sabato 25 settembre 2010

Repubblica 25.9.10
"Basta piangersi addosso i nostri film piacciono di nuovo"
Videoforum a Repubblica Tv sullo stato della cinematografia nazionale dopo le polemiche veneziane
Il produttore: "Da noi si girano ogni anno almeno 3 o 4 film come quello della Coppola"
"Il pubblico? Attenzione a non inseguirlo troppo, si è formato il gusto sulla televisione"

ROMA. «In Italia di Somewhere se ne fanno tre, quattro ogni anno». Riccardo Tozzi, presidente dei produttori italiani, non è tenero nei confronti del verdetto della Mostra di Venezia. Da qui si parte per il Forum sullo stato del cinema italiano, ospitato da Repubblica Tv. E come spunto servono anche le riflessioni di Gabriele Salvatores, giurato a Venezia, che non tutti hanno gradito. Il nostro cinema deve seppellire padri ingombranti come il neorealismo e la commedia all´italiana?
Marco Bellocchio. «Voglio ricordare a Salvatores che il neorealismo è stato seppellito da Antonioni nel 1959 con L´avventura, quindi il discorso è privo di senso. Né ha senso quello sulla commedia all´italiana, un genere che ha creato tanti capolavori, e che comunque oggi è molto diversa da quella del passato. Voglio anche dire che ho visto i quattro film italiani in concorso a Venezia e sono tutti molto più belli di quello che ha vinto. Somewhere è un film mediocre, una pallida imitazione di Lost in translation».
Natalia Aspesi. «Non sono d´accordo sul film della Coppola, è la storia di una bambina che si difende dalla separazione dei genitori, raccontata dal punto di vista femminile, forse per questo non piace agli uomini. È un film intimista, bello. Al nostro cinema manca sempre qualcosa per diventare grande e internazionale».
Paolo Virzì. «Anche se questa cose dei padri ingombranti la dice spesso come frase ad effetto, credo che Salvatores non volesse criticare la commedia all´italiana, diventata patrimonio del cinema mondiale. Però in qualche maniera ci ha fatto discutere. I padri e i nonni del nostro cinema avevano una mitologia, sfidavano il teatro. Noi sfidiamo i media parcellizzati, Internet, non siamo al centro di una tavola imbandita».
Carlo Mazzacurati. «Pensando a quello che eravamo e non siamo più, in questi anni chi racconta il paese di una volta trova riscontro con il pubblico, chi parla dell´oggi fa più fatica. Per fortuna Il divo e Gomorra hanno rotto questa cappa».
Giorgio Diritti. «In Italia ogni anno ci sono sei o sette film interessanti. Forse non riusciamo ad avere il respiro magico di un tempo, ma potremmo arrivarci».
Il ministro Bondi vorrebbe "mettere bocca" sulle giurie di Venezia perché siano più attente al cinema italiano...
Saverio Costanzo. «La Mostra è un festival internazionale con una giuria internazionale. Perché dovrebbe vincere un film italiano? Mettere le mani sulla giuria significa uccidere il festival. Per me, per altro, Somewhere è un film splendido. Non capisco il campanilismo. Se mai, quattro film in concorso erano troppi, l´Italia è un paese con tanti festival, sarebbe meglio spargere i quattro, cinque film buoni su tutti i festival».
È vero che nel confronto con film di altri paesi ci manca qualcosa?
Mazzacurati. «L´Italia è stata molto simpatica all´estero, ora non lo è più. È un paese antipatico. Forse è anche questo un problema per il cinema italiano, non c´entra la qualità. Noi poi facciamo un´enorme fatica ad andare all´estero, non siamo rappresentati. Quando si tratta di olio o di vino l´Italia si mobilita, mentre secondo me nessuno è andato alle riunioni europee sul cinema».
Virzì. «Siamo davvero antipatici? Io ho riscontrato il contrario all´estero. Una sceneggiatrice di Sex and the city mi ha perfino detto "Beati voi che potete fare un cinema libero. Noi dobbiamo puntare sul sicuro, possiamo sperimentare solo in tv"».
Tozzi. «Non siamo simpatici neanche a noi stessi... In realtà in Francia e in Germania ad esempio si parla molto bene di noi, ci invidiano i nostri attori, non solo Toni Servillo ed Elio Germano, ma tutta una nuova generazione. Sembra schizofrenia: all´estero sentiamo certe cose, rientriamo e abbiamo Brunetta e la stampa negativa».
Allora perché è difficile uscire dall´Italia?
Tozzi. «Abbiamo buoni film e abbiamo brutte strutture. La promozione dei nostri film all´estero non c´è mai stata, neanche quando c´era una struttura addetta che però non aveva i mezzi necessari. E non ci sarà, sarà un lavoro che dovremo fare da soli, noi produttori, gli autori».
E il mercato interno?
Tozzi. «Il cinema italiano alla fine degli anni 90 era quasi morto. Oggi siamo al 30% del mercato, come in Francia, dove c´è una politica di protezione, mentre noi abbiamo Brunetta e Bondi. Le presenze aumentano e ricordo che se il 3D ha un prezzo maggiorato, il biglietto per i film italiani è fermo al tempo dell´arrivo dell´euro. Ci siamo lasciati alle spalle gli anni 90, abbiamo ricucito il rapporto tra autori e produttori, ritrovato il legame tra autori e la narrativa italiana, ricostruito lo star system, si è tornati ai generi. Il cinema italiano ha ristabilito il rapporto con il suo pubblico, nel recupero del consumo in sala si alza la quota del nostro cinema».
Che peso hanno Medusa e RaiCinema nella produzione?
Bellocchio. «Il duopolio in questo momento strozza il mercato. L´Italia sarà anche antipatica, ma io voglio raccontarla, voglio raccontare i giornalisti, una categoria interessante, e i politici. Rai e Mediaset me lo permettono? O bisogna ricorrere alle metafore? Negli anni del potere democristiano tutta la politica accettava il cinema che aveva come riferimento la sinistra».
Tozzi. «Oggi tutte le politiche sono estemporanee, di destra o di sinistra, anche se quelle di destra di più. Il problema è che le tv hanno abbassato i prezzi e non sono più interessate al cinema. Da una parte la Rai produce - e spesso non manda in onda i film prodotti come Gomorra - dall´altra è più orientata verso la fiction e i reality. La tendenza è di tutte le tv del mondo».
Aspesi. «Credo che le televisioni non abbiano più interesse a trasmettere film, perché molte serie, soprattutto americane, sono molto più interessanti e avanzate del cinema».
Tozzi. «Il futuro del cinema sarà la sala e Internet, ma ci dobbiamo arrivare vivi e per farlo le tv devono trasmettere i film. Il cinema italiano perde 600 milioni all´anno per la pirateria, il mercato nero equivale a quello regolare. Da una parte sono triste, dall´altra mi rallegro perché c´è un mercato potenziale, il cinema italiano piace. Dobbiamo trasformare i pirati in clienti. Siamo tutti colpevoli per il ritardo con cui ci muoviamo, c´era l´idea di Internet come l´agorà, libera, se fai pagare sei capitalista. Se facciamo un´offerta ragionata, con facilità di scaricare, la gente ci seguirà come ha fatto con la musica, che ha visto fallire la sua industria per il ritardo nel capire la situazione. Stiamo lavorando al progetto, speriamo di farcela entro l´anno. Un cinema che vive di sale, di dvd e di Internet sarà un cinema libero».
Che conseguenze avrà l´abbassamento dei finanziamenti statali?
Diritti. «Il mio film Il vento fa il suo giro non sarebbe venuto alla luce senza il fondo di garanzia. Sono molto critico sulla scelta di limitarlo alle opere prime e seconde, sono le solite decisioni con l´accetta, senza buon senso. Andrà a discapito di progetti dal budget intermedio. La politica ha la sua responsabilità, il cinema non è un valore per l´Italia, si sostengono i frigoriferi e le auto, il cinema no. Ma non è più emozionante vedere un film in sala piuttosto che stare a guardare un frigorifero e una lavatrice?».
Quanto è difficile fare il film d´esordio?
Costanzo. «Per me è stato tragico: ipotecammo una casa per fare Private. Ho l´immagine di produttori che mi guardavano spaesati, con gli occhi come di vetro. Non era una proposta facile, ma non costava. Alla fine facemmo da soli, in totale libertà, con un costo di 150 mila euro. Niente».
Scrivendo un film pensate anche a che pubblico destinarlo?
Bellocchio. «Spero sempre che ci vada tanta gente, poi cerco di fare il film giusto per me. Il pubblico deve scomparire altrimenti diventi pazzo, devi andare per conto tuo, naturalmente con responsabilità».
Mazzacurati. «Il vero problema ce lo poniamo più noi autori. Forse il rischio di questo cinema è che a volte si autocensura per cercare di piacere. Come quando nei cartoni animati corri nel vuoto poi guardi giù e cadi. Credo che più c´è libertà, più si arriva alle persone. Il rischio è per gli esordienti quando sono troppo attenti al pubblico che si è creato il gusto con la televisione».
Virzì. «Io penso a tante persone, ho in mente una platea, c´è mia figlia, la professoressa delle medie, mia mamma... Dopo un po´ lo dimentico. Ma mi piace anche fare un film per qualcuno. Quando mia figlia mi ha parlato bene di un film di Muccino, ho fatto Caterina va in città per riconquistarla».
Se poteste fare un film sull´attualità più calda?
Bellocchio. «Apri il giornale e ci sono cinque soggetti. Io ce l´ho un film sull´oggi, si chiama Italia mia».
Costanzo. «Dovremmo davvero fare una cosa sull´Italia di oggi senza ricorrere a metafore, forse abbiamo paura di essere giudicati. Ci sto pensando, sono passato da un musical su Berlusconi a cose molto più intime ma nello stesso tempo politiche. Bisogna trovare l´immagine giusta».
Mazzacurati. «In ogni film che facciamo cerchiamo di assorbire il senso dell´umore del tempo. L´Italia degli ultimi 15 anni meriterebbe un romanzo ottocentesco, che ancora non è stato fatto. Ma forse c´è bisogno di sedimentare».
Diritti. «Il gioco potrebbe essere raccontare l´Italia che avremmo potuto avere in questi anni e che non abbiamo avuto: gente di buona volontà che lavora e che lotta. La gente che nessuno vede».
(a cura di maria pia fusco)
Dopo Venezia, il punto sul cinema italiano. Ne hanno discusso al Videoforum negli studi di Repubblica Tv, condotto da Giulia Santerini e Maria Pia Fusco, i registi Marco Bellocchio, Saverio Costanzo (in concorso alla Mostra con "La solitudine dei numeri primi"), Giorgio Diritti, Paolo Virzì, il produttore Riccardo Tozzi; in collegamento da Milano Carlo Mazzacurati (che a Venezia ha portato "La Passione") e Natalia Aspesi.

l’Unità 25.9.10
Guardiamo al futuro
Crediamo nella scuola
di Pier Luigi Bersani


Cari ragazzi e ragazze, insegnanti e lavoratori della scuola, genitori ed educatori,
noi sappiamo che, nonostante i tagli drammatici del Governo, che sottraggono 8 miliardi di euro e compiono il più grande licenziamento di massa della nostra Repubblica, la scuola aprirà comunque le sue porte. Ce la farà per la straordinaria passione che gli insegnanti mettono nel loro lavoro di formazione dei cittadini di domani; ce la farà perché i dirigenti scolastici, grazie anche all’aiuto dei nostri amministratori, riusciranno a salvare il salvabile del tempo scuola richiesto dalle famiglie; ce la farà perché i pochi collaboratori scolastici rimasti faranno funzionare le scuole. Grazie a loro i bambini potranno riprendere i progetti educativi interrotti.
Ma la cosiddetta ‘riforma epocale’ della scuola pubblica, approvata da Tremonti-Gelmini, assicurerà davvero la ‘qualità’ della scuola italiana? Aiuterà il nostro Paese a dimezzare il tasso di dispersione scolastica e a triplicare il numero di laureati come l’Europa ci chiede di fare entro il 2020? No, ne siamo certi. Aggraverà, al contrario, i cronici mali del nostro sistema scolastico. Aumenterà i divari nei livelli di apprendimento tra nord e sud del Paese, la dispersione e l’abbandono scolastico, gli insuccessi e le frustrazioni.
In un paese moderno il merito si sposa con i diritti e con le pari opportunità, e il sistema scolastico è centrale perché funziona da ‘ascensore sociale’, strumento di uguaglianza e libertà. Ogni studente è un cittadino che attraverso il sistema dell’istruzione pubblica può emanciparsi dalla condizione sociale di partenza, con le proprie capacità e responsabilità, se adeguatamente sostenuto. Di più, alla Repubblica spetta il compito, come recita l’Art. 3 della nostra Costituzione di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana’.
Le proposte del PD, arricchite dal confronto con le associazioni di studenti, insegnanti, genitori e sindacati, non rifiutano l’innovazione anzi la chiedono. Non ci rassegniamo all’idea che l’Italia sia ‘maglia nera’ in Europa per l’abbandono scolastico, all’idea di un nuovo analfabetismo. Vogliamo una riforma della scuola che finalmente faccia ritrovare al sistema pubblico la fiducia di tutti gli italiani. Ma questo non si ottiene con la riduzione dell’offerta formativa, della ricerca didattica, la riduzione dell’obbligo scolastico; non si ottiene lasciando per la strada professori che insegnano da anni sotto il titolo di precario mentre decine di migliaia di posti in organico continuano a restare scoperti.
La destra nega alla scuola questa funzione e quella che si sta disegnando è la scuola delle divisioni: fra ricchi e poveri, italiani e stranieri, nord e sud, dirigenti e manovalanza. E’ una scuola senza autonomia che rispecchia il modello di società che Berlusconi ha in testa: un Paese fermo che rinuncia a competere nel mondo e sottrae il uturo alle giovani generazioni. Raccontano favole sul riconoscimento del merito degli insegnanti, mentre bloccano gli stipendi; inventano percentuali sull’aumento del tempo pieno, mentre le famiglie restano senza; parlano di mondo del lavoro e chiudono i laboratori; accorpano classi e stipano i ragazzi in aule sempre piú affollate, contro ogni norma di sicurezza. I precari della scuola vanno sui tetti e fanno lo sciopero della fame e il Ministro neppure li riceve, mentre alle scuole dell’obbligo i genitori fanno collette per la carta igienica e l’ora di inglese. Ci hanno raccontato che i tagli alla scuola sono necessari. Non è vero. I recenti dati OCSE dimostrano che siamo molto al di sotto della media europea e i tagli ci spingeranno ancora piú in basso. Non è un problema di soldi, ma di scelte politiche. Il nostro ultimo governo Prodi pagava annualmente i debiti alle scuole, aveva innalzato l’obbligo scolastico e aveva avviato un piano realistico di assunzione dei precari. Eppure, diversamente dal governo attuale, aveva migliorato i conti pubblici. Anche oggi le risorse possono essere recuperate dell’evasione fiscale e da altri risparmi che abbiamo indicato. Anche oggi migliaia di cantieri per rinnovare una fatiscente edilizia scolastica potrebbero rilanciare non solo la scuola, ma anche l’economia locale. Anche oggi, se il Governo rinunciasse all’ossessione del controllo sull’universo televisivo e mettesse immediatamente a gara le frequenze liberate dal digitale terrestre, incasseremmo un po’ di miliardi che nell’emergenza potrebbero essere investiti nella scuola, nella conoscenza, nel sapere.
Le proposte del PD, arricchite dal confronto con le associazioni di studenti, insegnanti, genitori e sindacati, non rifiutano l’innovazione anzi la chiedono. Non ci rassegniamo all’idea che l’Italia sia ‘maglia nera’ in Europa per l’abbandono scolastico, all’idea di un nuovo analfabetismo. Vogliamo una riforma della scuola che finalmente faccia ritrovare al sistema pubblico la fiducia di tutti gli italiani. Ma questo non si ottiene con la riduzione dell’offerta formativa, della ricerca didattica, la riduzione dell’obbligo scolastico; non si ottiene lasciando per la strada professori che insegnano da anni sotto il titolo di precario mentre decine di migliaia di posti in organico continuano a restare scoperti.
Non è retorica ripetere che sulla scuola si gioca il futuro del Paese. Il futuro economico e quello civile si tengono e crescono insieme solo se si investe nell’istruzione e nei saperi. Noi guardiamo al futuro. Per questo crediamo nella scuola pubblica.

l’Unità 25.9.10
Consultori e RU486
La crociata Polverini sul corpo delle donne
Dopo il blocco della somministrazione della pillola abortiva l’ultima novità: un progetto di legge che vuole equiparare le strutture pubbliche a quelle private o gestite dalle Diocesi
di Luciana Cimino


Ancora sulla pelle delle donne. È una guerriglia ideologica quella scatenata nel Lazio dalla destra di governo, combattuta a suon di boicottaggi e proposte di legge che di fatto precipitano la regione indietro di decenni rispetto a diritti che si credevano acquisiti. Renata Polverini va all’attacco della 194 e lo fa bloccando la somministrazione della pillola abortiva RU486 e con una legge regionale che privatizza i consultori e li rende non più strutture al servizio della salute della donna ma simili a comitati di difesa della vita. «Allo stato dei fatti nessun ospedale della regione è in grado di usare la RU486 – dice Lisa Canitano, ginecologa e membro della commissione che ha redatto le linee guida per l’applicazione della pillola – le donne laziali per trovarla vanno a Bologna o in Toscana. Polverini ha fatto di tutto per boicottare l’iter del prodotto e ci è riuscita». Ma la furia confessionale della destra si abbatte anche su servizi essenziali sul territorio come i consultori e lo fa con la proposta di legge 21 del 26 maggio 2010, in discussione nelle commissioni Sanità e Servizi Sociali. La legge è stata presentata dalla consigliera del Pdl Olimpia Tarzia, convinta “pro-life”. Scorrendo il suo curriculum si legge che il consigliere è vicepresidente nazionale della Confederazione Italiana Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana, tra i fondatori del Movimento per la vita e Presidente del Comitato per la Famiglia. E la sua proposta di riforma dei consultori prevede l’equiparazione delle strutture private che fanno capo a diocesi o ad associazioni a quelle pubbliche e quindi il finanziamento con fondi regionali. Nel testo si legge che i consultori non saranno più enti «deputati a fornire servizi sanitari, bensì a sostenere la famiglia e i valori etici di cui è portatrice». Inoltre si parla di «tutela del figlio concepito» che «va già considerato membro della famiglia». Che significa? Che in ogni consultorio sarà attivo un “comitato bioetico per la vita” che dovrà convincere con vari mezzi la donna a non abortire (anche con un contributo economico fino al 5 ̊ anno di vita del bambino, per il quale al momento però non c’è nessuna copertura finanziaria), con «un vero e proprio calvario psicologico in cui operatori dovrebbero inquisire sulle motivazioni di ogni singola donna; persino con la sanzione finale costituita dal dover firmare un documento in cui si dichiara di non aver voluto accedere alle per ora fantomatiche alternative», spiega Giulia Rodano, dell’Idv, che con Luigi Nieri di Sel (che parla di «legge medievale con la quale si arricchiscono i privati sulla pelle delle donne») sta conducendo in consiglio un’agguerrita battaglia contro la legge. «La proposta Tarzia è incostituzionale – dichiara Roberta Agostini, responsabile Salute e Conferenza delle donne della Segreteria Nazionale del Pd – perché entra in ambiti che non sono regionali e poi viola la 405 del 75 (istituzione dei consultori, ndr) e soprattutto la 194». I consultori a Roma sono 51, dovrebbero essere 150, uno ogni 20 mila abitanti, come prescrive la legge, «così potremmo fare un lavoro a tappeto sulle fasce di popolazione a rischio – dice Pina Adorno, presidente della Consulta dei consultori di Roma – per questo noi chiediamo che siano stanziate somme adeguate affinché i consultori siano finalmente messi in condizione di operare al meglio». E l’Assemblea permanente delle donne, che raccoglie oltre 50 sigle tra associazioni, sindacati, partiti e che si riunisce nella storica sede della Casa Internazionale delle Donne, chiede a gran voce il ritiro immediato della legge attraverso mobilitazioni e proteste di piazza ma anche con un appello (da firmare su www.petizionionline.it)e su Facebook. Per questo sono stati accusati dalla Tarzia di «fanatismo laico».

l’Unità 25.9.10
Indietro di un secolo Nello Stato l’ultima sentenza di morte per una donna eseguita nel 1912
Ahmadinejad attacca: «Caso simile a Sakineh, perché se accade negli Usa è accettabile?»
In Virginia torna il boia Giustiziata la donna disabile
Crea discussione e imbarazzo negli Usa la condanna a morte eseguita ieri notte in Virginia di Teresa Lewis. Al limite del ritardo mentale, giustiziata come «cervello» dell’omicidio del marito. L’Iran: come Sakineh.
di Rachele Gonnelli


Non sono state pietre, solo un’igienica siringa. La tendina blu è scesa sulla lettiga della morte, il boia ha iniettato barbiturici, pentotal e curaro. Ci sono voluti tredici minuti per farla passare dallo stordimento alla morte. Una giornalista, tra i die-
ci a presenziare all’esecuzione, ha raccontato di una debole scossa ai piedi, l’unico segnale da cui si è capito che la sentenza era stata eseguita. Erano le 3 e 13 di ieri notte, corrispondenti alle 21 e 13 ora locale in Virginia, quando Teresa Lewis ha cessato di vivere. Fuori dal carcere di Greensville dove la donna ha passato gli ultimi sette anni nel braccio della morte, una piccola folla stanca di attivisti americani contro la pena di morte, hanno interrotto le loro preghiere, ripiegato i loro cartelli. Su uno c’era scritto: «Perchè uccidere persone che hanno ucciso per insegnare che uccidere è sbagliato?». Teresa Lewis in realtà non ha material-
mente ucciso il marito e il figlio adottivo di lui. A sparare nel camper mentre dormivano, quella notte del 30 settembre del 2002, fu il suo amante 22enne Matthew Shallenberger e l’amico Rodney Fuller. Ma, come nel caso dell’iraniana Sakineh Ashtiani condannata alla lapidazione in Iran, i due complici uomini hanno avuto una condanna inferiore: in questo caso l’ergastolo, in Iran l’amante omicida è stato liberato. Per il giudice della Virginia era lei la mente dell’omicidio, la donna traditrice e diabolica, parole sue: «La testa del serpente».
A niente è valso che il suo quoziente intellettivo misurasse appena 72, quando sotto i 70 punti anche negli Usa è costituzionalmente vietato comminare una sentenza capitale perchè oltre la soglia della demenza.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha rigettato la richiesta di sospensione della pena di morte in considerazione del suo ritardo cognitivo, non ha voluto considerare neanche le lettere con cui i due complici rei confessi si addossavano la colpa, l’amante Matthew ammettendo di averla addirittura circuita perchè manipolabile, volendo mettere le mani sui 350 mila dollari dell’assicurazione sulla vita del marito, si è poi suicidato in carcere dopo la condanna. Nessuna pietà neanche dal governatore della Virginia, il repubblicano Bob McDonnell.

l’Unità 25.9.10
«Basta infibulazione» Italia in prima fila all’Onu per il bando globale
Niente più infibulazioni o escissioni di clitoride. L’Italia insieme all’Egitto si fa sponsor all’Onu per una risoluzione di messa al bando globale delle mutilazioni sessuali femminili, rituali inflitte a 3 milioni di donne l’anno.
di Rachele Gonnelli


Non toccate le bambine. Il titolo non è questo ma il senso sì, della risoluzione per una messa al bando universale delle pratiche di mutilazione sessuale femminile presentata ufficialmente all’Assemblea dell’Onu su impulso dell’Italia e dell’Egitto. Il testo in realtà è il risultato di un lavoro diplomatico che coinvolge molti altri Paesi, inclusi alcuni dove recentemente sono state approvate leggi che puniscono queste mutilazioni rituali ed è frutto di una battaglia decennale che ha coinvolto associazioni, istituzioni e anche religiosi islamici. A partire dalla Conferenza del Cairo del 2003 che ha visto il protagonismo, su questo problema, della First Lady egiziana, moglie del presidente Hosni Mubarak, Suzanne. Conquistata alla causa e molto attiva è anche la First Lady del Burkina Faso, Chantal Compaoré. Oggi dei 29 Paesi dove esistono mutilazioni tradizionali delle bambine, in 19 di questi sono state introdotte norme di proibizione ma «c’è ancora molto lavoro da fare», dice Emma Bonino, da sempre impegnata in questa battaglia. Si stima che ogni anno nel mondo tre milioni di bambine vengano sottoposte a escissione o infibulazione. È chiaro che il potere di reprimere santoni e mammane che si prestano a questi riti di iniziazione è compito degli Stati, così come promuovere una cultura del rispetto del corpo delle donne e delle bambine. La risoluzione Onu è soprattutto un emblema. Ma riconoscere l’inviolabilità della sessualità femminile come parte dell’integrità fisica da tutelare, come diritto umano, significherebbe dare forza al fronte abolizionista.
L’IMPEGNO DI ROMA
L’Italia porta in dote l’esperienza diplomatica sulla moratoria universale della pena di morte e la legge del 2004 che proibisce le mutilazioni sessuali femminili anche nel nostro territorio. Secondo l’Istat, infatti anche in Italia sono circa 35mila le
donne e le bambine emigrate vittime annualmente di quella che può essere considerata una pratica pre islamica, non indicata nel Corano ma che trova origine nella notte dei tempi ed è difficile ancora oggi da estirpare specialmente in alcune aree dell’Africa, nel Sud Est asiatico e in Medioriente.
LE NAZIONI UNITE
Arrivare ad una risoluzione che sia approvata e condivisa dalla stragrande maggioranza dei rappresentanti dei 192 membri delle Nazioni unite non è un percorso semplice o breve. L'obiettivo resta quello di ottenere un risultato entro il 2015. Per il momento si tratta ancora dei primi passi. La prima fase del dibattito generale all'Assemblea si concluderà oggi pomeriggio, quando è previsto, tra gli altri, l'intervento su questi temi del ministro degli Esteri Franco Frattini. Il Senato italiano ha approvato una decina di giorni fa una mozione trasversale ai partiti e agli schieramenti politici che supporta l’impegno del governo italiano per promuovere e sostenere a livello nazionale e internazionale tutte le iniziative perché la 65esima Assemblea generale delle Nazioni Unite adotti una risoluzione contro le mutilazioni genitali femminili.

l’Unità 25.9.10
Rapporto shock: «Stupri di massa Caschi blu assenti»

Né le forze congolesi, né i caschi blu dell’Onu presenti nella regione sono stati in grado di portare soccorso alle popolazioni dei villaggi dell’est della Repubblica democratica del Congo vittime di terrificanti stupri di massa tra il 30 luglio ed il 2 agosto: lo ha affermato un rapporto preliminare della missione di inchiesta dell’Onu incaricata di fare luce sugli attacchi condotti da tre gruppi armati nella regione di Walikale (Nird Kivu) e nel corso dei quali almeno 303 persone, quasi tutte donne, sono state stuprate. Il rapporto preliminare (15 pagine) è stato reso noto ieri a Ginevra. Presenti nella regione, i Caschi blu dell’Onu si sono trovati di fronte a condizioni «operative che ne hanno limitato la capacità di intervento e la rapida raccolta di informazioni sugli attacchi», afferma il rapporto.

l’Unità 25.9.10
Scuola e pubblico impiego
senza elezioni per le Rsu Cgil: «Si nega la democrazia»
Tre milioni e mezzo di lavoratori pubblici non possono votare i loro rappresentanti sindacali perché governo, Cisl e Uil rinviano e non fissano la data delle elezioni. «Negano la democrazia», denuncia Guglielmo Epifani.
di Felicia Masocco


Chi ha paura di votare per eleggere i nuovi rappresentanti sindacali nel pubblico impiego? La domanda l’ha posta Guglielmo Epifani davanti a duemila delegati di Fp e Flc cioè le due organizzazioni della Cgil di scuola, sanità e di tutto il lavoro pubblico nelle sue varie declinazioni, riuniti ieri a Roma. Un pezzo d’Italia che da mesi ritroviamo nelle piazze: i tagli della manovra di Tremonti infieriscono sui settori pubblici, basti pensare ai precari della scuola dell’università, ma non solo. A migliaia si ritroveranno per strada.
Per quelli che restano ci sono altri «fronti». A novembre avrebbero dovuto tenersi le elezioni per il rinnovo delle Rsu, cioè dei delegati nei luoghi di lavoro, che nel pubblico sono regolate dalla legge D’Antona. L’Aran (l’agenzia che contratta in nome e per conto del governo) ha rinviato il voto d’accordo con Cisl e Uil. Una decisione osteggiata dal sindacato di Corso d’Italia. È a Cisl e Uil che Epifani si è rivolto, «non posso credere ha detto che ci possano essere corpi sociali così grandi che possano avere paura del voto e del giudizio». La Cgil è stata sempre premiata nelle elezioni e il malessere diffuso tra i lavoratori potrebbero premiarla ulteriormente. Una lettura respinta dalla Cisl che dice sì alle elezioni ma di fatto propone di cambiare le regole, cioè «un accor-
do con il governo, per riportare lavoratori e sindacato a concertare, contrattare e decidere sulle riforme», afferma il segretario generale dei pubblici, Giovanni Faverin. Quelle che ci sono non bastano?
DEMOCRAZIA E CONVENIENZE
Per Rossana Dettori, leader di Fp, «La democrazia è un’opportunità, invece sta diventando opportunismo e convenienza». «Il governo inventa ogni scusa per rinviare. Ma il diritto al voto è inalienabile, la nostra battaglia è giusta e ci fermeremo soltanto quando Brunetta e l’Aran stabiliranno la data delle elezioni». E pensare che il governo in questione non fa altro che richiamarsi al mandato democratico del voto, «poi non può negarlo a milioni di dipendenti pubblici», chiosa Epifani che vede un’operazione per far sparire il sindacato: «Non si contratta né in alto né in basso, visto il blocco della contrattazione attuato con la manovra economica estiva spiegaDi conseguenza, non si rinnovano le Rsu, eliminando e congelando i soggetti che sono titolari della contrattazione». La Cgil propone il voto entro il primo trimestre del 2011, stabilendo la data contestualmente alla firma dell’accordo sulla riorganizzazione dei comparti pubblici, riforma che la Cgil è disponibile a firmare. Dal ministero di Brunetta un rimpallo: «Non è il ministro dover fissare la data delle elezioni delle Rsu bensì l’Aran con i sindacati». Si attendono sviluppi.

il Fatto 25.9.10
I Democratici alla guerra? Sì, delle poltrone
Bersani e Veltroni, entrambi vinti e vincitori
di Luca Telese

 

 Si potrebbe andare tutti alla riunione dell’Area democratica... vengo anch’io! no tu no!. Ennesima puntata della telenovela sulla scissione della minoranza nel Pd (con retroscena elettorale). Tenetevi forte perché è difficile anche solo provare a spiegarla a chiunque non sia calato nelle faide del gruppo dirigente del partito.
A mezzogiorno di ieri nel Pd infatti esplode l’ultima polemica di giornata. Già, perché ieri Dario Franceschini dirama gli inviti per convocare l’assemblea dell’Area democratica (la vecchia componente dell’opposizione a Bersani costituita da lui e Veltroni). E ovviamente omette di convocare i firmatari del documento dei 75, fedeli all’ex sindaco di Roma. Così, fin dal primo pomeriggio le agenzie sono intasate di polemiche surreali. Veltroniani all’attacco e franceschiniani in difesa, alè. Polemiche surreali, a dire il vero, perché i 75 si considerano già separati dai loro ex compagni, ma denunciano ugualmente l’affronto, come se fosse un’offesa mortale: “Franceschini non può considerarsi Area democratica, ma solo una parte”, grida il senatore veltroniano Stefano Ceccanti.
Il problema è che Franceschini, che ieri mattina si era incontrato alla Camera, con quelli che sono rimasti al suo fianco Piero Fassino, Luigi Zanda, Pierluigi Castagnetti, David Sassoli e Deborah Serracchiani sa già che la componente è di fatto finita, e che per i suoi inizia un percorso nuovo, dentro
la maggioranza. Ma fa di tutto per fingere che non sia così: non si può concedere agli ex amici il monopolio della componente, e appiccicarsi sulle spalle l’etichetta dei traditori.
La minoranza alla divisione finale
MA ADESSO fate attenzione, perché solo a provare di dipanare il filo di quello che accade si finisce nello scioglilingua. Esempio: Beppe Fioroni, grande azionista della maggioranza della minoranza (quella che non segue il capogruppo del Pd nell’abbraccio con Pier Luigi Bersani) spiega: “Nessuna separazione! Noi siamo la maggioranza che resta: loro sono la minoranza che se ne va. Non possiamo essere noi a separarci, se sono loro che se ne vanno”. Ci avete capito qualcosa? Ovviamente no.
E allora bisogna provare a ricostruire cosa è successo davvero. L’antefatto è il documento dei giovani turchi contro Veltroni. Attaccano l’ex segretario, convocano un convegno a Orvieto contro di lui. Poi, per non arrivare alla battaglia finale, lo ritirano. I “giovani turchi” sono gli uomini più vicini a Bersani, i quarantenni della sua segreteria, a partire dal braccio destro del leader, Stefano Di Traglia. Poi arriva “il documento dei 75”, quello dei veltroniani che all’inizio della settimana apre le danze. Un attacco durissimo alla segreteria, che diventa il casus belli per sancire la divisione definitiva già nell’aria fin dalle polemiche per le primarie in Umbria tra Franceschini e Veltroni. Il documento conteneva addirittura un’affermazione che viene rimossa: “Il partito è rimasto senza bussola”. Fatto curioso. La battuta viene tolta, ma Bersani risponde comunque con un ruggito d’orgoglio: “La bussola c’è!”.
Sembra che si debba arrivare al cataclisma, alla frattura definitiva nel partito, si parla di iniziative dentro-e-fuori, si dice che Veltroni già pensa al Papa straniero. Alla fine, anche stavolta non succede nulla, e la montagna partorisce il topolino: i veltroniani si astengono, per non arrivare alla rottura definitiva. E così nasce una ridicola polemica sui voti in direzione. “Gli oppositori si sono dimezzati!”, dicono cantando vittoria i bersaniani. “Macché, non avete contato i presenti!”, ribattono i veltroniani.
Elettori e dirigenti: due pianeti diversi
BENE , tutto questo non si può spiegare se non con l’unico vero retroscena possibile. Ovvero: il merito c’entra poco. E nessuno ha ancora capito su cosa si dividano le due fazioni che si danno battaglia. Non sulle primarie, per esempio, che tutti dicono di volere, ma sui cui nessuno ha chiesto un voto. Non sul governissimo, o sulle alleanze, su cui esistono tutte le posizioni possibili in entrambi gli schieramenti. La verità che nessuno può raccontare è che l’imminenza delle elezioni anticipate ha prodotto una fibrillazione per le liste elettorali. I franceschiniani che entrano in maggioranza conquistano un posto a capotavola nella spartizione dei seggi, e una quota protetta per la loro mossa politica. Hanno rafforzato la posizione di Bersani nel momento dell’assedio e ora verranno premiati. Ieri Franceschini spiegava: “Alle primarie voterei Bersani, il mio segretario” (curioso per uno che lo aveva sfidato meno di un anno fa, ma è il bipolarismo all’italiana).
Ma anche i veltroniani e i fioroniani per paradosso conquistano peso e visibilità: si sono guadagnati uno status di minoranza, con una quota di posti garantita proprio in virtù di questo.

il Fatto 25.9.10
La scissione di Bonanni?
Sì, no, forse
di Stefano Caselli


 Qualcuno rimpiangerà i tempi in cui il dissenso cattolico all’interno del Pd si chiamava Paola Binetti, facilmente riconducibile alla netta categoria “cilicio” e non a quella nebulosa di “corrente”. I rivoli, reali o ipotetici, del Terzo polo, oramai, non si contano più. L’ultimo, in ordine di tempo, è quello attribuito all’asse Bonanni-Fioroni. Il segretario della Cisl, secondo quanto riportato da Repubblica, avrebbe telefonato personalmente a sei senatori democratici di provenienza popolare per invitarli a firmare il documento veltroniano dei 75, che tanto ha scosso il partito. Quanto basta per ventilare progetti di scissione da parte del segretario della Cisl e del suo buon “alleato” Beppe Fioroni.
Ma i due non ci stanno: “Non ho nessuna intenzione di fare politica – risponde Bonanni – né tantomeno di ingerire nelle vicende interne di un partito”. A sera, intervenendo a “Sud Camp ‘10”, convegno organizzato dall’area lettiana del Pd, non risparmia un affondo: “A metter in giro queste voci sono i ‘pci-inì’ della politica, che per giocare le loro piccole partitelle mettono dentro cose che non c’entrano. Stiano tranquilli tutti, resterò fino all'ultimo giorno utile a dirigere la Cisl”. Imbufalito Beppe Fioroni: “Parlare di propositi di scissione è una cosa vergognosa e indegna – dichiara – tipica di chi intende la politica come calunnia e denigrazione dell’avversario. Non è certo colpa di Repubblica, ma di chi coinvolge indebitamente il segretario di un grande sindacato che sta cercando di cambiare l’Italia, senza l’appoggio di proposte serie che il Pd non ha ancora messo in campo”. Su chi metta in giro queste voci, l’ex ministro dell’Istruzione glissa: “No comment – risponde – dico solo che alimentare un clima di sospetti in questo momento è pericoloso. Additare due esponenti del partito e del sindacato come colpevoli di collusione con il nemico (e uno dei due, come sappiamo, si è anche preso un fumogeno) è un atto irresponsabile, di intollerabile calunnia”. Se dunque pare scongiurata l’ipotesi di una scissione, sembra evidente in alcune stanze del partito non tiri proprio aria buona.

il Fatto 25.9.10
Intervista a Maurizio Landini
In piazza non solo la Fiom
Manifesteranno anche precari e movimenti Il 16 ottobre i metalmeccanici con la società civile
di Salvatore Cannavò


Il segretario della Fiom, Maurizio Landini, è in giro per l’Italia a seguire le vertenze territoriali.
Dopo il problema Fiat è scoppiato il caso Fincantieri e altri problemi si accumulano sulla sua agenda. Inoltre sta preparando la manifestazione del 16 ottobre che ieri ha avuto anche un ulteriore sostegno dall’appello firmato da Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, don Gallo e Margherita Hack che il Fatto Quotidiano ha pubblicato. Un appello importante che Landini ha molto “apprezzato” e conferisce alla manifestazione Fiom un carattere davvero rilevante, punto di raccordo di diversi disagi, di diverse proteste ma anche di una proposta che si può riassumere nella difesa della Costituzione, della democrazia, del lavoro. Per questo il 16 ci saranno molti interventi, non solo sindacali ma anche espressione del lavoro precario, studentesco, associativo.
Contro cosa manifesterete e perché scenderete in piazza? Il 16 scendiamo in piazza per fare in modo che il lavoro ritorni al centro dell’interesse della politica e del governo. Per uscire dalla crisi serve una nuova idea di sviluppo che non può avere nel lavoro e nei lavoratori un punto di riferimento essenziale. È chiaro che nel contesto attuale scendiamo in piazza contro chi vuole eliminare il contratto nazionale di lavoro come strumento decisivo di solidarietà, ma anche contro le politiche del governo che puntano a scardinare i diritti, come sta facendo il collegato al ddl lavoro sull’arbitrato. Manifestiamo anche per un’effettiva politica industriale perché è fallita l’idea che la crisi possa essere risolta dal libero mercato e richiede invece un serio intervento pubblico. Cosa intende per intervento pubblico?
Faccio due esempi molto chiari: Fincantieri e il settore dell’auto. La cantieristica è di proprietà statale e opera in un settore strategico a livello internazionale. La difficoltà dipende direttamente dall’assenza di qualsiasi ipotesi di sviluppo in cui il governo può giocare un ruolo decisivo. Ma anche per l’auto si potrebbe impostare un intervento utile. Finora si sono utilizzati solo gli incentivi mentre assistiamo alla totale assenza di finanziamenti all’innovazione di prodotto, come l’auto elettrica, a differenza di Francia o Usa che invece difendono la propria industria. Ma si potrebbe intervenire anche sul fronte della riforma degli ammortizzatori sociali, estendendoli ai precari.In Germania è stato firmato un accordo alla Siemens che garantisce, sia pure con dei limiti, il posto di lavoro ai dipendenti a tempo indeterminato in cambio di riduzioni di salario e di orario di lavoro. Che ne pensa? Penso che le differenze con quanto scelto dal nostro paese siano evidenti e macroscopiche. Lì le imprese investono su lavoro e occupazione cercando di evitare che la crisi disperda competenze e redistribuendo. Non si punta alla cancellazione di diritti, non si discute di deroghe ai contratti ma di ridefinizione degli orari con accordo sindacale. Infine, lì tutto ciò è possibile grazie al fatto che i salari tedeschi sono quasi doppi rispetto a quelli italiani o che, ad esempio, in Volkswagen, quando si allunga l’orario di lavoro lo si porta da 28 ore settimanali a 33. Una bella differenza.
La Germania privilegia la coesione sociale al conflitto? Non c’è dubbio, anzi la scelta della coesione sociale passa per il rispetto e la centralità della contrattazione. Tutto il contrario di quanto accade in Italia dove la risposta alla crisi da parte delle imprese passa per la cancellazione del contratto, chiedendo la piena esigibilità delle prestazioni da parte dei lavoratori. Da noi si rompe con una cultura della rivendicazione sindacale mentre in Germania non si licenzia né si chiudono stabilimenti come invece fa la Fiat a Termini Imerese. Insomma, c’è un modello tedesco che piace alla Fiom. Avreste firmato l’accordo della Siemens? Noi di accordi di quel tipo ne abbiamo visti tanti e molto spesso li firmiamo. Penso ai contratti di solidarietà. Chi li rifiuta invece è la Confindustria, da parte nostra c’è un’ampia disponibilità.
Che pensa dell’ipotesi di deroghe a tempo che si sta affermando nel dibattito interno alla Cgil?
Per me non esistono. Se si deroga dal contratto significa che non c’è più il contratto.
Ma Confindustria vi rimprovera di non porvi il problema della scarsa produttività del lavoro. Bisogna intendersi e faccio un esempio: se per produttività intendiamo il valore di un’ora di lavoro chiunque capisce che un’ora di lavoro per produrre una Panda e un’ora di lavoro per produrre una Mercedes non dipendono da quanto si lavora ma anche dalla qualità del prodotto. Se pensiamo che occorra solo intensificare il lavoro non si comprende che in Italia su questo piano siamo ai limiti come è dimostrato anche dai bassi salari. Se invece il punto è la richiesta di un maggior utilizzo degli impianti noi rispondiamo che gli strumenti sono presenti già nel contratto nazionale. Su orari, straordinari, flessibilità siamo disposti a trattare e a discutere, lo prevede già il contratto.
Il 16 si annuncia una grande manifestazione? Cosa succederà dopo? Quando abbiamo deciso questa manifestazione l’abbiamo pensata come un’iniziativa sindacale aperta all’opinione pubblica, ai movimenti, alla società civile. Vediamo che questa offerta è stata già recepita e quindi il 16 ottobre si annuncia come un appuntamento importante. Che noi speriamo abbia una continuità. Sia sul piano sindacale, con una battaglia per difendere il contratto ma anche costruendo un collegamento a livello territoriale tra il mondo del lavoro e le istanze ambientaliste e di difesa della democrazia. Per questo il 16 troveremo le forme perché le diverse istanze presenti alla fine possano esprimersi e possano trovare un modo di stare insieme anche dopo.

Repubblica 25.9.10
"Io, abusata da un prete a 11 anni vi racconto una vita di vergogna"
Storia di Laura, una delle vittime italiane. Oggi il primo raduno a Verona
di Vera Schiavazzi


Non c´è risarcimento per qualcosa che ti impedisce di essere te stesso e ti fa perdere la fiducia
Ogni scusa era buona per restare solo con me e attirarmi in casa sua, sopra la sacrestia. Io ero debole e non capivo

ROMA - «Erano giovani, belli, intelligenti, puliti. Molti li ho ritrovati su Facebook, sono rimasta annichilita nel sapere che erano ancora in contatto con quel prete. Soprattutto se penso a quello che hanno subito, più grave e pesante ancora di quel che è toccato a me, forse perché ero una bambina e loro dei maschietti. Gli abusi e le violenze che abbiamo patito hanno cambiato per sempre la nostra vita, non c´è risarcimento per qualcosa che ti impedisce di essere te stesso, ti fa perdere la fiducia, stravolge per sempre la tua vita amorosa». Laura M. ha 35 anni, un compagno, un lavoro da insegnante in un piccolo centro del nordest. Insieme a quello di molti altri sconosciuti che hanno risposto all´appello il suo sarà uno dei racconti che oggi a Verona vorrebbe cambiare la storia italiana delle vittime della pedofilia nelle chiese, nei seminari, nei collegi. Quelle vittime di preti pedofili che - secondo il gruppo ‘La colpa´ (infolacolpa.it) che ha organizzato l´incontro al Palazzo della Gran Guardia, scegliendo non per caso uno dei luoghi più visibili della città - in Italia fanno ancora così fatica a denunciare gli abusi subiti, a essere creduti, a ottenere giustizia. Il racconto di Laura è arrivato prima con una timida mail: «Gentili signori, ho visto il vostro annuncio su Internet. Non so se il mio caso vi può interessare perché non mi sono mai rivolta alla polizia e ancora oggi non ho il coraggio di svergognare quel prete, che sia pure molto anziano è ancora presente nella sua comunità». Dall´altra parte, la donna ha trovato incoraggiamento e comprensione: «È capitato anche a noi, a volte si convive tutta la vita col peso di un´ingiusta vergogna». Così, è riuscita a continuare: «Avevo 11 anni quando ho sentito per la prima volta su di me il sesso di un uomo. Era il mio parroco, e ogni scusa era buona per restare solo con me e attirarmi in casa sua, sopra la sacrestia. Io resistevo, ma ero debole, indifesa, non capivo quanto fossero gravi quelle molestie e non avevo il coraggio di ribellarmi a un adulto del quale mi fidavo ciecamente. Lo scandalo scoppiò quell´estate, un ragazzino più piccolo raccontò a casa quel che gli stava capitando e scoprimmo così che la cosa andava avanti da anni, che alcune famiglie avevano cambiato parrocchia senza però mai pensare a proteggere i figli degli altri…».
Ma, come in molti altri casi, le gerarchie locali scelsero di insabbiare il caso: «Quel prete lo trasferirono per due anni al Tribunale ecclesiastico, poi gli affidarono un´altra parrocchia, poi ancora un´altra, neppure troppo lontana. Andai dal padre spirituale del collegio, mi disse di non parlare e che potevo continuare a volere bene al mio parroco… Dopo, venne un altro prete, un uomo di grande moralità, è grazie a lui se non ho smesso di credere in Dio. Ma per anni e anni non ho potuto avvicinare un uomo, non sopportavo neppure l´idea e soffrivo ancor di più pensando ai miei amici, quelli con cui ho diviso gli anni che dovevano essere i più belli. Ora so che molti di loro non hanno potuto farsi una famiglia né essere felici, e non riesco a perdonare». Resta un peso difficile da cancellare: «Ho cambiato città, mi sono allontanata, a trent´anni mi sono fidanzata, ma ancora non riesco a pensare a dei figli. E vorrei far qualcosa per non lasciare più che la vita di un bambino sia compromessa per un sistema malato, che la vita di un adulto sia sprecata. Naturalmente non farò il nome dei miei amici. Vorrei poter dir loro del mio affetto, ma consegno la mia esperienza come la denuncia del nostro male».
Storie come quella di Laura hanno convinto il gruppo originario dei fondatori di ‘La colpa´, perlopiù ex allievi del ‘Provolo´, la scuola per bambini sordi di Verona dove decine di allievi sarebbero stati abusati, che era giunto il momento di uscire allo scoperto. «Vogliamo offrire a tutte le vittime di preti pedofili italiani il sostegno psicologico che è indispensabile, perché queste violenze sono paragonabili a quelle familiari anche per le conseguenze che lasciano - spiega Salvatore Domolo, 45 anni, il portavoce, che ha alle spalle una storia di bambino abusato e di ex prete - e il sostegno legale. Ma non ci interessano i risarcimenti, quanto l´urgenza di un´azione legale verso la Chiesa cattolica per crimini contro l´umanità. E il 31 ottobre saremo a Roma, insieme alle vittime da tutto il mondo, per manifestare con le nostre facce e le nostre storie quello che è accaduto anche in Italia, a centinaia di bambini e di ragazzi».

Repubblica 25.9.10
La fabbrica degli imbrogli, così truffano gli stranieri con le assunzioni fasulle
di Vladimiro Polchi


Gli irregolari hanno versato 2-7mila euro per accedere a una presunta sistemazione
Gli intermediari disonesti sono l´effetto collaterale della sanatoria del 2009 per le badanti

ROMA - Datori di lavoro fantasma: presi a caso dall´elenco del telefono, scelti tra persone decedute già da anni o detenute in carcere. Migliaia di immigrati irregolari beffati: tremila solo a Milano, almeno mille a Roma. False assunzioni pagate a caro prezzo: dai 2mila ai 7mila euro. Eccoli gli effetti collaterali della sanatoria per colf e badanti: «Una macchina da truffe», denunciano associazioni e patronati.
Con la sanatoria 2009, ogni datore di lavoro poteva regolarizzare una colf e due badanti straniere. Come è andata? Le domande d´assunzione si sono fermate poco sotto quota 300mila: Ucraina (37mila) e Marocco (36mila), le nazionalità più richieste. Ma la sanatoria vanta un altro record: quello delle truffe. «Solo a Milano la prefettura ne ha stimate tremila fino a fine 2009 - fa sapere Pietro Massarotto, presidente dell´associazione Naga - molti immigrati infatti hanno provato a rientrare nella regolarizzazione, anche se non ne avevano i titoli, perché non impiegati nel lavoro domestico». E così si sono rivolti a intermediari che promettevano facili assunzioni. «A Milano - prosegue Massarotto - molti truffatori sono risultati egiziani, in accordo con alcuni italiani. Il costo di una falsa assunzione va dai 2mila ai 7mila euro».
E una volta tirati fuori i soldi, l´irregolare si trova in mano una ricevuta priva di valore. I datori di lavoro? Fantasmi. «A Milano un invalido si è scoperto a sua insaputa titolare di 50 richieste d´assunzione». Per trovare i prestanome gli intermediari non si fanno scrupoli: persone morte già da anni o rinchiuse in carcere. È accaduto a Milano, coi reclusi del penitenziario di Opera e a Roma. «Nella capitale - conferma il viceprefetto Ferdinando Santoriello, responsabile dello Sportello unico immigrazione - non siamo riusciti a rintracciare un migliaio di datori di lavoro, per notificargli il rigetto della loro pratica. I casi sono i più vari: datori di lavoro morti ben prima della domanda d´assunzione, detenuti nelle carceri romane o presi a caso dagli elenchi telefonici. Non è un caso che molte persone abbiano denunciato in questura il furto dell´identità elettronica». Sia ben chiaro: per i truffati c´è poco da denunciare, visto che loro stessi hanno provato ad aggirare la sanatoria. «Il problema però è che questa sanatoria era assurdamente limitata a colf e badanti - sostiene Marco Paggi dell´Associazione di studi giuridici sull´immigrazione - e così molti irregolari sono stati spinti a spacciarsi per lavoratori domestici pur di uscire dall´illegalità». Per questo, il presidente nazionale delle Acli, Andrea Oliviero chiede «un meccanismo per cui le persone truffate abbiano giustizia, per esempio col rilascio di un permesso di soggiorno per ricerca lavoro di sei mesi: perché dare giustizia è molto più che chiedere legalità».

Repubblica 25.9.10
Quei primi nove mesi che scrivono la nostra vita
Suoni, umore e sorrisi: c´è un segno nella gravidanza
Un numero sempre maggiore di studi scientifici svela il ruolo del periodo pre-natale nello sviluppo dei bebè
di Elena Dusi


ROMA - Non è affatto un periodo di attesa. Tra il concepimento e la nascita, il bambino sta costruendo il suo futuro. E oggi alla scienza de "I primi nove mesi che delineano il resto della vita" dedica la copertina il magazine Time, partendo dal titolo di un libro appena pubblicato in America da Annie Murphy Paul per Free Press.
Un tempo si raccomandava giusto di non bere né fumare. Ora si moltiplicano gli studi che legano l´umore della madre, il suo stress, l´intonazione della voce, i suoni che raggiungono l´utero, l´attività fisica e la presenza di certi ormoni al benessere alla vita futura del bimbo: del suo corpo come della psiche. La madre è una porta verso il mondo esterno che il figlio sfrutta (e dal quale è influenzato) molto più di quanto non si ritenesse in passato.
L´ultima sorpresa arriva dall´università tedesca di Wurzburg. In uno studio su Current Biology i ricercatori hanno analizzato il pianto dei neonati in Francia e in Germania, osservando che nei loro primi vagiti i bimbi parlano già la lingua dei genitori. Il tono è crescente nei bebè francesi e calante in quelli tedeschi, in accordo con la melodia delle due lingue. E poiché il pianto è stato analizzato a tre giorni di vita, la conclusione è che i bambini hanno assorbito l´accento durante la gestazione. Voci e melodie musicali possono infatti essere ascoltati dal terzo trimestre in poi.
«Durante la gravidanza il feto riceve un imprinting fortissimo», conferma Salvatore Alberico, primario di ostetricia all´istituto di ricerca materno-infantile Burlo Garofolo di Trieste. «Anche nel campo delle gravidanze, uno dei problemi di salute in aumento è l´obesità». Fare ginnastica è consigliabile per la madre, dimostra uno studio dell´università di Bristol, perché aiuterà il figlio a mantenere la linea durante tutta la vita futura. «In condizioni normali - spiega Alberico - consigliamo 50 minuti di attività aerobica come nuoto, bicicletta o camminata veloce. La madre non deve essere in affanno per non ridurre l´ossigeno che arriva al feto».
Stress, ansia e paura raggiungono l´utero immediatamente. Sia attraverso l´ormone cortisolo che si fa strada attraverso la placenta, sia attraverso l´adrenalina che restringe i vasi sanguigni e riduce il sangue diretto al bambino. L´effetto, in entrambi i casi, potrebbe essere un rallentamento dello sviluppo e un carattere più ansioso del normale. «Ma donna e bambino godono anche di un meccanismo di protezione», continua il medico. «Durante la gravidanza c´è un aumento di estrogeno e, di conseguenza, di endorfine: ormoni legati al buon umore e a una sensazione generale di benessere». Se si considera che il battito cardiaco della madre è il rumore principale che un bambino percepisce, si comprende come il relax di lei metta a proprio agio anche il figlio.
Spingendosi molto in là nell´interpretazione dell´imprinting fetale, c´è anche chi ha attribuito agli ormoni della gravidanza la crisi finanziaria. Nel 2009 l´università di Cambridge dimostrò che i trader particolarmente imprudenti della city di Londra avevano l´anulare più lungo dell´indice in proporzioni superiori alla media. E poiché la lunghezza delle due dita potrebbe essere influenzata dalla quantità di testosterone assorbita dal bambino durante la gestazione, si è concluso che anche il crac finanziario ha avuto origine nel ventre materno.

Repubblica 25.9.10
L'Italia, la transizione fallita e la mancanza di una destra normale
di Guido Crainz


Con la caduta del primo governo Prodi è venuto meno il progetto di una buona politica ed è prevalsa la partitocrazia dei partiti facendo riprendere le demagogie populiste
Sono senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire le basi della democrazia e recare durissimi colpi all´informazione

In uno scenario sempre più degradato la crisi italiana appare ormai senza ritorno. "Metodo Boffo" come prassi quotidiana, dossier caraibici, protezione parlamentare a un esponente politico indagato per reati di camorra, sino a quel che sembra affiorare in Abruzzo: i rifiuti invadono di nuovo non solo Napoli ma l´intero paese. Ogni sguardo al sistema Italia ripropone tutti i nodi di una transizione drasticamente fallita, o mai iniziata. Illumina il riemergere, in forme modificate e aggravate, della crisi istituzionale ed etica che aveva portato al tracollo dei primi anni Novanta.
Fu travolto allora il sistema dei partiti su cui si era basata per mezzo secolo la storia italiana, dopo meno di vent´anni è entrata in agonia quella che era stata enfaticamente chiamata seconda repubblica. Neppure un vero sistema, a ben vedere: piuttosto un "disequilibrio" di forze politiche che hanno basato la loro sopravvivenza e la loro fortuna soprattutto sulle debolezze degli avversari. Forze poco provviste di reali culture costituenti e incapaci al tempo stesso di disegnare un insieme di regole sociali e di orientamenti programmatici. Incapaci anche solo di abbozzare un progetto credibile per un paese attraversato da sconvolgimenti profondi, in primo luogo sul terreno del lavoro e dell´etica collettiva.
Sembrano insomma intrecciarsi e precipitare insieme, in questi mesi, gli effetti di malattie antiche e le macerie indotte da storture recenti, in un finale di partita di cui si vedono bene rischi e derive ma non si intravedono possibili alternative, o perlomeno uscite di sicurezza.
Per molte ragioni gli anni Novanta, nei loro differenti versanti, sembrano oggi lontanissimi. Crollata la «prima Repubblica», e smorzatasi presto la prima esplosione di illusionismo berlusconiano, svanì anche la speranza che il rinnovamento potesse muovere dalla parte migliore della nostra storia precedente. Già con la caduta del primo governo Prodi – se non nel corso di esso – venne di fatto accantonato un progetto di «buona politica» capace di resistere all´emergere di una inedita «partitocrazia senza partiti». Quasi paradossalmente, poi, il primo governo guidato dal leader di un partito post-comunista, Massimo D´Alema, vide non il rafforzamento ma l´ulteriore travaglio di quel partito e al tempo stesso la capitolazione – altamente simbolica – di una roccaforte storica del «riformismo rosso» come Bologna. Tramontava così l´ipotesi che il rinnovamento potesse esser guidato dalle forze che si erano in qualche modo opposte alla degenerazione della «Repubblica dei partiti» già dall´interno di essa. Ciò poneva in primo luogo agli eredi del vecchio Pci il problema di un rinnovamento radicale, che non venne.
Ripresero così campo – sul versante leghista come su quello berlusconiano – ipotesi e demagogie populiste e antipolitiche, sempre più debolmente contrastate nell´area del centrodestra dalle forze che mantenevano un qualche legame con la storia precedente, dall´Udc ad An. Forze costrette progressivamente a scegliere fra la «berlusconizzazione» e l´emarginazione, in un processo che ha avuto una forte accelerazione negli ultimi due anni e il suo definitivo approdo in questi mesi. Appaiono da tempo senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire a fondo le basi stesse della democrazia e recare durissimi colpi all´informazione («Non ci può essere libertà per una comunità che manca di strumenti per scoprire la menzogna» scriveva Walter Lippmann novanta anni fa). Appare senza veli, anche, il sempre più pervasivo «sistema delle cricche», con i processi che esso innesca in una democrazia ormai immemore della normalità e in una «società incivile» in sotterranea espansione. Di qui la pericolosità dello scenario attuale. Di qui l´esasperazione del clima da parte di un premier sempre più debole e sempre più sottoposto al condizionamento della baldanzosa truppa di Bossi e Calderoli. Umiliato e reso al tempo stesso più aggressivo dalla necessità di degradarsi in uno squallido «mercato dei deputati» per puntellare i traballanti residui di quella che fu una trionfale maggioranza.
È l´esito di un processo. È l´esito del percorso che ha portato il "berlusconismo" a diffondere nella politica e nella società nuove forme di estraneità alla democrazia e alle regole collettive, esasperando al tempo stesso tendenze negative già presenti. E senza che si siano innescati anticorpi adeguati. Lo rivela l´evoluzione stessa di quella parte della destra – un tempo ex o post fascista, e comunque "nazionale" – che è approdata alla più completa subalternità al premier ed è priva di voce persino di fronte alle dissennatezze e alle provocazioni leghiste. È al tempo stesso illuminante, infine, la difficoltà di dar corpo a una «destra normale»: difficoltà certo non nuova nel nostro Paese, come l´ultimo Montanelli non si stancava di dire. Al di là delle contingenze dello scontro politico, inquinato dalle sopraffazioni e dai veleni del premier e dei suoi sottoposti, ne aveva recato testimonianza la stessa manifestazione di Mirabello: con le sue composite presenze, con il differenziato modularsi del discorso di Gianfranco Fini, con gli applausi e le incertezze che lo accompagnavano.
Sull´altro versante, un centrosinistra incapace di fare i conti sia con il Paese reale che con se stesso non contribuisce certo a dissipare la sensazione di un disfacimento e di una frantumazione senza freni: quasi mancasse la consapevolezza della drammaticità della situazione, dell´urgenza di costruire argini e sbocchi convincenti. È su questo terreno però che si giocherà il futuro del Paese, e non solo quello più immediato.

Repubblica 25.9.10
Benjamin, moderno 70 anni fa
di Antonio Gnoli


Domani saranno trascorsi giusto settant´anni dalla morte di Walter Benjamin. Si suicidò sul confine spagnolo convinto di cadere nelle grinfie dei nazisti. Su di lui segnalo tre libri eccellenti, di recente uscita: Walter Benjamin e la moralità del moderno di Bruno Moroncini (ed. Cronopio); Benjamin di Fabrizio Desideri e Massimo Baldi (ed. Carocci); Costellazioni di Giovanni Gurisatti (ed. Quodlibet).
Einaudi, inoltre continua la pubblicazione dell´opera completa (è da poco uscita la raccolta di scritti degli anni 1928-29). Infine da un piccolo editore (Alegre) sta per uscire una nuova edizione di Per la critica della violenza. La fortuna di Benjamin, insomma, non conosce pause, né flessioni da quando, alla fine degli anni Settanta, Giorgio Agamben ne intraprese la cura. Pensatore tra i più anomali del Novecento, Benjamin seppe leggere la contemporaneità e anticipare le traiettorie che oggi ci governano. È sorprendente come quasi tutto passi attraverso le sue analisi: dall´arte alla politica, dalla letteratura alla società. Rilevò una contraddizione tra il modo sempre più complicato di darsi delle nostre vite e l´immiserimento della nostra esperienza (personale e sociale). Intendeva dire che, rispetto al passato, siamo molto più poveri di realtà. E tanto più immersi nel virtuale e nell´onirico. Ineccepibile, se si guarda a ciò che sta accadendo in questi anni.

Repubblica 25.9.10
Chicago incorona Muti con un concerto da rockstar
Debutto sul podio dell’orchestra Usa
di Leonetta Bentivoglio


Una grande gioia la prospettiva di lavorare con musicisti eccezionali su progetti condivisi

Spectacular. Exciting. Welcome Riccardo. Grandissimo Maestro. Master of Magic. Mentre i giornali sparano titoli giganti, poster esclamativi spiccano ovunque nella città di Obama, con la sua selva di candidi grattacieli battuti dai venti. Un´America febbrile e trionfalistica, vogliosa di nuovi miti culturali da omaggiare o divorare, o nei quali cullarsi per non pensare ai propri guai, sta accogliendo la prima stagione di Riccardo Muti come Music Director della Chicago Symphony, orchestra nata nel 1891, considerata ai massimi livelli per qualità e prestigio e forgiata da campioni come Georg Solti e Daniel Barenboim (il quale oggi, in una curiosa staffetta, lavora alla Scala, che Muti diresse per 19 anni).
Il maestro napoletano ha dato il via al mese di celebrazioni che Chicago dedica alla sua "Inaugural Season" dirigendo domenica scorsa al Millennium Park un mastodontico Free Concert incoronato da un inatteso cielo estivo (piace ai media locali ipotizzare un mini-miracolo di San Gennaro nel giorno del santo, il quale, viste le orribili previsioni del tempo, avrebbe premiato col suo intervento un concittadino): un successone da evento rock, dove le musiche di Verdi, Liszt, Ciaikovskij e Respighi sono state applaudite da 25.000 spettatori. Tappa successiva della "Festa Muti" (titolo della manifestazione lunga un mese), è stato giovedì (aperto dall´inno americano e con standing ovation finale) il concerto della vera e propria investitura, primo della serie dei "Subscription Concerts" annuali della Chicago Symphony, il cui introito al box office raggiunge il 20 per cento del budget di 65 milioni di dollari all´anno, tutti privati.
Sulla scena inghirlandata di stucchi color crema della Orchestra Hall, fascinoso edificio primi Novecento affacciato su un lembo di strada ribattezzato per l´occasione "Muti Mile", il direttore ha preso ufficialmente le redini dell´orchestra, definita da molti la migliore tra le cinque corazzate sinfoniche statunitensi, le cosiddette Big Five. In programma Berlioz, con la "Symphonie fantastique", e il suo sequel "Lélio, ou le retour à la vie", animato dal massiccio e irresistibile Gérard Depardieu nella parte del Narratore.
Fiera di aver raggiunto, grazie all´arrivo di Muti, la cifra più alta di abbonamenti e biglietti venduti nell´ultimo ventennio, la presidente della CSO, Deborah Rutter, ricorda «la chimica speciale scattata tra il maestro e l´orchestra durante il tour europeo del 2007: sessanta dei nostri musicisti, al termine di quell´esperienza, gli scrissero lettere di ringraziamento individuali. Fu il gesto che lo indusse ad accettare l´incarico». Quanto a Muti, pare galvanizzato dalla nuova impresa: «Mi dà una grande gioia la prospettiva di lavorare con questi musicisti eccezionali in un rapporto di collaborazioni e progetti condivisi». Per un periodo di lavoro "in residence", Muti ha scelto due compositori giovani e sperimentali come Anna Clyne e Mason Bates (quest´ultimo di stile elettronico decisamente underground), e ha dato a un artista illuminato come il violoncellista Yo-Yo Ma il ruolo di "Creative Consultant". Annuncia inoltre la sua volontà di «portare la grande musica anche a chi non lo conosce o non la considera un bisogno primario, con programmi per i giovani e nelle scuole e andando nei sobborghi di Chicago, tra le comunità afroamericane e ispaniche, nelle carceri e nei riformatori. Perché credo davvero nel messaggio sociale e spirituale della musica e vorrei essere utile alla città secondo me più bella, vitale, affettuosa e culturalmente interessante d´America». Già lunedì darà un concerto nel Warrenville Youth Center, una prigione per ragazze.

venerdì 24 settembre 2010

l’Unità 24.9.10
Pd, via libera a Bersani Veltroni si astiene
Il segretario ribadisce le critiche ma apre ai 76. Si smorzano i toni dello scontro
Il Direttivo Pd dà via libera al leader che critica il documento dei 76: «Un errore, ha creato sgomento»
Bersani: la bussola c’è
Con Veltroni 31 astenuti
A larghissima maggioranza il direttivo Pd dà via libera a Besani che commenta: «Evidentemente la bussola c’è». Veltroni apprezza i toni usati del segretario. Tra i 32 astenuti anche i componenti dell’area Marino.
di Simone Collini


«Evidentemente, la bussola c’è». È un Bersani particolarmente soddisfatto quello che emerge dalla nuvola di Toscano e da sette ore filate di discussione. La tanto attesa Direzione del Pd si apre col segretario che ribadisce le critiche al documento veltronian-fioroniano firmato da 76 parlamentari (ieri si è aggiunta la pugliese Cinzia Capano) e si chiude con un voto sulla sua relazione che incassa solo sì (compreso quello della “firmataria” Franca Biondelli) e 32 astensioni (compresi 17 voti appartenenti all’area Marino).
Alla votazione segue sotto traccia uno strascico di polemiche, con i veltroniani e gli ex-ppi che contestano alla presidente Bindi di non aver contato né i votanti né i sì, cosa che avrebbe fatto apparire percentualmente più estesa la pattuglia “movimentista”, visto che non tutti i 201 membri della Direzione erano presenti al momento del voto. Ma nessuno ha voglia di rivivere giornate come quelle passate: non ce l’ha Bersani, per il quale ora il Pd deve andare sui giornali per
le proposte per affrontare i problemi del paese: «C’è gente che non mangia, non parliamogli delle nostre inquietudini»; e non ce l’ha Veltroni, che non vuole passare né per lo sfidante di Bersani («Pier Luigi è il mio segretario») né per quello che può innescare processi di divisione: «Ci sono le condizioni perché da questa discussione il Pd esca più unito e più forte». Lo scontro viene dunque evitato, con l’esito della Direzione che appare chiaro non appena, subito dopo la relazione d’apertura di Bersani, i veltroniani commentano positivamente l’intervento del segretario per i «toni» utilizzati.
BERSANI RIBADISCE LE CRITICHE
In realtà Bersani apre i lavori ribadendo tutte le critiche al documento dei 76, che giudica «un errore». «Io valuto l’effetto oggettivo: un atto avvenuto a organismi convocati (il coordinamento, la direzione, l’assemblea) che ha provocato sbandamento e in alcune aree sgomento tra i nostri sostenitori. È stato veicolato come l’immagine di un partito senza rotta, in perenne congresso, che discute di temi incomprensibili ai cittadini». Bersani dice che la «linea» è quella espressa alla chiusura
della Festa di Torino («non ho nulla di sostanziale da correggere»), che ben venga la discussione ma «niente gioco dell’oca, non possiamo ricominciare sempre dall’inizio», che «si devono archiviare le chiacchiere politiciste per parlare del nostro progetto per l’Italia». Poi il segretario dice anche «alleanze sì, ma non a tutti i costi» e ammette che il partito ha delle difficoltà («non trasmettiamo un’idea di rinnovamento, bisogna che riflettiamo con più generosità come gruppo dirigente»). Tanto basta, oltre ai toni effettivamente pacati da buon emiliano, per far vedere a Veltroni nell’intervento del leader Pd ombre ma anche luci.
I SASSOLINI DI VELTRONI
«Abbiamo colto positivamente nella relazione di Bersani gli elementi che accolgono problemi e ansie nostre dice Veltroni lavoreremo perché tutti insieme dobbiamo fare un Pd più forte». Ma insieme ai toni unitari, arriva anche qualche sassolino tolto dalla scarpa. Veltroni ricorda la dalemiana Red quando lui era segretario («114 parlamentari fondarono un’associazione con tanto di tessere») e lancia una frecciata allo stesso leader Pd: «Quando nel pieno della campagna elettorale in Sardegna Bersani si candidò per le primarie non ci rimasi bene ma non obbiettai. Egli sostenne che voleva solo discutere e non litigare. Ecco, uso le sue parole: stiamo solo discutendo». Poi arriva il voto, e viene sancita la tregua.

l’Unità 24.9.10
La nuova minoranza è nata: parte la corsa per assumere la guida degli ex Ppi
Con l’astensione i veltroniani si sono formalmente differenziati dall’Area democratica guidata da Franceschini. L’ex segretario chiede a Bersani una gestione collegiale e a Veltroni di far prevalere l’interesse generale.
di S. C.


Dopo la riunione della Direzione nel Pd c’è una nuova minoranza e una guerra aperta per assumere la guida della componente ex-ppi. Sarà solo il tempo a dire se le due cose faranno traballare la tregua siglata ieri. «Noi in Direzione non abbiamo mai votato, si potrebbe fare così anche oggi ma comunque...». Walter Veltroni non nasconde che avrebbe preferito evitare la conta. Ma in Area democratica più d’uno è convinto che la ritrosia dell’ex segretario sia più che altro simulata. E il sospetto viene confermato quando Giorgio Tonini, della prima cerchia veltroniana, fa sapere mentre ci si avvia verso la chiusura dei lavori: «Bersani ha impostato il dibattito in modo costruttivo ma è utile che la minoranza faccia fino in fondo il suo dovere perché serve una discussione vera e non compromessi verbali dentro il gruppo dirigente. L’astensione è un segnale di distinzione che però prende atto delle aperture». Insomma nessun “no” che sancirebbe una rottura poi difficile da gestire, ma anche il sì alla relazione di Bersani espresso da Dario Franceschini viene giudicato dai veltroniani dannoso. «Dobbiamo mantenere l’inquietudine aperta perché troppe volte ci sia-
mo messi il cuore in pace tra di noi però poi l’unanimismo non è compreso dagli elettori». L’obiettivo critico è proprio il capogruppo alla Camera del Pd, che alla Direzione interviene per chiedere al segretario una «gestione collegiale» e ai firmatari del documento di «far prevalere l’interesse generale alla convenienza e al calcolo». La crisi economica, sociale e democratica del paese, dice Franceschini, «impone scelte di emergenza»: «Non rinuncio alle idee che rappresento ma metto a disposizione di tutto il partito il milione di voti raccolto alle primarie sulla mia candidatura».
Un discorso che non convince Veltroni, Fioroni e gli altri firmatari del documento. Che puntano ora, dopo che il voto di ieri ha certificato la nascita di una componente diversa dalla vecchia Area democratica, a giocare il ruolo della minoranza che si contrappone a Bersani. Una minoranza in cui non vuol confluire l’area Marino: «Nessuno è autorizzato a pensare che la nostra astensione possa sommarsi o fondersi con posizioni e voti espressi da altri», dice Michele Meta. E una minoranza in cui intende giocare un ruolo di primo piano Fioroni, ponendosi come la nuova guida della componente ex-ppi: «Non faremo la fine degli armeni. E da questo partito non me ne vado, neanche se mi cacciate». Franco Marini lo ascolta e poi un po’ lo prende in giro: «Da responsabile welfare, dovrebbe dedicare più tempo alle iniziative sulla scuola e meno alle cene, lì si chiacchiera molto ma non si fanno proposte».

Corriere della Sera 24.9.10

L’obiettivo della nuova maggioranza: fare fuori i due eterni rivali
di Maria Teresa Meli

Gli uomini del segretario: Pier Luigi non ha bisogno di D’Alema

ROMA — Apparentemente è un pari e patta. Ed effettivamente tra un Bersani che non voleva la conta e un Veltroni che non agognava lo scontro, la partita si chiude senza né un vincitore né un vinto.
Ma seguendo il filo del dibattito in Direzione si capisce che qualche cadavere, politicamente parlando, cade sul campo. Meglio cominciare dall’inizio. I dalemiani tacciono. Parla solo Barbara Pollastrini per dire: «Io che ho fatto "Red" quando Walter era segretario, non posso prendermela adesso per quel documento che pure non mi piace». Parla Enrico Letta e c’è bisogno dei sottotitoli: non voglio D’Antoni responsabile degli Enti Locali come moneta di scambio per l’alleanza con Franceschini. Parla il suddetto, e senza nessun ausilio, si capisce che scarica diverse colpe su Rosy Bindi, rea di aver dichiarato al Corriere che è tutta colpa di Veltroni. Il quale Veltroni parla anche lui e non si capisce se voterà a favore, contro o se, piuttosto, si asterrà, come alla fine sarà.
Sul voto in questa Direzione ci si eserciterà tra amanti del genere: quel quarto di consensi dell’ex segretario è veramente un quarto, e, se, nel caso, che sarà di quel pacchetto di voti? Giù disquisizioni sull’esito della riunione e vivisezioni del Partito democratico. Poi ci sono i fatti. Primo, Fassino e Franceschini sono passati in maggioranza. L’ex segretario dei Ds con una certa discrezione. Il capogruppo dei deputati con maggior clamore e con il suo portavoce Piero Martino che dice: «Bersani ha fatto un discorso coraggioso, è stato bravissimo». Secondo, Veltroni e Fioroni hanno ottenuto meno di quel che si aspettavano ma hanno comunque segnato un argine. Terzo, la nuova maggioranza che esce dalla Direzione di ieri ha un obiettivo: fare fuori D’Alema e Veltroni, ossia superare la dialettica su cui è rimasto sempre appeso il centrosinistra. Sono i quarantenni che danno questa lettura. Stefano Di Traglia, portavoce del segretario: «Pier Luigi non ha bisogno di D’Alema per decidere quello che deve fare». Martino: «Che cosa conta quello che dicono i dalemiani?».
Ma siccome di sola politica non si vive, ecco che si arriva al «sodo». Ossia alle liste che, come confidava qualche giorno fa Andrea Orlando a qualche compagno di partito, si stanno già preparando perché non bisogna farsi trovare impreparati di fronte all’eventualità che si arrivi al voto anticipato a marzo del prossimo anno. Ed è su questa materia che il Pd si avviterà e si dividerà.
Le voci si rincorrono già per il Transatlantico. La minoranza ex ppi passata in maggioranza — Franceschini e Marini, per intendersi — non ha fatto un grande exploit e si è fatta sfilare da Beppe Fioroni un pacchetto di consensi e quadri dirigenti. E quindi difficilmente verrà premiata. Nelle liste che si stanno preparando traballano due fedelissimi di Franceschini, come Pina Picierno e Alberto Losacco, mentre resistono Martino e Antonello Giacomelli. A «casa Fassino» la situazione non è migliore: il passaggio in maggioranza non ha portato posti in più. In bilico Morri e Tempestini, due fedelissimi dell’ex segretario Ds, stabile Anna Serafini, incerti tutti gli altri. I veltroniani avranno i loro caduti, ma comunque la corrente li tutelerà, lo stesso dicasi per i sostenitori di Ignazio Marino, che, non a caso, dopo aver sposato la linea Bersani, ha fatto un passo indietro, non si sa mai. In difficoltà anche Rosy Bindi ed Enrico Letta. Si sono scagliati a testa bassa contro Veltroni, ma non gli hanno sfilato nemmeno un parlamentare, e con Fioroni dall’altra parte il loro peso di ex ppi cala vertiginosamente. La prima rischia di non poter più candidare Giovanni Bachelet, il secondo salverà Francesco Boccia, quanto agli altri chissà. Di tutto questo non si discute negli interventi in Direzione, ma nei corridoi di largo Nazareno non si parla d’altro.

Repubblica 24.9.10
La tela del segretario Cisl per dar vita al terzo polo. Marini: "I veri popolari restano qui"
L´ombra della scissione sui democratici Bonanni organizza l´uscita degli ex Ppi
di Goffredo De Marchis

Telefonate del sindacalista a sei senatori per "suggerire" di firmare con i 75

ROMA - Sembra una vendetta. È invece un´operazione politica partita sottotraccia ma dai contorni sempre più definiti. A Raffaele Bonanni tirarono un petardo sul palco della Festa democratica di Torino. Ragazzi dei centri sociali, non militanti del Pd. Adesso il segretario della Cisl potrebbe tirare un fumogeno sul corpo di un partito già piuttosto agitato.
Bonanni, raccontano, avrebbe telefonato personalmente a 6 senatori democratici di provenienza popolare per invitarli a firmare il documento dei 75 che ha scosso la segreteria Bersani. E non è la vocazione maggioritaria la spinta ideale del leader sindacale. Tantomeno un improvvisa cotta per Walter Veltroni. Spaccare il Pd facendo leva sul disagio dei moderati significa dare una mano alla nascita del terzo polo, dominato da Pier Ferdinando Casini. Il pacchetto di voti Cisl fa gola a molti. E paura a chi potrebbe perderlo. Una scissione corroborata da quel bacino elettorale sarebbe un problema gigantesco per Bersani, niente a che vedere con le fughe isolate degli ultimi tempi. Non è un mistero che Bonanni ha un alleato fedele nel Pd, Beppe Fioroni. Promotore del testo dei 75, cassaforte di buon numero di voti ex ppi e tra i dirigenti più a disagio nel soggetto creato tre anni fa. Fioroni lavora anche sul territorio per creare una rete legata agli ex popolari. E al mondo cislino.
Operazione che Franco Marini, ex segretario del sindacato "bianco" ha stoppato con forza alla riunione di mercoledì scorso. Alludendo alle voci sui movimento di Bonanni e Fioroni. «Non vi preoccupare - ha detto agli amici ex ppi - io continuo a parlare con la Cisl, ad avere rapporti con loro». Poi ha messo nella cassetto la bandiera scudocrociata dal Partito popolare. In modo che nessuno possa sbandierarla in un luogo diverso dal Partito democratico. «Qui finisce la storia del Ppi e degli ex ppi. Non esiste più un´area politica. Esiste solo l´associazione guidata da Castagnetti che si occupa di attività culturali».
Il senatore Lucio D´Ubaldo, vicino a Fioroni, parlando con il Foglio ha disegnato una strategia scissionista. «Siamo stanchi di sentirci ospiti nel Pd», ha detto. L´ex ministro dell´Istruzione comincia a muoversi per conto suo nella corrente dei 75 e domenica a Orvieto riunisce un gruppo di amministratori locali. Cioè, un bel pacchetto di voti. Dice pubblicamente che lui rimane nel partito: «So che qualcuno vorrebbe che me ne andassi. Ma i cattolici non mollano». Al di là delle vere intenzioni scissioniste, Bersani è sicuramente preoccupato dei movimenti dell´ala cattolica e democristiana. Oggi andrà al convegno dei cristiano sociali. Ma non basta. Ha dato l´avallo all´operazione della giunta Lombardo quater in Sicilia. Sapendo però che è stata una trovata tattica gestita tutta dall´area ex popolare, in cuila compenente ex diessina non ha toccato palla. Adesso il fronte dei lealisti è più compatto. A Marini e Castagnetti si sono aggiunti Dario Franceschini e tutti i moderati di Area democratica. Ma è l´intervento diretto di Bonanni, più che le mosse di Fioroni e dei suoi a preoccupare il Pd e i vecchi amici democristiani. Perché il terzo polo, l´area moderata oggi sono un avversario del Pd. E non si sa se e quando diventeranno degli alleati.

l’Unità 24.9.10
Italia, Francia, Svezia: allarme xenofobia
I Rom e il ritorno della bestia razzista
di Dijana Pavlovic


Un racconto popolare rom descrive come si sente il popolo che i nazisti volevano sterminare con gli ebrei e che tuttora viene discriminato e perseguitato: anche un “maiale” si può sentire superiore a un rom.
Come dei maiali non si butta via nulla, così dei rom non ci si libera tanto meno quanto più si strilla contro di loro. Da questo punto di vista Milano è la capitale italiana della vigliaccheria e dell’ipocrisia. Nella primavera prossima si vota per le amministrative e tempestivamente si è riaperta la questione rom: il ministro leghista Maroni finanzia il piano rom di Milano (chiusura di 4 campi regolari con circa 1000 tra adulti e minori di nazionalità italiana, rumena, macedone e kossovara da sistemare), a luglio Regione, prefettura e assessore alle politiche sociali del Comune firmano un contratto con relativo finanziamento con le associazioni del terzo settore a luglio con l’assegnazione di 25 case Aler fuori quota. Ora facendo finta di cadere dal pero lega e pdl insorgono: non una casa ai rom, presidi per le strade, benzina sul disagio delle periferie e via così verso il voto di primavera.
Ma i “nostri” non sono soli. In Francia Sarkozy di fronte al declino della sua politica monarchica ha pensato bene di aprire la caccia al rom rumeno con un editto che utilizza la direttiva europea che garantisce la libertà di movimento sul territorio comunitario condizionandolo all’autosufficienza economica. Solo che questo editto è applicato esclusivamente alla comunità rom caratterizzandosi quindi come una vera e propria espulsione su base etnica e sollevando così le proteste del parlamento europeo e attirandosi persino la reprimenda degli Stati Uniti.
C’è in tutto questo un utilizzo dell’ondata xenofoba che percorre l’Europa, un’ondata che ha lambito persino la civilissima Svezia, patria della tolleranza e dell’accoglienza, che è molto pericoloso. Il calcolo elettorale di  ̆recuperare voti coltivando il disagio, il sentimento xenofobo e la paura di fronte alla crisi economica e di valori di questa fase storica ha la gravissima conseguenza di legittimare le spinte razziste anziché contrastarle. Si pensa
che il gioco vale la candele di un pugno di voti che consenta di vincere e forse che una volta al potere queste spinte si possano tenere sotto controllo. Ma non è così: questo calcolo di breve respiro fa finta di non accorgersi del veleno che diffonde nelle coscienze e dimentica le tragiche esperienze del secolo scorso. La bestia razzista è più forte del padrone che crede di tenerla al guinzaglio.

l’Unità 24.9.10
Amato e la lezione sull’immigrazione «Italia democrazia a scartamento ridotto»
Il dottor Sottile ha parlato di immigrazione e di valore della personaa Piacenza la terza edizione del Festival di Diritto dedicato alle «disuguaglianze» e curato da Stefano Rodotà. Tre giorni per «dare voce a chi non ne ha».
di Federica Fantozzi


«L’irregolare, l’immigrato clandestino in Italia ha cessato di esistere. Non ha più diritti. Io non sono monsignor Marchetto, ma da laico chiedo: è o non è una persona?». A modo suo, sottile come è nei suoi modi codificati persino in un soprannome nella Prima Repubblica, Giuliano Amato non lesina durezze sulle pecche della nostra società così poco plurietnica e pluriculturale. Né su chi la governa: «Capita che un bambino studi qui dai 6 ai 18 anni, poi se non ha un lavoro viene espulso. Ma dovrebbe essere cittadino italiano a quel punto. È compatibile con la democrazia che chi governa non sia responsabile di chi ne subisce le decisioni? È ammissibile che i governanti non rispondano ai governati?». Questo, dice, è il problema che ci rende «una democrazia a scartamento ridotto». E che priva chi attraversa mezzo continente in cerca di futuro per sé e la propria famiglia dei più elementari diritti umani.
Con un monito sull’altro versante: «Con la diversità si può convivere se si pongono in essere politiche attive ad hoc, altrimenti prevale la diffidenza. Il volersi bene fine a se stesso è un'ideologia che non funziona». Ma «se la diversità consapevole si esprime con un velo, che riconosciamo alle nostre suore e alla Madonna, perché negarlo a chi viene da altre tradizioni?». Amato, ieri, ha inaugurato a Piacenza la terza edizione del Festival di Diritto dedicato alle «disuguaglianze» e curato da Stefano Rodotà. Tre giorni per «dare voce a chi non ne ha»: precari, migranti, donne e minori, vecchi e nuovi poveri, Paesi afflitti da un modello di sviluppo che li depreda e li inquina. Un viaggio politico, giuridico e filosofico attraverso le discriminazioni e le disparità di trattamento che tuttora si intersecano nelle pieghe delle moderne conquiste civili. E oggi, attesissimo, sarà Gianfranco Fini a indagare il compito delle istituzioni nei confronti dei "nuovi cittadini" di diverse etnie e religioni, e soprattutto nella codificazione dei loro diritti.
Impresa che, ad ascoltare l'ex ministro dell'Interno del centrosinistra, è solo agli inizi. Ed ha un importante contraltare nella coscienza di ciascuno: «Le disuguaglianze aumentano fuori perché crescono dentro di noi. Oggi eguaglianza significa non pari trattamento ma pari libertà partendo da situazione impari«. Ovvero, libertà di essere diversi. Ricordando come il primo emendamento della Costituzione Usa garantisce la libertà di religione e come le «drammatiche devianze« degli anni '20 e '30 («L'identificazione di diverse razze umane è la disuguaglianza più obbrobriosa. Chi l'ha pensata è all’inferno») abbiano prodotto la stagione delle dichiarazioni dei diritti umani. Con un importante salto di qualità: dai diritti dei cittadini si passa a quelli della persona. E dunque: «Abbiamo trionfato sul male? No, un dubbio che dilaga e ci avvelena la vita». Si chiede Amato: «A chi viene qui spetta tutto il nostro welfare? Se è qui da 5 anni e guadagna meno di me, italiano da 5 generazioni, mi passa davanti per l'alloggio popolare? Suo figlio entrerà all'asilo e il mio no? Devo consentire a un musulmano di erigere qui la sua moschea? Di segregare in casa sua moglie perché così dice il Corano? Di impedire ai figli di convertirsi al cristianesimo?». La risposta, secondo il relatore, è in una duplice bussola. Da un lato, la Costituzione e le leggi per cui ogni diversità è accettata e protetta purché non abbia come prezzo i diritti essenziali di altri. E dunque «chi viene da società più arretrate deve capire che da noi le donne hanno uguale peso e i figli diritto a scelte civili e morali». Dall’altro lato, la coscienza del singolo: «Pensiamo di costruire una società insieme o chiuderci in noi e ridurre il fenomeno dell’immigrazione finché si estinguerà da solo?».

l’Unità 24.9.10
Tiro con l’arco e tiro a volo entrano nelle classi «No alla scuola con l’elmetto»
Si chiama “Allenati alla vita” il corso, con tanto di gare pratiche tra pattuglie di studenti, valido come credito formativo scolastico, che ha ricevuto l’ok dei ministri La Russa e Gelmini. Contrari Pd, Radicali e Tavola della pace.
di Marzio Cencioni


Anche saper tirare con l’arco e con la pistola ad aria compressa vale come credito formativo scolastico. Lo prevede un Protocollo d’intesa siglato tra l’Ufficio scolastico per la Lombardia e il comando regionale dell’esercito, con il beneplacito dei ministri La Russa e Gelmini, e il «caso» è approdato in Parlamento.
A portare alla ribalta la singolare intesa è stato il settimanale cattolico Famiglia cristiana e le critiche non si sono fatte attendere. Già mercoledì le associazioni studentesche e il Pdci avevano stigmatizzato l’iniziativa, ieri la Tavola per la pace ha puntato l’indice e Pd e Radicali hanno presentato interrogazioni parlamentari.
Ma di cosa si tratta? Il progetto, denominato “Allenati alla vita” è un corso, con successiva gara pratica tra pattuglie di studenti, valido come credito formativo scolastico e con oneri di spesa sponsorizzati da enti pubblici e privati. Oltre alle lezioni teoriche, che possono essere inserite nell’attività scolastica di “Diritto e Costituzione”, il progetto sviluppa le attività di primo soccorso, arrampicata, tiro con arco e pistola ad aria compressa, nuoto e salvamento, orientiring e, infine, percorsi ginnico-militari. Queste attività è la convinzione dei promotori «permettono di avvicinare in modo innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alle Forze armate, alla Protezione civile, alla Croce rossa e ai gruppi volontari di soccorso». Non solo. Consentirebbero anche di contrastare il bullismo «grazie al lavoro di squadra che determina l’aumento dell’autostima individuale e il senso di appartenenza a un gruppo».
UNA VALANGA DI CRITICHE
Molti gli esponenti politici che hanno deciso di portare la questione in Aula. «Dopo aver svuotato le casse scolastiche, dopo aver fatto entrare i simboli di partito in una scuola dello Stato oggi, con la diffusione e la pratica della cultura militare e dell’utilizzo delle armi a scuola, credo spiega Francesca
Puglisi, responsabile scuola del Pd sia giunto il momento di dire: basta. Si sta drammaticamente realizzando ciò che Piero Calamandrei aveva prefigurato in un suo celeberrimo discorso: il ritorno di una dittatura nel nostro paese non avverrà con i carri armati per le strade ma distruggendo la scuola pubblica. Noi vogliamo che i nostri ragazzi apprendano a scuola la cultura della pace, l’unica che potrà garantire a tutti un futuro».
Dello stesso tenore il commento dei Radicali. «Una ne pensano e cento ne fanno al Ministero della difesa; ma mai la fanno da soli. Infatti, se per la “mini-naja” è stato coinvolto il ministro per la Gioventù, per la “scuola di guerra” afferma il senatore Marco Perduca il ministro La Russa ha coinvolto la collega Gelmini».
«Per ora si sa solo che gli studenti saranno organizzati in “pattuglie” come quelle che girano per le strade dell’Afghanistan. Verrà insegnato loro a mirare, sparare e tirare con l’arco. Non verrà chiesto di combattere i talebani ma solo di sbaragliare tutti gli avversari. Non sappiamo quale premio verrà riconosciuto ai vincitori. Si sa che vincitori e vinti riceveranno un bel Credito formativo scolastico. È questa la scuola che vogliamo per i nostri figli?» si chiede Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace.

Repubblica 24.9.10
E il fucile entrò a scuola lezioni di guerra agli studenti
di Francesco Merlo


Forse è arrivato il momento di ritirare a Ignazio La Russa quell´attestato di simpatia che gli conferì Fiorello trasformando in satira e ironia il fascista primordiale ossessionato dalla virilità, con il naso adunco e righignato, le nari larghe, la barbetta sotto il mento, le ciglia aspre come setole.

Gli occhi come due palle di fuoco e l´ormai famosa voce, che è - "digiamolo" - fascismo rasposo più che buonumore rauco. In combutta con Maria Stella Gelmini, La Russa ha introdotto la pratica delle armi nelle scuole superiori. È un corso di guapperia militaresca, valido come credito formativo, che hanno chiamato "Allenati alla vita" e dove l´insegnamento pratico delle tecniche di guerra, la divisone dei ragazzi in pattuglie, il caricamento dei fucili e le sedute nei poligoni di tiro stanno insieme ad altre discipline belle, giuste e già obbligatorie nelle scuole anglosassoni, come per esempio la sopravvivenza, il nuoto, il primo soccorso e le tecniche di salvataggio. È dunque evidente il tentativo di nascondere le ortiche in un mazzo di fiori, ma il risultato finale è quello, opposto, di nascondere i fiori ed esaltare le ortiche, vale a dire lo spirito guerriero come valore educativo.
È chiaro che nessun La Russa e nessuna Gelmini riusciranno a risvegliare negli italiani la retorica degli otto milioni di baionette ed è molto probabile che non è questo che i due ministri vogliono. Insomma non è il fascismo che li anima. È però una caricatura di "libro e moschetto" questa idea che la scuola debba insegnare a sparare ed è l´ennesima prova che troppo presto e con troppa benevolenza abbiamo liquidato Ignazio La Russa come pittoresco quando concesse le Frecce Tricolori al circo di Gheddafi, o quando si fece riprendere in tuta mimetica negli avamposti afgani, o ancora quando cercò di picchiare, con le sue manone ministeriali, un giornalista che "disturbava" la conferenza stampa di Berlusconi. O, andando a ritroso, quando fu sorpreso (e registrato) da un cronista del Tempo in un bar di Roma, mentre con Gasparri e Matteoli sfogava la sua arcaica e cameratesca virilità in un turpiloquio irripetibile, a conferma di un rapporto losco con il sesso, rude, crudo, diretto, strumentale e fascista. La verità è che del fascismo nostalgico La Russa conserva la vocazione per la pagliacciata delle parate, il salto dentro il cerchio di fuoco di Starace, e da ministro della Difesa scambia i militari con i militaristi, l´esercito moderno che sa fare la guerra perché vorrebbe abolirla con i Rambo e con la maschia gioventù della sua sottocultura, i cittadini guerrieri che sanno tutto di fucili, coltelli, polvere pirica, cartucce, tute mimetiche e stivaloni.
Nelle scuole tedesche e in quelle inglesi, a Chicago come a Parigi, a Stoccarda come a Londra e anche a Torino, per non parlare di certi istituti dei quartieri caldi delle città italiane del Sud, circolano troppe pistole e coltelli, e ci sono ragazzi che sparano con il fucile dal balcone di casa, altri ancora che massacrano i loro coetanei. Insomma sempre più si diffonde, anche in Italia, l´uso delle armi da gioco e da difesa, armi da caccia e armi contro l´insicurezza, armi di paura, armi per diventare eroi, armi per diventare delinquenti. Sembra dunque incredibile che la ministra Gelmini pensi davvero che imparare a sparare permetta «di avvicinare, in modo innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alla forze armate, alla protezione civile, alla Croce rossa e ai gruppi volontari del soccorso». È vero il contrario: per educare e per allenare alla vita, la scuola dovrebbe, fra la altre cose, smontare la cultura della armi e insegnare a vivere con compostezza, perché i fucili, le pistole e le pallottole prima o poi trovano un nemico da abbattere: «Se al primo atto il fucile è appeso al muro, al terzo sicuramente sparerà».
Perché non insegnare allora la speciale camminata del protettore di strada, l´uso della mezza parola e dei baffoni a cespuglio o magari la loro variante padana, vale a dire il dito medio di Bossi che è come il ciuffo manzoniano, quello dei bravi? Le armi a scuola sono roba da Antistato, da picciotti appunto. La Gelmini è la loro nuova eroina se non altro perché in questo modo dimostra ai picciotti che tutto è professionale e tutto si può insegnare, anche l´accattonaggio. Esistono già le scuole, non certo comunali né regionali, nelle quali si insegna a sparare e a maneggiare bastoni e coltelli, ma anche a fingersi storpi o ciechi per impietosire la gente. E come tutti capiscono, ci vuole professionalità e tecnica anche per rubare motorini.
Come dicevamo all´inizio, facendo la caricatura dell´uomo delle caverne, Fiorello offrì a La Russa un passaporto per la simpatia. Ed è probabile che davvero a La Russa riuscì di prendere le distanze da quel se stesso che Fiorello così bene strapazzava. Ma adesso che il potere ce lo ha restituito al naturale, il brutto anatroccolo è ridiventato brutto anatroccolo. Ha perso la dignità umoristica ed è ritornato ad incarnare lo stereotipo, ridicolo ma non più simpatico, del fascista violento fuori dal tempo e fuori dal mondo. E gli si affianca la Gelmini che con cinica crudezza e con indecenza getta nella scuola-spazzatura tutte le ossessioni dei ministri del governo Berlusconi: i tagli di Tremonti, i fannulloni di Brunetta, i razzismi della Lega, il rancore verso i sindacati e il sessantotto, e ora l´arditismo del ministro della Difesa. Come ultima scelleratezza la Gelmini "addottora" infatti le armi e i miti primordiali di La Russa: appalta la scuola al selvaggio di destra con il totem della virilità.

Repubblica 24.9.10
Corsi militari a scuola, bufera in Lombardia
Un progetto di addestramento voluto da La Russa e Gelmini. "No agli studenti con l´elmetto"
di Sandro De Riccardis


Partecipano ottocento ragazzi di 140 istituti. L´indignazione di Famiglia cristiana

MILANO - Pattuglie di studenti che come soldati imparano a tirare con l´arco, a mirare e sparare con pistole ad aria compressa, a sperimentare tecniche di primo soccorso e arrampicata, ma anche di "superamento ostacoli e sopravvivenza in ambienti ostili". Come in guerra.
Un «progetto di addestramento», si legge nella circolare che recepisce il protocollo "Allenati alla vita", siglato tra la direzione scolastica della Lombardia e il comando militare dell´Esercito, «supportato dalla sinergia» tra i ministri della Difesa Ignazio La Russa e dell´Istruzione Maria Stella Gelmini. Un corso che coinvolge tutte le province lombarde, 800 studenti, 140 istruttori appartenenti all´Unione nazionale ufficiali in congedo d´Italia, 27 docenti e 38 scuole superiori. E che scatena le polemiche di opposizione e pacifisti, e anche del settimanale Famiglia Cristiana che ne ha dato per prima notizia. «È una scelta che sa di antico, e sembra appartenere a un´altra epoca» accusa don Antonio Sciortino, direttore del periodico. La Tavola della Pace parla di «studenti con l´elmetto». «Organizzati in pattuglie come quelle che girano per le strade dell´Afghanistan – attacca Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace – Non gli verrà chiesto di combattere i talebani ma solo di sbaragliare tutti gli avversari. Non sappiamo quale premio verrà riconosciuto ai vincitori».
Per tutti gli adolescenti, il corso è valido come credito formativo, si avvale di militari in congedo anche di ritorno da missioni all´estero, ha lo scopo di "far rivivere ai giovani esperienze di sport e giochi di squadra, ma anche introdurre corsi specifici e prove tecnico pratiche per avvicinare la realtà scolastica alle Forze armate, ai corpi dello Stato e alla Protezione civile e a gruppi volontari di soccorso". Per gli ideatori il corso serva anche a contrastare il bullismo, "grazie al lavoro di squadra che determina l´aumento dell´autostima individuale e il senso di appartenenza a un gruppo". Duro il commento del Partito democratico che ricorda le parole di Piero Calamandrei. «Si sta drammaticamente realizzando ciò che aveva prefigurato in un suo celeberrimo discorso – ricorda Francesca Puglisi, responsabile Scuola del partito –, il lento ritorno di una dittatura nel nostro paese, non con i carri armati per le strade ma distruggendo la scuola pubblica. Noi vogliamo che i nostri ragazzi apprendano in classe la cultura della pace, l´unica che potrà garantire a tutti un futuro». Di «scuola di guerra» parla anche il radicale Marco Perduca. Intanto, con una mozione in Consiglio regionale della Lombardia, il consigliere di Sinistra ecologia libertà Chiara Cremonesi chiede il ritiro immediato del protocollo. «Un opuscolo che ci lascia davvero esterrefatti – dice Cremonesi – Dieci pagine in cui gli studenti vengono chiamati "cadetti" e le squadre "pattuglie". Si tagliano materie importanti e si colpisce la qualità dell´insegnamento, compromettendo il futuro di un´intera generazione di studenti. Ma li si addestra a sparare».

Repubblica 24.9.10
Così si uccide la scuola pubblica
di Chiara Saraceno


Le maestre sono costrette a barcamenarsi, rallentano per non lasciare indietro gli alunni che partono svantaggiati

Una prima elementare a tempo pieno di una città del Nord, in un quartiere popolare con una forte presenza di immigrati. Trenta bambini per lo più eccitati dall´essere entrati tra i "grandi", ad imparare le cose "dei grandi", dopo il lungo apprendistato della scuola dell´infanzia, ove hanno da tempo imparato diverse cose, che un tempo si imparavano solo alla scuola elementare: non solo ad utilizzare il disegno come forma di comunicazione, ma a scrivere il proprio nome, riconoscere i segni identificativi del proprio e altrui posto, muoversi negli spazi e utilizzarli appropriatamente. Una buona metà sa già leggere e scrivere, pur con diversi livelli di competenza. Altri, anche tra gli italiani, fanno invece fatica ad esprimersi. Tra i figli di immigrati, ci sono diversi livelli di competenza linguistica: qualcuno padroneggia l´italiano come i coetanei italiani, con cui spesso è stato alla scuola materna, altri sono appena arrivati e stanno incominciando a impararlo, insieme a tutte le altre novità che comporta l´essere stato trapiantato in un paese sconosciuto.
Di fronte a questi bambini così diversi, ma tutti con le loro attese, curiosità, disponibilità ad essere conquistati dal meraviglioso mondo dell´apprendimento e della conoscenza, una sola maestra. Dato che la compresenza è stata eliminata in nome di esigenze di bilancio, ma anche perché la ministra e i suoi consiglieri la considerano uno spreco inutile di personale a solo vantaggio dei sindacati, una sola maestra per volta deve tener vivo l´interesse di trenta bambini, attenta a non scoraggiare chi è più avanti e a non lasciare irrimediabilmente indietro chi fa più fatica.
E dato che la ministra pensa che il modo migliore di integrare i bambini di provenienza non italiana sia separarli, se invece questi si trovano in mezzo ai coetanei italiani, non è previsto nessun insegnante che li segua nell´apprendimento della lingua (una misura da tempo inventata in paesi con una storia migratoria più lunga). Certo, negli anni Cinquanta e Sessanta le classi elementari potevano arrivare fino a 40 allievi. Ma era anche il tempo in cui i bambini erano molti di più e in un contesto di risorse - insegnanti, edifici - scarse c´era una sorta di trade off tra l´intento di fare in modo che tutti andassero a scuola e l´attenzione per i diversi ritmi e capacità di ciascuno. I bambini arrivavano a scuola con attitudini e competenze certamente differenziate per classe sociale, ma in un mondo ancora limitato al perimetro della famiglia e della scuola. Non c´era la televisione, il computer, internet. La pubblicità non aveva ancora scoperto i bambini come consumatori. E l´autorità e la disciplina erano lo strumento principe per tenere in ordine la classe, senza troppe preoccupazioni per gli effetti delle disuguaglianze sociali. Infatti i bocciati (già in prima elementare) appartenevano tutti alle classi più svantaggiate.
Quel mondo non esiste più, e le maestre lo sanno bene. Sanno anche che proprio perché i bambini oggi sono esposti ad una varietà di stimoli ed esperienze cognitive ben prima di arrivare nella scuola elementare, hanno bisogno di un insegnamento più dinamico e che riconosca le loro competenze e quindi più attento al diverso ritmo e sviluppo di ciascuno. Tanto più che proprio questa maggiore ricchezza di stimoli rischia di allargare le disuguaglianze sociali: tra i bambini che per appartenenza familiare sono in grado di trarne tutti i benefici ed invece quelli che ne sono esclusi. Ma non si può fare con questi numeri.
Così le maestre si barcamenano, rallentano le fasi dell´apprendimento per non lasciare troppo indietro quelli che partono svantaggiati, senza tuttavia poterlo fare del tutto. Così che comunque qualcuno sarà lasciato ad arrancare mentre i più svegli, o i più avvantaggiati, si annoieranno e forse perderanno per la strada la fiducia che avevano riposto in questa avventura. Ed i genitori che possono permetterselo si chiederanno se non sia meglio iscrivere il figlio ad una scuola privata. È così che si uccide la scuola pubblica, ma soprattutto la curiosità, la voglia di apprendere di chi vi entra con fiducia e desiderio. Non è colpa né delle maestre (che anzi fanno del loro meglio), né degli immigrati, né tantomeno dei bambini e dei loro genitori, con le loro diversità e disuguaglianze. È colpa di una gestione politica della scuola miope e indifferente all´esperienza dei bambini.

l’Unità 24.9.10
Il presidente Usa all’assemblea: moratoria delle colonie, il nuovo Stato entro un anno
Gerusalemme nega il boicottaggio del discorso: assenti perché è la festa sacra del Sukkot
Obama spinge per la Palestina All’Onu vuote le sedie di Israele
Un discorso coraggioso. «La vera sicurezza dello Stato Ebraico richiede una Palestina indipendente». È il messaggio di Barack Obama all’Assemblea generale dell’Onu. Il giallo delle sedie vuote di Israele.
di Umberto De Giovannangeli


Barack Obama lancia dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un messaggio politico. Che dà sostanza al «Nuovo Inizio» evocato dal presidente Usa nel suo discorso all’Università del Cairo. Obama rilancia. Se ci sarà un accordo di pace in Medio Oriente nei prossimi mesi, «quando torneremo qui l’anno prossimo potremmo avere un accordo che ci porterà uno nuovo membro delle Nazioni Unite: uno Stato indipendente di Palestina, che vive in pace con Israele», rimarca Obama prendendo la parola al Palazzo di Vetro in occasione della 65ma Assemblea Generale dell’Onu.
APPOGGIO ALL’ANP
«Non vi sbagliate: il coraggio di un uomo come il presidente (dell’Autorità Nazionale Palestinese) Abu Mazen, che difende il suo popolo di fronte al mondo, è decisamente più grande di coloro lanciano razzi contro donne e bambini innocenti», scandisce l’inquilino della Casa Bianca ribadendo il suo pieno appoggio alla leadership di Mahmud il moderato. «Ma pensate per un attimo all’alternativa – prosegue Obama nel suo ragionamento se non c’è un accordo, i palestinesi non conosceranno mai l’orgoglio e la dignità che conferisce uno Stato». Mentre «gli israeliani non conosceranno mai la certezza e il senso di sicurezza che può dare un vicino sovrano e stabile,che si è impegnato seriamente per una convivenza pacifica». La certezza di Obama è una sola: se il suo tentativo fallisce, bisognerà aspettare la prossima generazione per sperare di negoziare di nuovo. Per questo, il presidente americano si rivolge, in particolare, ai Paesi arabi perché facciano di più per sostenere concretamente una pace che finora hanno solo auspicato a parole. «In questa sala molti di voi si definiscono amici dei palestinesi afferma l’inquilino della Casa Bianca alle parole ora devono seguire i fatti».
Chi appoggia l’esistenza di una Palestina indipendente, «deve smettere di tentare di distruggere Israele». Secondo l’inquilino della Casa Bianca, «i tentativi di minacciare o uccidere israeliani non gioveranno in nulla al popolo palestinese, perché il massacro di israeliani innocenti non è resistenza, è ingiustizia». Obama afferma inoltre che «coloro che hanno sottoscritto l’Iniziativa di pace araba (presentata a Riad nel 2003, ndr) dovrebbero cogliere quest’opportunità di metterla in pratica, specificando e dimostrando nei fatti la normalizzazione che essa ha promesso a Israele». Inoltre, «coloro che prendono posizione per l’autogoverno palestinese dovrebbero sostenere i palestinesi con il loro appoggio politico e finanziario e, così facendo, aiutare i palestinesi a costruire le istituzioni del loro Stato». Obama chiede anche a Israele di estendere la moratoria della costruzione di insediamenti nei Territori occupati, incontrando subito il favore di Abu Mazen. Sulla questione Iran, Obama ha ribadito che «la porta resta aperta alla diplomazia se Teheran deciderà di varcare tale soglia»’. Ma il governo iraniano «deve dimostrare al mondo gli scopi pacifici del suo programma nucleare»’. Obama ha poi confermato che tutte le truppe Usa lasceranno l’Iraq entro l’anno prossimo mentre il ritiro dall’Afghanistan scatterà nel luglio 2011. La distruzione di Al Qaeda resta un’altra priorità del presidente Usa.
Ad ascoltare Obama, al Palazzo di Vetro, non c’è la delegazione d’Israele. Generalmente, anche in caso di boicottaggio, un funzionario di basso livello ascolta l’intervento in questione.
IL FALCO LIEBERMAN
A guidare la delegazione israeliana è il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, capofila dei falchi nel Governo dello Stato ebraico. Ma Israele nega qualsiasi boicottaggio del discorso del presidente Usa. Rispondendo ad una domanda, una portavoce della missione israeliana, Karean Perez, ha indicato: «No, non c’e’ stato nessun boicottaggio. Sukkot, iniziata ieri sera (mercoledì ndr) , è una festa sacra e oggi (ieri, ndr) non ci siamo. Domani (oggi) saremo presenti, e avevamo avvertito. All’Onu lo sanno». Il «giallo delle sedie vuote» cade nel giorno in cui della pubblicazione del rapporto della Commissione d’inchiesta del Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, che ha indagato sull’arrembaggio alla nave turca «Mavi Marmara» che provocò la morte di nove persone. Secondo il rapporto, la Marina militare israeliana è responsabile di «gravi violazioni dei diritti umani» ed ha fatto ricorso a una «brutalità inaccettabile» durante il blitz del 31 maggio scorso contro la flottiglia di aiuti umanitari diretta alla Striscia di Gaza.

l’Unità 24.9.10
L’esecuzione fissata per le tre del mattino, ora italiana, in un carcere della Virginia
Otto anni fa fece assassinare il marito ed il figliastro. I periti: mentalmente disabile
Usa, Teresa Lewis nelle mani del boia Per Teheran è la Sakineh americana
Fissata per le tre di stamane, ora italiana, in Virginia, l’esecuzione di Teresa Lewis, che il presidente iraniano Ahmadinejad ha definito la Sakineh americana. La donna nel 2002 fece uccidere il marito ed il figliastro.
di Gabriel Bertinetto


Mentre si avvicinava inesorabilmente l’ora dell’esecuzione (le tre di stamattina in Italia) Teresa Lewis, rassegnata al suo destino, ha chiesto che le servissero per l’ultima volta i piatti preferiti: pollo fritto, piselli, torta di mele. Ed una lattina di «Dr Pepper», una bevanda gassata analcolica. Teresa Lewis, 41 anni, condannata a morte come mandante dell’omicidio del marito e del figliasto, si è congedata dal mondo vivendo le sue ultime ore come se fosse una giornata qualsiasi.
FEDE IN DIO
Dopo i due consecutivi no alla richiesta di grazia, pronunciati prima dal governatore della Virginia e poi dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, le chances di una sospensione della sentenza si erano ridotte praticamente a zero. Mercoledì nel carcere «Greensville» di Jarratt, in Virginia, è andato a trovarla il sacerdote che da tempo ne era diventato il confidente ed assistente spirituale. Padre Lynn Litchfield è stato anche uno dei più attivi promotori della campagna per salvare la vita alla donna, che ha ammesso le sue colpe ed è stata giudicata parzialmente incapace di intendere in varie perizie psichiche.
«Da quando mi hanno condannato alla pena capitale, non ho fatto altro che affidarmi a Gesù e lasciare che entrasse nel mio cuore, nella mia mente, nella mia anima», ha scritto Teresa qualche tempo fa. Ma la conversione religiosa ed il pentimento non hanno impressionato la figliastra Cathy Clifton, che in nome della stessa fede in Dio ne ha sempre invocato la morte: «La Bibbia dice che se hai peccato, se violi la legge, devi essere punito». E per Cathy il castigo, nel caso della matrigna, non poteva essere altro che l’uccisione. Cathy ha lasciato ieri la sua casa nel distretto di Pittsylvania per assistere di persona all’esecuzione insieme al marito, una cognata, e un’amica.
VENDETTA DI STATO
La Virginia è uno degli Stati americani in cui le pena capitale viene applicata più spesso, ma da un secolo nessuna donna saliva sul patibolo. Forse l’evento avrebbe avuto scarso rilievo mediatico, senza la clamorosa accusa di Mahmoud Ahmadinejad, capo di Stato iraniano: gli Stati Uniti ci attaccano per il verdetto di morte contro Sakineh Ashtiani, ma a casa loro fanno esattamente le stesse cose. Un’accusa falsa. Sono due vicende molto diverse. E radicalmente diverso è il contesto giuridico in Iran, dove le garanzie di un processo equo sono minime, rispetto agli
Usa, dove gli avvocati hanno potuto liberamente svolgere il loro lavoro in difesa della loro assistita. Ad accomunare la sorte di Teresa e Sakineh è solo la loro vulnerabilità rispetto ad un istituto barbaro, la vendetta di Stato. Ancora ieri l'ambasciatore dell'Unione Europea negli Stati Uniti ha scritto al governatore della Virginia Bob McDonnell: «La Ue considera l'esecuzione di persone con disordini mentali contraria ai minimi standard di diritti umani». Ma l’ora fissata per la somministrazione del veleno letale si avvicinava, senza che dalle autorità americane arrivasse alcun segno tale da sperare in una marcia indietro in extremis.

l’Unità 24.9.10
Dal 1976 negli Usa mandati a morte 1226 condannati


Dal 1976, anno in cui la Corte Suprema reintrodusse in America la pena capitale, sono state messe a morte negli Stati Uniti 1.226 persone: 1.215 uomini e 11 donne. Nessuna in Virginia. Teresa Lewis, la disabile mentale di 41 anni, è la prima donna ad essere messa a morte in Virginia nell'arco di quasi cento anni. Nello Stato l'ultima esecuzione di una donna avvenne nel 1912, quando venne eseguita la sentenza nei confronti di Virginia Christian, una ragazza di 17 anni uccisa sulla sedia elettrica. Sempre in Virginia, la prima esecuzione documentata risale invece al 1632 con l'impiccagione di Jane Champion. Da quel giorno sono state 123 le donne messe a morte. Ma dal 1976, anno della reintroduzione della pena di morte, negli Stati Uniti sono state in tutto 11.

Repubblica 24.9.10
Sconto Ici alla Chiesa, la Ue processa l´Italia
di Alberto D'Argenio

Esenzioni per due miliardi l´anno. Bruxelles accelera: "Sono aiuti di Stato"
Diciotto mesi di tempo per indagare, poi la Commissione darà il suo verdetto
Se l´Italia sarà condannata, dovrà chiedere il rimborso delle tasse non pagate

BRUXELLES - Le esenzioni fiscali concesse alla Chiesa costano allo Stato italiano un´indagine formale dell´Ue per aiuti di Stato incompatibili con le norme sulla concorrenza. Dopo quattro anni di scambi di informazioni, due archiviazioni e una serie di controricorsi, Bruxelles mette in moto «un´indagine approfondita» sui privilegi fiscali attribuiti agli enti ecclesiastici in settori in cui "l´azienda Chiesa" (conta circa 100 mila fabbricati) è leader nazionale: ospedali, scuole private, alberghi e altre strutture commerciali che godono di un´esenzione totale dal pagamento dell´Ici e del 50% da quello sull´Ires. Con un risparmio annuo che si avvicina ai due miliardi di euro e conseguenti vantaggi competitivi rispetto ai concorrenti laici.
La procedura per aiuti di Stato sarà aperta a metà ottobre dalla Commissione europea. La decisione è già stata scritta e al momento è soggetta alle ultime limature. Nell´introduzione del documento redatto dal commissario alla Concorrenza Joaquin Almunia si legge: «Alla luce delle informazioni a disposizione la Commissione non può escludere che le misure costituiscano un aiuto di Stato e decide quindi di indagare oltre». In poche parole, da scambi di informazioni informali il dossier diventa ufficiale e fa scattare quella procedura di 18 mesi al termine della quale la Ue dovrà emettere un verdetto.
La procedura contro lo Stato italiano si articolerà su tre fronti: sotto accusa verranno subito messi il mancato pagamento dell´Ici e l´articolo 149 (4 comma) del Testo unico delle imposte sui redditi che conferisce a vita la qualifica di enti non commerciali a quelli ecclesiastici (non svolgete un´attività di impresa a prescindere e quindi pagate meno tasse). Il terzo filone riguarda lo sconto del 50% dell´Ires concesso agli enti della Chiesa che operano nella sanità e nell´istruzione: prenderà la forma di una richiesta di informazioni approfondita essendo risalente agli anni ´50, prima della nascita della Cee.
L´esenzione totale dall´Ici è stata introdotta nel dicembre 2005, in campagna elettorale, dal governo Berlusconi e quindi rivista da quello Prodi (2006) che messo sotto pressione dalla Ue aveva ristretto i privilegi solo alle attività "non esclusivamente commerciali". Intervento aggirato da ospedali o scuole che al loro interno hanno una piccola cappella. Le norme erano state portate a Bruxelles da una denuncia promossa dal radicale Maurizio Turco e del fiscalista Carlo Pontesilli (segretario di anticlericale.net) assistiti dall´avvocato Alessandro Nucara. L´allora commissaria Neelie Kroes aveva però archiviato due volte il caso e a Bruxelles in molti raccontano le fortissime pressioni ricevute da entrambe le sponde del Tevere. Di fronte all´ennesima archiviazione i denuncianti si sono rivolti alla Corte di giustizia e i legali di Bruxelles hanno convinto Almunia ad aprire la scomoda procedura (andare contro il Vaticano e un Paese fondatore non è mai consigliato) per evitare una condanna per inazione da parte dei giudici del Lussemburgo.
Condanna difficile da scampare leggendo le "conclusioni preliminari" contenute nel documento dello stesso Almunia: l´esistenza dell´aiuto di Stato è resa chiara dal «minor gettito per l´erario» e la norma viola la concorrenza in quanto i beneficiari degli sconti Ici «sembrano» essere in concorrenza con altri operatori nel settore turistico-alberghiero e della sanità. Insomma, le condizioni dell´esistenza dell´aiuto e della sua incompatibilità con le norme Ue «sembrano essere soddisfatte». Analisi curiosamente opposta a quella contenuta nelle due precedenti archiviazioni (2008 e 2010) quando non c´erano timori di una sconfessione da parte della Corte. Con l´apertura dell´indagine formale le parti avranno un mese per presentare le proprie ragioni. Quindi entro 18 mesi Bruxelles dovrà decidere se assolvere o condannare l´Italia, con conseguente fine dei privilegi e inevitabile rimborso all´erario delle tasse non pagate dagli enti ecclesiastici.

il Fatto 24.9.10
Prima della Tv
Radiotre sessant’anni sull’onda
Cosa rappresentò l’investimento culturale del fondatore Mantelli? La possibilità di uno spazio libero per parlare di arte senza condizionamenti politici

di Nicola Lagioia

Se come vuole la leggenda Mike Buongiorno avrebbe insegnato la lingua nazionale a un popolo di semianalfabeti diviso tra mille dialetti, a chi, nel mondo dei media, venne affidato invece il compito di confortare l'alfabetizzatissima schiera di italiani – non così minoritaria come si crede – che sognava un paese capace di rinascere anche culturalmente? Il Terzo Programma (Radio Tre a partire dal 1976) nacque sessant'anni fa, il 1 ottobre del 1950, sotto la direzione di Alberto Mantelli. Si trattò di un evento rivoluzionario almeno sotto tre profili: 1) per la prima volta un canale tematico si proponeva come alternativa alla filosofia generalista che fino a quel momento aveva caratterizzato la radio (e che caratterizzerà in modo sempre più invasivo e insopportabile la televisione); 2) il tema scelto era la cultura; 3) questo nuovo canale radiofonico veniva diffuso grazie a una tecnologia quasi del tutto nuova per l'epoca: insieme al Terzo Programma, era praticamente nata l'fm.
La sera di quel primo ottobre 1950 fu dedicata al mito di Orfeo. Il palinsesto si apriva con una conversazione di Emilio Cecchi sulla natura del mito. A seguire, tre ascolti di grande valore storico e musicale: L'Orfeo di Claudio Monteverdi, Orfeo all'Inferno di Jacques Offenbach, e Orfeo di Igor Stravinskij. Nei giorni immediatamente successivi si continuerà a parlare di musica e ad ascoltarla, ci saranno approfondimenti letterari su Pirandello, Jean Cocteau, Victor Hugo, e ancora musica con Hector Berlioz e altre serate "a soggetto" (su Gide, su Schumann, sulla Vienna della Finis Austriae, sulla Parigi del 1830). Una rete tutta culturale dunque, di profilo decisamente alto, in sintonia con quello che più o meno negli stessi anni stava accadendo in paesi come la Francia o l'Inghilterra del Bbc Third Programme: era questa insomma la scommessa.
L'impatto del Terzo Programma sugli ascoltatori radiofonici ebbe esiti interessanti quanto imprevisti, e fu la cartina di tornasole di un'Italia ancora poco censita sotto questo profilo. Si scoprì l'esistenza di un pubblico affamato di cultura, che apprezzava ma non si accontentava, che ringraziava anche affettuosamente per l'esistenza di un canale radiofonico capace di rendere sempre più remota l'esigenza di una “gita a Chiasso” (l’antidoto mettere il naso fuori dai confini nazionali che provocatoriamente Arbasino consigliava per debellare il provincialismo culturale  dell'Italia fascista e immediatamente post-fascista) ma che sapeva anche correggere, criticare, proporre... ascoltatori insomma che rilanciavano di continuo.
LA NASCITA della televisione, nel 1954, catalizzò ovviamente intorno a sé un pubblico in gran parte diverso da quello che seguiva il Terzo Programma, ma non si mise rispetto ad esso nella posizione di quasi insanabile contrapposizione che può esserci oggi – "quando sento parlare di cultura, metto la mano alla pistola", potrebbe dire con Goebbels l'attuale televisione generalista, e anche qualche nostro ministro. Se infatti da una parte la vecchia Rai parlava l'italiano di Mike Bongiorno (che era appunto un italiano televisivo, più povero e insipido di uno qualunque dei nostri dialetti, proprio mentre in radio a parlare di lingua e di dialetto in modo totalmente diverso venivano chiamati Bruno Migliorini e Giacomo Devoto) è pure vero che gli schermi televisivi dell'epoca non erano del tutto interdetti a gente come Eco, Calvino, Pasolini, Bene, Fo, e perché no Enzo Biagi. Così, a distanza di sessant'anni, la cosa più interessante da capire è probabilmente quale sia il ruolo di una radio culturale in un paese completamente mutato, stretto nella morsa di quella che in un recente saggio Massimo Panarari ha chiamato "l'egemonia sottoculturale". In un paese in cui la televisione è diventata inguardabile e la politica un degno specchio della televisione, a Radio Tre si continua invece a parlare di letteratura, di teatro, di scienza, di cinema, si mandano in diretta i concerti di musica classica, vengono interpellati ogni giorno scrittori, filosofi, registi, storici, musicisti... oppure si fa la radio fuori dalla radio (come lo speciale di quest'anno in diretta da Bologna nel trentennale della strage, o quello andato in onda dalla Casa della memoria e della storia di Roma, o la trasferta radiofonica dal festival teatrale di Santarcangelo). Si tratta dunque di un mondo fuori dal povero mondo italiano di questi anni? "Non un'isola felice, beata e separata", dice Marino Sinibaldi, direttore di Radio3 dall'agosto del 2009 nonché ideatore e conduttore per anni dell'ormai storica trasmissione Fahrenheit, "una penisola, semmai: ben attaccata alrestodelmondomaunpo'–o molto – diversa".
IN REALTÀ , con quasi tre milioni di ascoltatori al giorno e un incremento degli ascolti di oltre il venti punti secondo le ultime rilevazioni Audiradio, questa penisola nella penisola non è un rifugio per happy few e neanche un baluardo della resistenza culturale o semplicemente l'unica realtà mediatica sopravvissuta alla morte del servizio pubblico. Piuttosto, in questi anni Radio 3 è diventata uno dei più importanti luoghi di confronto per un'Italia parallela, viva e attiva, che frequenta le librerie, che continua ad andare a cinema e ai concerti, che si ritrova ai festival, che discute, si appassiona, prova a capire il proprio tempo, e cerca soprattutto di sintonizzarsi su un linguaggio molto diverso dal non-linguaggio di un mainstream sempre più autodistruttivo, nel tentativo di dimostrare e dimostrarsi infine che sì, un altro paese non è solo possibile, ma già esiste.