, non a Renzi». È stato scelto e voluto dal premier scavalcando la nomenklatura cittadina del partito. E ora parla prendendone le distanze: come se l’identificazione con Palazzo Chigi potesse nuocergli. Forse non sono presagi di una sconfitta che può andare oltre quella, probabile, in Campidoglio. Ma sono segni inequivocabili di un nervosismo e di una paura che percorrono il Pd da Roma a Torino, passando per Trieste e Bologna.
Finiscono per attribuire ai ballottaggi quel significato politico che Renzi si è sforzato di esorcizzare, facendo come se le Amministrative non ci fossero; e puntando sul referendum di ottobre sulle riforme con cinque mesi di anticipo. In fondo, anche la sua assenza in queste ore, per partecipare al Forum di San Pietroburgo, in Russia, conferma senza volerlo il distacco dalle Amministrative. Eppure, è segretario del Pd. E i risultati di domani rischiano di ripercuotersi sulla sua leadership, se cambierà la geografia del potere locale.
Non a caso il quotidiano francese Le Monde parla di «primo test per il fronte anti Renzi»: la coalizione più o meno dichiarata di tutti i suoi oppositori, dalla Lega, a FI, al M5S, alle minoranze di sinistra. Ed è chiaro che il secondo test sarà il referendum. Si tratta di forze che non sono un’alternativa al governo; né hanno ricette economiche convincenti. In più sono divise quasi su tutto: tranne che sulla voglia di mettere nell’angolo il governo. Il loro obiettivo è sfidare il profilo finora vincente di Renzi. In quel caso, il 40 per cento raccolto dal Pd alle Europee di due anni fa come un ricordo sbiadito, specchio di un’occasione perduta.
I pronostici lasciano ancora margini di imprevedibilità, legati all’affluenza alle urne e alle incognite che una vittoria del M5S in città come Roma o Torino oggettivamente inserirebbe. I vertici del Pd dicono che bisogna vincere. Esiste una possibilità di recupero per il partito-perno della maggioranza. Tuttavia, la situazione internazionale e la bocciatura da parte dell’Ue di misure come la riforma delle pensioni, ventilata da Palazzo Chigi, non aiutano il premier. E i nuovi dati dell’Inps sull’occupazione armano gli avversari, che pure in passato non sembrano aver fatto meglio.

Il Sole 18.6.16
L’impatto delle urne su partiti e referendum
di Paolo Pombeni


Che le amministrative, e specialmente i ballottaggi, non avranno effetti sulla politica nazionale non lo crede più nessuno. Importante il numero di grandi città in cui si combatte con un testa a testa fra i candidati, troppo incerte le modalità di riuscita in quelle in cui i sondaggi pensano di aver già individuato un vincitore (in questi casi ammesso che non ci siano poi sorprese).
È la situazione di incertezza generale che peserà in maniera particolare. Quando infatti i ballottaggi vanno nel modo previsto con distacchi significativi le conseguenze sono già scontate e il lutto o l’euforia per la vittoria è qualcosa di già elaborato. Dove si vince o si perde per un pugno di voti, dove ciascuno si aspetta di vincere e poi non succede, quando si conoscono i risultati scatta la ricerca del colpevole.
Che cosa avrà fatto sì che a Torino o a Milano vinca un candidato piuttosto che un altro? Quando si tratta di scarti non troppo significativi non ci si può rifugiare dietro l’invocazione del peso della tradizione, della manipolazione mediatica o roba del genere. Ci si chiede se con un piccolo scatto non sarebbe stato possibile ribaltare il responso. Bastava scrollarsi di dosso gli estremisti, oppure bisognava esser capaci di inglobarli; si è sbagliato il tono della campagna suscitando disaffezione in fasce di elettori; si doveva essere più radicali o più moderati; e via elencando.
Qualcosa del genere accadrà anche a Roma, dove pure l’esito secondo alcuni è scontato, perché in quel caso la ricerca dei «traditori» andrà avanti. Certo, se il pronostico fosse ribaltato e Giachetti battesse di la Raggi lo tsunami politico sarebbe anche più forte.
Tuttavia anche là dove i sondaggi danno l’esito per scontato, come a Bologna con la riconferma del sindaco uscente, ci potrebbe essere materia per discutere, perché bisognerà vedere come andranno le astensioni, quanti voti rispetto alla tornata precedente si sono persi per strada e via dicendo.
Renzi ha ripetuto che il risultato non toccherà il governo. Potrebbe essere, non fosse che il premier è anche segretario del Pd ed è il partito che inevitabilmente dovrà confrontarsi col giudizio delle urne. A quello non si scappa, perché se è vero che non si votava per mandare a casa il governo, è altrettanto vero che si votava per il partito del premier. Di conseguenza una riflessione non potrà essere evitata e su quella ci sarà un confronto o più probabilmente uno scontro.
Se i candidati Pd vinceranno a Milano e Torino, Renzi si troverà rafforzato e difficilmente rinuncerà a chiedere conto di certe gestioni delle presenze politiche. Se fossero sconfitti, le opposizioni interne non rinunceranno a chiedere ragione di quanto è successo. Aggiungiamoci le analisi del voto che ciascuno farà sugli elettori persi rispetto alle precedenti elezioni, sull’andamento dei flussi elettorali e sul clima generale.
Queste riflessioni comunque vada non si faranno solo nel Pd, ma anche nella Lega, in FI, nel M5S e in tutte le altre formazioni. Assisteremo ovunque a rese dei conti con conseguenze sugli equilibri complessivi del sistema politico. Il tutto mentre continua la battaglia in preparazione al referendum di ottobre, che dagli esiti di questi ballottaggi sarà influenzato. Certo, presto gli italiani andranno in vacanza, ma non sono più i tempi in cui allora si sospendeva di pensare alle cose serie.

Corriere 18.6.16
Va in scena la prova generale delle forze anti-Renzi in vista del referendum
di Francesco Verderami


Le Amministrative non sono una faccenda locale, sono la porta che introduce a un nuovo mondo. Certo, bisognerà aspettare il referendum per varcare la porta, sarà quello il voto che potrà mutare il volto del Palazzo e del Paese.
Ma i ballottaggi non saranno ininfluenti, perché il variegato fronte che si oppone a Renzi userà l’appuntamento di domani (anche) come prova generale per capire se è in grado di coalizzarsi in vista dell’appuntamento di ottobre: ogni città persa dal Pd sarà quindi un gol che il leader del Pd dovrà rimontare nella partita referendaria. Perciò le Amministrative sono la porta che affaccia sul nuovo mondo, anche se in quel mondo la politica in parte c’è già entrata.
In tre anni infatti è cambiato tutto: dove c’era Bersani oggi c’è Renzi, dove c’era Berlusconi non potrà più esserci Berlusconi, dove c’era Grillo forse ci sarà Di Maio, dove c’era Maroni oggi c’è Salvini, dove c’era Fini oggi c’è la Meloni, dove c’era Monti c’è un vuoto che Alfano vorrebbe riempire. Il ricambio generazionale insomma c’è stato, ma ora l’effetto vertigine sta riempiendo d’ansia le giornate dei parlamentari: appena uno su otto — hanno tra loro calcolato — tornerà nella prossima legislatura.
Non solo la riforma costituzionale praticherebbe il taglio di un terzo dei seggi, con la trasformazione del Senato: tra premio di maggioranza imposto dall’Italicum, l’inevitabile cambio dei rapporti di forza dei partiti e il fisiologico rinnovamento nelle candidature, il volo per Roma-Montecitorio è già dato in overbooking. E i tentativi di trovar posto con manovre last minute, prive di respiro politico, non varranno per farsi spazio. Com’è diversa la prospettiva dei peones rispetto a quella di Renzi, che si è incaricato di spingere il sistema verso il nuovo mondo con un’operazione che non ha precedenti: mai, dai tempi della Costituente, sono cambiate allo stesso tempo la Carta e la legge elettorale.
Era inevitabile la reazione di chi avversa il disegno renziano, e le Amministrative si stanno rivelando il terreno ideale per mettere in difficoltà il premier: a Napoli ha già subito un gol; su un altro si scommette pure a Roma; a Torino e soprattutto a Milano i candidati del Pd devono affrontare dei supplementari che sono tutto fuorché semplici «calci di rigore». Non sarebbe però corretto sommare i voti per de Magistris, la Raggi e la Appendino (Parisi farà storia a sé) come altrettanti voti per il No al referendum, per questo bisogna tener da conto ciò che sottolinea sempre Renzi, secondo cui «gli elettori sanno fare zapping».
Ma tanto il leader del Pd era consapevole delle difficoltà, che ha provato mediaticamente a spostare l’attenzione dal voto per le Comunali. Finendo però per sovra-esporsi. Persino nella sua stretta cerchia ormai lo riconoscono: «Ma no, Matteo riesce a stare in silenzio anche per tre ore...». Ecco un’altra novità di quel nuovo mondo che ancora non c’è ma intanto si appalesa. Sulla comunicazione il premier ha un approccio diverso rispetto all’uomo che in un ventennio l’ha radicalmente cambiata. Renzi sta sempre sulla scena per attirare l’attenzione, Berlusconi invece dalla scena a volte si estraniava per restarci. Quando si eclissava per alcune settimane e leggeva sui giornali «Il silenzio del Cavaliere», se ne compiaceva: le pause erano studiate, servivano a suscitare aspettative.
Non sarà facile per il leader del Pd continuare ad alimentarle di qui a inizio (o fine) ottobre, anche se per allora confida che il voto delle Amministrative sarà stato metabolizzato. Il punto è che le Comunali hanno già avuto un effetto che è andato oltre la sfida per i campanili: è stato un altro passo verso il nuovo mondo, trasformando ancora — se possibile — ciò che era il centro-sinistra, ciò che era il centro-destra e persino ciò che saranno i Cinquestelle.
E il referendum si propone come l’ultimo e più vorticoso giro di centrifuga, un appuntamento che avrà vincitori e vinti, ma che non necessariamente anticiperà l’esito della sfida successiva: le Politiche. I precedenti stanno lì a testimoniarlo: il caso forse più eclatante è quello di Mario Segni, che con i suoi referendum elettorali agli inizi degli anni Novanta aprì la strada verso un nuovo mondo. Ma da quel mondo alla fine restò escluso. C’è qualcuno ancora che considera i ballottaggi un fatto locale?

Repubblica 18.6.16
Un test per il Pd di Renzi
Bisogna rimettersi in sintonia con la società e cominciare a rifondare la politica dal basso, con cura e dedizione
di Mario Calabresi


QUELLO di domani non è un voto locale, ma un voto destinato a lasciare il segno nella politica italiana, a marcare una discontinuità e una possibile rottura di sistema.
Va preso molto sul serio perché, quando in gioco ci sono le prime quattro città d’Italia, il test non è amministrativo ma pienamente rappresentativo degli umori dell’opinione pubblica. Un test sul cambiamento: Renzi il rottamatore è ancora considerato un elemento di rinnovamento del Paese o la voglia di rottura è talmente forte da far ritenere anche lui parte dell’establishment? Le fratture sulla riforma costituzionale e sul mercato del lavoro hanno alienato più voti di sinistra di quanti ne possano venire dal centro o dal campo conservatore? E questi voti centristi, come ci diranno le urne a Milano e Torino, sono disponibili a convergere nei ballottaggi sul Pd? I nemici esterni e interni di Renzi e del governo sono in grado di coalizzarsi e di convincere una maggioranza di cittadini che l’ex sindaco di Firenze da soluzione è diventato problema?
È un voto che, qualunque sarà l’esito, impone al Partito democratico e al premier, che ne è segretario, di ripensarsi, di cercare una strada che provi a ricomporre — se ancora possibile — le divisioni interne e a sanare la distanza che si è creata con molti cittadini.
La sfida più importante e visibile è quella con il Movimento 5 Stelle, a Roma e a Torino.
MA UNA vera valutazione sullo stato di salute del Pd, sulla maggioranza che governa l’Italia e su un progetto politico che puntava a rompere steccati tradizionali e a farsi centro d’attrazione degli elettori, arriverà da Milano, dove Renzi ha scelto di puntare al centro, alla borghesia e di rivendicare una spinta modernizzatrice. Se sia possibile tenere insieme questo con gli elettori tradizionali di sinistra ce lo dirà il risultato di Beppe Sala. Ma partiamo da Roma. Nella capitale il disastro del Pd ha alienato un numero impressionante di cittadini. La debolezza di Ignazio Marino era evidente, così come i suoi pasticci e la sua inesperienza, ma averlo mandato a casa in modo così traumatico, dimenticando il valore delle primarie e il fatto che fosse vissuto come un baluardo solitario a Mafia Capitale, ha creato un rigetto talmente forte da spingere anche chi ha sempre votato a sinistra verso Virginia Raggi o lontano dalle urne.
E ciò che dovrebbe far riflettere ancor di più è la constatazione che la campagna di Virginia Raggi è stata modesta e di lei, ormai a un giorno dal voto, sappiamo troppo poco su programmi, biografia e squadra di governo. Deve far riflettere perché in un tempo in cui pensavamo che finite le ideologie finalmente si scegliesse sui programmi, sul curriculum dei candidati e sulla loro capacità di far funzionare le cose, ci troviamo a valutare freschezza e simpatia e a considerare come il più grande dei valori l’inesperienza. E a farla coincidere con la speranza. Queste elezioni ci stanno dicendo che non aver mai governato nulla e non conoscere la macchina amministrativa non è più un difetto o una lacuna ma anzi un vantaggio e una garanzia, tale e tanta è la rabbia verso i partiti tradizionali, verso quel che resta della “casta”. Così basta una sola parola d’ordine: rottura.
Guardo al voto romano e continua a tornarmi in mente un esempio che mi ha fatto un vecchio amico: è come se un giorno i passeggeri di un aereo, stanchi di disagi, ritardi, dell’arroganza di personale e piloti — di cui conoscono stipendi, benefit e orari di lavoro — e dei prezzi eccessivi, di fronte all’ennesimo disservizio decidessero di ribellarsi cacciando dalla cabina l’equipaggio. A quel punto si pongono la domanda su chi possa portarli a destinazione ed è allora che si alza una giovane ragazza che ammette: «Non ho nessuna esperienza, non ho il brevetto, ma sono seria e per bene e ho sempre sognato di pilotare un aereo». Viene accompagnata in cabina in un tripudio di folla. Dove vadano a finire non è difficile immaginarlo. Spero che guidare un Comune sia meno difficile che far decollare un jet e che le energie nuove siano capaci di coagulare capacità e intelligenze, altrimenti per Roma potrebbe essere un brutto risveglio.
A Torino, dove l’amministrazione uscente ha governato bene, Piero Fassino — uomo che paga il fatto di non avere grande empatia — è stato un amministratore capace di tenere a galla una città in tempi di grave crisi e di bilanci drasticamente tagliati. Il fatto che fino all’ultimo la sfida con Chiara Appendino sia aperta, indica nuovamente che non è solo una questione di malgoverno o di “mafie capitali” — che a Torino non sono di casa — ma di stanchezza profonda verso il Pd e le oligarchie locali. Una stanchezza che non è solo italiana, basterebbe citare Francia, Spagna (dove ci sono addirittura due partiti nuovi ma non si è riusciti a fare un governo), gli Stati Uniti o il referendum sulla Brexit. Sono rabbia e disillusione a guidare la pubblica opinione.
A voltare le spalle al Pd sono soprattutto le nuove generazioni: vedono che il mondo è cambiato, che i vecchi modelli non funzionano più, che la loro possibilità di costruirsi una vita è messa sempre più in discussione, ma non trovano risposte e sentono con chiarezza che la politica non si occupa di loro. Non è capace di interpretare il nuovo paradigma.
Per questo bisogna rimettersi in sintonia con la società e cominciare a rifondare la politica dal basso, con cura e dedizione. Ce lo dice la fatica di Bologna, dove il voto non entusiasma nessuno, ce lo dice il finale sul filo di lana di Milano e il rischio di disperdere il patrimonio Pisapia. Ma lo dice ancor di più Napoli, dove il Pd non è al ballottaggio e non è nemmeno pervenuto un suo segno di vita. È un partito da rifondare, se questo è ancora possibile nella società di oggi, senza scorciatoie, con umiltà e soprattutto con ascolto.

il manifesto 18.6.16
I labirinti del voto
di Norma Rangeri


Un tempo una elettrice, un elettore di sinistra aveva pochi dubbi sul voto, forte di un paio di ancoraggi a disposizione, che davano una relativa sicurezza. Quei tempi mai come adesso appaiono lontani: nel cosiddetto popolo di sinistra c’è divisione, incertezza, dubbio. Anche se all’apparenza si ostenta determinazione nella scelta.
Un tempo il Pd dava garanzie sulla tenuta democratica del Paese e della società civile. Questo ruolo il Partito democratico lo ha assolto con i governi di Berlusconi, quando era fin troppo facile presentarsi come forza alternativa al centro-destra. Finita l’era berlusconiana ha prevalso la piatta amministrazione della ditta di Bersani, facile preda per le ambizioni e la presa del potere di Renzi che, sulla falsariga veltroniana e sull’illusione dello straripante voto europeo, ha puntato al partito “omnibus”, senza però riuscirci se non per un breve lasso di tempo. Il presidente del Consiglio, convinto di essere onnipotente, ha usato la “rottamazione” – in parte necessaria – come arma di liquidazione di massa interna. Senza tuttavia esercitare una forte capacità attrattiva verso destra (se non nelle ridotte di Alfano e Verdini). Renzi ha fatto intorno a sé terra bruciata. E adesso va ai ballottaggi elettorali praticamente da solo.
Un tempo c’era la sinistra, antagonista, sociale, culturale che in maggior parte si riconosceva in Sinistra Ecologia e Libertà, un partito che dopo un certo successo politico, non è riuscito a diventare punto di riferimento per quei movimenti, quelle forze sparse, anche sindacali, in alternativa al Pd. E non è riuscito a “inventare” una leadership dopo il “passamano” di Vendola, tanto che a Roma – la città più importante da amministrare – si è presentata con Fassina, appena uscito dal Pd. E abbiamo visto un risultato elettorale modesto, quasi dappertutto. E’ proprio quest’area a registrare il più forte disorientamento di fronte ai duelli dei ballottaggi.
Un tempo non c’era il Movimento 5S. Ora c’è e raccoglie un grande consenso. Tanto da proporsi come forza di amministrazione locale oggi – anche se in zone limitate del territorio italiano – e di governo nazionale domani. È vero che il consenso è stato costruito sul “vaffa”, sul “noi siamo puliti voi siete tutti ladri”, “noi diversi, voi tutti uguali”. La semplicità primaria dei loro messaggi ha fatto presa su milioni di elettori colpiti da una crisi senza fine, e soprattutto tra i tanti giovani giustamente insoddisfatti e senza futuro. L’altra faccia della medaglia è la violenta torsione del concetto di democrazia. Sia all’interno del Movimento (il dissenso interno viene stroncato sul nascere), sia per l’uso dei social network che costruiscono “leader” applicando qualche algoritmo, con la disposizione a falange quando assalgono i nemici esterni e interni.
Dentro questo quadro poco incoraggiante domenica siamo chiamati al voto e “ma tu come voti?”, è un passa parola generale perché se l’analisi è condivisibile, poi si arriva alla domanda. La risposta non è semplice.
Si dice che il secondo turno del ballottaggio è un’altra elezione: è vero perché chiama l’elettore a esprimere un voto diverso, lo spinge a trovare altre motivazioni, gli chiede un supplemento di volontà politica. Così facile (sempre relativamente) decidere a chi dare il consenso al primo turno, quanto difficile riuscire a esprimere politicamente un secondo voto. Fuori gioco la sinistra dai ballottaggi (esito chiaro quanto prevedibile), si torna al seggio o si sta a casa?
In alcune situazioni la scelta è meno complicata. Nei confronti tra centrosinistra e centrodestra (per esempio Bologna o anche Milano) si può votare senza farsi troppi problemi contro lo schieramento che va dai berlusconiani, agli ex fascisti e ai leghisti (al ballottaggio si va al seggio o per sostenere il candidato e la lista meno lontani, oppure contro chi proprio non si vorrebbe vedere al governo, né della propria città, né del paese). Ma se, come nel caso del futuro sindaco di Roma e Torino, al ballottaggio vanno due renziani di ferro (per la serie: jobs act, riforme costituzionali e legge elettorale) e i 5Stelle, la scelta si complica.
Sulle nostre pagine negli ultimi giorni si sono confrontate opinioni di autorevoli collaboratori, esprimendo pareri molto diversi tra loro. Ciascuno aveva dalla sua buoni argomenti in favore dei candidati pentastellati (Piero Bevilacqua) o piddini (Alberto Asor Rosa), concentrandosi in particolare sul significato nazionale della scelta elettorale, sorvolando sulle problematiche di natura locale, sapendo i rischi di un affidamento del proprio voto in mani sbagliate.
Come potrebbe essere un voto sia ai candidati dei 5Stelle che del Pd. In quest’ultimo caso una vittoria diffusa del partito di governo rafforzerebbe una leadership che, nelle ricette messe in opera in questi due anni da palazzo Chigi, ha sposato senza se e senza ma, anzi con orgogliosa rivendicazione, le posizioni confindustriali, di sostegno alle imprese (da Marchionne in giù), al privato. Di pubblico questo Pd (dai tempi della segretaria Bersani, a onor di verità) non vuole nemmeno l’acqua. Una sconfitta del Pd ai ballottaggi sarebbe l’inizio della fine dell’esperimento renziano del partito maggioritario e metterebbe una seria ipoteca sulla vittoria del Si al Referendum costituzionale.
D’altra parte sventolare la bandiera della “legalità” insieme alla Lega (i sondaggisti vedono un travaso di voti tra leghisti e pentastellati), o ridurre la democrazia al populismo internettiano, all’umiliazione dei dissidenti, non ci piace. Ma oggi l’esercito di Grillo e Casaleggio non è più una forza che dice solo “no”. Per esempio a Roma con la proposta rivolta allo stimato urbanista Paolo Berdini, nostro assiduo collaboratore, di far parte della giunta comunale. Attento sulle questioni relative alla speculazione edilizia nelle aree urbane, allo scempio dello Sblocca Italia, alle lobby che mettono le mani sulle nostre città, Berdini è stato denunciato dal costruttore Caltagirone appena si è sparsa la voce che potrebbe mettere piede in Campidoglio come assessore all’urbanistica di una eventuale giunta Raggi. Un governo a 5Stelle della capitale con il suo contributo proseguirebbe l’aspro confronto tra Caltagirone e Roma toccato già in sorte all’ex sindaco Marino. Berdini in giunta sarebbe un buon biglietto da visita.
Da qui nasce la nostra incertezza se i contendenti in campo saranno i pentastellati o i piddini. Se dappertutto ci fosse un confronto come quello di Napoli non avremmo dubbi, perché de Magistris merita di nuovo un sostegno di sinistra. D’altra parte poi se si volesse allargare lo sguardo oltre i nostri confini nazionali, le sinistre populiste ci interpellano, a Napoli come nell’America di Sanders, nella Spagna di Podemos, nella Gran Bretagna di Corbyn.
Al dunque il voto – anche se difficile, scivoloso, e nonostante la sua valenza politica generale – ci offre più possibilità di scelta. Per questo non farebbe scandalo chi, pur di fronte a una situazione incandescente, decidesse di astenersi o votare scheda bianca. Anzi, l’astensione potrebbe essere la vera vincitrice delle urne.
Ma una certezza c’è: il risultato di domani, comunque vada, non avrà soltanto un significato locale – l’indifferenza ostentata da Renzi è di facciata. Perché segnerà la fine del primo tempo di una partita nella quale le squadre elettorali si giocheranno quasi tutto. Ma in autunno.

Il Fatto 18.6.16
“Dietrofront: a Ostia non c’è la mafia” La sentenza che ha spento la speranza
“Non ci possiamo fidare più neanche della giustizia. Qui siamo sotto attacco tutti i giorni”
di Nando Dalla Chiesa

qui

Il Fatto 18.6.16
L’appello
Mettiamo un tetto agli stipendi
La disuguaglianza comincia dalla busta paga
Stipendi etici come all’Olivetti
di Ferdinando Camon

In Italia non è stata accolta con l’attenzione che meritava una notizia proveniente dalla Francia, che riguarda il divario tra lo stipendio minimo e massimo nelle maggiori aziende quotate in Borsa. Quaranta personalità del mondo culturale, economico e politico francese hanno firmato una petizione con la quale chiedevano al governo di ridurre di oltre la metà, con una legge, questo divario, che attualmente arriva al rapporto di 1 a 240. Il che significa che attualmente lo stipendio di un alto dirigente, quello che nel mondo americano si chiama “Ceo”, pari mediamente a 4,2 milioni di euro l’anno, equivale a 240 salari mi nimi.
l’articolo segue qui

Corriere 18.6.16
La classe operaia si fa in tre nella fabbrica 4.0 (e nei servizi)
di Dario Di Vico


L’operaio cognitivo, l’operaio fordista, il nuovo proletariato della logistica ma anche dei servizi alla persona, facchini e badanti, soprattutto stranieri. Le tre classi operaie, secondo la definizione del sociologo Antonio Schizzerotto, hanno diverse ambizioni, salariali e professionali, rapporti col sindacato più o meno stretti. L’operaio hi tech, uno su cinque tra i metalmeccanici, secondo alcune rilevazioni, è l’elemento nuovo. Sostiene lo storico dell’impresa Giuseppe Berta: «Spesso macchine da oltre 300 milioni sono controllate da addetti che guadagnano poco più di 1.500 euro e la loro partecipazione non è remunerata». È poi interessante annotare come l’operaio delle linee di montaggio, la cassiera e l’operatore call center abbiano tra di loro elementi comuni superiori a quelli che legano l’operaio cognitivo e quello fordista. Tre classi operaie, non una dunque e la tendenza alla differenziazione è sempre più veloce.
Non una ma tre. Ormai gli studiosi cominciano a sostenere che di classe operaia ne esiste più d’una e la tendenza alla differenziazione è sempre più veloce. Non basta essere sotto lo stesso capannone per avere una condizione di lavoro omogenea, anzi per molti versi lo schema organizzativo rigido applicato agli operai delle linee di montaggio è più vicino a quello di una cassiera del supermercato o di un addetto al call center di quanto lo sia rispetto alle nuove figure di lavoratore manual-cognitivo che la tecnologia richiede. I cambiamenti investono la qualità del lavoro ma si intravedono processi di distinzione che nel medio periodo investiranno i sistemi di retribuzione, il rapporto con il sindacato e più in generale l’identità. Anche perché nel frattempo si sono sviluppati segmenti del lavoro manuale con caratteristiche in parte nuove dentro settori come la logistica (i facchini) e i servizi alla persona (le badanti) e di conseguenza «le classi operaie sono tre», come sostiene il sociologo Antonio Schizzerotto.
Per ridisegnare una mappa conviene partire dalle novità della tecnologia, dalle imprese che applicano tecniche di lean production e Kaizen per passare a quelle che hanno adottato il sistema Wcm fino ai primi esperimenti di Industria 4.0, tutte richiedono una forza lavoro cognitiva molto coinvolta nei processi di controllo/regolazione delle macchine. In termini quantitativi limitando l’osservazione al settore metalmeccanico (1,5 milioni di addetti) le stime parlano di un 20% medio di dipendenti già entrati nella nuova dimensione professionale, la prima classe operaia. «Sono figure tenute in palmo di mano dai datori di lavoro perché, oltre a interagire con sistemi tecnologici complessi, hanno fatto proprio un concetto di responsabilizzazione — dice lo studioso Luciano Pero —. Quando succede qualcosa questi operai non parlano con il loro capo ma interrogano il sistema e la soluzione che viene fuori fa scuola». Aggiunge il sociologo Daniele Marini: «Quando un imprenditore innova sospinge verso l’alto tutte le professionalità della sua fabbrica. Cambia lo spartito e i codici di comportamento e si crea potenzialmente una chance di mobilità professionale». Il lavoro si libera dall’ideologia e vincono le persone con le loro competenze individuali.
Queste figure operaie già apprezzatissime dovrebbero in un futuro immediato essere ulteriormente motivate ma inquadramenti e paghe non li premiano. Superminimi, ad personam e fuori busta non sono sufficienti a gratificare operai che hanno bisogno di un aggiornamento continuo, sono parte integrante del cambiamento e all’estero vengono pagati di più. Sostiene lo storico dell’impresa Giuseppe Berta: «Spesso macchine da oltre 300 milioni sono controllate da addetti che guadagnano poco più di 1.500 euro e la loro partecipazione non è remunerata».
Non si hanno però notizie di frizioni con il sindacato, prevale un comportamento prudente. Sanno che dovranno giocare le loro chance individuali ma temono opposizioni e veti. L’innovazione riguarda un po’ tutti i settori ed è difficile oggi descrivere una mappa esauriente ma anche industrie come la siderurgia non sono più quelle di una volta. In passato questa prima classe operaia sarebbe stata definita come una aristocrazia del lavoro, oggi stenta a venire fuori un’identificazione altrettanto precisa, a dimostrazione che si tratta di un processo in corso.
La seconda classe operaia è quella che potremmo definire «fordista» con un termine in verità abusato. Sono gli operai delle linee di montaggio che sono cambiate moltissimo in questi anni ma continuano comunque ad avere vincoli organizzativi rigidi e di conseguenza a predeterminare la mansione degli operatori. Gli operai fordisti hanno un salario medio attorno ai 1.350 euro, rappresentano il cuore della partecipazione sindacale e come materia di scambio hanno principalmente la flessibilità. Ogni elemento di discontinuità organizzativa viene di conseguenza negoziato e monetizzato.
L’età media è appena sotto i 50 anni e in questa categoria si possono inglobare altre figure come i carrellisti e soprattutto, pur non legati in linea, gli operai delle Pmi. Che spesso lavorano a una macchina singola ma hanno comunque un raggio di professionalità limitato e bisogni formativi ridotti. A caratterizzare il tipo di impegno più che lo stress della partecipazione a processi complessi prevale il vincolo di star dietro ai tempi-macchina, accompagnato in molti casi dalla pura fatica fisica. Non dimentichiamo che a fronte di tante postazioni che sono state automatizzate restano comunque nella manifattura vaste aree che hanno bisogno dell’intervento umano. O quelle che per tipo di applicazione — penso all’occhialeria — richiedono un’applicazione minuziosa da parte dell’operatore e non sono robotizzabili. È chiaro che questo tipo di classe operaia è più portata a ragionare in termini di egualitarismo e non vede ascensori sociali nei paraggi.
Se volgiamo l’attenzione fuori della fabbrica tradizionale altre figure fordiste le possiamo rintracciare in settori e modalità di organizzazione come la grande distribuzione. Un grande supermercato ne richiede molte e la più conosciuta è la cassiera, legata anch’essa a una sequenza di operazioni piuttosto rigida. La prevalenza delle donne è forte e l’elemento di flessibilità è legato all’orario (part time). Possiamo inserire nella stessa categoria anche gli operatori dei call center? Le opinioni degli esperti divergono perché se è vero che la risposta al cliente è comunque legata a un tempo-standard e quindi a un vincolo rigido c’è comunque l’elemento di interazione con le persone che rende la mansione meno ripetitiva e più ricca. È interessante però annotare come l’operaio delle linee di montaggio, la cassiera e l’operatore call center abbiano tra di loro elementi di omogeneità superiori a quelli che legano l’operaio cognitivo e quello fordista.
Resta la terza classe operaia, il proletariato dei servizi che sta fuori dei cancelli ed è destinato a crescere soprattutto per il peso che assume il settore della logistica. È chiaro che questo segmento riguarda per lo più facchini — le stime parlano di 400 mila — che lavorano alle dipendenze delle cooperative spurie, al 90% sono extracomunitari (marocchini, tunisini, pachistani) e spesso vengono reclutati grazie a un filtro di caporalato etnico. La loro relazione con il sindacato passa attraverso il contratto nazionale di lavoro — tutt’altro che disprezzabile — che però viene frequentemente disatteso con forme di dumping che partono dall’applicazione di un livello di inquadramento inferiore (che li porta a prendere 1.050 euro in media). Stiamo parlando di lavori che anche in virtù degli orari di impiego in cui si svolgono sono di fatto invisibili e infatti non ci sono lavori di indagine che li studino. Un altro segmento di lavoro che fa parte del proletariato dei servizi è composto dalle badanti (stima: 200 mila), una mansione che si apprende in una settimana e «spesso è solo erogazione di sforzo fisico», secondo il sociologo Asher Colombo. Per l’80% sono straniere e il loro fordismo è mitigato però dall’impegno psicologico che richiede la cura dell’anziano e la relazione con i parenti. Cosa dimostrano le tre classi operaie? Che i processi di disuguaglianza sono più estesi di quanto si racconti e che siamo solo all’inizio.
(continua)

Corriere 18.6.16
Il peso dei bus in Comune
A Roma e Napoli l’incasso copre meno del 30% delle spese
Pochi soldi dai biglietti e molti sussidi pubblici
di Federico Fubini


È uno degli oggetti più celebri al mondo. Ogni giorno in Italia undici milioni di persone ne portano uno in tasca o nella borsa. Un biglietto dell’autobus è uno strumento a bassa tecnologia, ma ad alta densità di contenuto: in quel pezzo di cartone da 1,50 euro a Milano, Roma e Torino, da 1,30 a Bologna o da un euro a Napoli, non è difficile leggere come in un codice a barre la qualità della convivenza civile delle grandi città che domani eleggono il loro sindaco.
In quel rettangolo è riassunta la misura di controllo sociale, attenzione alle regole, e qualità di un’amministrazione comunale nel tempo: non solo negli ultimi tre ma negli ultimi trent’anni, pari all’età media di alcuni dei mezzi pubblici che continuano a circolare nei centri storici d’Italia. Nell’economia di una corsa in tram, in bus o in metrò è condensata parte della storia politica del Paese. Non lascia dunque ben sperare il fatto che la velocità media di un viaggio urbano nelle ore di punta sia oggi fra i sette e gli otto chilometri l’ora, secondo la Cassa depositi e prestiti: uguale a quella dell’anno 1700.
Se il trasporto pubblico locale è una metafora della politica nelle città, l’Italia ha non molto di cui vantarsi. Con quasi centomila addetti e un giro d’affari da dieci miliardi di euro, questo Paese ha un’industria della mobilità urbana più carica di manodopera che Gran Bretagna o Spagna eppure i suoi mezzi coprono fra il 20% e il 40% di chilometri in meno ogni anno; incassa sussidi pubblici di un terzo sopra alle medie europee, secondo Bain & Company, eppure i mezzi continuano a viaggiare troppo spesso semivuoti: il tasso medio di carico di un autobus urbano in Italia è di appena il 22%, contro il 42% in Francia o il 45% in Spagna.
C’entrerà pur qualcosa il fatto che, nel Paese dei conflitti d’interessi, il biglietto del bus e ciò che vi è dietro ne sono il condensato: i Comuni sono allo stesso tempo proprietari delle imprese di trasporto, committenti dei loro servizi per conto dei cittadini, regolatori del loro mercato (tenuto ben chiuso alla concorrenza) e infine decisori politici di ultima istanza. Distribuiscono i contratti, coprono i costi delle assunzioni e soprattutto cercano consenso.
Forse è questa miscela che rende l’età media dei mezzi fra le più vetuste d’Europa (un autobus ha 8,4 anni a Milano, un tram 31 anni a Roma) e i bilanci delle compagnie fra i più disomogenei. Per dare uno strumento ai cittadini che domani andranno alle urne, il Corriere ha cercato comunque di trarne alcune indicazioni sull’efficienza delle grandi aziende di trasporto locale, sui loro costi reali e chi li paga. Tra Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli i risultati sono diversi — alcuni casi in regola con la legge, altri no — ma un tratto in comune c’è: i ricavi da quei biglietti o abbonamenti non bastano mai. Non coprono il costo del personale dell’azienda, non finanziano più di una frazione dei costi operativi (tolti gli investimenti) delle aziende di trasporto comunali. Il resto sono sussidi e trasferimenti garantiti con le tasse di tutti i cittadini.
Dovesse davvero finanziare tutti gli oneri — meno gli investimenti — il biglietto dell’autobus costerebbe oltre quattro euro a Napoli invece di uno; a Torino e a Roma sarebbe di 4,50 anziché di 1,50; a Milano sarebbe di tre e non di 1,50; a Bologna sarebbe di quasi quattro euro invece di 1,30. Anche in questo squilibrio fra biglietti e sussidi siamo fra gli ultimi in Europa. In realtà una legge del 1997 prescriverebbe alle società di trasporto pubblico locale di avere «entrate da traffico» (biglietti e abbonamenti) pari ad almeno un terzo dei costi operativi, ma a tutt’oggi resta ignorata o disattesa. Nei bilanci delle società questo dato non viene mai riportato con trasparenza e gli stessi costi operativi non sono indicati. Calcolandoli e stimando i ricavi da traffico emerge che Milano avrebbe una copertura dei costi al 53% (ma costi in aumento sensibile), Bologna al 42%, Torino quasi del 35%, mentre Roma e Napoli sono sotto la norma al 29% e al 24%. In nessuna di queste città sarebbe possibile pagare con biglietti e abbonamenti anche solo lo stipendio dei conducenti del bus, e in alcune neanche la metà di quello. Il resto è coperto da sussidi.
Socialmente, è ingiusto per un motivo in primo luogo topografico. Le reti del trasporto pubblico locale sono dense nei centri storici e rade in periferia; tendono dunque in proporzione a servirsene di più i benestanti che abitano nelle zone pregiate e costose delle città, mentre chi abita nei sobborghi riceve un servizio peggiore eppure finanzia con le proprie tasse quanto non viene coperto dal prezzo dei biglietti altrui. Aiuterebbe i Comuni come azionisti una vera lotta all’evasione contro chi viaggia gratis; ma i Comuni come soggetti politici la considerano impopolare. E dire che non sarebbe difficile: oggi esistono sensori che permettono di stimare quante persone viaggiano su ogni mezzo, a confronto di quante pagano. Ma ad oggi, chissà perché, nessuna grande città ha osato adottarli.

La Stampa 18.6.16
Cairo rilancia su Rcs e fusione con La7
L’editore: “Proposta importante, non mollo”. Offerta senza contanti ma più alta del 33%
di Francesco Spini


«Su Rcs non mollo», dice a sera inoltrata Urbano Cairo. L’imprenditore torinese alza del 33,3% la posta della sua offerta di scambio: non propone più di cambiare ciascun titolo del gruppo che edita il Corriere della Sera con 0,12 azioni della Cairo Communication, ma eleva il concambio a 0,16 titoli. Ai prezzi di ieri (Rcs ha chiuso in rialzo del 4,13, a 0,78 euro, Cairo con un +5,8% vale 4,30 euro) significa valorizzare le azioni Rizzoli 0,69 euro, a un’incollatura dagli 0,70 euro messi sul piatto dall’Opa di Andrea Bonomi (insieme a Della Valle, Mediobanca, Unipol e Pirelli) che parte lunedì e si concluderà il 15 luglio, data a cui anche Cairo ha prorogato la sua operazione.
Ma quella che lo stesso Mr La7 definisce «una proposta importante, che ha una serie di punti strategici», ora prevede espressamente la «fusione per incorporazione» del gruppo che pubblica il Corriere della Sera nella stessa Cairo Communication, «da realizzarsi - si legge nella nota di ieri sera - nei 12-24 mesi successivi al perfezionamento dell’offerta». Nel frattempo si esplicitano anche gli obiettivi strategici del progetto di integrazione, considerando efficienze e sinergie: nel 2017 ricavi e mol sarebbero, rispettivamente, pari a 1,273 miliardi e 172 milioni; per salire a 1,34 miliardi e 215 milioni nel 2018.
Con le modifiche apportate all’Ops, se Cairo dovesse convincere il 100% del capitale a consegnare le azioni, scenderebbe al 37,9% della sua Cairo Communication. Per assicurarsi il controllo futuro del gruppo, Cairo proporrà a un’assemblea convocata il 18 luglio l’adozione del cosiddetto voto maggiorato, che attribuisce fino a un massimo di due voti per ciascuna azione appartenuta allo stesso soggetto per almeno due anni. Sempre nella stessa riunione (che delibererà pure la modifica del concambio), l’imprenditore chiederà ai soci l’approvazione della delega per un aumento di capitale fino a 70 milioni di euro, con l’emissione di azioni Cairo per non oltre il 10% del capitale. L’operazione prevede l’esclusione del diritto di opzione, quindi l’ingresso di nuovi soci. «Il consiglio avrà un anno di tempo per esercitare la delega», spiega lo stesso Cairo. L’operazione ha lo scopo di rafforzare patrimonialmente la società per far fronte alle necessità finanziarie successive all’acquisto del controllo di Rcs. L’aumento potrebbe avvenire solo nel caso di positiva conclusione dell’Ops. «È un’operazione potenziale, non abbiamo ancora individuato gli eventuali nuovi soci», avverte Cairo. Se invece l’Ops non andrà in porto, il cda proporrà la distribuzione di un dividendo straordinario «per complessivi 20 milioni», segnala la nota, ossia 0,256 euro per azione.
A seguito del rilancio di Cairo anche Andrea Bonomi avrà cinque giorni di Borsa per ritoccare a sua volta la sua Opa da 0,70 euro. Ieri il cda della Rcs, in vista della partenza dell’Opa ha espresso il suo giudizio: bene il piano, insufficiente il prezzo. Dal punto di vista finanziario, infatti, i consiglieri della società non possono che dichiarare «non congruo» il corrispettivo, visto che i consulenti di Rcs - il professor Roberto Tasca, Citi e Unicredit - hanno individuato un prezzo che va da 0,80 a 1,31 euro, livelli già espressi nel giudizio su Cairo. Dal punto di vista industriale, invece, il cda all’unanimità valuta «positivamente» le proposte della cordata riunita sotto la International Media Holding in quanto «coerenti con la strategia» di Rcs. Nessuna obiezione alle modifiche della governance che Bonomi&Co, in caso di vittoria, proporranno ai soci: alle minoranze andrebbe un solo posto in consiglio anziché i due terzi dei seggi di oggi.

La Stampa 18.6.16
Quel filo nero che dagli Stati Uniti  è arrivato a colpire Londra
Thomas Mair era un seguace della National Alliance americana l’organizzazione suprematista che ispirò gli attentati di Oklahoma
di Paolo Mastrolilli


Un filo tragico lega l’assassinio della parlamentare britannica Jo Cox ad uno dei capitoli più drammatici nella storia degli Stati Uniti: l’attentato del 19 aprile 1995, che uccise quasi 170 persone a Oklahoma City. Thomas Mair, l’uomo arrestato per l’omicidio, era infatti un seguace della National Alliance, l’organizzazione neonazista americana della West Virginia che aveva ispirato anche Timothy McVeigh, condannato a morte e poi giustiziato per la strage nell’Alfred P. Murrah Building.
La denuncia è venuta dal Southern Poverty Law Center, il centro studi specializzato nel monitoraggio dei gruppi estremistici e razzisti negli Usa. Secondo documenti che Splc ha raccolto e pubblicato sul suo sito, già nel 1999 Mair aveva acquistato dalla National Alliance un manuale che conteneva le istruzioni su come costruire una pistola. Nel corso degli anni, l’assassino di Jo Cox aveva inviato 620 dollari alla National Vanguard Books, cioè la casa editrice dell’organizzazione neonazista americana, per comprare periodici e libri che davano informazioni su come costruire armi e bombe. Uno di questi testi istruiva i lettori su «La chimica delle polveri e degli esplosivi», un altro sui materiali «Incendiari», un altro ancora era un «Manuale delle munizioni improvvisate». La «Section III, No. 9» di questo libro, alla pagina 125, offriva i dettagli su come costruire in casa una «Pipe pistol for .38 Caliber Ammunition», ossia una pistola per proiettili calibro 38, da realizzare con semplici tubi acquistabili in un qualunque negozio di ferramenta.
L’ispirazione che veniva dalla National Alliance non era solo tecnica, ma anche ideologica. Il suo fondatore, l’ex professore di fisica William Pierce, aveva infatti pubblicato diversi romanzi su argomenti razzisti e antisemiti, che hanno avuto un impatto devastante sugli Stati Uniti. Una di queste allucinazioni si intitolava «The Turner Diaries», e raccontava lo storia di un uomo bianco che combatteva una guerra a sfondo razziale in una ambientazione post apocalittica. Secondo il resoconto del Southern Poverty Law Center che qui citiamo direttamente, il romanzo «era stato l’ispirazione per Timothy McVeigh nell’attentato dinamitardo all’edificio federale di Oklahoma City Timothy McVeigh, e molti altri atti di terrore».
Ora Pierce è morto e l’influenza del suo movimento, sempre secondo il Splc, è scesa quasi al livello dell’irrilevanza. I semi che aveva piantato, però, evidentemente sono ancora in grado di fare vittime.
Il fratello di Mair ha detto al «Daily Telegraph» che Thomas aveva anche «una storia di malattie mentali», e i vicini lo consideravano un emarginato. La sua fissazione con i movimenti estremisti, però, sarebbe dimostrata anche dall’abbonamento che aveva fatto a «S.A. Patriot», la rivista di un gruppo sudafricano favorevole all’apartheid, chiamato «White Rhino Club», che si opponeva alle «società multiculturali e all’espansionismo islamico». Nonostante questo, nessuno aveva preso sul serio i segnali di instabilità lanciati da Mair, e aveva cercato di fermarlo, anche se sarebbe stato in cura per i suoi problemi mentali.
La diffusione dei gruppi estremistici razzisti, supremacisti e di estrema destra negli Stati Uniti è molto forte. Spesso costituiscono vere e proprie milizie, che sfidano il governo federale pretendendo di essere indipendenti. Il caso più recente è avvenuto a gennaio nel Malheur National Wildlife Refuge dell’Oregon, e si è concluso con un morto e 25 arresti. Una violenza che si salda alla letale facilità di ottenere armi, e ora fa vittime anche fuori dagli Stati Uniti.

Corriere 18.6.16
Ben Page. il sondaggista
La tragedia dell’omicidio potrebbe spostare i voti verso l’Unione
«È l’effetto status quo, quando gli elettori sono spaventati lasciano le cose come sono»
di Sara Gandolfi


I giochi in Gran Bretagna non sono chiusi. Eppure la tragica morte di Jo Cox, anche se pochi hanno il coraggio di dirlo a voce alta, potrà muovere molti voti e forse chiudere la partita. «Quanto è avvenuto probabilmente sposterà gli equilibri verso la campagna “Remain” (pro Ue, ndr )», assicura Ben Page, amministratore delegato di Ipsos-Mori, una delle principali società di sondaggi del Regno Unito.
Quali sono i segnali di questo spostamento di voti?
«Innanzitutto, lo conferma il rialzo della Borsa e della sterlina, immediatamente dopo l’annuncio dell’omicidio. Il che suona terribile, ma significa che i mercati hanno reagito all’informazione, deducendo che un maggior numero di elettori voteranno per restare nell’Ue. In secondo luogo, bisogna contare sull’“effetto status quo” che è presente in molti referendum: la gente tende a votare per il mantenimento dello status quo. Quando c’è incertezza, ancor più quando l’opinione pubblica è spaventata o disgustata per un evento, questo effetto aumenta ulteriormente. Ci sarà un forte movimento di empatia verso Jo Cox e i suoi familiari, molti indecisi che magari propendono per l’uscita dall’Unione Europea ma ai quali non piace l’estrema destra potrebbero ripensarci».
Ci sono delle avvisaglie?
«Era già atteso uno spostamento “last minute” per lo status quo, come peraltro avvenne con il referendum in Scozia due anni fa. Fino ad una settimana prima del voto, i nostri sondaggi davano in vantaggio gli indipendentisti, ma all’ultimo momento c’è stata la marcia indietro e il 55% degli scozzesi hanno votato per rimanere nel Regno Unito. Questo omicidio non farà che rafforzare un trend naturale».
Ora che accadrà?
«La morte di Jo Cox è una tragedia e sottrarrà tempo alla campagna. Molti eventi sono stati cancellati in segno di lutto, domani (sabato, ndr ) la grande manifestazione dei “brexiters” non avrà luogo, lunedì tutti i politici saranno in Parlamento per discutere quanto avvenuto e rendere omaggio a Cox; quindi resteranno soltanto due giorni prima del voto, il 23 giugno».
Dito puntato sull’estrema destra?
«E’ molto difficile estrapolare dall’azione di un pazzo un’opinione sull’estrema destra britannica. Ma è vero che era già in corso un’ampia discussione all’interno della classe politica e più in generale nell’opinione pubblica, sullo svilimento e l’imbarbarimento della vita politica. La patina di civiltà mostra parecchie crepe in Gran Bretagna. Il fatto che una deputata laburista, attivista della campagna “Remain”, sia stata uccisa da qualcuno che grida “Britain First” ovviamente infiamma ancora di più il dibattito».
Suona molto «americano», assai distante dalla compostezza britannica…
«Noi britannici diciamo sempre che qualsiasi cosa succede in America prima o poi arriverà anche da noi. In politica si sta dimostrando vero. Il nuovo linguaggio politico, il sostegno a Trump… negli ultimi due mesi, la campagna dei sostenitori della Brexit ha alzato i toni e qualche messaggio distorto è “passato”».
Tipo?
«In base a uno dei nostri ultimi sondaggi, metà della popolazione crede che se rimarremo nell’Ue 75 milioni di turchi saranno liberi di venire qui, e di conseguenza si innescherebbe un rapido processo di recessione. Un pensiero che è stato incoraggiato anche dai media più diffusi. E tutto questo senza una discussione seria, senza spiegare che si tratta di un’esenzione ai visti, non di piena libertà di movimento, e solo all’interno dell’area Schengen, quindi non riguarda il Regno Unito. I politici usano la politica subliminale: non si può dire che non vogliamo i neri in Gran Bretagna, allora parliamo dei turchi».
Ipsos è stato tra i primi a certificare il sorpasso dei «brexiters». Ora qual è il suo pronostico personale?
«Condivido le previsioni degli allibratori. Loro pensano che “Remain” vincerà. Avevano visto giusto anche in Scozia, e sarà qualcosa di più o meno simile: penso a una percentuale del 53% pro Ue. Ma forse è meglio se mi rifate la domanda dopo l’ultimo sondaggio, mercoledì sera».

Repubblica 18.6.16
Robert Harris
“Chi voleva la Brexit adesso ci ripensi e dia un senso alla tragedia”
Lo scrittore britannico: “Mezzo secolo fa nel Paese non c’era posto per chi predicava il razzismo. Oggi, con Farage e tabloid, questo linguaggio è stato legittimato”
intervista di Enrico Franceschini


Può darsi che questa morte faccia pensare due volte gli elettori su che immagine vogliamo dare al resto del mondo
In tempi difficili la prima tentazione è dare la colpa agli stranieri ma il vero responsabile del disagio è il mondo globalizzato
Robert Harris, 59 anni, noto commentatore del “Sunday Times”, è l’autore di “Ghostwriter” e “Fatherland”

LONDRA “MEZZO SECOLO FA, in Gran Bretagna non c’era posto per chi predicava razzismo e xenofobia, ma oggi purtroppo sì: l’Ukip di Nigel Farage, con le sue vergognose campagne contro gli immigrati, e i tabloid di destra, che usano ogni mezzo per sostenere Brexit, hanno innegabilmente una responsabilità morale nell’avere creato il clima in cui un esagitato ha ucciso Jo Cox». È il parere di Robert Harris, l’autore di Fatherland, Il ghostwriter, L’indice della paura e tanti altri best- seller internazionali, oltre che autorevole commentatore politico sulle colonne del Sunday Times e di altri giornali. «Se la sua morte servirà a far ripensare la gente che voleva portarci fuori dall’Europa, sarà l’unica cosa buona uscita da questa tragedia», dice lo scrittore in questa intervista a
Repubblica.
Signor Harris, cosa pensa di quello che è accaduto?
«Sono profondamente scioccato. L’ultima volta che un parlamentare britannico fu assassinato risale a un quarto di secolo fa, durante gli attentati dell’Ira. E la morte di Jo Cox è arrivata dopo un’ondata di sentimenti così negativi sull’immigrazione che dovrebbe far sentire molti almeno un po’ colpevoli. Qualcosa di brutto è entrato nella politica britannica ».
Perché proprio adesso?
«Non è la prima volta che succede: ci provò anche il parlamentare conservatore Enoch Powell, negli Anni ’60, a parlare degli immigrati in termini razzisti, ma fu espulso dal partito e trattato come un paria. Oggi invece, principalmente grazie all’Ukip, il partito anti-Ue guidato da Nigel Farage, è diventato accettabile, legittimo, parlare di immigrati e stranieri in questo modo».
Si può parlare di responsabilità morale per la morte di Jo Cox?
«Non punterei il dito contro una persona in particolare, ma non c’è dubbio che un certo linguaggio ha finito per legittimare la rabbia e l’odio al punto da rendere la violenza comprensibile se non giustificabile ».
E anche i giornali, in particolare i tabloid di destra che guidano la campagna per Brexit, hanno qualche responsabilità?
«Assolutamente sì. Se l’uomo che ha sparato a Jo Cox avesse gridato “Allah Akbar”, adesso tutti scriverebbero che l’Islam o almeno l’Islam radicale è in qualche modo responsabile dell’omicidio. In questo caso l’assassino ha gridato “Britain first”, ma incredibilmente i proprietari dei tabloid, tutti schierati per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, rigettano qualsiasi responsabilità nell’avere creato un clima di questo tipo».
Populismo e xenofobia sono due fenomeni non soltanto britannici.
«È vero, è un fenomeno mondiale. Ha molte cause: la globalizzazione, la fragilità dell’economia, l’ansia e l’incertezza di tanta gente, le grandi migrazioni di masse disperate.
In tempi difficili, la prima tentazione è dare la colpa agli stranieri, ai diversi, a qualcun altro. Lo abbiamo visto negli Anni ’30, quando ciò portò all’ascesa di nazismo e fascismo.
È un pericolo nell’aria anche ora. Il paradosso è che in questa campagna referendaria i fautori del Brexit danno tutte le colpe all’Unione Europea, quando il vero responsabile del disagio che tanti sentono è la globalizzazione. E se la Gran Bretagna voterà per uscire dalla Ue, la globalizzazione continuerà e continueranno i disagi che crea, solo che saremo meno preparati ad affrontarli perché dovremo affrontarli da soli anziché come parte di un grande blocco di nazioni. Anche per questo io sono risolutamente a favore di restare nella Ue e voterò in tal senso nel referendum ».
È possibile che la tragica morte di Jo Cox influisca sul risultato del referendum, capovolgendo gli umori nazionali che secondo i sondaggi fino ad ora favorivano Brexit?
«È possibile e sarebbe il miglior memoriale che si potrebbe fare a una donna caduta mentre faceva il proprio lavoro per la democrazia. Può darsi che la sua morte faccia pensare due volte agli elettori su che tipo di società vogliamo essere e che immagine vogliamo dare del nostro paese al resto del mondo, pensarci due volte prima di diffondere odio verso l’immigrazione. Sarebbe l’unica cosa buona che verrebbe fuori da questa terribile storia ».

Repubblica 18.6.16
La contraddizione dell’Inghilterra
Molti inglesi hanno sempre considerato la Ue un accordo commerciale. E visto che non funziona non trovano conveniente restarci
di Bernardo Valli


LICENZA e moralismo si alternano con disinvoltura in Inghilterra. Così vi convivono la spregiudicatezza e i freni puritani, la violenza e un cerimonioso rapporto sociale, un’eccentricità teatrale e una tradizione puntigliosa o non troppo bistrattata. A Londra popolata di stranieri si elegge un sindaco musulmano di origine pachistana mentre nel resto del Paese cresce l’insofferenza per gli immigrati.
Questa Gran Bretagna piena di contraddizioni è ai nostri occhi sempre più Europa. Ma non lo è, e non deve esserlo per molti inglesi. I continentali che l’invadono in cerca di lavoro, o per imparare la lingua dominante nel mondo, sono affascinati da quel “meraviglioso” palcoscenico che è la metropoli sul Tamigi.
PER LE strade è estroversa quasi come potrebbe esserlo una Napoli anglo- sassone. I suoi cittadini invadono nella stessa misura, perché vi è facile la vita e clemente la temperatura, i borghi e le campagne di Francia e di Spagna. È uno scambio che assomiglia a un abbraccio. Ma non condiviso da tutti.
Per quale motivo le isole britanniche dovrebbero staccarsi dall’Unione? Molti suoi abitanti vogliono recuperare la privacy nazionale o insulare. La voglia di star soli, a un certo punto dell’esistenza, coglie anche gli individui. I popoli non ne sono immuni. L’ansia provocata dal flusso di migranti alle porte ha riacceso la xenofobia anche da noi, che pur abbiamo emigrato quanto i cinesi e che abbiamo subito gli sgarbi in tante contrade dove approdavamo con le valigie di cartone. Io avevo valigie di cuio quando arrivai a Londra all’inizio degli anni Sessanta e la signora che doveva affittarmi un appartamento a Pimlico mi disse che non voleva inquilini indiani e italiani. Poi, è vero, diventammo amici.
I sopravvissuti della mia generazione hanno un debole per la Gran Bretagna. Senza la sua resistenza, davanti al dilagare delle truppe naziste, durante la Seconda guerra mondiale, noi saremmo probabilmente oggi governati dai pronipoti o dai cugini di Hitler. Dominato dall’orgoglio francese, ma anche perché non li considerava “europeizzabili”, Charles de Gaulle non voleva tuttavia gli inglesi nella comunità. Li sospettava di essere una quinta colonna degli Stati Uniti.
Il generale mancava di riconoscenza. Ma è vero che la Storia, al contrario della finanza e dell’economia, non esige che si saldino i debiti. De Gaulle aveva contratto il suo debito con la Gran Bretagna quando lasciò con dignità e a precipizio la Francia invasa dai tedeschi. Gli inglesi l’accolsero un po’ con la puzza sotto il naso. È un loro vizio. Ma de Gaulle non sapeva dove andare e Londra era la sola spiaggia possibile. Fu Churchill a riceverlo. La Francia libera, cui avrebbe poi dato vita, la doveva ancora creare. In quel momento era un semplice, semisconosciuto generale di brigata a titolo provvisorio. Il quale non rappresentava nessuno, non certo la Francia, dove il ben più celebre maresciallo Pétain trattava con Hitler. L’opposizione gollista all’ ingresso dell’Inghilterra nella Comunità europea, un quarto di secolo dopo, quando il generale era al potere a Parigi, non è stata del tutto dimenticata. Per chi ha una buona memoria suona ancora come un’offesa e la ricorda in questi giorni che precedono il referendum sul Brexit. Capita che storici, intellettuali decisi a votarlo citino quel lontano rifiuto d’oltremanica.
Lo scrittore Will Self non è di questi. Lui racconta che quando attraversò la Manica per la prima volta per visitare la Francia i genitori gli raccomandarono di non bere l’acqua perché in quel paese non era potabile. Oggi si dice scherzando a Londra che per gustare un buon caffè bisogna fare una corsa a Parigi o a Roma. Quando avevo l’ufficio a Wall Street, in Shoe Lane che non esiste più, presso il Daily Express, non era facile trovare un ristorante dove portare un amico buon gustaio. Oggi Londra, per merito di cinesi, di francesi e italiani, e di inglesi che si sono adeguati, è una città gastronomica. E la cucina vale un ponte sulla Manica. Il tunnel è già un corridoio di scorrimento tra il continente e l’isola che non lo è più tanto.
La maggioranza, sia pure risicata, degli inglesi vuole veramente tagliare gli ormeggi? Molti di loro hanno sempre considerato l’Unione europea un accordo commerciale. E dal momento che non funziona come un tempo non trovano più conveniente restarci. E tanto meno si sentono obbligati. Inoltre non sono pochi coloro che ritengono di appartenere a un mondo anglosassone più largo. Da qui la diffidenza per un’ Europa federale di cui sentono ogni tanto parlare. Il principio di indipendenza (Self governement) resta forte.
C’ è anche qualcosa di più profondo in cui c’ entra la cultura e la storia. Uno storico appunto, Robert Tombs, ricorda il rifiuto di de Gaulle. Lui ha la doppia nazionalità, britannica e francese, si occupa di storia francese ma in lui prevale il cittadino britannico. Al punto che voterà in favore di Brexit. Lo confessa al quotidiano parigino Le Monde.
E spiega perché. Quando gli europei raccontano la Storia d’ Europa parlano dell’Impero romano, del Rinascimento e dell’Illuminismo. Raccontano una storia continentale che trascura la Gran Bretagna. Questo crea un sentimento di esclusione, l’impressione di non fare del tutto parte della famiglia europea. Molti inglesi si accorgono che il loro paese è un’isola, staccata non solo geograficamente dal continente. È la ragione per cui hanno sempre considerato l’Europa un’entità con la quale bisognava mantenere le distanze. Quindi niente Schengen e niente euro. Questa è la voce di chi se ne vuole andare del tutto.

La Stampa 18.6.16
Sanders strizza l’occhio a Hillary
“La priorità è sconfiggere Trump”
Il senatore si prepara a sostenere l’ex rivale. E il tycoon crolla nei sondaggi
di Paolo Mastrolilli


La marcia di riavvicinamento fra Bernie Sanders e Hillary Clinton è cominciata, anche se manca ancora l’appoggio formale del senatore del Vermont per l’ex segretario di Stato, proprio mentre Trump inizia a perdere colpi nei sondaggi. Un rilevamento nazionale di Bloomberg arriva a darlo indietro di 12 punti, mentre continuano ad alzarsi le voci dei dissidenti nel suo Partito repubblicano, come l’ex vice di Colin Powell Richard Armitage, che ha promesso di votare Hillary se Donald sarà il candidato del Gop.
Nei giorni scorsi Sanders aveva incontrato Clinton, e ieri ha tenuto un discorso di 23 minuti in cui non ha dato ancora il suo sostegno ufficiale, ma ha chiarito che non pensa più di contestare la sua nomination: «Il principale compito politico che avremo nei prossimi cinque mesi - ha dichiarato - è assicurare che Donald Trump venga sconfitto, e sconfitto malamente. Io intendo cominciare personalmente il mio ruolo in questo processo in un periodo di tempo molto breve». Nello stesso tempo, però, Bernie ha aggiunto: «Sconfiggere Trump non può essere il nostro unico obiettivo. Noi dobbiamo continuare lo sforzo di base per fare dell’America il Paese che sappiamo può diventare».
La traduzione è abbastanza chiara. Se la priorità di Sanders è sconfiggere Trump, l’unica maniera per centrare questo obiettivo è aiutare Clinton a vincere. Quindi è logico aspettarsi che Bernie a breve annuncerà la fine della sua campagna, comincerà a fare comizi per Hillary, e inviterà i suoi sostenitori delle primarie a votare per lei, o comunque non abboccare alle lusinghe di Donald. La ragione per cui questo passo non è stato ufficializzato è che il negoziato sulle contropartite è ancora in corso. Sanders non si aspetta e non vuole la nomina a vice presidente, perché pensa di poter essere più influente con un ruolo di leadership nel Senato, soprattutto se i democratici ne riprenderanno la maggioranza. Però vuole influenzare il programma del Partito alla Convention di Philadelphia, cambiare alcune regole come quella sul ruolo dei superdelegati nelle primarie, e fare fuori la presidentessa democratica Debbie Wasserman che lo ha osteggiato. Nel frattempo l’ala sinistra che lui rappresenta sta già convergendo su Hillary, come dimostra la visita fatta ieri al suo quartier generale di Brooklyn dalla senatrice Warren, considerata tra i possibili vice, e comunque ormai schierata con Clinton contro Trump, che la chiama «Pocahontas» perché avrebbe mentito sulle sue origini indiane.
Questo processo di unificazione avviene mentre Trump inizia a perdere colpi nei sondaggi. A parte quello di Bloomberg, forse esagerato, anche l’ultimo rilevamento nazionale della Cbs lo vende indietro di 6 punti. La sua reazione alla strage di Orlando evidentemente non è piaciuta, e lo Speaker Ryan, anche se lo appoggia, ha detto che gli farebbe causa se da Presidente bandisse davvero i musulmani dagli Usa. Nel Partito repubblicano sta rialzando la testa chi vorrebbe non candidarlo alla Convention di Cleveland, ma lui risponde che la sua campagna non è nemmeno cominciata e alla fine schiaccerà Hillary.

il manifesto 18.6.16
Sanders: «Occupate la politica e il Partito»
Ancora niente endorsement a Hillary Clinton, sì all’«aiuto per battere Trump»
Sanders
di Marina Catucci


NEW YORK L’aveva annunciato con una mail alla stampa e ai suoi sostenitori, e nella notte tra giovedí e venerdí Bernie Sanders, dal suo canale youtube, ha tenuto un discorso in diretta durato più di mezz’ora.
I molti che aspettavano un endorsement di Sanders ad Hillary Clinton sono stati delusi, l’endorsement non c’è stato, ma qualcosa Sanders a Clinton ha promesso. «Tra le altre cose di cui questa campagna si deve far carico – ha detto il senatore – c’è anche il battere Trump, e su questo io aiuterò Hillary Clinton».
Uniti contro il nemico comune, insomma, per impedire che un razzista, violento, islamofobo, misogino e maniaco possa diventare il prossimo presidente americano, sottolineando che le differenze tra lui ed Hillary ci sono e sono sostanziali, ma dei punti in comune esistono e saranno usati per battere «The Donald» a novembre.
Le dichiarazioni di Sanders arrivano proprio mentre son sempre più insistenti le voci che circolano giá da un po’ di tempo su Elizabeth Warren come vice presidente. La senatrice del Massachussets, nemica dichiarata di Wall Street, più vicina alle politiche di Sanders che a quelle di Clinton, comporrebbe un ticket di due donne, davvero inaudito, e porterebbe l’aria di cambiamento vero che la sola Clinton, nonostante il genere a cui appartiene, da sola non riesce a far spirare. Questa presenza attirerebbe tutta quella base di Sanders indecisa se turarsi il naso o meno, e che con Warren vice presidente non a rebbe dubbi. L’insistenza di queste voci dimostra anche che il peso della political revolution di Sanders non è marginale ne’ tanto meno finito, anzi. Nella seconda parte del suo video messaggio Sanders ha spiegato come vuole procedere da ora in poi, che più o meno si riassume con «abbiamo creato un esercito, ora cominciamo la battaglia».
Dopo aver riassunto i 17 punti del suo programma Sanders si è rivolto direttamente alla sua base di militanti: un anno fa non esistevamo, ora facciamo la differenza. Questi 17 punti non verranno mai implementati dal partito «i democratici hanno bisogno di sangue nuovo, quel sangue siete voi».
Ha poi invitato i sostenitori ad entrare in politica, a farlo partendo dalle amministrazioni locali, occupando posti decisionali per portare avanti le loro istanze .
«Una rivoluzione non dura una tornata elettorale» ha detto Sanders, illustrando un progetto di gran lunga più complesso di quello di tutti i precedenti candidati alle presidenziali americane che, organici al partito, una volta sconfitti, per quanto radical (penso ad Haward Dean) sono bene o male scomparsi. Non Sanders, il suo piano va ben oltre la sua persona.
Sanders ha parlato ai suoi 12 milioni di voti, 2,7 milioni di donatori, centinaia di migliaia di volontari. «Entrate in politica – ha detto il senatore – candidatevi per fare il sindaco, il governatore, il parlamentare. Cambiate il partito democratico. Oppure partecipate nella costruzione di un nuovo Paese, fatelo come insegnanti, ricercatori, medici, ingegneri, tecnici specializzati nell’energia pulita».
Come imparato dai movimenti che l’hanno sostenuto, la rivoluzione non la si porta più avanti dalle piazze, dove le idee vengono soffocate dai lacrimogeni, bisogna occupare il potere, come sostiene anche Micah White, sociologo e parte di Occupy Wall Street, nel libro simbolo della post occupazione newyorchese, La Fine Della Protesta, o la candidatura a sindaco di Baltimora di Deray Mckesson, uno dei leader di Black Lives Matter. Costruire un terzo partito che sarebbe attaccato da entrambi i lati, sia dai democratici che dai repubblicani, sarebbe una guerra a sé; un partito giá esiste, ed è il partito democratico, bisogna invaderlo. Per questo Sanders chiede una riforma delle modalitá di voto delle primarie, in modo da permettere ai non iscritti, agli indipendenti, di votare per il proprio candidato. Sanders in questi mesi ha dimostrato che si può davvero fare una campagna elettorale indipendente, contando solo sul sostegno economico della base ed essere un candidato non ricattabile, se eletto presidente, ora bisogna moltiplicate questi esempi e dare delle chance ai risultati politici che ne deriveranno.
Per questo Sanders non si ritira, per questo vuole arrivare a Philadelphia alla convention di fine Luglio, con un potere contrattuale forte in modo da imporre cambiamenti sostanziali al partito e che lo cambieranno ulteriormente, elezione locale dope elezione locale. L’eventuale presenza di Elizabeth Warren come vice presidente sarebbe un enorme aiuto in questo senso.

Repubblica 18.6.16
La protesta di Msf “Rifiutiamo i fondi Ue sbaglia sui migranti”
Medici senza frontiere: “Alza i muri e non protegge i profughi”
Nel mirino “l’intesa vergognosa con la Turchia che non difende chi scappa dalla guerra”
“Medici senza frontiere” sull’isola di Lesbo assiste i migranti in arrivo dalla Turchia
Bruxelles: “Mai collaborato con l’ong”
di Pietro Del Re


CON una mossa altamente simbolica, Medici senza frontiere rifiuta da oggi tutti i fondi provenienti dall’Unione Europea e dai suoi Stati membri. La decisione è stata presa dall’organizzazione umanitaria per denunciare «le dannose politiche di deterrenza sulla migrazione messe in atto dai Ventotto». L’annuncio arriva tre mesi dopo l’entrata in vigore dell’accordo tra Ue e Turchia, che «i governi europei plaudono come un successo», ma di cui «le persone bisognose di protezione pagano il vero costo umano ». La scelta di Msf è stata adottata ieri a Bruxelles, nella sede centrale dell’ong: avrà effetto immediato e si applicherà a tutti i suoi progetti nel mondo.
Dall’Italia, l’organizzazione umanitaria non riceve nessun fondo istituzionale e tutti i soldi raccolti provengono da donazioni private. Anche al livello internazionale, quasi tutti fondi di Msf (92%) arrivano da donazioni private, e solo una parte minoritaria di risorse sono fondi istituzionali. Dice Loris de Filippi, presidente di Msf
Italia: «Questa decisione serve a chiarire il nostro impegno sul terreno ma anche a sottolineare l’inefficienza delle politiche comunitarie per i rifugiati. Per noi sarebbe fortemente incoerente continuare a prendere fondi da chi con le sue azioni dissennate e con l’innalzamento dei muri danneggia e a volte provoca la morte dei migranti ».
Una diretta conseguenza dell’accordo di 3 mesi fa sono più di 8mila le persone bloccate sulle sole isole greche, che vivono spesso in condizioni disastrose, in campi sovraffollati. Temono tutte un ritorno forzato in Turchia e sono ancora prive di assistenza legale, la loro unica difesa contro un’espulsione collettiva. La maggior parte di queste famiglie, che l’Europa ha stabilito di tenere fuori dalla propria vista, fugge dai conflitti in Siria, Iraq e Afghanistan. «Per mesi Msf ha denunciato la vergognosa risposta europea, concentrata sulla deterrenza invece che sulla necessità di fornire alle persone l’assistenza e la protezione di cui hanno bisogno», dice Jerôme Oberreit, segretario generale internazionale dell’ong.
La sola risposta di Bruxelles allo schiaffo di Msf sono le parole stizzite del portavoce Commissione Ue Margaritis Schinas: «Medici senza frontiere non è un partner attuativo dell’aiuto umanitario in Turchia, né ha fatto richiesta di finanziamenti per le sue attività in Turchia. Di conseguenza la decisione non colpirà alcuna attività umanitaria per i profughi in Turchia». Gli operatori di Msf non sono forse “partner attuativi”, ma nei campi di Lesbo e Kos sono molto più perché rappresentano spesso il solo approdo per un’umanità bisognosa e sofferente.
L’accordo Ue-Turchia, che prevede un miliardo di euro in aiuti umanitari, costituisce secondo Oberreit «un pericoloso precedente per altri Paesi che ospitano rifugiati, perché lascia intendere che prendersi cura di chi è costretto ad abbandonare la propria casa è facoltativo e che ci si può comprare un’alternativa per non fornire asilo». Fatto sta che il tentativo dell’Europa di allontanare dalle proprie frontiere il controllo della migrazione sta avendo un effetto domino, con confini chiusi lungo tutto il tragitto fino in Siria. «Le persone non hanno più alcun posto dove andare e questa situazione peggiora sempre di più», sottolinea il segretario generale. Con il rischio che situazioni simili a quelle che oggi si registrano al confine turco-siriano di Azaz, con 100mila profughi bloccati da mesi, diventino la regola e non un’abnorme, scandalosa eccezione.

Il Sole 18.6.16
Effetto-Cina e tecnologie, così la deflazione resiste
di Carlo De Benedetti


Mai come oggi, lo scenario globale ci sta abituando a registrare record economici e finanziari inauditi. In tutto il mondo le banche centrali stanno da tempo mantenendo la barra in direzione di un progressivo abbassamento dei tassi di interesse, fino a far temere a molti economisti che ciò che in passato era considerato un territorio inesplorato – quello dei tassi negativi – possa diventare una regola.
Di fatto, per la prima volta nella storia, l’ammontare del debito sovrano con un tasso di rendimento negativo ha superato i 10 trilioni di dollari già a maggio. Abbiamo assistito a un trend molto chiaro: la Danimarca ha annunciato questa decisione nel 2012; la Bce ha seguito nel 2014, e poi a cascata sono arrivate la Svizzera e la Svezia; il Giappone nel 2016. E dal momento che le banche centrali rappresentano un benchmark per il mercato secondario, eccoci arrivati a nuovi record: per la prima volta nella storia, il bund decennale ha fatto il suo ingresso nella zona dei tassi negativi; il bond trentennale svizzero è diventato il debito con la maturità più lunga a generare ritorni sotto lo zero. A rendere ancora più chiari i paradossi che questa scenario comporta, recentemente il Ceo di MunichRe ha annunciato la decisione di voler depositare 10 milioni di euro in cassaforte. Al di là delle considerazioni sugli effetti che questa decisione potrebbe avere se fosse adottata su grande scala da parte di un numero elevato di istituzioni finanziarie – anche in termini di ulteriore inceppamento del meccanismo di trasmissione delle risorse all’economia reale - resta la sensazione di essere di fronte a fenomeni senza precedenti. Negli anni abbiamo assistito alle strategie di stoccaggio di qualsiasi bene o commodity: dal petrolio all’oro. Mai di banconote.
Sia chiaro: nel tempo molti osservatori hanno analizzato con dovizia le ricadute negative che le politiche di quantitative easing avrebbero avuto – ad esempio indirizzare i risparmiatori verso classi di asset più rischiose. Probabilmente sarebbe necessario concentrarsi su quale sarebbe la situazione attuale se le banche centrali non avessero intrapreso politiche monetarie espansive. Il punto però è un altro. Le misure di quantitative easing avevano un obiettivo preciso: avrebbero dovuto spingere le banche e i grandi investitori istituzionali a prestare più capitali; avrebbero dovuto spingere i clienti delle banche a spendere più che risparmiare. Avrebbero dovuto stimolare l’economia. Cosa è successo allora? Il meccanismo tra causa ed effetto sembra essersi inceppato, creando un paradosso: istituzioni e risparmiatori devono essere disposti a pagare per prestare il loro denaro ai Governi, senza che questo abbia portato a un livello di inflazione almeno sufficiente a lubrificare il motore della ripresa. Quanto il fenomeno sia esteso lo dimostra il fatto che anche in Giappone, nonostante la politica monetaria fortemente espansiva, l’inflazione ad aprile si è assestata a -0.3% su base annua, in calo rispetto al -0,1% del mese precedente. La verità è che sta diventando sempre più evidente come molte economie avanzate a livello globale, tra cui l’Europa, si trovino a dover gestire l’impatto di un fenomeno che fino a poco tempo fa era considerato un tabù nelle analisi dei governi e delle banche centrali: la deflazione. In particolare, le nostre economie sono al centro delle conseguenze di tre ondate di spinte deflattive che sono partite da tempo ma non hanno ancora esaurito i loro effetti. La prima è iniziata a fine anni 2000, con la consacrazione della Cina come nuovo pilastro dell’economia mondiale. A partire dal 2001, l’ingresso del Paese nella World Trade Organization, combinato con un adeguato sistema di infrastrutture e con una offerta straordinaria di lavoro a basso costo, ha reso la Cina il maggiore esportatore della storia economica. Basti pensare all’andamento del commercio cinese in quegli anni: le esportazioni passarono dai 266 miliardi di dollari nel 2001 ai 1.900 miliardi di dollari nel 2011, riconfigurando di fatto i connotati della mappa degli scambi globali. Il risultato quasi immediato può essere esemplificato dagli indici al consumo delle maggiori aree urbane degli Stati Uniti, che registrò un -0,4% nel 2009, il primo caso di deflazione in America dagli anni 50. I mercati occidentali furono letteralmente invasi da prodotti che i consumatori erano già abituati ad acquistare, il cui prezzo era definito da un costo del lavoro decisamente più basso di quello presente nelle economie occidentali. In quegli anni fu questa poderosa spinta deflazionistica a porre un freno all’inflazione che stava interessando l’Occidente.
La seconda e la terza ondata deflattiva hanno un elemento fondamentale in comune: la tecnologia. La digitalizzazione e l’automazione dei processi produttivi sono stati i protagonisti delle dinamiche nel settore manifatturiero soprattutto negli anni 2000. «Fra il 2000 e il 2008 – secondo gli economisti del McKinsey Global Institute – gli Stati Uniti hanno perso qualcosa come 5,8 milioni di posti di lavoro nel manifatturiero. Solo il 20% di questa perdita era dovuta alla globalizzazione. L’80% può essere spiegato con gli effetti della tecnologia». Sistemi produttivi intelligenti e in grado di gestirsi in modo automatizzato hanno avuto un impatto dirompente sulla quantità di lavoro necessario alla produzione, oltre che sulle competenze richieste, di fatto spingendo fuori mercato una popolazione di lavoratori completamente sovrapponibile – per le sue caratteristiche socio-culturali – alla middle class. Con un’aggravante: che dopo il periodo di disoccupazione, la maggior parte di questi professionisti ha avuto accesso a lavori pagati una frazione dello stipendio precedente. Per sgombrare il campo dai dubbi, è chiaro che l’analisi di queste dinamiche non è assolutamente un giudizio di valore sull’utilità della tecnologia in ambito produttivo. Questi cambiamenti saranno nei prossimi anni il principale propulsore della produttività, una delle grandi sfide con cui i Paesi avanzati dovranno cimentarsi, anche alla luce delle tendenze demografiche. Questo non cambia la constatazione che lo stesso impatto dell’innovazione tecnologica sulla produttività, insieme all’effetto sui salari abbia rappresentato una potente fonte di deflazione all’inizio del secolo.
La stessa considerazione vale per la terza ondata deflattiva, ugualmente promossa dall’innovazione tecnologica che – rispetto alla precedente – si sta dispiegando da tempo più a valle della catena del valore: non nei processi produttivi, ma nei prodotti e servizi. Il fattore abilitante principale è questa volta la rete, che è in grado di localizzare, disintermediare, connettere. Accade così che ad esempio i principali campioni della sharing economy rappresentino delle serie sfide di volta in volta per l’industria automobilistica, per il settore dell’accoglienza turistica, e così via, creando pressioni competitive – e dunque sui prezzi.
È importante comprendere che la portata di ciascuna di queste spinte deflattive non si è affatto esaurita, e che anzi le componenti delle diverse ondate, a diversi livelli di intensità, si sono combinate. Questo pone un tema fondamentale per la prosperità futura delle nostre economie: qualche tempo fa Larry Summers ha proposto l’idea di “secular stagnation”; adesso sono molti gli elementi che suggeriscono l’urgenza di leggere il nostro contesto economico come immerso in una “long term deflation” – se non secolare. Un quadro che è destinato a persistere ancora per molto tempo: la spinta deflazionistica creata dalla tecnologia è iniziata già da molti anni; nonostante questo, ancora oggi, il think tank di Bruegel ci informa che nei prossimi venti anni gli Stati membri dell’Ue rischieranno di perdere tra il 40 % e il 60 % dei posti di lavoro in seguito all’automazione determinata dal processo di digitalizzazione. Se non gestita con un quadro interpretativo corretto, la sequenza di disoccupazione – scarsa domanda – diminuzione dei prezzi rischia di restare ancora per molto tempo l’unico orizzonte possibile. Uno scenario piuttosto negativo soprattutto per i Paesi fortemente indebitati come il nostro, dal momento che mentre i prezzi e i salari calano, il valore del debito rimane costante.
In questo scenario, è diventato ormai chiaro che la politica monetaria abbia dimostrato di non poter essere l’unico elemento su cui poggiare le strategie di lotta alla deflazione. Questo è anche dimostrato dall’atteggiamento dei mercati; penso soprattutto alla perdita di credibilità della Fed, riflessa nel fatto che mentre la banca centrale sta flirtando con l’idea di aumentare i tassi, il mercato sta rispondendo con una riduzione dei ritorni sui Treasury.
Se dunque ci troviamo davanti a un territorio sostanzialmente inesplorato, in termini di contromisure, diventa ancora più evidente il pericolo rappresentato dall’emergere in molte democrazie occidentali di una cultura politica non adeguata, e incapace di adottare una visione e una strategia intergenerazionale. Quello a cui stiamo assistendo è un tentativo di coagulare la rabbia e lo scontento della (ex) middle class, creando leader la cui identità e narrativa è costruita semplicemente per contrapposizione all’esistente. La conseguenza è che le spinte riformatrici vengono valutate solo per il loro potere di contrapposizione, e non per la reale capacità di consegnare un’economia più sana alle prossime generazioni. Le spinte populiste che stanno infettando le nostre democrazie sono evidenti anche nella campagna per le presidenziali americane, e proprio quanto sta succedendo negli Stati Uniti, con l’ascesa di Donald Trump, ci offre una lente secondo me stimolante, dal momento che lega in modo indissolubile questa mancanza di spessore politico a un altro elemento, più profondo. Trump, così come Hillary Clinton, è l’espressione di una classe dirigente che non è riuscita a contaminarsi, e questo è principalmente dovuto al progressivo ampliamento della forbice sociale. In altre parole, gli Stati Uniti – ma l’analisi è applicabile a tutte le economie occidentali – si trovano davanti a un divide molto più temibile di quello digitale: si tratta dell’education divide. Con la scomparsa della classe media, ci troviamo in uno scenario in cui l’inclusione è di fatto permessa alle sole élite economiche e pone le basi per un ulteriore intorpidimento della capacità della politica di incidere davvero. Il vero punto è che questo divario ha componenti strutturali, che – ancora una volta – richiedono l’adozione di un approccio di lungo periodo. Di qui però bisogna partire, anche per far fronte alle spinte deflattive che continueranno a interessare l’economia globale. Creare le condizioni per la formazione di una classe politica illuminata ed eterogenea rappresenta le fondamenta su cui costruire le misure che consentiranno alle prossime generazioni di abitare un mondo in crescita e con minori disuguaglianze sociali.

La Stampa 18.6.16
La guardia nazista di Auschwitz «responsabile come gli aguzzini»
Condannato a 5 anni un ex Ss oggi 94enne
di Federico Thoman


Aula di tribunale di Detmold, cittadina tedesca della Renania Settentrionale-Vestfalia. L’imputato in attesa di giudizio è un uomo di 94 anni, seduto su una sedia a rotelle, sempre in silenzio, che non alza quasi mai lo sguardo e non lascia trasparire nessuna emozione.
Reinhold Hanning, ex produttore di latte, in quest’aula è l’immagine della fragilità. Ma il capo d’imputazione che lo ha fatto condurre davanti alla giudice Anke Grudda riguarda una delle pagine più nere della storia della Germania e dell’umanità: l'Olocausto, genocidio di oltre sei milioni di persone, in maggioranza ebrei. Hanning era accusato di aver preso parte allo sterminio di almeno 170 mila persone durante il suo periodo di permanenza come guardia Ss nel campo di Auschwitz, in Polonia, tra il gennaio del 1943 e il giugno del 1944.
E la sentenza è stata di condanna. Reinhold Hanning è stato riconosciuto colpevole e la pena è di 5 anni di reclusione, nonostante nei 4 mesi e nelle 12 udienze non è stato dimostrato un suo coinvolgimento diretto in casi specifici. Per la giudice Grudda è bastato questo: che Hanning sorvegliasse i prigionieri del campo nel loro percorso di morte dai vagoni dei treni fino alle camere a gas. «Il campo era progettato come una fabbrica per uccidere persone. Non si poteva non essere complici», ha sottolineato la giudice.
Questo processo potrebbe essere l’ultimo o uno degli ultimi che chiamano in causa persone coinvolte nello sterminio perpetrato dai nazisti. Ma è importante anche perché, ancora una volta, solleva un dibattito lungo oltre 70 anni sul rapporto tra colpa individuale e responsabilità collettiva durante l’Olocausto. Questa sentenza è stata perciò definita, dalla stessa giudice che l’ha letta, «una pietra miliare».
Hanning ha sempre negato di essere stato direttamente coinvolto in omicidi. Tesi che il suo legale, Andreas Scharmer, ha cercato di cavalcare durante il dibattimento chiedendo la sua assoluzione. L’avvocato ha annunciato ricorso in appello. Hanning è rimasto in silenzio.
Durante un’udienza del processo, lo scorso aprile, Hanning aveva però detto: «Mi vergogno di aver visto tali ingiustizie e di non aver fatto nulla per fermarle e chiedo scusa per le mie azioni».
La superstite di Auschwitz Hedy Bohm, 88 anni, abita a Toronto, in Canada, ed è venuta in questo angolo di Germania per testimoniare. Al verdetto non ha voluto mancare: «È un sogno essere in un tribunale tedesco, con dei giudici tedeschi che riconoscono l’Olocausto».

il manifesto 18.6.16
Negazionismo
L’alibi di un decreto legge per non fare nulla
La battaglia contro la rimozione della Shoah non può fermare la ricerca storica
di Gabriele Proglio


Da pochi giorni il negazionismo è reato. La condanna, prevista nella modifica della legge Mancino, può arrivare fino a sei anni di reclusione. Le camere hanno ignorato l’accademia: non è stata data alcuna importanza alle opinioni di numerosi docenti, quasi tutti concordi sull’inutilità e sulla pericolosità del ddl. Anzi, la discussione parlamentare è stata l’occasione per mostrare i muscoli intorno a un termine. «Pubblicamente» è stato infatti sostituito con la frase «se la propaganda, ovvero l’istigazione e l’incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah ovvero dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra».
Carlo Ginzburg aveva già avvertito delle pericolosità del ddl: per principio, ossia perché è inammissibile imporre per legge un limite alla ricerca, a prescindere dal contenuto; e per opportunità, ovvero perché i negazionisti sono in cerca di un «martirio» a buon mercato, trasformando i tribunali in casse di risonanza per le loro tesi infami. Anche Marcello Flores, sulla rivista del Mulino, ha ribadito quanto sia sbagliata e controproducente una soluzione penale a un problema culturale ed educativo.
Aggiungo alcune altre questioni,: chi deciderà come impiegare questa norma? Quale sarà il significato attribuito al termine «genocidio»? Il lemma nasce dall’incontro di ghénos, che in greco sta per stirpe, e caedo, dal latino «uccidere». Come sarà impiegato fuori dalle radici europee e oltre i confini del Vecchio Continente? E soprattutto, come verrà utilizzata la legge? Le possibilità sono due: l’oblio o i processi. In entrambe gli effetti saranno devastanti. Nel primo caso la legge sarà l’alibi per il disinteresse della classe dirigente per non aver realizzato politiche culturali. I silenzi saranno riempiti da nuove forme di razzismo. La politica dirà: «noi abbiamo fatto la legge»; risponderà il popolo: «noi non siamo razzisti, ma». Nel secondo caso, i processi porteranno i negazionisti in tribunale, imponendo sulla storia la verità di Stato.
A pochi giorni dall’approvazione del ddl, il «Giornale» ha rieditato il Mein Kampf, regalandolo ai suoi lettori. Angelo d’Orsi ha parlato di «banalizzazione del male», proprio su queste colonne, mentre Manuela Consonni ha rilevato l’attacco alla memoria della Shoah. Aggiungo che Sallusti, nel suo editoriale, usa l’immaginario della Shoah, e non parla invece di fatti storici, per affrancare la destra dall’essere – come scrive – «il male che ritorna». Implicito è il riferimento alle posizioni sull’immigrazione. Come dire: non siamo gli eredi del male europeo per antonomasia, perché lo condanniamo; ma proprio per questo, siamo «legittimati» ad assumere posizioni sempre più intolleranti, rimanendo nel solco della democrazia. In mezzo a una retorica pomposa, però, Sallusti afferma una mezza verità. Scrive: «non si gioca su una simile tragedia». Infatti quella del «Giornale» è, prima di tutto, un’operazione commerciale, e, come tale, è un affare serissimo: l’occasione sensazionalista è costruita scientemente per fare cassa.
L’approvazione del ddl è solo la punta dell’iceberg. Il paese, infatti, da anni ha seri problemi con le politiche della memoria. Non parliamo della Resistenza, serbatoio mitologico per numerose forze politiche, ma anche alibi, per molti, per affrancarsi dalle responsabilità del passato fascista; non parliamo della contrapposizione tra giorno della memoria e del ricordo; né nelle velleità di fare, a Predappio, un museo del Fascismo efficacemente disattivate dagli interventi di numerosi storici (Lupo, Levis Sullam, Schwarz e Foa). Trattare questi argomenti esigerebbe spazio e tempo. Diciamo, invece, di come si torni alla Shoah, non come fatto storico ma come mito, per leggere il presente: chi paragonando l’ebreo al migrante che solca il Mediterraneo, creando cortocircuiti di memoria su eventi profondamenti diversi; chi, come Sallusti, per assumere posizioni sempre più razziste e xenofobe. Le politiche della memoria dovrebbero evitare la commemorazione, l’istituzionalizzazione dell’evento storico; dovrebbero divulgare e rendere accessibile a tutti, non solo agli studenti, quel passato. Un giorno, poi, bisognerà anche decostruire le eventuali rimozioni, i silenzi e le amnesie. Ma c’è anche un’altra Italia: di storici, di ieri e di oggi, che indagano le tante sfaccettature del passato; dei treni della memoria; di docenti che coinvolgono gli studenti in progetti educativi.
L’angelo di Walter Benjamin è, oggi, uno zombi. Rovista tra le macerie, alle periferie di un mondo in cui l’apocalisse si manifesta quotidianamente, da Montecitorio a Lampedusa. Cerca tracce del passato, frammenti di vita: come un rabdomante scandaglia il suolo. Il bottino della giornata lo venderà al mercato della cultura. Il vento che un tempo spirando creava la storia è appaltato al miglior offerente. È la metafora di un paese in cui le politiche della memoria sono in balìa di feudi, di impulsi schizofrenici, di speculazioni ideologiche e di mercato.

Corriere 18.6.16
Mussolini in Cina (ma non negli Usa)
di Antonio Carioti


Secondo il politologo americano A. James Gregor, «il sistema politico che governa la Cina di oggi è fascista in tutto tranne che nel nome». E non è l’unica affermazione sorprendente nell’intervista da lui concessa ad Antonio Messina, raccolta nel volume Riflessioni sul
fascismo italiano con un’introduzione di Alessandro Campi (Apice libri, pp. 157, e 13). Convinto che quella di Mussolini fosse una «dittatura di sviluppo», tesa alla modernizzazione forzata di un Paese arretrato, Gregor l’assimila anche alle esperienze del socialismo arabo e africano, mentre la distingue nettamente dal Terzo Reich. Eppure non si può negare che movimenti analoghi al fascismo siano sorti, tra le due guerre mondiali, in molti Paesi d’Europa (Spagna, Romania, Ungheria, Belgio, perfino Irlanda e Gran Bretagna) fino a comporre un variegato mosaico da cui è difficile escludere Hitler. Tanto più che appare invece assai poco plausibile attribuire caratteristiche «fasciste», come fa Gregor, alla rivoluzione americana. I padri fondatori degli Stati Uniti erano mossi dalla preoccupazione primaria di limitare e bilanciare il potere politico. L’esatto opposto delle scelte compiute da tutti i fascismi.

Corriere 18.6.16
Due idee della Francia. Il maresciallo e il generale
risponde Sergio Romano


Recentemente ho visto il bel film di Aleksandr Sokurov «Francofonia». Oltre all’operato del direttore del Louvre, Jacques Jaujard, e dell’ufficiale tedesco Franziskus Wolff-Metternich, viene richiamata con insistenza la politica collaborazionista di Pétain e Laval. Trovo che se l’ottantenne maresciallo di Francia non avesse abbracciato un dialogo con la Germania (a partire dal severo armistizio del 22 giugno 1940), Parigi avrebbe perso gran parte delle sue ricchezze storico-artistiche sotto duri bombardamenti e non la conosceremmo per quella che è oggi. Dall’altra parte, se la Francia avesse coraggiosamente affrontato i tedeschi, gli inglesi non si sarebbero ritirati da Dunkerque e la guerra sarebbe potuta durare molto meno tempo.
Giovanni Godoli

Caro Godoli,
La tesi di un collaborazionismo «patriottico» che avrebbe risparmiato alla Francia il trattamento subito da altri Paesi sconfitti, fu usata dall’avvocato difensore di Pétain nel processo che si concluse con la condanna a morte del maresciallo (poi commutata nella prigione a vita). Ricordo un «mock trial» (un processo per finta) che andò in scena nel 1952 a Salisburgo, in una scuola di studi superiori fondata dall’Università di Harvard. Di fronte a una platea composta da studenti europei e professori americani, un «avvocato» sostenne che dietro l’apparente duello fra il vecchio maresciallo e il generale De Gaulle si nascondeva una scaltra distribuzione delle parti. Mentre Pétain compiaceva i tedeschi con una collaborazione che rasentava l’alleanza, De Gaulle puntava sulla vittoria degli Alleati. Uno dei due avrebbe perduto la partita, ma la Francia, in ultima analisi, avrebbe sempre vinto.
La tesi era brillante e conteneva qualche briciola di verità. Ma dimenticava che i due partiti erano espressione di una profonda divisione fra due Paesi diversi. I francesi che risposero all’appello di De Gaulle erano in buona parte democratici, repubblicani, laici, eredi della grande tradizione della Rivoluzione francese. Mentre molti di quelli che si schierarono con Pétain erano profondamente convinti che la disfatta fosse soprattutto morale e dovuta al modo in cui la democrazia laica e parlamentare, insieme a una spregiudicata borghesia degli affari, aveva corroso ciò che ancora restava dei grandi valori della tradizione nazionale: la monarchia, la gerarchia sociale, il rapporto privilegiato con la Chiesa cattolica. Non è sorprendente che una delle prime preoccupazioni del regime di Vichy fosse quella di sostituire il credo repubblicano (Libertà, Eguaglianza, Fraternità) con una nuova terna: Lavoro, Famiglia, Patria.
Questa guerra civile fredda fra due idee della Francia era già scoppiata durante il caso Dreyfus (il capitano francese falsamente accusato di spionaggio per la Germania alla fine del secolo precedente) e scoppiò nuovamente durante la Seconda guerra mondiale. La presenza di un forte partito comunista, allora strettamente legato alla Unione Sovietica, complicò ulteriormente il quadro. Il partito dava un contributo fondamentale alla Resistenza; ma permetteva a Vichy di giustificare, agli occhi di molti francesi la collaborazione con un Paese, la Germania, che sembrava a molti la più solida barriera contro la «minaccia bolscevica».
Pétain perse e fu condannato da un tribunale francese. Ma De Gaulle non vinse. Anche il generale era convinto che la democrazia parlamentare francese fosse malata, ma i suoi connazionali rifiutarono il rimedio «presidenzialista» che cercò di offrire alla nazione dopo la fine della guerra. Lo accetteranno nel 1958 mentre la Francia stava perdendo un’altra guerra: quella d’Algeria.

Corriere 18.6.16
Penna batte tastiera. Gli appunti intelligenti
di Matteo Persivale


Ludwig Wittgenstein proibiva ai suoi studenti del Trinity College di Cambridge di prendere appunti durante le lezioni perché, diceva, chi prende appunti si concentra su quel che sta scrivendo, non su quel che sta ascoltando (le lezioni del filosofo austriaco peraltro erano talmente complesse e dense che Wittgenstein, alla fine, andava al cinema da solo, in prima fila, per immergersi completamente nelle immagini che scorrevano sullo schermo: basta sfogliare il suo Tractatus Logicus-Philosophicus per sentirsi solidali con i suoi studenti senza quaderno per gli appunti).
Ora però tutto quel che credevamo di sapere sul modo di prendere appunti finisce capovolto. Due anni fa erano stati gli psicologi americani P.A. Mueller (Princeton) e D.M. Oppenheimer (Ucla) che nello studio «The pen is mightier than the keyboard: Advantages of longhand over laptop note taking» ( Psychological Science ), «La penna è più forte della tastiera: vantaggi degli appunti scritti a mano libera sugli appunti presi al computer», avevano rilevato come ci siano prove che gli appunti presi a mano durante una lezione accademica siano superiori — ci facciano imparare di più — rispetto a appunti presi trascrivendo parola per parola al computer quel che si sta ascoltando. Mueller e Oppenheimer ipotizzavano che prendere appunti scrivendo a mano comporti un’analisi più approfondita di quel che si sta ascoltando, con un miglior apprendimento e una miglior assimilazione dei dati. Ora due scienziati norvegesi, Audrey van der Meer e F.R. van der Weel del laboratorio di Neuroscienze dello Sviluppo del dipartimento di Psicologia dell’università Ntnu di Trondheim hanno confermato le conclusioni dello studio americano con dei dati elettro-fisiologici.
Spiegano: «Abbiamo trovato prove elettro-fisiologiche dirette che supportano quello studio. Abbiamo trovato che nel momento in cui si usa la penna elettronica di un tablet, invece della tastiera di un computer, per prendere appunti, le aree cerebrali coinvolte, parietali/occipitali, mostravano attività desincronizzata (Erd), e la letteratura esistente suggerisce che queste siano le premesse ottimali per l’apprendimento. Durante l’uso della tastiera del computer invece abbiamo rilevato attività sincronizzata (Ers) nelle regioni centrali e frontali. Questa attività viene spesso associata a processi cognitivi complessi e alla creazione di idee».
Parlare con Van der Meer e van der Weel significa trovarsi archiviare tanti retaggi del passato: «Gli studenti, per esempio, di facoltà come Medicina e Ingegneria che per decenni hanno fatto maratone di studio sottraendo tempo al sonno, e addirittura c’era chi negli anni ‘50 e ‘60, quando erano ancora legali, faceva uso di anfetamine sotto esame? Controproducente perché impariamo dormendo, il cervello è proprio durante il sonno che assimila».
Pensano anche che la tastiera da computer come noi la conosciamo sia in difficoltà. Più della penna: «L’ipotesi che la tastiera sia in procinto di diventare obsoleta è realistica: non useremo più le mani, ma gli occhi, ci sono diverse tecnologie allo studio che potrebbero portarci in questa direzione. È chiaro che ha avuto vita così lunga perché è versatile, semplice da imparare, rapida. Però, come abbiamo visto nel nostro studio, non è un buon strumento per prendere appunti, il nostro cervello “preferisce”, per così dire, la scrittura a penna con una singola mano. Che è, neurologicamente, un gesto più simile al disegnare di quanto lo sia scrivere a macchina».
Il nostro cervello, spiegano i due scienziati norvegesi, «ama specializzarsi: noi studiamo il modo in cui il cervello comunica con se stesso: comunica tramite oscillazioni, in modo sincronizzato e de-sincronizzato: l’attività de-sincronizzata ha numerosi effetti benefici sul nostro apprendimento». L’aspetto un po’ paradossale di questo studio — che la scienza indichi come la parola scritta, su carta, abbia ancora un senso in quest’era digitale — non sfugge agli autori: è chiaro che il futuro della scrittura a mano, non sappiamo quanto prossimo, sia quello della penna digitale e del display. Ma carta e penna hanno avuto una vita così lunga per un motivo chiaro: si sposano molto bene con l’attività dinamica del nostro cervello».

il manifesto 18.6.16
Lingue inattese di terra e mare
Timothy Brook, sinologo tra i più autorevoli, nel volume «La mappa della Cina del signor Selden» (Einaudi), racconta la storia di un documento del 1654 rinvenuto solo nel 2009 nella biblioteca Bodleiana di Oxford che apre nuovi scenari politici
di Simone Pieranni


Nel 2009 la biblioteca Bodleiana dell’università di Oxford scoprì di avere nelle proprie stanze una mappa della Cina. Dagli archivi risultava che quella carta era stata donata dall’avvocato Selden nel 1654. Per quattro secoli era rimasta lì, inosservata. Per capirne di più, per comprenderne o meno il valore, il conservatore della biblioteca chiamò un esperto: Timothy Brook. Si tratta di uno dei più noti e stimati sinologi. È autore di un libro di successo (Il cappello di Vermeer, Einaudi), nel quale aveva già dato prova di scrittura, dimostrando di saper raccontare con grande spirito narrativo interi periodi storici. Brook, tra le altre cose, è stato un allievo e poi collaboratore di Joseph Needham, che tanto per capirci può essere definito uno dei più grandi sinologi di tutti i tempi e autore del fondamentale e mastodontico lavoro in quindici volumi Storia e scienza della Cina (pubblicato in Italia da Einaudi).
Fabbricazioni scrupolose
Brook esaminò la carta geografica, studiò il suo iter all’interno della biblioteca (una delle più prestigiose del paese e rinomata per il materiale «orientale» a disposizione) e capì subito di essere di fronte alla «più importante mappa cinese degli ultimi sette secoli», perché raffigurata in modo minuzioso c’era «la porzione di mondo che i cinesi conoscevano all’epoca, dall’oceano indiano a ovest delle isole Molucche a est, e da Giava a sud al Giappone a nord». Brook confrontò la fabbricazione, ingegnosa e scrupolosa, con altre a disposizione della biblioteca. La «mappa di Selden», come venne chiamata dal nome del suo donatore, descriveva i confini della Cina e il «suo» mare.
Capirete che la notizia del ritrovamento, nel 2009, fece un certo rumore. Il fatto che la mappa descrivesse per la prima volta le rotte commerciali nel mar cinese meridionale, deve aver risvegliato molti animi. Quando si va a scoperchiare il passato, chi gestisce il presente spesso finge indifferenza temendone un contraccolpo. Ma per i cinesi parlare di mar cinese meridionale, nel momento in cui proprio oggi in quella zona si gioca una nuova guerra fredda, diventa invece un’opportunità. E se una mappa dimostrasse che le rivendicazioni odierne della Cina, considerate sbagliate da tutti i paesi che si affacciano su quel mare e dagli Stati uniti, sono esatte? Se quella mappa dimostrasse che quelle isole che costituivano un incubo per i marinai del 1600, perché apparivano e scomparivano, sono «cinesi» fin dal 1600 almeno, sempre che la mappa non sia addirittura precedente? Timothy Brook decide di giocare con questa domanda ne La mappa della Cina del signor Selden (Einaudi, pp. 272, 26 euro) anche se l’oggetto ritrovato diventa subito un’enorme strada percorsa da centinaia di vite.
L’occhio esperto e raffinato di Brook sa individuare tutte le storie più sfiziose che ruotano attorno a quella carta geografica, andando avanti e indietro nel tempo, ripescando il clima politico e culturale dell’epoca. La precisione di alcuni particolari costituisce un ampio faro di luce sul sistema politico e culturale orientale e occidentale. Le derive che Brook coglie sono continue, spiazzanti e avvolgenti. Lo stile del libro è quello di un «saggio narrato»: una non fiction che sembra di continuo in procinto di ibridarsi. Ma Brook è uno studioso e tiene la bussola sempre a portata di mano, esattamente come i timonieri di cui racconta nel libro. La controlla per non perdere mai la rotta. E le derive continuano. Per dirne alcune: l’uomo che donò alla biblioteca la mappa si chiamava John Selden. Membro della camera dei comuni, repubblicano, è divenuto famoso perché a lui si deve, in pratica, la creazione del diritto internazionale. Molto interessato – per ovvi motivi – alle carte geografiche. Un uomo eristico, in apparenza, uscito dal guscio di studioso sconosciuto grazie a un libro sul sistema di tassazione dell’epoca. A questo riguardo va detto che il papa non prese bene quell’esordio letterario (Selden da giovane scrisse anche poesie e bazzicava l’ambiente dei Ben Jonson e degli Shakespeare).
Mete proibite
La notizia dell’interessamento del papa al lavoro di Selden, giunse all’orecchio del re inglese. Giacomo I, che si diceva non fosse particolarmente sveglio, capì invece al volo una cosa: se qualcuno metteva in dubbio il diritto divino, come faceva Selden, da lì a poco si sarebbe potuto mettere in dubbio anche l’esistenza di uno dei messaggeri di Dio. Selden – dal racconto di Brook – ha una personalità ambigua. Fu incarcerato in due occasioni per le sue attività parlamentari contrarie alla corona, finché non teorizzò – per la prima volta – che una parte del mare di fronte al paese è da considerarsi appartenente al re, esattamente tanto quanto i cieli. Come se tutto fosse terra. Questo accadeva verso i primi anni Venti nel 1600; da qualche parte là fuori, cominciava la guerra dei trent’anni e la Cina era vista come la meta proibita da tutti i commercianti. Spagna, Portogallo e Olanda si giocavano i mari, tra bottini e saccheggi, pirateria e guerra vera: bombe dalle navi. Mentre i cannoni dalla costa rispondevano. E sarà proprio il lancio di quel cannone – la sua massima gittata – a stabilire il limite massimo della sovranità sui mari di uno stato.
Altra deriva: Brook osservò che la mappa era stata arricchita di caratteri cinesi e di traduzioni da parte del primo cinese approdato in Inghilterra. A «Michael», nome occidentale di Shen, sono unite le vite dei primi studiosi del cinese in terra britannica. E insieme a loro e insieme alle merci, si muoveva l’interesse per la Cina e per l’Oriente in generale. Un uomo di cultura non era ritenuto davvero tale, all’epoca, se non sapeva almeno una lingua tra persiano, ebraico o cinese. Le persone viaggiavano e si spostavano, erano assolutamente desiderose di scoprire e confrontarsi con «l’altro».
Ma proprio in quel momento, ed ecco forse perché la mappa è stata per così tanto tempo dentro un involucro, nasceva l’orientalismo. Non era un caso: intorno a quel mondo infatti cominciavano a espletarsi le logiche imperialiste che abbiamo conosciuto.
Raccogliendo dettagli sulla mappa Brook capì che alcuni mondi si aprivano e si chiudevano in continuazione. Come la storia di «capitan Cina» – ad esempio – e di una coppia di fratelli che riesce a imbastire un commercio con inglesi e olandesi contemporaneamente, fregando entrambi i partner. All’epoca i rapporti tra Inghilterra e Olanda erano pessimi: gli olandesi pescavano le aringhe nei mari inglesi e il re non aveva uno strumento giuridico per intimare di non farlo. E non poteva dichiarare guerra o compiere gesti che oggi definiremmo unilaterali, per via di una serie di matrimoni che lo incastravano all’impotenza.
Ma se hai un noto avvocato e studioso in carcere e baratti con lui la libertà in cambio di un trattato che dia ragione al re, risolvi alcuni contrattempi. Selden scrisse allora Mare chiuso, opera che si contrapponeva al Mare Libero di Grozio (guarda il caso olandese) e uscì dal carcere. I due non si conobbero, ma pare si leggessero. All’epoca i libri – tomi da cinquecento pagine, come il primo libro di Selden sulle decime – giravano, passavano spesso dalle mani dei re e del papa.
Erano loro due a stabilire i best sellers dell’epoca. Selden quindi accettò un bieco compromesso, sul quale Timothy Brook dimostra un’indulgenza british. L’epoca, dicevamo, metteva a confronto i mercanti inglesi e olandesi, in continuazione. Ogni porto viveva giornate di delirio. A volte si intimava uno stop, altre volte, molto più spesso, si menava duro, fino a uccidere. Il mercato che faceva più gola era la Cina, ma c’erano dei problemi. L’imperatore cinese considerava tutti quanti vivevano fuori dai suoi confini dei barbari. Si comportava più meno in questo modo: mandava i propri incaricati dai re stranieri, per salutarli o annunciare qualsiasi cosa avesse voglia di annunciare. E chiedeva in cambio dei tributi.
Faccendieri e mercanti
Funzionava così: la Cina era una potenza temuta e ammirata. I commercianti volevano quel mercato, ma l’Impero cinese era chiuso, finendo per favorire appetiti, contrabbando, mercato nero e soluzioni drastiche (che arrivarono qualche secolo dopo). Dalla Cina ufficialmente non si portava via niente, né stoffe, né tessuti, né spezie. Niente: capirete meglio a questo punto la guerra dell’oppio. Inglesi e olandesi erano costretti a trovare faccendieri cinesi che millantavano – molto spesso – di avere le capacità e le conoscenze necessarie a creare questo commercio illegale.
E i fratelli Li riuscirono a convincere parecchi inviati dei due paesi europei ad anticipare molti – in alcuni casi moltissimi – soldi per attivare lo scambio economico. I fratelli Li si rivelarono dei truffatori. I cinesi che fregano gli occidentali, guarda un po’.
Infine, si diceva del mare e del suo possesso: la mappa di Selden non chiarisce assolutamente nulla, ma si immerge nella Cina del passato, riscontrando uno spassoso parallelo tra Oriente e Occidente. Mentre in Occidente si combatteva per il commercio, aprendo nuove rotte sviluppando la logica imperialista e cercando di piegare il diritto a quelle esigenze, la Cina si racchiudeva in sé stessa cercando di limare la propria dottrina amministrativa e di stato, curando le modalità con cui accedere alle sfere della politica. Un doppio binario che ben presto si sarebbe incrociato con risultati nefasti per la Cina. Da lì a poco sarebbe diventata il malato d’Asia. Un secolo e oltre di sofferenze che non a caso, oggi, viene spesso ricordato a giustificare il ritorno di Pechino al suo posto naturale, al centro del mondo.

Corriere 18.6.16
Un’Europa giovane e bella c’è, eccome
E un saggio su «poligamia e bigamia»
di Cesare Rimini


In molti casi la clessidra va rovesciata. Secondo la tradizione i nonni raccontano le storie di vita ai nipoti, spesso però sono i racconti dei nipoti che spiegano ai nonni il mondo della scuola e le vie per entrare nel lavoro. Sono i fatti concreti, gli esempi che contano e anche i casi personali. E tutti ne abbiamo da cui trarre pensieri.
Ho nove nipoti. Alcuni hanno studiato e studiano in Italia, una fa medicina a Losanna, due frequentano i corsi di economia in Inghilterra, uno per il design andrà forse in Olanda, uno fa il liceo in un college in Galles. Tutti durante le vacanze fanno dei piccoli lavori, dei brandelli di esperienza che servono per il corso di studi… e vengono pure pagati. Quello che si è divertito di più ha fatto il cameriere, in una bellissima casa di campagna trasformata in locanda vicino a Londra. La più grande, appena laureata in economia a Londra, è stata assunta in una «banca sovranazionale di aiuto allo sviluppo» che ha lo scopo di sorreggere i Paesi in gravi difficoltà economiche. Mi ha telefonato ieri dal Montenegro e l’altro ieri dal Kosovo.
Tutti certamente possiamo imparare dalle esperienze dei giovani. Ma tre storie particolari hanno grande connessione con l’attualità e meritano di essere raccontate.
Il diciassettenne che studia nel college in Galles è stato incaricato, insieme a cinque altri studenti, di intervistare i candidati presidi, al fine di individuare il candidato preferito dagli studenti. Il mio nipote dice scherzando che loro studenti erano sereni e tranquilli e che i candidati presidi erano abbastanza agitati nel sostenere il difficile esame.
Nello stesso college le ragazze e i ragazzi gay sono facilitati per esternare il proprio essere. È stato dato nel college un ballo, proprio per favorire queste esternazioni spontanee, che certamente sono preziose per la serenità nel contesto sociale.
La nipote che studia in Inghilterra frequenta per un anno, come spesso avviene, l’Università di Parigi e deve fare un saggio su «poligamia e bigamia». Pensavo di aiutarla visto che nel diritto di famiglia la poligamia sembra persa nella notte dei tempi. Si trovano degli accenni nelle Sacre Scritture e in altri testi antichi. Era una pratica fondamentale, riservata alle famiglie di prestigio, in quanto permetteva di estendere il nome della casata. Tutti ricordano la storia di Abramo e Sara che, essendo sterile, offre una consenziente Agar ad Abramo, al fine di renderlo finalmente padre.
Da quella unione nasce Ismaele il capostipite della stirpe araba detta ismaelita. Salomone poi aveva uno stuolo di mogli e concubine, unioni per stringere le alleanze, come, molto più tardi nei secoli, è avvenuto per i matrimoni nelle famiglie reali. Ma la ricerca per la nipote che studia a Parigi il concubinato non guarda solo il passato, guarda anche al futuro.
Danilo Taino, corrispondente del «Corriere» da Berlino, ha segnalato che in Germania il ministro della Giustizia ha lanciato una campagna contro la poligamia e contro i matrimoni forzati nelle comunità di origine islamica. La campagna avrebbe lo scopo di educare alle leggi dell’Europa i migranti che arrivano. Il ministro tedesco della Giustizia ha detto: «Nessuno che arriva da noi ha il diritto di mettere le sue radici culturali o le sue convinzioni religiose al di sopra della nostra legge. Per questa ragione, in Germania i matrimoni multipli non possono essere riconosciuti».
Il settimanale «Spiegel» ha citato statistiche da cui risulterebbe che a Berlino un maschio adulto di origine araba su tre avrebbe due mogli.
Le statistiche possono non essere condivise ma i fatti parlano da soli.

La Stampa 18.6.16
L’orchestra Mozart rinasce e divide i molti eredi di Claudio Abbado
Voluta dal maestro, riparte con il sostegno di grandi nomi e qualche defezione: a gennaio la prima tournée
di Egle Santolini


Di venerdì 17, e con Milano scossa fino al giorno prima da un’adunata di uragani: non buttava benissimo per il concerto all’aperto dei Solisti della Mozart, all’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini per la festa dei quarant’anni di Radio Popolare. Eppure la sera è stata dolce, la musica perfetta. Mendelssohn ha portato fortuna.
«Un autore che subito ti restituisce energia se ti senti triste e vuoto», riconosce il violinista Francesco Senese, tra gli interpreti del Quintetto numero 2 opera 87 con i colleghi Verena Maria Fitz, Simone Briatore, Gisella Curtolo e Andrea Favalessa. «Fresco, potente come la forza che ci dava Claudio Abbado che l’orchestra ha voluto. Mendelssohn parla a più livelli emotivi».
È stato un preludio alla prima minitournée della Mozart, in programma il 6 e 8 gennaio tra Bologna e Lugano, che vedrà sul podio il «grande vecchio» Bernard Haitink, a cui Abbado affidò idealmente l’orchestra quando la malattia non gli consentì più di dirigere, e come solista Isabelle Faust. In programma l’Ouverture Egmont e il Concerto per violino e pianoforte opera 61 di Beethoven, oltre a quella Sinfonia Renana di Schumann che, ricorda Senese, «doveva costituire il punto focale dell’ultima serie di concerti che Claudio non riuscì a compiere». E intanto hanno dato la propria disponibilità a nuovi impegni i pianisti Martha Argerich, Maurizio Pollini, Maria João Pires. Per far sapere che un’orchestra sta rinascendo sotto l’egida della Regia Accademia Filarmonica di Bologna, ma che occorre l’aiuto di tutti in un’Italia che alla cultura dà ancora tanto poco, il mezzo migliore è far musica: tanta, più che si può.
La Mozart, fondata da Claudio Abbado nel 2004 e portatrice del suo pensiero musicale più puro e fertile, come intreccio di generazioni, esperienze, formazioni molteplici, chiuse dieci giorni prima della morte del Maestro. Dopo il silenzio, la speranza è quella di tornare a ri-suonare permanentemente: grazie a un crowdfunding a cui tutti possono partecipare, donando da 5 euro in su (www.orchestramozart) e che prevede pure pacchetti particolari e benefit a seconda dell’entità del versamento: dal semplice downloading di interviste ai membri dell’orchestra alla possibilità di assistere alle prove, dagli incontri personali con i musicisti all’assegnazione di posti particolarmente buoni ai concerti.
Nella lista dei sostenitori della Mozart rinata, a cui recentemente si è aggiunta la storica associazione degli Abbadiani Itineranti, non compare però la Fondazione Abbado. Il suo presidente, Paolo Lazzati, dichiara a La Stampa che «la fondazione non c’entra con la Regia Accademia Filarmonica di Bologna ma si occupa di altri progetti». Nel frattempo, la figlia del Maestro, Alessandra è molto assorbita dal progetto del Coro Papageno, formato da detenuti del Carcere Dozza di Bologna, che sarà ricevuto in Senato lunedì.
La Mozart, dunque, è viva ma in bilico. Loris Azzaroni, presidente dell’Accademia Filarmonica di Bologna, sottolinea «l’importanza assoluta che il pubblico continui a dimostrarci il suo sostegno». Saranno le nuove donazioni a crearci una base solida».
«È una sfida – continua Senese – che ci ha fatto capire anche tutti quegli aspetti di gestione che prima non avevamo considerato. Non siamo un’orchestra qualsiasi: nessuna lo è, ma noi portiamo sulle spalle una responsabilità molto particolare, perché per dieci anni abbiamo vissuto un’esperienza totalizzante con uno dei musicisti più straordinari del nostro tempo. Il modo migliore per onorarlo è quello di continuare a seguire la sua lezione: amore e rispetto per la musica, e soprattutto uno sguardo nuovo ogni giorno, una ricerca continua».

Repubblica 18.6.16
“Il talento per i numeri è scritto nei cromosomi” così i geni predicono chi saremo da grandi
I ricercatori del King’s College hanno messo a confronto le materie scelte e i risultati ottenuti da 13mila gemelli
Il patrimonio trasmesso dai genitori influenza anche l’attitudine per la fisica e le lingue straniere
Ciascun tratto gioca però un ruolo minimo rispetto a quelli dell’educazione e del contesto sociale
di Elena Dusi


ROMA. I ragazzi portati per la matematica esistono. Al di là di impegno, curiosità e passione, alcuni hanno effettivamente una “mano invisibile” che li guida al risultato giusto. Questa mano è nascosta nel Dna. Gioca un ruolo particolarmente forte per matematica, fisica e lingue straniere. Più blando è invece il suo effetto su storia e altre materie umanistiche.
A studiare il ruolo (controverso) dei geni nel successo scolastico si dedicano da una manciata di anni alcune équipe di scienziati nel mondo. La più determinata è forse quella del King’s College di Londra, che ha appena pubblicato uno studio su Scientific Reports su quanto conta il Dna nella decisione di continuare gli studi dopo la scuola dell’obbligo, nella scelta delle materie e nei voti finali. Come spesso avviene per questo tipo di studi, gli scienziati inglesi hanno osservato due gruppi di gemelli (6.600 coppie): alcuni monozigoti (i gemelli identici che condividono l’intero patrimonio genetico alla nascita) e alcuni dizigoti (gemelli nati dalla fecondazione di due ovuli da parte di due spermatozoi, quindi diversi nel loro Dna). Essendo famiglia, scuola e ambiente identici per entrambi i gemelli, le differenze o le concordanze nelle scelte scolastiche — presuppongono i ricercatori — devono essere riconducibili al Dna.
I gemelli sono stati osservati a 16 anni, quando i ragazzi in Gran Bretagna finiscono la scuola dell’obbligo e decidono se abbandonare o proseguire gli studi. In quest’ultimo caso, devono scegliere tre o quattro materie da seguire per due anni (gli A-levels), per poi sostenere un esame a 18 anni che gli aprirà le porte dell’università.
Nella decisione di proseguire gli studi, hanno osservato i genetisti, il ruolo del Dna e dell’ambiente è quasi uguale (44% il primo e 47% il secondo). Ma fra i ragazzi che decidono di continuare, e che quindi devono scegliere le materie da studiare, la “mano invisibile” del Dna comincia ad emergere in maniera più nitida. Qui l’ereditarietà è del 50% nelle materie umanistiche e del 60% per quelle scientifiche, con un picco del 70% per la matematica. Famiglia, scuola e ambiente contano invece per il 18% nelle materie umanistiche e per il 23% in quelle scientifiche. Il loro ruolo, rispetto a quello del Dna, è ancora più modesto quando si vanno a vedere i voti degli esami degli A-levels a 18 anni.
Ma cosa vogliono dire esattamente queste statistiche? Gli stessi ricercatori ammettono possibili distorsioni e la necessità di maggiori approfondimenti. Ma per quanto possa essere complicato legare un tratto genetico a un comportamento sociale, e per quanto possa essere opinabile lo sforzo di rinchiudere l’effetto dei geni in una percentuale precisa, qualche immagine ancorché sfocata comincia a emergere da questo tipo di studi.
Lo stesso gruppo del King’s College, nel 2013, aveva preso in considerazione i voti degli esami a 16 anni, calcolando che buoni insegnanti e famiglia contribuiscono per il 29% al successo scolastico, contro il 59% dei geni. Ancora una volta nelle materie scientifiche la “mano invisibile” era risultata più efficace. A maggio di quest’anno un’équipe dell’University of Southern California era riuscita a entrare ancor più nel dettaglio. Mettendo a confronto l’intero genoma di 300mila individui e il loro successo scolastico, aveva identificato 74 geni che comparivano particolarmente spesso negli studenti brillanti. I frammenti di Dna legati a intelligenza, determinazione, capacità di astrazione e logica potrebbero in realtà essere migliaia. E preso singolarmente, ciascuno di essi — aveva scoperto lo studio americano — gioca un ruolo assai piccolo nel procurarci un voto alto a scuola: l’equivalente di 5 settimane di studio nel corso di una vita. Troppo poco, forse, per cullarsi sugli allori e chiudere i libri.