il manifesto 19.9.15
Sabra e Chatila, un popolo profugo
33 anni fa la strage a Beirut ad opera dei falangisti coordinati dall’esercito israeliano
Quest’anno tante delegazioni e da tutto il mondo. Dall’Italia anche tre deputati M5S
di Maurizio Musolino
BEIRUT Trentatré anni sono passati dalla strage di Sabra e Shatila e da allora ogni anno si rinnova la catarsi di un ricordo che è anche un guardarsi indietro, verso la propria storia fatta di sconfitte e speranze, e un cercare in quel drammatico evento le ragioni per andare avanti alla ricerca di un futuro difficile da individuare. Oggi come allora, infatti, si cerca di negare al popolo di Palestina il presente; ieri con la mattanza messa in atto dai falangisti alleati di Israele e oggi attraverso l’assenza di diritti e vessazioni di ogni tipo, disperdendoli nel mondo per cancellarne la memoria e la possibilità di futuro.
«Mio nonno era un palestinese e abitava in Galilea, poi venne la guerra, bruciarono i nostri villaggi. Ci rifugiammo prima in Libano, poi a Damasco. Da allora la mia famiglia divenne palestinese rifugiata in Siria. Io sono nata a Yarmuk, non ho mai capito bene cosa ero: palestinese, ma anche siriana… Non potevo negare le mie origini, la Palestina, ma la Siria era il paese che aveva accolto la mia famiglia e io ci vivevo bene. Poi la Siria è esplosa, Yarmuk è diventato teatro di scontri e violenze e sono fuggita in Libano, divenendo così una palestinese rifugiata in Siria che vive da profuga in Libano. Mio figlio oggi non vuole restare qui, ha 23 anni e vuole raggiungere un suo zio in Norvegia. Cosa diventerà? Non sappiamo più cosa siamo!». Parole semplici e nello stesso tempo piene di disperazione, dette da Amal, una dei tantissimi profughi che sono arrivati in questi mesi dalla Siria. Fra questi sono circa 40mila quelli di origine palestinese. Uno spaccato della tragedia di un popolo. Per lei il massacro di Sabra e Chatila è solo un ricordo, uno dei tanti brutti ricordi.
Sono in tanti a voler scacciare l’ombra del massacro compiuto dalle falangi libanesi (cristiani maroniti). Lo fanno da sempre gli esecutori, che continuano a negare spudoratamente quel crimine. Lo fa anche una parte della popolazione palestinese, frustrata dalle troppe ingiustizie subite e schiacciata da un futuro inesistente. Ma quel ricordo, quella memoria, resta viva, come una ferita aperta. Una ferita che si palesa negli occhi dei familiari delle vittime, che ostinatamente chiedono giustizia per i loro cari. Donne e anziani che portano sulle spalle la responsabilità di traghettare la memoria del popolo palestinese alle nuove generazioni.
Sono loro, queste famiglie di Chatila, la vera ossatura del Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila, fondato dal giornalista del manifesto Stefano Chiarini, insieme a pochi amici italiani, a Kassem Aina, di Beit Atfal Assomoud, una ong palestinese, e Talal Salman, intellettuale arabo e direttore del quotidiano libanese Assafir. Il Comitato in questi giorni è a Beirut per chiedere giustizia per i morti e diritti per i vivi, quei quattrocentomila palestinesi che nel Paese dei Cedri non si vedono riconosciuti neanche i diritti fondamentali.
Quest’anno insieme alla delegazione italiana, che vede la presenza anche di tre parlamentari del M5S giunti a Beirut per partecipare alle celebrazioni del massacro, c’è una vasta rappresentanza proveniente da altri paesi: Usa, Malesia, Singapore, Norvegia, Francia, Finlandia, Spagna, ma soprattutto tanti palestinesi che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania. Sono proprio i palestinesi di Gaza a denunciare con forza la condizione inumana a cui è condannata la popolazione che vive a Chatila, a Bourj al Barajne… nei campi in Libano. «Non possiamo restare zitti, questi campi sono cimiteri». Lo grida il coordinatore delle associazioni caritatevoli della Cisgiordania, «ieri ho visitato Chatila – prosegue — e ho provato vergogna. Una situazione intollerabile! Come si è arrivati a ciò? Come è stato possibile?». Nella risposta c’è tutta l’attuale crisi palestinese, una crisi di prospettiva, politica e sociale.
Si interroga sulle stesso tema il sindaco di Ghobeiry, la municipalità dove insiste il campo martire: «questo campo è un luogo inumano, inadatto alla vita delle persone. Lo sanno tutti, ma nessun vuole cambiare questa situazione. Da tempo denuncio questo e chiedo di poter intervenire drasticamente, e mi scontro contro un muro di gomma. I libanesi hanno paura che i palestinesi si stabilizzino qui, ma non sarà così, la loro patria resta la Palestina».
Ed è proprio la paura che sembra farla da padrona in questa parte del mondo. Paura dell’integralismo di Daesh (Isis), e del suo fanatismo criminale. Paura di ricadere in conflitti confessionali.
Ma anche paura di essere dimenticati, come rischiano di esserlo i rifugiati palestinesi in Libano: «Le crisi si sommano – ci spiega Salman Natour — prima i profughi dell’Iraq, ora quelli dalla Siria, nessuno sembra più volersi occupare dei palestinesi e dei diritti che gli vengono negati».
Ci spiegano cosa vuol dire vivere in un campo i rappresentanti del comitato popolare di Jalil, un piccolo campo vicino a Balbek: «tanti giovani ci dicono di voler partire, di voler prendere il mare per raggiungere l’Europa. Noi gli diciamo di no, di restare, gli raccontiamo delle morti nel Mediterraneo, dei respingimenti delle vostre polizie, gli spieghiamo che si deve restare qui per continuare a lottare affinché un giorno si possa ritornare in Palestina, ma poi ci accorgiamo che oltre le parole non abbiamo nulla da offrirgli e li lasciamo alle loro scelte. Senza un lavoro e senza la possibilità di avere un futuro cosa possiamo fare?».
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 19 settembre 2015
il manifesto 19.9.15
Parte da Gerusalemme la demonizzazione dei palestinesi
Perchè il governo israeliano, i media e l'opposizione laburista dipingono un quadro da Terza Intifada?
Ingigantendo le proteste palestinesi per la vicenda della Spianata delle moschee forse si cerca di archiviare lo Stato di Palestina
Ieri sera un razzo sparato da Gaza ha colpito Sderot. Nessun ferito.
Michele Giorgio
GERUSALEMME La tensione è stata forte anche ieri a Gerusalemme Est e nei sobborghi palestinesi vicini alla città. Decine i feriti, tra i quali tre poliziotti. Soprattutto in Cisgiordania dove oltre ai feriti da proiettili rivestiti di gomma e calibro 22, parecchi dimostranti palestinesi sono rimasti intossicati dai lacrimogeni. A Qalandiya, Kufr Qaddum, Bilin, Hebron e altre località centinaia di giovani hanno affrontato i soldati per ore. A Gerusalemme 5000 mila poliziotti – la Knesset ha autorizzato l’impiego anche dei riservisti della Guardia di Frontiera — hanno blindato la città vecchia e impedito ai fedeli musulmani con meno di 40 anni l’accesso alla Spianata delle moschee. All’interno delle mura antiche i poliziotti hanno bloccato sul nascere, non mancando di pestare alcuni giovani, ogni accenno di protesta. La “giornata di rabbia” ha visto ieri sera un razzo sparato da Gaza (forse da gruppi salafiti) colpire la cittadina israeliana di Sderot, dove ha causato danni a un bus e alcune auto ma non alle persone (la scorsa notte si attendeva la risposta israeliana).
Tuttavia, nonostante le parole grosse e i toni da guerra usati dalle autorità israeliane, la contestazione palestinese per le “visite” sulla Spianata di coloro che sono descritti dal governo Netanyahu come “gruppi di turisti ebrei” (in realtà sono attivisti della destra che reclamano la sovranità sul biblico Monte del Tempio) non ha affatto toccato livelli mai raggiunti, anzi. E’ ancora vivo il ricordo delle manifestazioni di un anno fa, con scontri senza sosta tra centinaia di shebab palestinesi e polizia, andate avanti per settimane dopo che alcuni israeliani, per vendicare l’uccisione di tre ragazzi ebrei in Cisgiordania, bruciarono vivo l’adolescente Mohammed Abu Khdeir, e in risposta all’operazione militare “Margine Protettivo” contro Gaza. A Gerusalemme ci fu anche quella che i media israeliani chiamarono “l’Intifada delle auto” – lanciate in corsa da palestinesi contro fermate d’autobus e del tram — che causò alcune vittime. Certo, il clima è torrido, ma tra ciò che registriamo in questi giorni e la situazione di un anno fa la differenza è enorme.
Perchè il governo israeliano, i media e l’opposizione laburista dipingono un quadro da Terza Intifada? Perchè i lanci di pietre sono descritti come “attacchi armati” da punire con il massimo della severità? Le pietre scagliate dai palestinesi, sin dalla prima Intifada contro l’occupazione israeliana, hanno causato vittime anche negli anni passati, non solo in questi ultimi giorni. Gli stessi capi dei servizi di sicurezza e i comandi militari ripetono che non è in corso una nuova rivolta. La sensazione è che la guerra proclamata dal governo Netanyahu alla “violenza palestinese”, le accuse di incediare la situazione rivolte al presidente dell’Anp Abu Mazen e i toni apocalittici usati per descrivere Gerusalemme Est in questi giorni, siano figli anche di ragioni di opportunità politica e dei rapporti difficili tra il governo israeliano e l’Amministrazione Obama dopo la firma dell’accordo di Vienna che ha riconosciuto il programma nucleare iraniano. Senza dimenticare le tensioni con Bruxelles, a cominciare dalla fermezza, che Israele non si aspettava, con cui l’Ue pare decisa a “escludere” le colonie ebraiche in Cisgiordania dai rapporti commerciali firmati con Tel Aviv. Il primo ministro Netanyahu chiede di più delle armi promesse da Washington per digerire le intese di Vienna. Vuole che la questione dello Stato di Palestina sia archiviata, vuole che le colonie israeliane siano riconosciute. La demonizzazione dei palestinesi è un passaggio fondamentale per ottenerlo.
Parte da Gerusalemme la demonizzazione dei palestinesi
Perchè il governo israeliano, i media e l'opposizione laburista dipingono un quadro da Terza Intifada?
Ingigantendo le proteste palestinesi per la vicenda della Spianata delle moschee forse si cerca di archiviare lo Stato di Palestina
Ieri sera un razzo sparato da Gaza ha colpito Sderot. Nessun ferito.
Michele Giorgio
GERUSALEMME La tensione è stata forte anche ieri a Gerusalemme Est e nei sobborghi palestinesi vicini alla città. Decine i feriti, tra i quali tre poliziotti. Soprattutto in Cisgiordania dove oltre ai feriti da proiettili rivestiti di gomma e calibro 22, parecchi dimostranti palestinesi sono rimasti intossicati dai lacrimogeni. A Qalandiya, Kufr Qaddum, Bilin, Hebron e altre località centinaia di giovani hanno affrontato i soldati per ore. A Gerusalemme 5000 mila poliziotti – la Knesset ha autorizzato l’impiego anche dei riservisti della Guardia di Frontiera — hanno blindato la città vecchia e impedito ai fedeli musulmani con meno di 40 anni l’accesso alla Spianata delle moschee. All’interno delle mura antiche i poliziotti hanno bloccato sul nascere, non mancando di pestare alcuni giovani, ogni accenno di protesta. La “giornata di rabbia” ha visto ieri sera un razzo sparato da Gaza (forse da gruppi salafiti) colpire la cittadina israeliana di Sderot, dove ha causato danni a un bus e alcune auto ma non alle persone (la scorsa notte si attendeva la risposta israeliana).
Tuttavia, nonostante le parole grosse e i toni da guerra usati dalle autorità israeliane, la contestazione palestinese per le “visite” sulla Spianata di coloro che sono descritti dal governo Netanyahu come “gruppi di turisti ebrei” (in realtà sono attivisti della destra che reclamano la sovranità sul biblico Monte del Tempio) non ha affatto toccato livelli mai raggiunti, anzi. E’ ancora vivo il ricordo delle manifestazioni di un anno fa, con scontri senza sosta tra centinaia di shebab palestinesi e polizia, andate avanti per settimane dopo che alcuni israeliani, per vendicare l’uccisione di tre ragazzi ebrei in Cisgiordania, bruciarono vivo l’adolescente Mohammed Abu Khdeir, e in risposta all’operazione militare “Margine Protettivo” contro Gaza. A Gerusalemme ci fu anche quella che i media israeliani chiamarono “l’Intifada delle auto” – lanciate in corsa da palestinesi contro fermate d’autobus e del tram — che causò alcune vittime. Certo, il clima è torrido, ma tra ciò che registriamo in questi giorni e la situazione di un anno fa la differenza è enorme.
Perchè il governo israeliano, i media e l’opposizione laburista dipingono un quadro da Terza Intifada? Perchè i lanci di pietre sono descritti come “attacchi armati” da punire con il massimo della severità? Le pietre scagliate dai palestinesi, sin dalla prima Intifada contro l’occupazione israeliana, hanno causato vittime anche negli anni passati, non solo in questi ultimi giorni. Gli stessi capi dei servizi di sicurezza e i comandi militari ripetono che non è in corso una nuova rivolta. La sensazione è che la guerra proclamata dal governo Netanyahu alla “violenza palestinese”, le accuse di incediare la situazione rivolte al presidente dell’Anp Abu Mazen e i toni apocalittici usati per descrivere Gerusalemme Est in questi giorni, siano figli anche di ragioni di opportunità politica e dei rapporti difficili tra il governo israeliano e l’Amministrazione Obama dopo la firma dell’accordo di Vienna che ha riconosciuto il programma nucleare iraniano. Senza dimenticare le tensioni con Bruxelles, a cominciare dalla fermezza, che Israele non si aspettava, con cui l’Ue pare decisa a “escludere” le colonie ebraiche in Cisgiordania dai rapporti commerciali firmati con Tel Aviv. Il primo ministro Netanyahu chiede di più delle armi promesse da Washington per digerire le intese di Vienna. Vuole che la questione dello Stato di Palestina sia archiviata, vuole che le colonie israeliane siano riconosciute. La demonizzazione dei palestinesi è un passaggio fondamentale per ottenerlo.
il manifesto 19.9.15
Grecia, restare sul ring per tenere aperta la possibilità dell’alternativa
Tsipras e Iglesias ad Atene nel luglio scorso
di Luciana Castellina
Non sono greca e perciò domenica non voto. Tantomeno sono autorizzata a suggerire ai greci come votare. Ma non me la sento nemmeno di dire che questa mia astensione deriva dal fatto che i loro sono affari che non mi riguardano. Se un anno fa in tanti ci siamo ritrovati a sostenere (o meglio a costruire) una lista che si è chiamata l’«altra Europa con Tsipras» non è stato per via di una stravaganza modaiola, perchè Siryza stava vincendo e noi in Italia no. E’ stato perchè abbiamo capito che la partita che Alexis stava ingaggiando con i mostri dell’euro capitalismo era anche la nostra partita.
Per questo oggi, almeno virtualmente, votiamo anche noi. Come andrà a finire la vicenda greca riguarda tutti gli europei. Perché il governo di Syriza ha aperto, finalmente, un contenzioso di carattere generale su cosa debba e cosa non debba essere l’Unione Europea, una questione che è destinata a segnare il nostro futuro e dunque tutti ci coinvolge.
Fino al luglio scorso su quale fosse la nostra parte politica non ci sono stati dubbi. È facile quando le cose si sviluppano in modo lineare. Purtroppo, però, non accade quasi mai. Non è accaduto neppure in questo caso. Sappiamo tutti di cosa sto parlando: della rottura che si è verificata in Syriza per via di un diverso giudizio su un quesito reso drammatico dalle condizioni feroci in cui è stato posto: accettare, pur considerandolo tremendo, di gestire il memorandum che conteneva il diktat della Troika, sperando di riuscire ad evitare i danni peggiori, e cioè cercando di rendere almeno un po’ più equa la stupida austerità imposta, oppure rifiutare, e scegliere la strada impervia di una isolata uscita dall’Eurozona.
Io sono fra coloro che ritengono la scelta di Tsipras sacrosanta. L’uscita isolata dall’euro avrebbe avuto costi insostenibili per un paese che non è autosufficente in quasi nulla, che sarebbe stato comunque obbligato a ripagare il debito, che si sarebbe trovato nelle condizioni di non riuscire a far fronte alle esigenze più elementari di sopravvivenza.
Francamente il Piano B presentato da Varoufakis e l’opzione sostenuta da chi da Syriza ha pensato di doversene andare non mi convince.
Sono d’accordo con Tsipras non perchè ritengo si debba in ogni circostanza privilegiare lo stare al governo sebbene impotenti anzichè all’opposizione.
Ma perché quello su cui occorre decidere è quale delle due opzioni permette di accumulare più forza per costruire una alternativa reale. Per difficile che sia, nella concreta situazione greca, rinunciare a quel tanto di potere che ha anche un governo stretto dalla Troika lascerebbe il paese alla frustrazione e allo sbando.
Domenica non si vota per scegliere fra Piano A — cercare di gestire al meglio il Memorandum e prendere tempo — e Piano B, andarsene dall’Euro mandando al diavolo Bruxelles. Il conflitto su queste due possibili opzioni ha lacerato Syriza, ha diviso compagni con cui abbiamo lottato e cui ci legano amicizia e anche affetti di lunga data. È un dibattito legittimo, almeno fin quando non assume i toni rituali della peggior tradizione comunista: l’accusa reciproca di tradimento. È un dibattito che non è destinato ad esaurirsi il 20 di settembre.
Sebbene io condivida la scelta di Tsipras e della maggioranza di Syriza ritengo che l’opzione di porre fine alla moneta unica europea sia una discussione degna di attenzione. Se però si tratterà di una scelta condivisa da almeno un certo numero di governi e comunque da un forte schieramento politico sociale europeo; e da un progetto alternativo che non rischi di mandare all’aria, assieme all’Unione Monetaria, anche la speranza di una unione politica.
Di cui abbiamo bisogno se vogliamo ridare alla politica, e dunque a un controllo del mercato da parte dei cittadini, qualche speranza. Perché a livello nazionale non sarà mai più possibile, e a livello globale è illusorio, L’articolazione regionale che si chiama Europa è l’ultima possibilità che abbiamo: perchè si tratta di una dimensione ragionevole e perché questo territorio, nonostante tutti crimini che le sue classi dirigenti hanno perpetrato nei secoli, è anche e direi sopratutto, il continente dove la storia ha prodotto il più alto livello di lotte liberatorie e di conquiste sociali e politiche. Non è poco, e non vorrei mettere a rischio questo patrimonio che rappresenta una base solida da cui ripartire per ritrovarmi una pagliuzza dispersa nel globo. Per questo ritengo che si debba rimanere sul ring, e non andarsene come un pugile frustrato, cacciato dall’arroganza di Scheubele. Io domenica, col cuore, voto per Alexis. E lo voterei anche se fossi convinta che occorre uscire dall’Euro. Perchè ognuna delle due ipotesi ha bisogno che al governo in Grecia non torni la destra. Per lasciar aperta una speranza è necessario salvaguardare il primo governo di sinistra della Grecia, quello di Syriza.
Grecia, restare sul ring per tenere aperta la possibilità dell’alternativa
Tsipras e Iglesias ad Atene nel luglio scorso
di Luciana Castellina
Non sono greca e perciò domenica non voto. Tantomeno sono autorizzata a suggerire ai greci come votare. Ma non me la sento nemmeno di dire che questa mia astensione deriva dal fatto che i loro sono affari che non mi riguardano. Se un anno fa in tanti ci siamo ritrovati a sostenere (o meglio a costruire) una lista che si è chiamata l’«altra Europa con Tsipras» non è stato per via di una stravaganza modaiola, perchè Siryza stava vincendo e noi in Italia no. E’ stato perchè abbiamo capito che la partita che Alexis stava ingaggiando con i mostri dell’euro capitalismo era anche la nostra partita.
Per questo oggi, almeno virtualmente, votiamo anche noi. Come andrà a finire la vicenda greca riguarda tutti gli europei. Perché il governo di Syriza ha aperto, finalmente, un contenzioso di carattere generale su cosa debba e cosa non debba essere l’Unione Europea, una questione che è destinata a segnare il nostro futuro e dunque tutti ci coinvolge.
Fino al luglio scorso su quale fosse la nostra parte politica non ci sono stati dubbi. È facile quando le cose si sviluppano in modo lineare. Purtroppo, però, non accade quasi mai. Non è accaduto neppure in questo caso. Sappiamo tutti di cosa sto parlando: della rottura che si è verificata in Syriza per via di un diverso giudizio su un quesito reso drammatico dalle condizioni feroci in cui è stato posto: accettare, pur considerandolo tremendo, di gestire il memorandum che conteneva il diktat della Troika, sperando di riuscire ad evitare i danni peggiori, e cioè cercando di rendere almeno un po’ più equa la stupida austerità imposta, oppure rifiutare, e scegliere la strada impervia di una isolata uscita dall’Eurozona.
Io sono fra coloro che ritengono la scelta di Tsipras sacrosanta. L’uscita isolata dall’euro avrebbe avuto costi insostenibili per un paese che non è autosufficente in quasi nulla, che sarebbe stato comunque obbligato a ripagare il debito, che si sarebbe trovato nelle condizioni di non riuscire a far fronte alle esigenze più elementari di sopravvivenza.
Francamente il Piano B presentato da Varoufakis e l’opzione sostenuta da chi da Syriza ha pensato di doversene andare non mi convince.
Sono d’accordo con Tsipras non perchè ritengo si debba in ogni circostanza privilegiare lo stare al governo sebbene impotenti anzichè all’opposizione.
Ma perché quello su cui occorre decidere è quale delle due opzioni permette di accumulare più forza per costruire una alternativa reale. Per difficile che sia, nella concreta situazione greca, rinunciare a quel tanto di potere che ha anche un governo stretto dalla Troika lascerebbe il paese alla frustrazione e allo sbando.
Domenica non si vota per scegliere fra Piano A — cercare di gestire al meglio il Memorandum e prendere tempo — e Piano B, andarsene dall’Euro mandando al diavolo Bruxelles. Il conflitto su queste due possibili opzioni ha lacerato Syriza, ha diviso compagni con cui abbiamo lottato e cui ci legano amicizia e anche affetti di lunga data. È un dibattito legittimo, almeno fin quando non assume i toni rituali della peggior tradizione comunista: l’accusa reciproca di tradimento. È un dibattito che non è destinato ad esaurirsi il 20 di settembre.
Sebbene io condivida la scelta di Tsipras e della maggioranza di Syriza ritengo che l’opzione di porre fine alla moneta unica europea sia una discussione degna di attenzione. Se però si tratterà di una scelta condivisa da almeno un certo numero di governi e comunque da un forte schieramento politico sociale europeo; e da un progetto alternativo che non rischi di mandare all’aria, assieme all’Unione Monetaria, anche la speranza di una unione politica.
Di cui abbiamo bisogno se vogliamo ridare alla politica, e dunque a un controllo del mercato da parte dei cittadini, qualche speranza. Perché a livello nazionale non sarà mai più possibile, e a livello globale è illusorio, L’articolazione regionale che si chiama Europa è l’ultima possibilità che abbiamo: perchè si tratta di una dimensione ragionevole e perché questo territorio, nonostante tutti crimini che le sue classi dirigenti hanno perpetrato nei secoli, è anche e direi sopratutto, il continente dove la storia ha prodotto il più alto livello di lotte liberatorie e di conquiste sociali e politiche. Non è poco, e non vorrei mettere a rischio questo patrimonio che rappresenta una base solida da cui ripartire per ritrovarmi una pagliuzza dispersa nel globo. Per questo ritengo che si debba rimanere sul ring, e non andarsene come un pugile frustrato, cacciato dall’arroganza di Scheubele. Io domenica, col cuore, voto per Alexis. E lo voterei anche se fossi convinta che occorre uscire dall’Euro. Perchè ognuna delle due ipotesi ha bisogno che al governo in Grecia non torni la destra. Per lasciar aperta una speranza è necessario salvaguardare il primo governo di sinistra della Grecia, quello di Syriza.
Il Sole 19.9.15
Protagonisti e strategie nella partita del Senato
di Montesquieu
Giunti a questo punto, alla vigilia delle giornate in cui si capirà se la marcia dei protagonisti della discussione sul nuovo Senato arriverà a una confluenza, come si richiede ad un procedimento legislativo, è forse utile osservare retrospettivamente i comportamenti dei singoli protagonisti.
Partendo, per un doveroso omaggio alla funzione ed alla sede, dal “ padrone di casa”, il presidente del Senato. Al presidente del Senato piacciono, evidentemente, i finali con suspense: non si deve sapere fino all’ultimo istante come affronterà e deciderà sulla vexata quaestio della emendabilità di un articolo già votato dalle due camere in identico testo. Situazione che dovrebbe dare almeno una certezza, quella dell’inemendabilità: se non fosse che a ben guardare una (piccola?) differenza c’è tra i due testi. Possibile che il presidente del Senato, unico dominus della situazione, non conosca la decisione che prenderà? Sarebbe strano, e si stenta a capire il perché del prolungarsi di una tensione – e quale tensione – non necessaria, il motivo di un finale a sorpresa. Quanta parte di questa tensione è dovuta a questo inutile mistero? Costruita ad arte, in un procedimento di per sé ingarbugliato, agitato da possibili rotture interne e tra i partiti, e nel quale non è possibile tracciare nemmeno i confini tra maggioranza e opposizione. Il tutto sull’orlo di una crisi di governo sempre possibile, e dalle conseguenze impreviste. Buona parte dei partiti, ad eccezione del granitico – nello stare a guardare – Movimento 5 Stelle, hanno infatti un pezzo dentro e una parte fuori della maggioranza.
Forse per “ stanare” ( termine non parlamentare) il vertice dell’assemblea, il presidente della commissione Affari costituzionali ne prende di fatto le veci, butta il testo con tutte le sue questioni – non complicate ma politicamente intricate – dalla sede della propria competenza direttamente all’aula , facendo intendere come si risolva il problema. Collaborazione da mettere a punto, quella tra i due, con qualche difetto di terzietà e un sovrappiù di politica. E un pizzico di personalismo. Protagonista assoluto fuori e dentro le camere (nulla di istituzionalmente scandaloso, qualche sbavatura nelle forme), il capo del governo. Partito con un lodevole intento unificante, si ritrova con un esercito in cui non si distinguono maggioranza e opposizione. Non per sua colpa, si dirà, ed è così. Ma la disinvoltura di certe pratiche di mobilità parlamentare non veniva perdonata ad un suo predecessore. E, a riforma approvata, sarà meglio non voltarsi indietro per rimirare il nuovo “arco costituzionale”. Ma per trasformare una vicenda così importante e delicata in una riforma costituzionale compiuta, non si deve temere che un compromesso sembri una sconfitta. Tante ragioni, tra queste non la pretesa di uscirne “ vincitore”( altro termine non elegante, nel linguaggio delle camere) anche non disponendo di una maggioranza.
?A complicare le cose, la difficoltà di capire quanto ci sia di battaglia parlamentare e quanto di sfida politica nella condotta parascissionistica della minoranza del partito democratico, che non cesserà con questa battaglia legislativa. E viceversa.
Perché anche il capo del governo non sembra scosso dalla virulenza della sfida: chi dei due – Renzi ( e la maggioranza ) o Bersani (per dirne uno) – sarebbe più dispiaciuto da una rottura?
Tanti protagonisti, ma anche un comprimario, il piccolo Nuovo centrodestra , portatore di una curiosa posizione: per votare una legge, chiede di cambiarne un’altra, quella elettorale appena approvata.
Dei due arbitri possibili – Capo dello Stato in carica e suo predecessore, per esperienza nella funzione – il secondo si è schierato, e non lievemente. Resta Sergio Mattarella, l’unico a decidere in caso di patatrac. Lui, non altri, almeno a Costituzione (in questo caso fortunatamente) vigente. Che farebbe? Nessuno, per rispetto, dovrebbe interpretarne (o peggio anticiparne) le mosse. Nemmeno i soliti, mai quiescenti , “ambienti del Colle” (altro termine non istituzionale): alla competente riservatezza del Capo dello Stato ed all’autorevolezza delle sue decisioni non giovano approssimative previsioni e indiscrezioni.
Protagonisti e strategie nella partita del Senato
di Montesquieu
Giunti a questo punto, alla vigilia delle giornate in cui si capirà se la marcia dei protagonisti della discussione sul nuovo Senato arriverà a una confluenza, come si richiede ad un procedimento legislativo, è forse utile osservare retrospettivamente i comportamenti dei singoli protagonisti.
Partendo, per un doveroso omaggio alla funzione ed alla sede, dal “ padrone di casa”, il presidente del Senato. Al presidente del Senato piacciono, evidentemente, i finali con suspense: non si deve sapere fino all’ultimo istante come affronterà e deciderà sulla vexata quaestio della emendabilità di un articolo già votato dalle due camere in identico testo. Situazione che dovrebbe dare almeno una certezza, quella dell’inemendabilità: se non fosse che a ben guardare una (piccola?) differenza c’è tra i due testi. Possibile che il presidente del Senato, unico dominus della situazione, non conosca la decisione che prenderà? Sarebbe strano, e si stenta a capire il perché del prolungarsi di una tensione – e quale tensione – non necessaria, il motivo di un finale a sorpresa. Quanta parte di questa tensione è dovuta a questo inutile mistero? Costruita ad arte, in un procedimento di per sé ingarbugliato, agitato da possibili rotture interne e tra i partiti, e nel quale non è possibile tracciare nemmeno i confini tra maggioranza e opposizione. Il tutto sull’orlo di una crisi di governo sempre possibile, e dalle conseguenze impreviste. Buona parte dei partiti, ad eccezione del granitico – nello stare a guardare – Movimento 5 Stelle, hanno infatti un pezzo dentro e una parte fuori della maggioranza.
Forse per “ stanare” ( termine non parlamentare) il vertice dell’assemblea, il presidente della commissione Affari costituzionali ne prende di fatto le veci, butta il testo con tutte le sue questioni – non complicate ma politicamente intricate – dalla sede della propria competenza direttamente all’aula , facendo intendere come si risolva il problema. Collaborazione da mettere a punto, quella tra i due, con qualche difetto di terzietà e un sovrappiù di politica. E un pizzico di personalismo. Protagonista assoluto fuori e dentro le camere (nulla di istituzionalmente scandaloso, qualche sbavatura nelle forme), il capo del governo. Partito con un lodevole intento unificante, si ritrova con un esercito in cui non si distinguono maggioranza e opposizione. Non per sua colpa, si dirà, ed è così. Ma la disinvoltura di certe pratiche di mobilità parlamentare non veniva perdonata ad un suo predecessore. E, a riforma approvata, sarà meglio non voltarsi indietro per rimirare il nuovo “arco costituzionale”. Ma per trasformare una vicenda così importante e delicata in una riforma costituzionale compiuta, non si deve temere che un compromesso sembri una sconfitta. Tante ragioni, tra queste non la pretesa di uscirne “ vincitore”( altro termine non elegante, nel linguaggio delle camere) anche non disponendo di una maggioranza.
?A complicare le cose, la difficoltà di capire quanto ci sia di battaglia parlamentare e quanto di sfida politica nella condotta parascissionistica della minoranza del partito democratico, che non cesserà con questa battaglia legislativa. E viceversa.
Perché anche il capo del governo non sembra scosso dalla virulenza della sfida: chi dei due – Renzi ( e la maggioranza ) o Bersani (per dirne uno) – sarebbe più dispiaciuto da una rottura?
Tanti protagonisti, ma anche un comprimario, il piccolo Nuovo centrodestra , portatore di una curiosa posizione: per votare una legge, chiede di cambiarne un’altra, quella elettorale appena approvata.
Dei due arbitri possibili – Capo dello Stato in carica e suo predecessore, per esperienza nella funzione – il secondo si è schierato, e non lievemente. Resta Sergio Mattarella, l’unico a decidere in caso di patatrac. Lui, non altri, almeno a Costituzione (in questo caso fortunatamente) vigente. Che farebbe? Nessuno, per rispetto, dovrebbe interpretarne (o peggio anticiparne) le mosse. Nemmeno i soliti, mai quiescenti , “ambienti del Colle” (altro termine non istituzionale): alla competente riservatezza del Capo dello Stato ed all’autorevolezza delle sue decisioni non giovano approssimative previsioni e indiscrezioni.
GIANNI
Corriere 19.9.15
Scoperta sulla facciata di San Nicola a Pisa la sequenza di Fibonacci
Ci sono scoperte rigorosamente scientifiche che a volte hanno il sapore del romanzo. E quella che si è appena consumata a Pisa sembra essere uscita dai thriller esoterici di Dan Brown. Dal restauro dei marmi della facciata duecentesca della chiesa di San Nicola, non lontana da Piazza dei Miracoli, è stato possibile decifrare un intarsio che non solo richiama il pensiero di Leonardo Fibonacci (1175 circa - 1235 circa), uno dei più grandi matematici del Medioevo, ma si rappresenta come un abaco, una sorta di proto-computer. In altre parole la lunetta e i suoi simboli sono rappresentati seguendo la famosa «sequenza Fibonacci», successione numerica dotata di una singolare proprietà matematica che prosegue all’infinito: ogni elemento (a partire dal secondo) è uguale alla somma dei due precedenti. Secondo Pietro Armienti, docente all’ateneo pisano, il messaggio scolpito nella lunetta del portale dimostra che l’intarsio di fatto è un abaco per rappresentare numeri irrazionali e per calcolare i lati dei poligoni regolari inscritti nel cerchio di diametro maggiore.
Corriere 19.9.15
Scoperta sulla facciata di San Nicola a Pisa la sequenza di Fibonacci
Ci sono scoperte rigorosamente scientifiche che a volte hanno il sapore del romanzo. E quella che si è appena consumata a Pisa sembra essere uscita dai thriller esoterici di Dan Brown. Dal restauro dei marmi della facciata duecentesca della chiesa di San Nicola, non lontana da Piazza dei Miracoli, è stato possibile decifrare un intarsio che non solo richiama il pensiero di Leonardo Fibonacci (1175 circa - 1235 circa), uno dei più grandi matematici del Medioevo, ma si rappresenta come un abaco, una sorta di proto-computer. In altre parole la lunetta e i suoi simboli sono rappresentati seguendo la famosa «sequenza Fibonacci», successione numerica dotata di una singolare proprietà matematica che prosegue all’infinito: ogni elemento (a partire dal secondo) è uguale alla somma dei due precedenti. Secondo Pietro Armienti, docente all’ateneo pisano, il messaggio scolpito nella lunetta del portale dimostra che l’intarsio di fatto è un abaco per rappresentare numeri irrazionali e per calcolare i lati dei poligoni regolari inscritti nel cerchio di diametro maggiore.
Corriere 19.9.15
Piccoli errori? Un disastro
La tragedia dello Shuttle Challager accadde per una banalità
La storia della scienza è costellata di eventi simili
Forse ora si èp scoperto il colpevole: è la dopamina
di Matteo Persivale
La palla di Feynman
Feynman utilizzava una palla per illustrare la necessità della precisione
Pipì spaziale
Una missione spaziale rischiò di fallire per colpa di una pipì imprevista
Fissazioni rischiose
Uno degli errori più pericolosi è quello «da fissazione» e spesso colpisce i medici
Richard Feynman (1918-1988), premio Nobel per la Fisica, cominciava la prima lezione dell’anno accademico, davanti ai suoi nuovi studenti, sempre nello stesso modo. Dall’alto soffitto dell’aula ad anfiteatro della Caltech, il prestigiosissimo politecnico di Pasadena, California, pendeva una palla da bowling attaccata a un cavo d’acciaio. Feynman prendeva la palla da bowling tra le mani, indietreggiava fino a un certo punto dell’aula ben preciso -- il punto in cui la palla toccava il suo naso - e poi rilasciava quella sfera di 8 kg. La quale, come un pendolo, attraversava veloce tutta l’aula. Ovviamente, come ogni pendolo che si rispetti, esaurita la sua corsa la palla tornava indietro. E si fermava esattamente a pochi millimetri dal naso del professore, prima di riprendere il suo arco. Cosa voleva insegnare Feynman ai ragazzi? La lezione più importante: ad aver fiducia nella scienza ma a fare i propri calcoli con assoluta attenzione. Perché la differenza tra un memorabile successo (i suoi studenti, che spesso sono ormai anziani, parlano ancora con affetto della “palla da bowling di Feynman”) e un cranio sfasciato a volte è una questione di millimetri.
Non stupisce che sia stato proprio Feynman a scoprire uno degli errori più piccoli ma clamorosi della storia umana, l’esplosione dello Shuttle Challenger del 28 gennaio 1986. Feynman, capì che era tutta colpa di un piccolo anello da pochi centesimi di dollaro. L’anello che apriva e chiudeva il flusso d’idrogeno dei booster dello Shuttle, testato in tutti i modi. Tranne uno: il freddo. D’altronde, il lancio doveva avvenire in Florida. Ma la notte precedente al lancio ci fu un abbassamento di temperatura improvviso. Uno di quegli anelli si indurì. E smise di funzionare.
A volte gli errori hanno conseguenze meno tragiche — semplicemente imbarazzanti. Il primo americano nello spazio, Alan Shepard, il 5 maggio 1961, doveva restare impegnato per sole 5 ore dall’inizio alla fine della missione. Ma il lancio ritardò di alcune ore per motivi tecnici. E Shepard si trovò bloccato nell’abitacolo con il bisogno impellente di urinare. Nella sua tuta non c’era un catetere. Perché, in fondo, sarebbe stato impegnato per sole 5 ore, no?. La vescica di Shepard resistette eroicamente, poi cedette. Allagando la tuta con conseguenze che potevano essere imprevedibili.
Un anello da pochi cent, un catetere. La copertura della piattaforma petrolifera BP esplosa nel 2010 che aveva dato segnali di non totale affidabilità. Piccolissimi errori con enormi conseguenze che, secondo i neuroscienziati, sono però profondamente umani: il nostro cervello così evoluto e capace di tante invenzioni, è anche soggetto a «coni d’ombra» che la scienza sta analizzando con sempre maggiore attenzione. Perché i costi dei piccoli errori possono essere enormi: a volte è perché, semplicemente, il nostro cervello ci fa considerare con meno attenzione i dati che contraddicono le nostre ipotesi — i nostri preconcetti.
Un neuroscienziato della Brown University, Michael Frank, ha spiegato alla rivista New Scientist (alla scienza degli errori ha dedicato un lungo servizio di copertina), che la colpa potrebbe essere di un neurotrasmettitore, la dopamina, che «direbbe» alla nostra corteccia prefrontale di dare poca importanza alle informazioni che contraddicono idee che abbiamo da tempo. E’ interessante che sempre la dopamina, in un’altra parte del cervello, il corpo striato, faccia il lavoro opposto — rendendoci più aperti a nuove informazioni. Esperimenti condotti da Frank indicano che alcuni di noi sono portatori di un gene che rende più sensibili all’effetto dei fatti nuovi sul corpo striato. E ci difende dalla cosiddetta «distorsione di conferma», cioè l’eccessiva attenzione alle nostre convinzioni.
Sempre la dopamina ci rende più suscettibili alla «distorsione da risultato»: una cosa è già successa senza conseguenze? Siamo portati a pensare che sarà sempre così. Come fece il direttore di volo dello shuttle Columbia, nel 2003. La navicella perdette un pezzo della copertura isolante. «Già successo altre volte, senza danni al rientro», prese nota subito dopo. Il Columbia esplose al contatto con l’atmosfera.
A volte siamo soggetti a «errori di fissazione», perseverando su un percorso sbagliato: purtroppo medici e infermieri sono particolarmente soggetti a questo fenomeno cognitivo (con conseguenze umane tragiche, e gravi costi assicurativi e legali). La soluzione potrebbe arrivare dall’aeronautica, con le «check list» da controllare ogni volta per evitare dimenticanze o errori ripetuti. L’allontanamento dagli istinti primitivi di sopravvivenza dovuto alla nostra civilizzazione è un’altra possibile causa di piccoli errori dalle enormi conseguenze: siamo più agili a livello cognitivo, ma l’effetto della paura — di un ormone, il cortisolo, prodotto quando abbiamo paura — è quello di compromettere questa agilità (vedi i casi di chi si «blocca», paralizzato dal pericolo).
Le neuroscienze cercano di proteggerci dai limiti dei nostri processi cognitivi. Certo a volte gli errori sono provvidenziali: una serie di distorsioni, di decisioni sbagliate, aggravate dalla spietata politicizzazione (razziale) della ricerca, provocò il fallimento della corsa nazista alla bomba atomica. Che era partita in vantaggio rispetto a quella, poi realizzata con successo attraverso il Progetto Manhattan, dagli Alleati.
Piccoli errori? Un disastro
La tragedia dello Shuttle Challager accadde per una banalità
La storia della scienza è costellata di eventi simili
Forse ora si èp scoperto il colpevole: è la dopamina
di Matteo Persivale
La palla di Feynman
Feynman utilizzava una palla per illustrare la necessità della precisione
Pipì spaziale
Una missione spaziale rischiò di fallire per colpa di una pipì imprevista
Fissazioni rischiose
Uno degli errori più pericolosi è quello «da fissazione» e spesso colpisce i medici
Richard Feynman (1918-1988), premio Nobel per la Fisica, cominciava la prima lezione dell’anno accademico, davanti ai suoi nuovi studenti, sempre nello stesso modo. Dall’alto soffitto dell’aula ad anfiteatro della Caltech, il prestigiosissimo politecnico di Pasadena, California, pendeva una palla da bowling attaccata a un cavo d’acciaio. Feynman prendeva la palla da bowling tra le mani, indietreggiava fino a un certo punto dell’aula ben preciso -- il punto in cui la palla toccava il suo naso - e poi rilasciava quella sfera di 8 kg. La quale, come un pendolo, attraversava veloce tutta l’aula. Ovviamente, come ogni pendolo che si rispetti, esaurita la sua corsa la palla tornava indietro. E si fermava esattamente a pochi millimetri dal naso del professore, prima di riprendere il suo arco. Cosa voleva insegnare Feynman ai ragazzi? La lezione più importante: ad aver fiducia nella scienza ma a fare i propri calcoli con assoluta attenzione. Perché la differenza tra un memorabile successo (i suoi studenti, che spesso sono ormai anziani, parlano ancora con affetto della “palla da bowling di Feynman”) e un cranio sfasciato a volte è una questione di millimetri.
Non stupisce che sia stato proprio Feynman a scoprire uno degli errori più piccoli ma clamorosi della storia umana, l’esplosione dello Shuttle Challenger del 28 gennaio 1986. Feynman, capì che era tutta colpa di un piccolo anello da pochi centesimi di dollaro. L’anello che apriva e chiudeva il flusso d’idrogeno dei booster dello Shuttle, testato in tutti i modi. Tranne uno: il freddo. D’altronde, il lancio doveva avvenire in Florida. Ma la notte precedente al lancio ci fu un abbassamento di temperatura improvviso. Uno di quegli anelli si indurì. E smise di funzionare.
A volte gli errori hanno conseguenze meno tragiche — semplicemente imbarazzanti. Il primo americano nello spazio, Alan Shepard, il 5 maggio 1961, doveva restare impegnato per sole 5 ore dall’inizio alla fine della missione. Ma il lancio ritardò di alcune ore per motivi tecnici. E Shepard si trovò bloccato nell’abitacolo con il bisogno impellente di urinare. Nella sua tuta non c’era un catetere. Perché, in fondo, sarebbe stato impegnato per sole 5 ore, no?. La vescica di Shepard resistette eroicamente, poi cedette. Allagando la tuta con conseguenze che potevano essere imprevedibili.
Un anello da pochi cent, un catetere. La copertura della piattaforma petrolifera BP esplosa nel 2010 che aveva dato segnali di non totale affidabilità. Piccolissimi errori con enormi conseguenze che, secondo i neuroscienziati, sono però profondamente umani: il nostro cervello così evoluto e capace di tante invenzioni, è anche soggetto a «coni d’ombra» che la scienza sta analizzando con sempre maggiore attenzione. Perché i costi dei piccoli errori possono essere enormi: a volte è perché, semplicemente, il nostro cervello ci fa considerare con meno attenzione i dati che contraddicono le nostre ipotesi — i nostri preconcetti.
Un neuroscienziato della Brown University, Michael Frank, ha spiegato alla rivista New Scientist (alla scienza degli errori ha dedicato un lungo servizio di copertina), che la colpa potrebbe essere di un neurotrasmettitore, la dopamina, che «direbbe» alla nostra corteccia prefrontale di dare poca importanza alle informazioni che contraddicono idee che abbiamo da tempo. E’ interessante che sempre la dopamina, in un’altra parte del cervello, il corpo striato, faccia il lavoro opposto — rendendoci più aperti a nuove informazioni. Esperimenti condotti da Frank indicano che alcuni di noi sono portatori di un gene che rende più sensibili all’effetto dei fatti nuovi sul corpo striato. E ci difende dalla cosiddetta «distorsione di conferma», cioè l’eccessiva attenzione alle nostre convinzioni.
Sempre la dopamina ci rende più suscettibili alla «distorsione da risultato»: una cosa è già successa senza conseguenze? Siamo portati a pensare che sarà sempre così. Come fece il direttore di volo dello shuttle Columbia, nel 2003. La navicella perdette un pezzo della copertura isolante. «Già successo altre volte, senza danni al rientro», prese nota subito dopo. Il Columbia esplose al contatto con l’atmosfera.
A volte siamo soggetti a «errori di fissazione», perseverando su un percorso sbagliato: purtroppo medici e infermieri sono particolarmente soggetti a questo fenomeno cognitivo (con conseguenze umane tragiche, e gravi costi assicurativi e legali). La soluzione potrebbe arrivare dall’aeronautica, con le «check list» da controllare ogni volta per evitare dimenticanze o errori ripetuti. L’allontanamento dagli istinti primitivi di sopravvivenza dovuto alla nostra civilizzazione è un’altra possibile causa di piccoli errori dalle enormi conseguenze: siamo più agili a livello cognitivo, ma l’effetto della paura — di un ormone, il cortisolo, prodotto quando abbiamo paura — è quello di compromettere questa agilità (vedi i casi di chi si «blocca», paralizzato dal pericolo).
Le neuroscienze cercano di proteggerci dai limiti dei nostri processi cognitivi. Certo a volte gli errori sono provvidenziali: una serie di distorsioni, di decisioni sbagliate, aggravate dalla spietata politicizzazione (razziale) della ricerca, provocò il fallimento della corsa nazista alla bomba atomica. Che era partita in vantaggio rispetto a quella, poi realizzata con successo attraverso il Progetto Manhattan, dagli Alleati.
La Stampa 19.9.15
Scrivere a mano, toccasana per il cervello
Solo i medici non impareranno mai a farlo
di Giacomo Poretti
Il dettato ai miei tempi era una fissa e aveva tutta una sua liturgia. Ascoltavamo la maestra, intingevamo il pennino nel calamaio che di solito era pieno di mosche morte, scrivevamo e asciugavamo con la carta assorbente; poi ancora ascoltavamo, intingevamo, scrivevamo, asciugavamo e così via. Io preferivo i temi, e trovavo il dettato un po’ noiosetto: però ero un soldatino, e obbedivo. E poi in fondo non mi dispiaceva. Mi ha insegnato anche la bella calligrafia. Non vorrei tirarmela, ma da grande ho letto l’Idiota di Dostoevskij e quando chiedono al principe Myškin che cosa sappia fare lui risponde di essere un calligrafo. Era addirittura una professione.
Ancora oggi mi sforzo di scrivere a mano perché temo che, se smettessi, perderei qualcosa nel funzionamento del cervello. Quindi bentornato caro, vecchio, utilissimo dettato. Scrivendo bene, mi sono convinto che solo chi ha una bella calligrafia può fare certi mestieri, e infatti ricordo che i miei compagni che scrivevano da far schifo hanno fatto tutti i dottori. Ho fatto l’infermiere in ospedale per undici anni e assicuro che i medici non sanno scrivere. Dovrebbero essere obbligati a usare solo il computer. A loro non serve il ritorno del dettato: sono un caso disperato».
Scrivere a mano, toccasana per il cervello
Solo i medici non impareranno mai a farlo
di Giacomo Poretti
Il dettato ai miei tempi era una fissa e aveva tutta una sua liturgia. Ascoltavamo la maestra, intingevamo il pennino nel calamaio che di solito era pieno di mosche morte, scrivevamo e asciugavamo con la carta assorbente; poi ancora ascoltavamo, intingevamo, scrivevamo, asciugavamo e così via. Io preferivo i temi, e trovavo il dettato un po’ noiosetto: però ero un soldatino, e obbedivo. E poi in fondo non mi dispiaceva. Mi ha insegnato anche la bella calligrafia. Non vorrei tirarmela, ma da grande ho letto l’Idiota di Dostoevskij e quando chiedono al principe Myškin che cosa sappia fare lui risponde di essere un calligrafo. Era addirittura una professione.
Ancora oggi mi sforzo di scrivere a mano perché temo che, se smettessi, perderei qualcosa nel funzionamento del cervello. Quindi bentornato caro, vecchio, utilissimo dettato. Scrivendo bene, mi sono convinto che solo chi ha una bella calligrafia può fare certi mestieri, e infatti ricordo che i miei compagni che scrivevano da far schifo hanno fatto tutti i dottori. Ho fatto l’infermiere in ospedale per undici anni e assicuro che i medici non sanno scrivere. Dovrebbero essere obbligati a usare solo il computer. A loro non serve il ritorno del dettato: sono un caso disperato».
Corriere 19.9.15
De Gaulle e l’Algeria francese. La guerra civile della quinta Repubblica
risponde Sergio Romano
Ho letto il suo accenno al distacco dell’Algeria dalla Francia di cui era addirittura un Département. Ricordo il 15 agosto ‘61 quando su una Fiat 600, con un amico, per tutto il giorno vagabondammo per Parigi senza incontrare anima viva, né tanto meno un veicolo. Solo il giorno dopo seppi che l’Oas aveva minacciato attentati a Parigi proprio per Ferragosto. Capii allora che la paura aveva tenuta deserta Parigi. De Gaulle non fece nulla per contrastare l’Oas — associazione segreta formata nella primavera del ‘61 da esponenti islamici — e abbandonò l’anno dopo, senza colpo ferire, l’Algeria. Aveva forse capito che non poteva esserci una convivenza con un Paese islamico?
Luigi Nale
Caro Nale,
L’Oas (Organisation de l’armée sécrète) nacque a Madrid nel febbraio del 1961. Era stata creata da un gruppo di ufficiali, funzionari e uomini politici francesi, ormai convinti che il generale de Gaulle avesse ingannato il Paese e stesse preparando il giorno in cui la colonia sarebbe diventata indipendente. La personalità di maggiore spicco, nel gruppo dei fondatori, era il generale Salan, ma l’organizzazione poteva contare sulla simpatia di molti esponenti del mondo politico, fra cui Geoges Bidault, ex presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Quella che seguì fu una guerra civile nel cuore dello Stato. In aprile un gruppo di generali, ad Algeri, tentò di impadronirsi del potere con un colpo di mano. La mossa fallì, ma produsse una lunga fase di attentati e omicidi durante la quale lo Stato non esitò a usare servizi segreti e corpi speciali che agivano con grande spregiudicatezza. Fra gli attentati ve ne fu uno al generale de Gaulle, in una località nei pressi di Parigi chiamata il Petit Clamart, a cui il capo della Stato sopravvisse miracolosamente. L’attentatore era un tenente colonnello, Bastien-Thiry, che fu arrestato, processato, condannato a morte e giustiziato l’11 marzo 1963. Vi furono altre condanne a morte commutate in ergastolo e de Gaulle, alla fine, vinse la partita con un referendum popolare che approvava la concessione dell’indipendenza alla vecchia colonia. Ma si lasciò alle spalle un «partito algerino» che è per molti aspetti alle origini del Front National, il movimento fondato da Jean-Marie Le Pen.
La vicenda non era ancora definitivamente chiusa. Nel maggio del 1968, quando lo Stato sembrò incapace di fare fronte ai moti studenteschi, de Gaulle dovette temere che non tutte le Forze Armate, se avesse dovuto ricorrere al loro intervento, avrebbero obbedito. Fu questa la ragione del suo improvviso viaggio in Germania, a Baden Baden, il 29 maggio 1968. Senza alcun preavviso e nella massima segretezza, de Gaulle fece una visita al generale Massu, comandante delle truppe francesi nella Repubblica federale. Massu era stato protagonista delle manifestazioni algerine che si erano concluse con il ritorno di de Gaulle al potere nel maggio 1958; ma non aveva partecipato al «putsch» dell’aprile 1961. Tranquillizzò de Gaulle dando le garanzie che il generale attendeva dalla sua bocca, ma gli suggerì un atto di clemenza per tutti coloro che ancora scontavano pene inflitte nei processi contro l’Oas. Nel giro di pochi giorni gli esponenti dell’organizzazione rientrarono in Francia o uscirono di prigione. La liberazione più clamorosa fu quella del generale Salan. Più tardi, dopo avere pubblicato le sue memorie, avrà nuovamente il grado e le decorazioni di cui era stato privato.
Un’ultima osservazione, caro Nale. Nella guerra d’Algeria, il fattore religioso non ebbe alcuna importanza. Il Fronte di liberazione nazionale algerino aveva e continua ad avere una dirigenza laica, educata nelle scuole della Repubblica francese, con una forte venatura marxista. La parola «islamico» in questo caso non è appropriata. Pensare che gli arabi siano destinatati a essere perennemente fanatici e integralisti è una idea in cui si nasconde un pregiudizio razziale.
De Gaulle e l’Algeria francese. La guerra civile della quinta Repubblica
risponde Sergio Romano
Ho letto il suo accenno al distacco dell’Algeria dalla Francia di cui era addirittura un Département. Ricordo il 15 agosto ‘61 quando su una Fiat 600, con un amico, per tutto il giorno vagabondammo per Parigi senza incontrare anima viva, né tanto meno un veicolo. Solo il giorno dopo seppi che l’Oas aveva minacciato attentati a Parigi proprio per Ferragosto. Capii allora che la paura aveva tenuta deserta Parigi. De Gaulle non fece nulla per contrastare l’Oas — associazione segreta formata nella primavera del ‘61 da esponenti islamici — e abbandonò l’anno dopo, senza colpo ferire, l’Algeria. Aveva forse capito che non poteva esserci una convivenza con un Paese islamico?
Luigi Nale
Caro Nale,
L’Oas (Organisation de l’armée sécrète) nacque a Madrid nel febbraio del 1961. Era stata creata da un gruppo di ufficiali, funzionari e uomini politici francesi, ormai convinti che il generale de Gaulle avesse ingannato il Paese e stesse preparando il giorno in cui la colonia sarebbe diventata indipendente. La personalità di maggiore spicco, nel gruppo dei fondatori, era il generale Salan, ma l’organizzazione poteva contare sulla simpatia di molti esponenti del mondo politico, fra cui Geoges Bidault, ex presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Quella che seguì fu una guerra civile nel cuore dello Stato. In aprile un gruppo di generali, ad Algeri, tentò di impadronirsi del potere con un colpo di mano. La mossa fallì, ma produsse una lunga fase di attentati e omicidi durante la quale lo Stato non esitò a usare servizi segreti e corpi speciali che agivano con grande spregiudicatezza. Fra gli attentati ve ne fu uno al generale de Gaulle, in una località nei pressi di Parigi chiamata il Petit Clamart, a cui il capo della Stato sopravvisse miracolosamente. L’attentatore era un tenente colonnello, Bastien-Thiry, che fu arrestato, processato, condannato a morte e giustiziato l’11 marzo 1963. Vi furono altre condanne a morte commutate in ergastolo e de Gaulle, alla fine, vinse la partita con un referendum popolare che approvava la concessione dell’indipendenza alla vecchia colonia. Ma si lasciò alle spalle un «partito algerino» che è per molti aspetti alle origini del Front National, il movimento fondato da Jean-Marie Le Pen.
La vicenda non era ancora definitivamente chiusa. Nel maggio del 1968, quando lo Stato sembrò incapace di fare fronte ai moti studenteschi, de Gaulle dovette temere che non tutte le Forze Armate, se avesse dovuto ricorrere al loro intervento, avrebbero obbedito. Fu questa la ragione del suo improvviso viaggio in Germania, a Baden Baden, il 29 maggio 1968. Senza alcun preavviso e nella massima segretezza, de Gaulle fece una visita al generale Massu, comandante delle truppe francesi nella Repubblica federale. Massu era stato protagonista delle manifestazioni algerine che si erano concluse con il ritorno di de Gaulle al potere nel maggio 1958; ma non aveva partecipato al «putsch» dell’aprile 1961. Tranquillizzò de Gaulle dando le garanzie che il generale attendeva dalla sua bocca, ma gli suggerì un atto di clemenza per tutti coloro che ancora scontavano pene inflitte nei processi contro l’Oas. Nel giro di pochi giorni gli esponenti dell’organizzazione rientrarono in Francia o uscirono di prigione. La liberazione più clamorosa fu quella del generale Salan. Più tardi, dopo avere pubblicato le sue memorie, avrà nuovamente il grado e le decorazioni di cui era stato privato.
Un’ultima osservazione, caro Nale. Nella guerra d’Algeria, il fattore religioso non ebbe alcuna importanza. Il Fronte di liberazione nazionale algerino aveva e continua ad avere una dirigenza laica, educata nelle scuole della Repubblica francese, con una forte venatura marxista. La parola «islamico» in questo caso non è appropriata. Pensare che gli arabi siano destinatati a essere perennemente fanatici e integralisti è una idea in cui si nasconde un pregiudizio razziale.
La Stampa 19.9.15
Nel collegio dei gesuiti di Santiago
dove Fidel imparò l’arte della lotta
Disciplina e studio: qui si formarono i fratelli Castro. E Raúl ora potrebbe riaprirlo
di Paolo Mastrolilli
Fidel lo chiamavano «bola de churde», palla di sporcizia, perché distratto da troppe altre cose, non trovava sempre il tempo di lavarsi a dovere. Raúl invece «la pulgita», piccola pulce, non tanto per le dimensioni del corpo, quanto per come stava sempre appiccicato al fratello. Ma la cosa sorprendente è che ormai queste storie non le nasconde più nessuno a Santiago, la «ciudad rebelde siempre» dove tutto è cominciato e tutto potrebbe chiudersi.
In un cerchio che ruota intorno al Colegio de Nuestra Señora de los Dolores, il collegio dei gesuiti dove sono cresciuti i fratelli Castro.
Attaccato come una pulce
Angel, il padre, era un proprietario terriero ricco ma rude, e per far entrare i figli nell’alta società di Santiago aveva scelto la scuola più prestigiosa, quella che preparava l’élite di Cuba. I gesuiti l’avevano fondata nel 1913 e i loro alunni, come i membri di un club riservato, si chiamavano «dolorinos». Fidel ci entrò nel 1938: lui, il fratello maggiore Ramon e il minore Raul, erano tra i 22 allievi privilegiati che vivevano nel collegio. Parlando con Frei Betto, lo stesso Líder Maximo non ha nascosto debito e ammirazione: «Era una scuola di gente più rigorosa, preparata, con vocazione religiosa molto più forte. In realtà, erano persone con maggior dedizione, capacità e disciplina, incomparabilmente superiori. A mio giudizio, era la scuola dove volevo entrare».
Fidel, secondo la ricostruzione di Patrick Symmes nel libro «The Boys From Dolores», non era il primo della classe. José Antonio Cubenas, figlio di un’altra famiglia notabile di Santiago e suo rivale in tutto, lo batteva sempre di qualche voto. Però era il secondo, e non perdeva mai l’occasione di leggere un libro in più. Esuberante sì, ma mai pigro. Anzi, i suoi nemici come Cubenas, che è andato in esilio a New York e ogni anno si incontra a Miami con i «dolorinos» sopravvissuti, rimproverano ai gesuiti di avergli insegnato troppo bene la disciplina militaresca che poi ha usato per vincere la rivoluzione. Fidel era vorace: studiava, leggeva, organizzava, arbitrava e commentava le partite di baseball, portava sempre la bandiera del collegio nelle amate escursioni sulla vicina Sierra Maestra, dove poi non a caso avrebbe basato la sua guerriglia. Una volta scrisse al presidente Roosevelt, per complimentarsi della rielezione: «My good friend Roosevelt, I don’t know very English, but I know as much as to write to you». La Casa Bianca gli rispose, senza però inviargli il biglietto da 10 dollari che Fidel aveva chiesto, urtandolo assai. Del resto Fidel, suggestionato dal padre ex soldato, tifava per gli spagnoli nella guerra contro gli Usa, leggeva i discorsi di Mussolini, e quando Hitler invase la Polonia celebrò così: «Non rimane nemmeno un aereo polacco. È la nostra prima vittoria».
Fu proprio una litigata con Cubenas che mise fine a questa storia. Fidel aveva colpito involontariamente un ragazzo con la mazza da baseball, Jose Antonio lo aveva sfidato a pugni, e quando padre Sanchez li aveva separati, Castro le stava prendendo per la prima volta in vita sua. Così, per avere il diploma fu costretto a trasferirsi in un altro collegio gesuita, il Belén, a L’Avana.
Solidarietà gesuita
Il legame però non si è mai spezzato. Dopo l’assalto alla caserma Moncada, 850 metri di distanza dal Colegio de Dolores, dove il 26 luglio del 1953 Fidel fece il primo tentativo di rivoluzione, fu grazie all’intercessione del rettore della sua ex scuola che i militari di Batista si impegnarono a catturarlo vivo e processarlo: «Condannatemi pure - disse lui -, non importa. La storia mi assolverà». Nel novembre del 1958, quando era tornato sulla Sierra Maestra a fare la guerriglia, un insegnante del collegio, padre Guzman, andò a trovarlo, fra le proteste dei genitori degli alunni che non volevano un professore comunista.
Una mattina di febbraio del 1961, però, la campanella del Colegio de Dolores suonò come mai prima. Quando gli studenti si riunirono nel cortile, il Padre Perfetto tenne un discorso di cinque parole: «Andate tutti a casa, ora!». Poco dopo arrivarono le guardie, perquisirono l’edificio e misero i lucchetti. Il 17 settembre dello stesso anno, con la scusa di una sparatoria avvenuta durante la processione della Virgen de la Caridad, tutti i gesuiti non cubani furono caricati sulla nave Covadonga ed espulsi. «Questo - ha scritto Symmes - faceva parte dell’essere gesuiti. La storia però ha insegnato che sarebbero tornati a Cuba, un giorno».
Oggi il magnifico edificio grigio del Colegio, tre piani con archi e volte in stile coloniale, ospita una scuola che prepara gli studenti all’esame per l’università. Invece di intitolarla ad un eroe della rivoluzione, l’hanno dedicata a Rafael Mendive, filantropo ottocentesco, amico del prete Felix Varela e insegnante del padre dell’indipendenza José Martí. Ad inaugurala nel 2006, dopo la ristrutturazione, è venuto Ramon Castro.
Maria, la signora che sta all’ingresso, mi conduce con orgoglio nella «sala storica», dove sono appese le foto di Fidel, Raul e Ramon in divisa, Fidel nella banda del Colegio, Fidel che alza sorridente il vessillo «Dolores». «Ora che viene il Papa - dice Maria - in piazza ci saranno migliaia di persone. Santiago è piena di cattolici, anche in questa scuola. La rivoluzione va bene, ma la fede è un’altra cosa. Non sono in contraddizione».
Riaprire le scuole
Francesco infatti viene anche per questo. Le scuole cattoliche hanno ripreso a funzionare a Cuba, ma sono tollerate, non riconosciute. Uno studente che prende il diploma viene accettato dalle università americane, ma non cubane. Il pontefice chiederà che questo cambi, e il ruolo dei cattolici nella formazione e l’istruzione sia accettato ufficialmente. Aveva visto giusto Symmes: i gesuiti tornano. Oggi, col Papa. E magari, se aveva ragione Graham Greene a credere nel miracolo dell’uomo dannato che mette Dio sulla bocca degli uomini, toccherà proprio ai «dolorinos» Fidel e Raul di riaprire le scuole dove avevano imparato cos’è un uomo.
Nel collegio dei gesuiti di Santiago
dove Fidel imparò l’arte della lotta
Disciplina e studio: qui si formarono i fratelli Castro. E Raúl ora potrebbe riaprirlo
di Paolo Mastrolilli
Fidel lo chiamavano «bola de churde», palla di sporcizia, perché distratto da troppe altre cose, non trovava sempre il tempo di lavarsi a dovere. Raúl invece «la pulgita», piccola pulce, non tanto per le dimensioni del corpo, quanto per come stava sempre appiccicato al fratello. Ma la cosa sorprendente è che ormai queste storie non le nasconde più nessuno a Santiago, la «ciudad rebelde siempre» dove tutto è cominciato e tutto potrebbe chiudersi.
In un cerchio che ruota intorno al Colegio de Nuestra Señora de los Dolores, il collegio dei gesuiti dove sono cresciuti i fratelli Castro.
Attaccato come una pulce
Angel, il padre, era un proprietario terriero ricco ma rude, e per far entrare i figli nell’alta società di Santiago aveva scelto la scuola più prestigiosa, quella che preparava l’élite di Cuba. I gesuiti l’avevano fondata nel 1913 e i loro alunni, come i membri di un club riservato, si chiamavano «dolorinos». Fidel ci entrò nel 1938: lui, il fratello maggiore Ramon e il minore Raul, erano tra i 22 allievi privilegiati che vivevano nel collegio. Parlando con Frei Betto, lo stesso Líder Maximo non ha nascosto debito e ammirazione: «Era una scuola di gente più rigorosa, preparata, con vocazione religiosa molto più forte. In realtà, erano persone con maggior dedizione, capacità e disciplina, incomparabilmente superiori. A mio giudizio, era la scuola dove volevo entrare».
Fidel, secondo la ricostruzione di Patrick Symmes nel libro «The Boys From Dolores», non era il primo della classe. José Antonio Cubenas, figlio di un’altra famiglia notabile di Santiago e suo rivale in tutto, lo batteva sempre di qualche voto. Però era il secondo, e non perdeva mai l’occasione di leggere un libro in più. Esuberante sì, ma mai pigro. Anzi, i suoi nemici come Cubenas, che è andato in esilio a New York e ogni anno si incontra a Miami con i «dolorinos» sopravvissuti, rimproverano ai gesuiti di avergli insegnato troppo bene la disciplina militaresca che poi ha usato per vincere la rivoluzione. Fidel era vorace: studiava, leggeva, organizzava, arbitrava e commentava le partite di baseball, portava sempre la bandiera del collegio nelle amate escursioni sulla vicina Sierra Maestra, dove poi non a caso avrebbe basato la sua guerriglia. Una volta scrisse al presidente Roosevelt, per complimentarsi della rielezione: «My good friend Roosevelt, I don’t know very English, but I know as much as to write to you». La Casa Bianca gli rispose, senza però inviargli il biglietto da 10 dollari che Fidel aveva chiesto, urtandolo assai. Del resto Fidel, suggestionato dal padre ex soldato, tifava per gli spagnoli nella guerra contro gli Usa, leggeva i discorsi di Mussolini, e quando Hitler invase la Polonia celebrò così: «Non rimane nemmeno un aereo polacco. È la nostra prima vittoria».
Fu proprio una litigata con Cubenas che mise fine a questa storia. Fidel aveva colpito involontariamente un ragazzo con la mazza da baseball, Jose Antonio lo aveva sfidato a pugni, e quando padre Sanchez li aveva separati, Castro le stava prendendo per la prima volta in vita sua. Così, per avere il diploma fu costretto a trasferirsi in un altro collegio gesuita, il Belén, a L’Avana.
Solidarietà gesuita
Il legame però non si è mai spezzato. Dopo l’assalto alla caserma Moncada, 850 metri di distanza dal Colegio de Dolores, dove il 26 luglio del 1953 Fidel fece il primo tentativo di rivoluzione, fu grazie all’intercessione del rettore della sua ex scuola che i militari di Batista si impegnarono a catturarlo vivo e processarlo: «Condannatemi pure - disse lui -, non importa. La storia mi assolverà». Nel novembre del 1958, quando era tornato sulla Sierra Maestra a fare la guerriglia, un insegnante del collegio, padre Guzman, andò a trovarlo, fra le proteste dei genitori degli alunni che non volevano un professore comunista.
Una mattina di febbraio del 1961, però, la campanella del Colegio de Dolores suonò come mai prima. Quando gli studenti si riunirono nel cortile, il Padre Perfetto tenne un discorso di cinque parole: «Andate tutti a casa, ora!». Poco dopo arrivarono le guardie, perquisirono l’edificio e misero i lucchetti. Il 17 settembre dello stesso anno, con la scusa di una sparatoria avvenuta durante la processione della Virgen de la Caridad, tutti i gesuiti non cubani furono caricati sulla nave Covadonga ed espulsi. «Questo - ha scritto Symmes - faceva parte dell’essere gesuiti. La storia però ha insegnato che sarebbero tornati a Cuba, un giorno».
Oggi il magnifico edificio grigio del Colegio, tre piani con archi e volte in stile coloniale, ospita una scuola che prepara gli studenti all’esame per l’università. Invece di intitolarla ad un eroe della rivoluzione, l’hanno dedicata a Rafael Mendive, filantropo ottocentesco, amico del prete Felix Varela e insegnante del padre dell’indipendenza José Martí. Ad inaugurala nel 2006, dopo la ristrutturazione, è venuto Ramon Castro.
Maria, la signora che sta all’ingresso, mi conduce con orgoglio nella «sala storica», dove sono appese le foto di Fidel, Raul e Ramon in divisa, Fidel nella banda del Colegio, Fidel che alza sorridente il vessillo «Dolores». «Ora che viene il Papa - dice Maria - in piazza ci saranno migliaia di persone. Santiago è piena di cattolici, anche in questa scuola. La rivoluzione va bene, ma la fede è un’altra cosa. Non sono in contraddizione».
Riaprire le scuole
Francesco infatti viene anche per questo. Le scuole cattoliche hanno ripreso a funzionare a Cuba, ma sono tollerate, non riconosciute. Uno studente che prende il diploma viene accettato dalle università americane, ma non cubane. Il pontefice chiederà che questo cambi, e il ruolo dei cattolici nella formazione e l’istruzione sia accettato ufficialmente. Aveva visto giusto Symmes: i gesuiti tornano. Oggi, col Papa. E magari, se aveva ragione Graham Greene a credere nel miracolo dell’uomo dannato che mette Dio sulla bocca degli uomini, toccherà proprio ai «dolorinos» Fidel e Raul di riaprire le scuole dove avevano imparato cos’è un uomo.
Repubblica 19.9.15
Varoufakis
“L’Europa ha perso l’integrità e l’anima”
“La Primavera di Atene ha messo a nudo la tirannia dell’Unione”
L’ex ministro greco ieri ha annunciato che domenica voterà per i dissidenti euroscettici di Unità popolare
colloquio con Christian Salmon
IGRECI domani tornano al voto per la seconda volta in nove mesi. Sono le elezioni anticipate volute dal premier Alexis Tsipras che non poteva più contare su una maggioranza in Parlamento. L’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis era già uscito dal governo il 6 luglio (tanto che ieri ha annunciato a Press project che non voterà per Syriza ma per “Unità popolare”, la neo-formazione dei dissidenti euroscettici, ndr). In questo dialogo, racconta la sua visione dell’Europa.
La crisi dei rifugiati, come la crisi greca, rappresentano due momenti parossistici di una più generale crisi dell’Ue, ed è necessario analizzarle congiuntamente, come ha detto recentemente: due facce di una stessa crisi, due sintomi acuti di una stessa malattia, il “male di sovranità” dell’Europa.
«Esattamente. Gli europei devono riuscire a comprendere la radice delle forze centrifughe che ormai da tempo stanno lacerando l’Unione Europea, toccando l’apice in questa orrenda estate del 2015 in cui prima la democrazia greca è stata stritolata (con la minaccia di un’espulsione dall’Eurozona come punizione per aver rifiutato un nuovo prestito a condizioni che ridurrebbero il Paese ancora più in miseria), e poi l’Europa non ha saputo mostrarsi all’altezza della crisi dei profughi. La radice sta nelle fondamenta stesse dell’Unione, che è stata costruita come un mastodontico cartello industriale, si è trasformata in una coalizione di banchieri, è stata gestita da una tecnocrazia incompetente che disprezza i principi della democrazia, e infine ha elaborato una sua versione di moneta unica che rispecchia la “logica” del sistema aureo vigente fra le due guerre. Una “costruzione” simile non poteva reggere. Quando ha cominciato a frammentarsi, dopo il 1929 della nostra generazione (l’implosione del 2008), gli Stati membri hanno cominciato a ripiegarsi su se stessi. Il dramma greco di luglio, che ha messo a nudo la perdita di integrità dell’Europa, e l’attuale crisi dei rifugiati, che dimostra che l’Europa ha perso la sua anima, sono il risultato di questa frammentazione. È così che interpreto la sua appropriata espressione, “male di sovranità”».
Gli Stati-nazione hanno perso la loro sovranità democratica, l’Ue non l’ha ritrovata. Siamo su un continente che vola col pilota automatico, abbandonato alla mano invisibile dei mercati… A bordo del bateau ivre , due categorie di politici litigano sulla direzione da prendere e la condotta da seguire.
«È esattamente quello che stiamo vivendo. Se posso permettermi di “correggere” leggermente la sua metafora, direi che abbiamo lanciato un battello fluviale nella vastità dell’oceano durante giornate di bonaccia. Il nostro battello è maestoso, ma non ha quello che serve per sopravvivere a un mare in tempesta. Peggio ancora: in questo spazio allegorico, quando gli elementi hanno deciso di scatenare una tempesta, la loro furia è stata proporzionale alla nostra mancanza di preparazione. E quando la tempesta è arrivata, il capitano e i suoi ufficiali hanno continuato a negare l’evidenza, insistendo che era tutta colpa dei passeggeri di terza classe (i greci, i portoghesi ecc.). Come dico spesso, la situazione in cui ci troviamo è figlia del modo stupido in cui è stata gestita una crisi inevitabile.
Da un lato i “sovranisti” chiedono che la Nazione torni in porto. Dall’altra parte ci sono i loro avversari, i “de-democratizzatori”, che raccomandano di andare al largo affindandosi alle correnti della globalizzazione. I sovranisti esigono una riterritorializzazione del potere, l’uscita dall’euro, la resurrezione delle frontiere. I de-democratizzatori vogliono abbandonare qualsiasi potere decisionale e perfino il sistema democratico, affidando la politica a esperti e mercati finanziari.
In questo dualismo si consuma il fallimento della politica. Che si è manifestato sotto una figura paradossale, l’“autoritarismo impotente”: autoritari di fronte alla Grecia, impotenti di fronte ai rifugiati.
«È proprio così. Con l’aggiunta di un altro aspetto: in questo falso scontro fra rinazionalizzatori e paladini dell’euro, le due parti si nutrono a vicenda! Concorrono insieme, ovviamente senza volerlo, al processo che genera centralizzazione autoritaria e al tempo stesso frammentazione. Le due crisi di questa estate, la crisi greca e quella dei rifugiati, lo dimostrano: gli Stati membri cercano di scaricarsi a vicenda l’onere della crisi, ponendo incessantemente una domanda avvelenata “Che ci guadagno?”; e intanto Bruxelles e Francoforte cercano di accaparrarsi, riuscendoci, altro potere arbitrario a spese degli Stati-nazione. La frammentazione centralizzata è il risultato peggiore possibile della pessima architettura dell’Europa, ma anche della reazione nazionalistica che vuole rinazionalizzare i sogni, le aspirazioni, le politiche migratorie, la politica di bilancio e così via».
Per converso, il “no” greco al referendum del 5 luglio e il movimento europeo di solidarietà verso i rifugiati rappresentano la nascita caotica di un’opinione pubblica europea, e forse l’abbozzo di una sollevazione democratica contro le istituzioni europee, che non li rappresentano più e li opprimono.
Il sontuoso “No!” gridato da quell’incredibile 62 per cento di greci è un meraviglioso lascito di resistenza all’idiozia dell’eurolealismo e alla riluttanza dell’euroclastia. Non era un “No” all’euro. Era un “No” a un accordo all’interno dell’Eurozona insostenibile e vendicativo. La maggioranza che ha detto “No” ci stava dicendo: “Non vogliamo che ci portiate fuori dall’euro. Ma non intendiamo tollerare un’umiliante parvenza di accordo che condanna i nostri figli a una depressione permanente e a un perenne status di Paese di terza classe in Europa. E se Bruxelles-Francoforte- Berlino continueranno a minacciarci con la Grexit, allora ditegli: Andate all’inferno”. Quel “No” è stato tradito, su questo non c’è dubbio. Ma il suo spirito non è evaporato».
Dalle sue dimissioni il 6 luglio Lei sembra dire solo una cosa: “È venuto il momento delle rivoluzioni europee”. Cerca di creare “una nuova narrativa per l’Europa”, che io interpreto come “Creatività, solidarietà, democrazia”. Contro l’impotenza autoritaria delle istituzioni dobbiamo contribuire a far emergere una potenza d’azione democratica.
«Prima delle elezioni del 25 gennaio 2015, insieme ad Alexis Tsipras dicevamo al mondo che quello che sarebbe cominciato in Grecia si sarebbe esteso all’Europa. Il nostro slogan era: “Riprendiamoci la Grecia – Cambiamo l’Europa!”. Dopo la capitolazione di luglio, sono giunto alla naturale conclusione che con la Grecia sconfitta (anche se mai soggiogata) è venuto il momento di portare il messaggio della nostra Primavera di Atene, che ha già “infettato” tutti in Europa, da Helsinki a Porto, da Belfast a Creta. La Primavera di Atene ha dimostrato, anche agli europei che non erano d’accordo con il nostro governo, che tutte le decisioni importanti vengono prese da organismi che non rendono conto a nessuno, privi di trasparenza, dittatoriali, che non rispettano nessun principio di legalità, che agiscono nell’ombra, che nutrono solo disprezzo verso la democrazia. E allora i tempi sono maturi per portare il trittico della rivoluzione francese, libertà-uguaglianza- fratellanza, a livello europeo, e aggiungere a esso tolleranza-trasparenza-diversità».
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Varoufakis
“L’Europa ha perso l’integrità e l’anima”
“La Primavera di Atene ha messo a nudo la tirannia dell’Unione”
L’ex ministro greco ieri ha annunciato che domenica voterà per i dissidenti euroscettici di Unità popolare
colloquio con Christian Salmon
IGRECI domani tornano al voto per la seconda volta in nove mesi. Sono le elezioni anticipate volute dal premier Alexis Tsipras che non poteva più contare su una maggioranza in Parlamento. L’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis era già uscito dal governo il 6 luglio (tanto che ieri ha annunciato a Press project che non voterà per Syriza ma per “Unità popolare”, la neo-formazione dei dissidenti euroscettici, ndr). In questo dialogo, racconta la sua visione dell’Europa.
La crisi dei rifugiati, come la crisi greca, rappresentano due momenti parossistici di una più generale crisi dell’Ue, ed è necessario analizzarle congiuntamente, come ha detto recentemente: due facce di una stessa crisi, due sintomi acuti di una stessa malattia, il “male di sovranità” dell’Europa.
«Esattamente. Gli europei devono riuscire a comprendere la radice delle forze centrifughe che ormai da tempo stanno lacerando l’Unione Europea, toccando l’apice in questa orrenda estate del 2015 in cui prima la democrazia greca è stata stritolata (con la minaccia di un’espulsione dall’Eurozona come punizione per aver rifiutato un nuovo prestito a condizioni che ridurrebbero il Paese ancora più in miseria), e poi l’Europa non ha saputo mostrarsi all’altezza della crisi dei profughi. La radice sta nelle fondamenta stesse dell’Unione, che è stata costruita come un mastodontico cartello industriale, si è trasformata in una coalizione di banchieri, è stata gestita da una tecnocrazia incompetente che disprezza i principi della democrazia, e infine ha elaborato una sua versione di moneta unica che rispecchia la “logica” del sistema aureo vigente fra le due guerre. Una “costruzione” simile non poteva reggere. Quando ha cominciato a frammentarsi, dopo il 1929 della nostra generazione (l’implosione del 2008), gli Stati membri hanno cominciato a ripiegarsi su se stessi. Il dramma greco di luglio, che ha messo a nudo la perdita di integrità dell’Europa, e l’attuale crisi dei rifugiati, che dimostra che l’Europa ha perso la sua anima, sono il risultato di questa frammentazione. È così che interpreto la sua appropriata espressione, “male di sovranità”».
Gli Stati-nazione hanno perso la loro sovranità democratica, l’Ue non l’ha ritrovata. Siamo su un continente che vola col pilota automatico, abbandonato alla mano invisibile dei mercati… A bordo del bateau ivre , due categorie di politici litigano sulla direzione da prendere e la condotta da seguire.
«È esattamente quello che stiamo vivendo. Se posso permettermi di “correggere” leggermente la sua metafora, direi che abbiamo lanciato un battello fluviale nella vastità dell’oceano durante giornate di bonaccia. Il nostro battello è maestoso, ma non ha quello che serve per sopravvivere a un mare in tempesta. Peggio ancora: in questo spazio allegorico, quando gli elementi hanno deciso di scatenare una tempesta, la loro furia è stata proporzionale alla nostra mancanza di preparazione. E quando la tempesta è arrivata, il capitano e i suoi ufficiali hanno continuato a negare l’evidenza, insistendo che era tutta colpa dei passeggeri di terza classe (i greci, i portoghesi ecc.). Come dico spesso, la situazione in cui ci troviamo è figlia del modo stupido in cui è stata gestita una crisi inevitabile.
Da un lato i “sovranisti” chiedono che la Nazione torni in porto. Dall’altra parte ci sono i loro avversari, i “de-democratizzatori”, che raccomandano di andare al largo affindandosi alle correnti della globalizzazione. I sovranisti esigono una riterritorializzazione del potere, l’uscita dall’euro, la resurrezione delle frontiere. I de-democratizzatori vogliono abbandonare qualsiasi potere decisionale e perfino il sistema democratico, affidando la politica a esperti e mercati finanziari.
In questo dualismo si consuma il fallimento della politica. Che si è manifestato sotto una figura paradossale, l’“autoritarismo impotente”: autoritari di fronte alla Grecia, impotenti di fronte ai rifugiati.
«È proprio così. Con l’aggiunta di un altro aspetto: in questo falso scontro fra rinazionalizzatori e paladini dell’euro, le due parti si nutrono a vicenda! Concorrono insieme, ovviamente senza volerlo, al processo che genera centralizzazione autoritaria e al tempo stesso frammentazione. Le due crisi di questa estate, la crisi greca e quella dei rifugiati, lo dimostrano: gli Stati membri cercano di scaricarsi a vicenda l’onere della crisi, ponendo incessantemente una domanda avvelenata “Che ci guadagno?”; e intanto Bruxelles e Francoforte cercano di accaparrarsi, riuscendoci, altro potere arbitrario a spese degli Stati-nazione. La frammentazione centralizzata è il risultato peggiore possibile della pessima architettura dell’Europa, ma anche della reazione nazionalistica che vuole rinazionalizzare i sogni, le aspirazioni, le politiche migratorie, la politica di bilancio e così via».
Per converso, il “no” greco al referendum del 5 luglio e il movimento europeo di solidarietà verso i rifugiati rappresentano la nascita caotica di un’opinione pubblica europea, e forse l’abbozzo di una sollevazione democratica contro le istituzioni europee, che non li rappresentano più e li opprimono.
Il sontuoso “No!” gridato da quell’incredibile 62 per cento di greci è un meraviglioso lascito di resistenza all’idiozia dell’eurolealismo e alla riluttanza dell’euroclastia. Non era un “No” all’euro. Era un “No” a un accordo all’interno dell’Eurozona insostenibile e vendicativo. La maggioranza che ha detto “No” ci stava dicendo: “Non vogliamo che ci portiate fuori dall’euro. Ma non intendiamo tollerare un’umiliante parvenza di accordo che condanna i nostri figli a una depressione permanente e a un perenne status di Paese di terza classe in Europa. E se Bruxelles-Francoforte- Berlino continueranno a minacciarci con la Grexit, allora ditegli: Andate all’inferno”. Quel “No” è stato tradito, su questo non c’è dubbio. Ma il suo spirito non è evaporato».
Dalle sue dimissioni il 6 luglio Lei sembra dire solo una cosa: “È venuto il momento delle rivoluzioni europee”. Cerca di creare “una nuova narrativa per l’Europa”, che io interpreto come “Creatività, solidarietà, democrazia”. Contro l’impotenza autoritaria delle istituzioni dobbiamo contribuire a far emergere una potenza d’azione democratica.
«Prima delle elezioni del 25 gennaio 2015, insieme ad Alexis Tsipras dicevamo al mondo che quello che sarebbe cominciato in Grecia si sarebbe esteso all’Europa. Il nostro slogan era: “Riprendiamoci la Grecia – Cambiamo l’Europa!”. Dopo la capitolazione di luglio, sono giunto alla naturale conclusione che con la Grecia sconfitta (anche se mai soggiogata) è venuto il momento di portare il messaggio della nostra Primavera di Atene, che ha già “infettato” tutti in Europa, da Helsinki a Porto, da Belfast a Creta. La Primavera di Atene ha dimostrato, anche agli europei che non erano d’accordo con il nostro governo, che tutte le decisioni importanti vengono prese da organismi che non rendono conto a nessuno, privi di trasparenza, dittatoriali, che non rispettano nessun principio di legalità, che agiscono nell’ombra, che nutrono solo disprezzo verso la democrazia. E allora i tempi sono maturi per portare il trittico della rivoluzione francese, libertà-uguaglianza- fratellanza, a livello europeo, e aggiungere a esso tolleranza-trasparenza-diversità».
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 19.9.15
Il reportage.
Nove mesi fa a Kyriaki, Syriza ottenne il record di consensi:il 59%.Oggi c’è chi parla di tradimento.E nei sondaggi è testa a testa con il centrodestra di Nea Demokratia
Nel feudo di Tsipras “Siamo un po’ delusi ma rivoteremo per lui non c’è alternativa”
di Ettore Livini e Matteo Pucciarelli
KYRIAKI. «Io? Rivoterò Tsipras!». «Io pure. Il memorandum? Era inevitabile. Alexis non poteva fare di più. Ha combattuto come un leone contro la Troika. E gli ridarò fiducia ». Il comitato centrale della Stalingrado greca — riunito come ogni giorno sotto il platano che dà il nome (“O Platanos”) al suo bar di riferimento — ha emesso il verdetto. «Non possiamo nasconderle che siamo un po’ delusi. Non c’è più quell’aria elettrica e la speranza di gennaio scorso», racconta a nome dei sette pensionati seduti davanti ai bicchieri di raki l’ex-operaio siderurgico Yannis Roumeliotis. «Ma abbiamo discusso a lungo e siamo arrivati a una conclusione: alternative non ce ne sono. Sei di noi rimetteranno la croce sul simbolo di Syriza. Solo Panos, l’elettricista, vuole astenersi. Ma vedrà, domenica cambierà idea pure lui».
Se tutta la Grecia fosse come Kyriaki — il piccolo paese della Beozia ai piedi del monte Elikonas dove il partito a gennaio ha fatto il botto con il 59%, record nazionale — Alexis Tsipras potrebbe dormire tra due guanciali. Invece no. Il vento è girato: il centrodestra di Nea Demokratia è testa a testa con la sinistra nei sondaggi, il dramma dei rifugiati gonfia i consensi di Alba Dorata e tanti supporter dell’ex-premier — gelati dal tradimento delle promesse elettorali — sono pronti a disertare le urne. La prova? Il comizio di chiusura della campagna elettorale di ieri sera a Syntagma. Il cast era stellare: sul palco l’ex-premier con al fianco Pablo Iglesias (gli amici si vedono nel momento del bisogno) di Podemos. La piazza invece è rimasta mezza vuota, specie per chi ricorda quella oceanica del 25 gennaio e la folla in festa del 5 luglio, la sera del “no” al referendum.
«Dobbiamo dire tanti altri “no”», ha detto Tsipras. «No al vecchio (ovviamente Nd e gli scissionisti della Piattaforma ora alle elezioni con il cartello di Unità popolare, ndr. ) no agli oligarghi e all’Europa di Schaeuble ». «Chi poteva negoziare meglio di noi? Quale credibilità hanno gli altri?», ha continuato, invitando il blocco sociale composto da lavoratori, piccoli imprenditori, forze dell’ordine, professori e giovani a dare un nuovo e chiaro mandato a Syriza. «Non dobbiamo cedere ora allo scoraggiamento e regalare ai conservatori il terreno che abbiamo conquistato », ha concluso rivolto ai militanti scoraggiati.
È riuscito a convincerli? A giudicare dagli exit-poll informali di “O Platanos”, sì. «Qui da noi, malgrado tutto, rivincerà. E vedrà che succederà lo stesso in tutto il paese», dice convinta Heleni Georgiadis mentre fa la spesa al mini-market Loukas. Se lo dice un’elettrice ondivaga come lei c’è da darle credito. «A gennaio per la prima volta ho puntato sulla sinistra», racconta. «Al referendum ho detto “Oki”, come il 79% degli abitanti di Kyriaki. E quando Tsipras ha firmato il memorandum ho giurato a me stessa che non l’avrei più vota- to». Ora — come l’ex-premier — si è rimangiata le sue promesse: «Ho 57 anni e la vita mi ha insegnato a essere pragmatica», ammette. «Pasok e Nea Demokratia riporterebbero la Grecia al clientelismo e alla corruzione, la sinistra radicale alla dracma. Alexis invece mi pare una persona razionale e pulita. Ergo: mi turo il naso e punto di nuovo su di lui».
Il carisma del premier, ancora intatto, tira più del partito. E Syriza non a caso ha stampato migliaia di manifesti con il suo volto (e il nome della colazione defilato in basso) per provare a convincere gli indecisi — molti a sinistra — che potrebbero diventare l’ago della bilancia delle elezioni, arginando la rimonta di Nea Demokratia.
Difficile dire se basterà. La Caporetto dei negoziati con la Troika ha lasciato il segno. Christos, che ogni giorno viaggia da Kyriaki a Livadia per insegnare matematica al liceo, è sicuro che il vero salasso di consensi per Tsipras arriverà dai giovani. «Sento i discorsi dei 18enni a scuola: per loro un anno fa Alexis era un’eroe, il Davide in grado di sconfiggere Golia. Ora lo giudicano un traditore che ha distrutto un sogno. E loro, vista l’età, vogliono continuare a sognare». Non succede solo a Livadia: il partito dell’ex-premier è scivolato al quarto posto nei sondaggi tra i 18-24enni, una classifica da brividi visto che in cima alla graduatoria dei consensi tra i ragazzi è balzata Alba Dorata.
«È quello che temevamo un po’ tutti», spiega Leonidas, 25enne muratore al lavoro di fianco al museo del Folklore della Beozia. Lui domenica tradirà Syriza per Unità Popolare («è più coerente»), il partito anti- memorandum nato dalla scissione a sinistra. «Ma falliti i vecchi partiti e smontata l’illusione di Tsipras — ammette — il rischio è che a beneficiarne siano i neo-nazisti». «Per fortuna nessuno chiederà i loro voti per governare », dice Yannis bevendo un ultimo Raki a “O Platanos”. «Ha visto che al comizio di Atene c’è Iglesias? Tsipras ha perso una battaglia. Ma tutte le partite hanno due tempi. E con Podemos e Jeremy Corbyn vincerà in Europa». Kyriaki, o — garantito — almeno il Syriza fan club di “O Platanos”, sarà ancora al suo fianco.
Il reportage.
Nove mesi fa a Kyriaki, Syriza ottenne il record di consensi:il 59%.Oggi c’è chi parla di tradimento.E nei sondaggi è testa a testa con il centrodestra di Nea Demokratia
Nel feudo di Tsipras “Siamo un po’ delusi ma rivoteremo per lui non c’è alternativa”
di Ettore Livini e Matteo Pucciarelli
KYRIAKI. «Io? Rivoterò Tsipras!». «Io pure. Il memorandum? Era inevitabile. Alexis non poteva fare di più. Ha combattuto come un leone contro la Troika. E gli ridarò fiducia ». Il comitato centrale della Stalingrado greca — riunito come ogni giorno sotto il platano che dà il nome (“O Platanos”) al suo bar di riferimento — ha emesso il verdetto. «Non possiamo nasconderle che siamo un po’ delusi. Non c’è più quell’aria elettrica e la speranza di gennaio scorso», racconta a nome dei sette pensionati seduti davanti ai bicchieri di raki l’ex-operaio siderurgico Yannis Roumeliotis. «Ma abbiamo discusso a lungo e siamo arrivati a una conclusione: alternative non ce ne sono. Sei di noi rimetteranno la croce sul simbolo di Syriza. Solo Panos, l’elettricista, vuole astenersi. Ma vedrà, domenica cambierà idea pure lui».
Se tutta la Grecia fosse come Kyriaki — il piccolo paese della Beozia ai piedi del monte Elikonas dove il partito a gennaio ha fatto il botto con il 59%, record nazionale — Alexis Tsipras potrebbe dormire tra due guanciali. Invece no. Il vento è girato: il centrodestra di Nea Demokratia è testa a testa con la sinistra nei sondaggi, il dramma dei rifugiati gonfia i consensi di Alba Dorata e tanti supporter dell’ex-premier — gelati dal tradimento delle promesse elettorali — sono pronti a disertare le urne. La prova? Il comizio di chiusura della campagna elettorale di ieri sera a Syntagma. Il cast era stellare: sul palco l’ex-premier con al fianco Pablo Iglesias (gli amici si vedono nel momento del bisogno) di Podemos. La piazza invece è rimasta mezza vuota, specie per chi ricorda quella oceanica del 25 gennaio e la folla in festa del 5 luglio, la sera del “no” al referendum.
«Dobbiamo dire tanti altri “no”», ha detto Tsipras. «No al vecchio (ovviamente Nd e gli scissionisti della Piattaforma ora alle elezioni con il cartello di Unità popolare, ndr. ) no agli oligarghi e all’Europa di Schaeuble ». «Chi poteva negoziare meglio di noi? Quale credibilità hanno gli altri?», ha continuato, invitando il blocco sociale composto da lavoratori, piccoli imprenditori, forze dell’ordine, professori e giovani a dare un nuovo e chiaro mandato a Syriza. «Non dobbiamo cedere ora allo scoraggiamento e regalare ai conservatori il terreno che abbiamo conquistato », ha concluso rivolto ai militanti scoraggiati.
È riuscito a convincerli? A giudicare dagli exit-poll informali di “O Platanos”, sì. «Qui da noi, malgrado tutto, rivincerà. E vedrà che succederà lo stesso in tutto il paese», dice convinta Heleni Georgiadis mentre fa la spesa al mini-market Loukas. Se lo dice un’elettrice ondivaga come lei c’è da darle credito. «A gennaio per la prima volta ho puntato sulla sinistra», racconta. «Al referendum ho detto “Oki”, come il 79% degli abitanti di Kyriaki. E quando Tsipras ha firmato il memorandum ho giurato a me stessa che non l’avrei più vota- to». Ora — come l’ex-premier — si è rimangiata le sue promesse: «Ho 57 anni e la vita mi ha insegnato a essere pragmatica», ammette. «Pasok e Nea Demokratia riporterebbero la Grecia al clientelismo e alla corruzione, la sinistra radicale alla dracma. Alexis invece mi pare una persona razionale e pulita. Ergo: mi turo il naso e punto di nuovo su di lui».
Il carisma del premier, ancora intatto, tira più del partito. E Syriza non a caso ha stampato migliaia di manifesti con il suo volto (e il nome della colazione defilato in basso) per provare a convincere gli indecisi — molti a sinistra — che potrebbero diventare l’ago della bilancia delle elezioni, arginando la rimonta di Nea Demokratia.
Difficile dire se basterà. La Caporetto dei negoziati con la Troika ha lasciato il segno. Christos, che ogni giorno viaggia da Kyriaki a Livadia per insegnare matematica al liceo, è sicuro che il vero salasso di consensi per Tsipras arriverà dai giovani. «Sento i discorsi dei 18enni a scuola: per loro un anno fa Alexis era un’eroe, il Davide in grado di sconfiggere Golia. Ora lo giudicano un traditore che ha distrutto un sogno. E loro, vista l’età, vogliono continuare a sognare». Non succede solo a Livadia: il partito dell’ex-premier è scivolato al quarto posto nei sondaggi tra i 18-24enni, una classifica da brividi visto che in cima alla graduatoria dei consensi tra i ragazzi è balzata Alba Dorata.
«È quello che temevamo un po’ tutti», spiega Leonidas, 25enne muratore al lavoro di fianco al museo del Folklore della Beozia. Lui domenica tradirà Syriza per Unità Popolare («è più coerente»), il partito anti- memorandum nato dalla scissione a sinistra. «Ma falliti i vecchi partiti e smontata l’illusione di Tsipras — ammette — il rischio è che a beneficiarne siano i neo-nazisti». «Per fortuna nessuno chiederà i loro voti per governare », dice Yannis bevendo un ultimo Raki a “O Platanos”. «Ha visto che al comizio di Atene c’è Iglesias? Tsipras ha perso una battaglia. Ma tutte le partite hanno due tempi. E con Podemos e Jeremy Corbyn vincerà in Europa». Kyriaki, o — garantito — almeno il Syriza fan club di “O Platanos”, sarà ancora al suo fianco.
La Stampa 19.9.15
Il radicale diventato “borghese”
che non spaventa più la troika
Abbandonato dalla destra e dalla sinistra di Syriza ora rischia di dover accettare alleanze instabili
di Tonia Mastrobuoni
Mai come stavolta le elezioni greche saranno decise dai dubbiosi e dai delusi, dalle schede bianche, dalle astensioni e dalle decisioni dell’ultimo minuto.
Al momento Alexis Tsipras e Evangelis Meimarakis sono testa a testa nei sondaggi, ma c’è un enorme componente di indecisi. Quasi dieci milioni di greci decideranno domani se dare una seconda opportunità al leader della sinistra radicale che ha dovuto rinunciare a molte promesse per scendere a patti con l’Europa, o se restituire il Paese ai conservatori che hanno dominato la politica greca nell’ultimo trentennio. In soli sette mesi, per garantire al suo Paese la sopravvivenza nell’euro, Tsipras si è dovuto togliere la veste da pasionario delle piazze per imboccare il sentiero della realpolitik. Tuttavia, dopo una serie di spettacolari giravolte, resta il politico più amato dai greci.
I patti con la trojka
L’ingegnere ateniese è sceso a patti con la trojka dei creditori Bce-Ue-Fmi, ha conquistato un nuovo, terzo piano di salvataggio da 86 miliardi in cambio di riforme e di un impegno a discutere su come alleggerire il mostruoso debito pubblico che vale il 180% del Pil. Ma per strada ha perso una fetta consistente del suo elettorato. Domani si capirà quanto è grave l’emorragia di consensi per Syriza. E dopo la scissione dell’ala sinistra capeggiata da Panagiotis Lafazanis, gira voce che possa esserci una nuova rottura nel partito, sempre a sinistra.
Intanto, per l’Europa, l’ansia e le incognite rispetto alle elezioni di gennaio sono più contenute. Chiunque vincerà cercherà rapidamente alleati per una coalizione di governo che possa andare avanti con gli aggiustamenti in cambio di soldi. Anche sulle alleanze, Tsipras è diventato più possibilista rispetto a gennaio. L’unico problema è che sia lui sia Meimarakis potrebbero vincere talmente di misura da essere costretti a coalizioni instabili e rissose che potrebbero costringere Atene a nuove elezioni entro breve.
Tsipras ha deluso tanti greci, che non lo voteranno per ragioni molto diverse, spesso opposte. Da quando, appena quattro anni fa, era il «partito degli indignados» e valeva il 5% in Parlamento, ha assorbito un elettorato eterogeneo. Dai vecchi militanti trotzkisti ai socialisti delusi dal Pasok, il partito che ha adottato per primo l’austerità per scongiurare il default. Dopo sei mesi inconcludenti di negoziato con la trojka, Tsipras rischia l’abbandono della destra e della sinistra del suo partito.
Syriza è diventato un grande partito borghese, ma molti hanno ancora la sensazione che non sia abbastanza maturo per governare. L’ampia fetta di classe media che lo aveva votato - lavoratori dipendenti e pensionati sui quali sono ricaduti gran parte dei sacrifici - ha visto precipitare in sei mesi la situazione economica. Ed è in parte propensa a tornare a votare i vecchi partitoni che hanno governato, alternandosi, dagli Anni 80. Visto che il Pasok è ormai un partitino, molti sondaggi mostrano che questa componente di Syriza voterà il maggiore partito di opposizione, anche se conservatore, Nuova Democrazia.
A sinistra della sinistra
La sinistra del partito si è cristallizzata con l’evento politico più traumatico da anni, il referendum del 5 luglio, che alcuni avevano interpretato come una scelta tra euro e dracma, altri come un plebiscito su Tsipras, per rafforzarne il mandato in Europa, per negoziare il nuovo salvataggio. I primi non voteranno più Syriza: per loro Tsipras ha tradito il 62% di «no». In parte voteranno Unità popolare, il partito di Lafazanis, dato attorno al 3-5%, ma in parte non voteranno affatto, convinti che il «corsetto» dell’euro abbia tolto ormai ogni significato alle elezioni democratiche. È di loro, in prospettiva, che bisogna preoccuparsi, per non alimentare populismi e spinte anti democratiche. Negli ultimi sondaggi, anche questo non va mai dimenticato, i neonazisti di Alba Dorata sono il terzo partito greco. E una parte di chi voterà le teste rasate, sempre secondo i sondaggi, proviene già da Syriza.
Il radicale diventato “borghese”
che non spaventa più la troika
Abbandonato dalla destra e dalla sinistra di Syriza ora rischia di dover accettare alleanze instabili
di Tonia Mastrobuoni
Mai come stavolta le elezioni greche saranno decise dai dubbiosi e dai delusi, dalle schede bianche, dalle astensioni e dalle decisioni dell’ultimo minuto.
Al momento Alexis Tsipras e Evangelis Meimarakis sono testa a testa nei sondaggi, ma c’è un enorme componente di indecisi. Quasi dieci milioni di greci decideranno domani se dare una seconda opportunità al leader della sinistra radicale che ha dovuto rinunciare a molte promesse per scendere a patti con l’Europa, o se restituire il Paese ai conservatori che hanno dominato la politica greca nell’ultimo trentennio. In soli sette mesi, per garantire al suo Paese la sopravvivenza nell’euro, Tsipras si è dovuto togliere la veste da pasionario delle piazze per imboccare il sentiero della realpolitik. Tuttavia, dopo una serie di spettacolari giravolte, resta il politico più amato dai greci.
I patti con la trojka
L’ingegnere ateniese è sceso a patti con la trojka dei creditori Bce-Ue-Fmi, ha conquistato un nuovo, terzo piano di salvataggio da 86 miliardi in cambio di riforme e di un impegno a discutere su come alleggerire il mostruoso debito pubblico che vale il 180% del Pil. Ma per strada ha perso una fetta consistente del suo elettorato. Domani si capirà quanto è grave l’emorragia di consensi per Syriza. E dopo la scissione dell’ala sinistra capeggiata da Panagiotis Lafazanis, gira voce che possa esserci una nuova rottura nel partito, sempre a sinistra.
Intanto, per l’Europa, l’ansia e le incognite rispetto alle elezioni di gennaio sono più contenute. Chiunque vincerà cercherà rapidamente alleati per una coalizione di governo che possa andare avanti con gli aggiustamenti in cambio di soldi. Anche sulle alleanze, Tsipras è diventato più possibilista rispetto a gennaio. L’unico problema è che sia lui sia Meimarakis potrebbero vincere talmente di misura da essere costretti a coalizioni instabili e rissose che potrebbero costringere Atene a nuove elezioni entro breve.
Tsipras ha deluso tanti greci, che non lo voteranno per ragioni molto diverse, spesso opposte. Da quando, appena quattro anni fa, era il «partito degli indignados» e valeva il 5% in Parlamento, ha assorbito un elettorato eterogeneo. Dai vecchi militanti trotzkisti ai socialisti delusi dal Pasok, il partito che ha adottato per primo l’austerità per scongiurare il default. Dopo sei mesi inconcludenti di negoziato con la trojka, Tsipras rischia l’abbandono della destra e della sinistra del suo partito.
Syriza è diventato un grande partito borghese, ma molti hanno ancora la sensazione che non sia abbastanza maturo per governare. L’ampia fetta di classe media che lo aveva votato - lavoratori dipendenti e pensionati sui quali sono ricaduti gran parte dei sacrifici - ha visto precipitare in sei mesi la situazione economica. Ed è in parte propensa a tornare a votare i vecchi partitoni che hanno governato, alternandosi, dagli Anni 80. Visto che il Pasok è ormai un partitino, molti sondaggi mostrano che questa componente di Syriza voterà il maggiore partito di opposizione, anche se conservatore, Nuova Democrazia.
A sinistra della sinistra
La sinistra del partito si è cristallizzata con l’evento politico più traumatico da anni, il referendum del 5 luglio, che alcuni avevano interpretato come una scelta tra euro e dracma, altri come un plebiscito su Tsipras, per rafforzarne il mandato in Europa, per negoziare il nuovo salvataggio. I primi non voteranno più Syriza: per loro Tsipras ha tradito il 62% di «no». In parte voteranno Unità popolare, il partito di Lafazanis, dato attorno al 3-5%, ma in parte non voteranno affatto, convinti che il «corsetto» dell’euro abbia tolto ormai ogni significato alle elezioni democratiche. È di loro, in prospettiva, che bisogna preoccuparsi, per non alimentare populismi e spinte anti democratiche. Negli ultimi sondaggi, anche questo non va mai dimenticato, i neonazisti di Alba Dorata sono il terzo partito greco. E una parte di chi voterà le teste rasate, sempre secondo i sondaggi, proviene già da Syriza.
Repubblica 19.9.15
Saranno i migranti a salvare l’Europa
Prima della crisi finanziaria il Vecchio Continente si avviava a diventare la regione più aperta in termini di flussi migratori
Il dramma dei rifugiati potrebbe essere l’occasione per aprirsi al mondo rilanciando l’economia
di Thomas Piketty
Lo slancio di solidarietà in favore dei rifugiati osservato in queste ultime settimane è stato tardivo
MA QUANTOMENO ha avuto il merito di ricordare agli europei e al mondo una realtà fondamentale. Il nostro continente, nel XXI secolo, può e deve diventare una grande terra di immigrazione. Tutto concorre in tal senso: il nostro invecchiamento autodistruttivo lo impone, il nostro modello sociale lo consente e l’esplosione demografica dell’Africa abbinata al riscaldamento globale lo esigerà sempre di più. Tutte queste cose sono largamente note. Un po’ meno noto, forse, è che prima della crisi finanziaria l’Europa si avviava a diventare la regione più aperta del mondo in termini di flussi migratori. È la crisi, scatenatasi nel 2007-2008 negli Stati Uniti, ma da cui l’Europa non è mai riuscita a uscire per colpa di politiche sbagliate, che ha condotto all’aumento della disoccupazione e della xenofobia, e a una chiusura brutale delle frontiere. Il tutto in un momento in cui il contesto internazionale (Primavera Araba, afflusso di profughi) avrebbe giustificato, al contrario, una maggiore apertura.
Facciamo un passo indietro. Nel 2015 l’Unione Europea conta quasi 510 milioni di abitanti, contro circa 485 milioni nel 1995 (considerando le frontiere attuali dell’Unione). Questa progressione di 25 milioni di abitanti in vent’anni di per sé non ha niente di eccezionale (appena lo 0,2 per cento di crescita annuo, contro l’1,2 per cento della popolazione mondiale nel suo insieme nello stesso periodo). Ma il punto importante è che tale crescita è dovuta, per quasi tre quarti, all’apporto migratorio (più di 15 milioni di persone). Tra il 2000 e il 2010, l’Unione Europea ha accolto quindi un flusso migratorio (al netto degli espatri) di circa 1 milione di persone all’anno, un livello equivalente a quello degli Stati Uniti, con in più una maggiore diversità culturale e geografica (l’islam rimane marginale Oltreatlantico). In quell’epoca non così remota in cui il nostro continente sapeva mostrarsi ( relativamente) accogliente, la disoccupazione in Europa era in calo, almeno fino al 2007-2008. Il paradosso è che gli Stati Uniti, grazie al loro pragmatismo e alla loro flessibilità di bilancio e monetaria, si sono rimessi molto in fretta dalla crisi che essi stessi avevano scatenato.
Hanno rapidamente ripreso la loro traiettoria di crescita (il Pil del 2015 è del 10 per cento più alto di quello del 2007) e l’apporto migratorio si è mantenuto intorno a 1 milione di persone l’anno.
L’Europa, invece, impantanata in divisioni e posizioni sterili, non è mai riuscita a tornare al livello di attività economica precedente la crisi, e le conseguenze sono state la crescita della disoccupazione e la chiusura delle frontiere. L’apporto migratorio è precipitato drasticamente da 1 milione di persone l’anno fra il 2000 e il 2010 a meno di 400.000 fra il 2010 e il 2015. Che fare? Il dramma dei rifugiati potrebbe essere l’occasione, per gli europei, di uscire dalle loro piccole diatribe e dal loro egocentrismo. Aprendosi al mondo, rilanciando l’economia e gli investimenti (case, scuole, infrastrutture), respingendo i rischi deflazionistici, l’Unione Europea potrebbe tornare senza alcun problema ai livelli migratori registrati prima della crisi. L’apertura manifestata dalla Germania al riguardo è una notizia ottima per tutti coloro che si preoccupavano dell’ammuffimento e dell’invecchiamento dell’Europa. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che la Germania non ha scelta, tenuto conto della sua bassissima natalità: secondo le ultime proiezioni demografiche dell’Onu, che pure sono basate su un flusso migratorio due volte più elevato in Germania che in Francia nei prossimi decenni, la popolazione tedesca passerebbe dagli 81 milioni odierni a 63 milioni di qui alla fine del secolo, mentre la Francia, nello stesso periodo, passerebbe da 64 a 76 milioni.
Qualcuno potrebbe ricordare anche che il livello di attività economica osservato in Germania è in parte la conseguenza di un gigantesco surplus commerciale, che per definizione non potrebbe essere esteso a tutta l’Europa (perché non ci sarebbe nessuno sul pianeta in grado di assorbire una tale quantità di esportazioni).
Ma questo livello di attività si spiega anche con l’efficacia del modello industriale tedesco, che si fonda in particolare su un fortissimo livello di coinvolgimento dei dipendenti e dei loro rappresentanti (che hanno la metà dei seggi nei consigli d’amministrazione), e a cui faremmo bene a ispirarci.
Soprattutto, l’atteggiamento di apertura verso il mondo manifestato dalla Germania invia un messaggio forte agli ex Paesi dell’Europa dell’est membri dell’Unione Europea, che non vogliono né bambini né migranti e la cui popolazione messa insieme, sempre secondo l’Onu, dovrebbe passare dagli attuali 95 milioni a poco più di 55 entro la fine del secolo. La Francia deve rallegrarsi di questo atteggiamento della Germania e cogliere l’opportunità per far trionfare in Europa una visione aperta e positiva verso i rifugiati, i migranti e il mondo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Saranno i migranti a salvare l’Europa
Prima della crisi finanziaria il Vecchio Continente si avviava a diventare la regione più aperta in termini di flussi migratori
Il dramma dei rifugiati potrebbe essere l’occasione per aprirsi al mondo rilanciando l’economia
di Thomas Piketty
Lo slancio di solidarietà in favore dei rifugiati osservato in queste ultime settimane è stato tardivo
MA QUANTOMENO ha avuto il merito di ricordare agli europei e al mondo una realtà fondamentale. Il nostro continente, nel XXI secolo, può e deve diventare una grande terra di immigrazione. Tutto concorre in tal senso: il nostro invecchiamento autodistruttivo lo impone, il nostro modello sociale lo consente e l’esplosione demografica dell’Africa abbinata al riscaldamento globale lo esigerà sempre di più. Tutte queste cose sono largamente note. Un po’ meno noto, forse, è che prima della crisi finanziaria l’Europa si avviava a diventare la regione più aperta del mondo in termini di flussi migratori. È la crisi, scatenatasi nel 2007-2008 negli Stati Uniti, ma da cui l’Europa non è mai riuscita a uscire per colpa di politiche sbagliate, che ha condotto all’aumento della disoccupazione e della xenofobia, e a una chiusura brutale delle frontiere. Il tutto in un momento in cui il contesto internazionale (Primavera Araba, afflusso di profughi) avrebbe giustificato, al contrario, una maggiore apertura.
Facciamo un passo indietro. Nel 2015 l’Unione Europea conta quasi 510 milioni di abitanti, contro circa 485 milioni nel 1995 (considerando le frontiere attuali dell’Unione). Questa progressione di 25 milioni di abitanti in vent’anni di per sé non ha niente di eccezionale (appena lo 0,2 per cento di crescita annuo, contro l’1,2 per cento della popolazione mondiale nel suo insieme nello stesso periodo). Ma il punto importante è che tale crescita è dovuta, per quasi tre quarti, all’apporto migratorio (più di 15 milioni di persone). Tra il 2000 e il 2010, l’Unione Europea ha accolto quindi un flusso migratorio (al netto degli espatri) di circa 1 milione di persone all’anno, un livello equivalente a quello degli Stati Uniti, con in più una maggiore diversità culturale e geografica (l’islam rimane marginale Oltreatlantico). In quell’epoca non così remota in cui il nostro continente sapeva mostrarsi ( relativamente) accogliente, la disoccupazione in Europa era in calo, almeno fino al 2007-2008. Il paradosso è che gli Stati Uniti, grazie al loro pragmatismo e alla loro flessibilità di bilancio e monetaria, si sono rimessi molto in fretta dalla crisi che essi stessi avevano scatenato.
Hanno rapidamente ripreso la loro traiettoria di crescita (il Pil del 2015 è del 10 per cento più alto di quello del 2007) e l’apporto migratorio si è mantenuto intorno a 1 milione di persone l’anno.
L’Europa, invece, impantanata in divisioni e posizioni sterili, non è mai riuscita a tornare al livello di attività economica precedente la crisi, e le conseguenze sono state la crescita della disoccupazione e la chiusura delle frontiere. L’apporto migratorio è precipitato drasticamente da 1 milione di persone l’anno fra il 2000 e il 2010 a meno di 400.000 fra il 2010 e il 2015. Che fare? Il dramma dei rifugiati potrebbe essere l’occasione, per gli europei, di uscire dalle loro piccole diatribe e dal loro egocentrismo. Aprendosi al mondo, rilanciando l’economia e gli investimenti (case, scuole, infrastrutture), respingendo i rischi deflazionistici, l’Unione Europea potrebbe tornare senza alcun problema ai livelli migratori registrati prima della crisi. L’apertura manifestata dalla Germania al riguardo è una notizia ottima per tutti coloro che si preoccupavano dell’ammuffimento e dell’invecchiamento dell’Europa. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che la Germania non ha scelta, tenuto conto della sua bassissima natalità: secondo le ultime proiezioni demografiche dell’Onu, che pure sono basate su un flusso migratorio due volte più elevato in Germania che in Francia nei prossimi decenni, la popolazione tedesca passerebbe dagli 81 milioni odierni a 63 milioni di qui alla fine del secolo, mentre la Francia, nello stesso periodo, passerebbe da 64 a 76 milioni.
Qualcuno potrebbe ricordare anche che il livello di attività economica osservato in Germania è in parte la conseguenza di un gigantesco surplus commerciale, che per definizione non potrebbe essere esteso a tutta l’Europa (perché non ci sarebbe nessuno sul pianeta in grado di assorbire una tale quantità di esportazioni).
Ma questo livello di attività si spiega anche con l’efficacia del modello industriale tedesco, che si fonda in particolare su un fortissimo livello di coinvolgimento dei dipendenti e dei loro rappresentanti (che hanno la metà dei seggi nei consigli d’amministrazione), e a cui faremmo bene a ispirarci.
Soprattutto, l’atteggiamento di apertura verso il mondo manifestato dalla Germania invia un messaggio forte agli ex Paesi dell’Europa dell’est membri dell’Unione Europea, che non vogliono né bambini né migranti e la cui popolazione messa insieme, sempre secondo l’Onu, dovrebbe passare dagli attuali 95 milioni a poco più di 55 entro la fine del secolo. La Francia deve rallegrarsi di questo atteggiamento della Germania e cogliere l’opportunità per far trionfare in Europa una visione aperta e positiva verso i rifugiati, i migranti e il mondo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Corriere 19.9.15
Crisi e accoglienza
L’Europa, i rifugiati e il capitale umano dei nuovi cittadini
Divisioni L’Ue stenta a trovare una rotta sicura e condivisa nella gestione dei migranti
Anzi, le emozioni contrapposte stano provocando una nuova frattura tra Est ed Ovest dopo quella tra Nord e Sud causata dal caso greco
di Massimo Nava
Sommerse da immagini sconvolgenti — il bambino morto sulla spiaggia turca, le orde di disperati in marcia, i fili spinati nel cuore dell’Europa, la successione di naufragi nel Mare Nostrum — le opinioni pubbliche europee e i rispettivi governi stanno reagendo, nel bene e nel male, sull’onda delle emozioni. Da una parte, gli slanci di solidarietà, i dibattiti finalmente alti sul dovere di accoglienza, le iniziative coraggiose, innescate dai due messaggi più forti e responsabili che si sono sentiti in queste settimane: quello politico di Angela Merkel e quello spirituale di papa Francesco, i due soli grandi leader di cui dispone oggi l’Europa. Dall’altra parte, le nuove chiusure, i nuovi muri che si alzano nell’Europa dell’Est, la precipitosa messa in discussione di Schengen, i propositi di chiusura delle frontiere, le tentazioni militari con il freno tirato, l’eco mai sopita dei movimenti xenofobi che alimentano la paura dell’invasione.
Fra emozioni contrapposte, l’Europa stenta a trovare una rotta sicura e condivisa nella gestione di profughi e migranti. Anzi, le emozioni contrapposte stanno provocando una nuova frattura, fra Est e Ovest dell’Europa, dopo la frattura Nord-Sud nella gestione della crisi greca. A ben vedere, l’eccesso di emotività condiziona la questione immigrazione, mentre l’eccesso di razionalità contabile ha impedito una soluzione rapida e tutto sommato meno dolorosa della crisi greca.
Le cronache della fuga di massa da guerre e distruzioni hanno esaltato il fattore umano che pochi hanno invece voluto vedere nelle sofferenze inflitte ai cittadini europei della Grecia. Su entrambi i fronti, è venuta a mancare una valutazione dei fenomeni più realistica, cioè una corretta combinazione di dati economici e attenzione a fattori sociali.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati inutilmente per evidenziare la sproporzione fra l’entità del debito greco e il costo oggettivo del salvataggio, mentre risorse infinitamente più grandi venivano bruciate dalle borse asiatiche. E fiumi d’inchiostro vengono versati ora per raccontare le cronache dell’«invasione», mentre si stenta a valutare quanto l’«invasione» sarebbe economicamente gestibile rispetto alle risorse disponibili e socialmente necessaria rispetto all’evoluzione demografica e del mercato del lavoro.
In altre parole, le problematiche collegabili al capitale finanziario continuano a essere valutate e gestite in modo disgiunto dalle problematiche collegabili al capitale umano, mentre una riflessione puntuale su costi e benefici di entrambe le problematiche avrebbe risultati sicuramente più confortanti.
Del costo oggettivo della crisi greca si è detto. Per quanto riguarda la gestione profughi, basterebbe tenere presente alcuni dati. Gli Stati Uniti, con poco più della metà della popolazione europea, hanno accolto fra il 2000 e il 2013, quasi 12 milioni di nuovi cittadini, quasi un milione all’anno. Si calcola che i clandestini siano 11 milioni. Il 20 per cento degli immigrati nel mondo va verso gli Usa (5 per cento della popolazione mondiale).
Turchia, Giordania e Libano ospitano circa il 90 per cento dei quattro milioni di profughi siriani, mentre l’Europa discute sul come distribuire quanti profughi ha più o meno ospitato il solo Egitto (132.000).
Messe da parte le emozioni contrapposte, non sarebbe così difficile accettare l’idea che l’Europa necessita di un flusso costante e importante di nuovi cittadini per garantire la sopravvivenza stessa del proprio sistema di sviluppo e garanzie sociali. E che il costo di questi flussi è largamente sopportabile rispetto alle risorse disponibili e infinitamente inferiore a risorse sprecate in bolle finanziarie e operazioni militari all’origine della destabilizzazione di intere regioni del mondo.
Molto si è discusso anche delle ragioni che hanno spinto Angela Merkel a rompere gli indugi e a dare un segnale all’Europa. Fra queste, c’è sicuramente un po’ di razionalità tedesca, ossia la consapevolezza della posta in gioco per il futuro del Paese. L’accoglienza è un dovere, ma la Germania sa di avere bisogno di braccia . E le cerca dove ci sono. Anzi, le aspetta.
Crisi e accoglienza
L’Europa, i rifugiati e il capitale umano dei nuovi cittadini
Divisioni L’Ue stenta a trovare una rotta sicura e condivisa nella gestione dei migranti
Anzi, le emozioni contrapposte stano provocando una nuova frattura tra Est ed Ovest dopo quella tra Nord e Sud causata dal caso greco
di Massimo Nava
Sommerse da immagini sconvolgenti — il bambino morto sulla spiaggia turca, le orde di disperati in marcia, i fili spinati nel cuore dell’Europa, la successione di naufragi nel Mare Nostrum — le opinioni pubbliche europee e i rispettivi governi stanno reagendo, nel bene e nel male, sull’onda delle emozioni. Da una parte, gli slanci di solidarietà, i dibattiti finalmente alti sul dovere di accoglienza, le iniziative coraggiose, innescate dai due messaggi più forti e responsabili che si sono sentiti in queste settimane: quello politico di Angela Merkel e quello spirituale di papa Francesco, i due soli grandi leader di cui dispone oggi l’Europa. Dall’altra parte, le nuove chiusure, i nuovi muri che si alzano nell’Europa dell’Est, la precipitosa messa in discussione di Schengen, i propositi di chiusura delle frontiere, le tentazioni militari con il freno tirato, l’eco mai sopita dei movimenti xenofobi che alimentano la paura dell’invasione.
Fra emozioni contrapposte, l’Europa stenta a trovare una rotta sicura e condivisa nella gestione di profughi e migranti. Anzi, le emozioni contrapposte stanno provocando una nuova frattura, fra Est e Ovest dell’Europa, dopo la frattura Nord-Sud nella gestione della crisi greca. A ben vedere, l’eccesso di emotività condiziona la questione immigrazione, mentre l’eccesso di razionalità contabile ha impedito una soluzione rapida e tutto sommato meno dolorosa della crisi greca.
Le cronache della fuga di massa da guerre e distruzioni hanno esaltato il fattore umano che pochi hanno invece voluto vedere nelle sofferenze inflitte ai cittadini europei della Grecia. Su entrambi i fronti, è venuta a mancare una valutazione dei fenomeni più realistica, cioè una corretta combinazione di dati economici e attenzione a fattori sociali.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati inutilmente per evidenziare la sproporzione fra l’entità del debito greco e il costo oggettivo del salvataggio, mentre risorse infinitamente più grandi venivano bruciate dalle borse asiatiche. E fiumi d’inchiostro vengono versati ora per raccontare le cronache dell’«invasione», mentre si stenta a valutare quanto l’«invasione» sarebbe economicamente gestibile rispetto alle risorse disponibili e socialmente necessaria rispetto all’evoluzione demografica e del mercato del lavoro.
In altre parole, le problematiche collegabili al capitale finanziario continuano a essere valutate e gestite in modo disgiunto dalle problematiche collegabili al capitale umano, mentre una riflessione puntuale su costi e benefici di entrambe le problematiche avrebbe risultati sicuramente più confortanti.
Del costo oggettivo della crisi greca si è detto. Per quanto riguarda la gestione profughi, basterebbe tenere presente alcuni dati. Gli Stati Uniti, con poco più della metà della popolazione europea, hanno accolto fra il 2000 e il 2013, quasi 12 milioni di nuovi cittadini, quasi un milione all’anno. Si calcola che i clandestini siano 11 milioni. Il 20 per cento degli immigrati nel mondo va verso gli Usa (5 per cento della popolazione mondiale).
Turchia, Giordania e Libano ospitano circa il 90 per cento dei quattro milioni di profughi siriani, mentre l’Europa discute sul come distribuire quanti profughi ha più o meno ospitato il solo Egitto (132.000).
Messe da parte le emozioni contrapposte, non sarebbe così difficile accettare l’idea che l’Europa necessita di un flusso costante e importante di nuovi cittadini per garantire la sopravvivenza stessa del proprio sistema di sviluppo e garanzie sociali. E che il costo di questi flussi è largamente sopportabile rispetto alle risorse disponibili e infinitamente inferiore a risorse sprecate in bolle finanziarie e operazioni militari all’origine della destabilizzazione di intere regioni del mondo.
Molto si è discusso anche delle ragioni che hanno spinto Angela Merkel a rompere gli indugi e a dare un segnale all’Europa. Fra queste, c’è sicuramente un po’ di razionalità tedesca, ossia la consapevolezza della posta in gioco per il futuro del Paese. L’accoglienza è un dovere, ma la Germania sa di avere bisogno di braccia . E le cerca dove ci sono. Anzi, le aspetta.
Corriere 19.9.15
Angela Merkel, dieci anni da cancelliera pigliatutto
Il 18 settembre 2005, dieci anni fa ieri, una donna poco conosciuta, Angela Merkel, 51 anni, cristiano-democratica, vinceva le elezioni nel Paese più rilevante d’Europa, la Germania. Dopo due mesi di trattative e scontri con gli avversari socialdemocratici, sarebbe diventata cancelliera. Non ha più lasciato il posto e probabilmente non lo lascerà per qualche anno ancora. Ufficialmente, non ha festeggiato. Per ricordare quella prima vittoria, però, ha in serbo qualcosa di meglio di due coriandoli. Qualcosa che spiega in modo sublime il suo fenomeno politico.
In dieci anni, Frau Merkel ha affrontato crisi serie. Quella greca innanzitutto. Quella ucraina e la delusione nel vedere il lato oscuro di Vladimir Putin. Ha compiuto svolte non da poco, come la chiusura delle centrali nucleari dopo il disastro di Fukushima. E, oggi, deve gestire le masse di rifugiati che arrivano in Germania, in qualche modo da lei stessa richiamate. La prima crisi, però, la dovette affrontare subito, appena vinte le elezioni del 2005. Il cancelliere uscente, Gerhard Schröder, sosteneva di avere lui il diritto di assemblare una coalizione: aveva sì perso ma per solo un punto percentuale. I negoziati furono durissimi, a un certo punto Schröder si rifiutò di incontrare l’avversaria se questa continuava a volere guidare un governo. Fu uno scontro duro, anche cattivo. Alla fine, la signora Merkel ebbe la meglio e il 22 novembre fu eletta cancelliera di una Grande Coalizione. Schröder si ritirò e presto andò a lavorare nella società del gas di Putin.
Bene. Martedì prossimo, Angela Merkel presenterà un libro, a Berlino. Questa sarà la festa. Il libro si intitola Gerhard Schröder ed è la biografia, scritta da Gregor Schöllgen, del suo predecessore. Che ne discuterà con lei. Non è solo che la cancelliera non prova rancori. È che non perde occasione per occupare tutto lo spazio politico del centro e oltre. Ingoia tutto, come se fosse cristiano democratica, socialdemocratica, liberale, verde. Schröder compreso .
Angela Merkel, dieci anni da cancelliera pigliatutto
Il 18 settembre 2005, dieci anni fa ieri, una donna poco conosciuta, Angela Merkel, 51 anni, cristiano-democratica, vinceva le elezioni nel Paese più rilevante d’Europa, la Germania. Dopo due mesi di trattative e scontri con gli avversari socialdemocratici, sarebbe diventata cancelliera. Non ha più lasciato il posto e probabilmente non lo lascerà per qualche anno ancora. Ufficialmente, non ha festeggiato. Per ricordare quella prima vittoria, però, ha in serbo qualcosa di meglio di due coriandoli. Qualcosa che spiega in modo sublime il suo fenomeno politico.
In dieci anni, Frau Merkel ha affrontato crisi serie. Quella greca innanzitutto. Quella ucraina e la delusione nel vedere il lato oscuro di Vladimir Putin. Ha compiuto svolte non da poco, come la chiusura delle centrali nucleari dopo il disastro di Fukushima. E, oggi, deve gestire le masse di rifugiati che arrivano in Germania, in qualche modo da lei stessa richiamate. La prima crisi, però, la dovette affrontare subito, appena vinte le elezioni del 2005. Il cancelliere uscente, Gerhard Schröder, sosteneva di avere lui il diritto di assemblare una coalizione: aveva sì perso ma per solo un punto percentuale. I negoziati furono durissimi, a un certo punto Schröder si rifiutò di incontrare l’avversaria se questa continuava a volere guidare un governo. Fu uno scontro duro, anche cattivo. Alla fine, la signora Merkel ebbe la meglio e il 22 novembre fu eletta cancelliera di una Grande Coalizione. Schröder si ritirò e presto andò a lavorare nella società del gas di Putin.
Bene. Martedì prossimo, Angela Merkel presenterà un libro, a Berlino. Questa sarà la festa. Il libro si intitola Gerhard Schröder ed è la biografia, scritta da Gregor Schöllgen, del suo predecessore. Che ne discuterà con lei. Non è solo che la cancelliera non prova rancori. È che non perde occasione per occupare tutto lo spazio politico del centro e oltre. Ingoia tutto, come se fosse cristiano democratica, socialdemocratica, liberale, verde. Schröder compreso .
Il Fatto 19.9.15
Questione politica
La Merkel, unico uomo di Stato dell’Europa Unita
Comodo dire “migranti economici”!
di Massimo Fini
È ineccepibile il tentativo di Angela Merkel di ripristinare, a livello europeo, il principio del diritto d’asilo per chi fugge dalle guerre.
È un diritto che esiste dalla notte dei tempi (come il dovere del soccorso in mare) e che comunque è sanzionato da tutte le convenzioni internazionali. Naturalmente la Merkel è stata ferocemente criticata da tutte le destre europee che vedono gli immigrati come il fumo negli occhi, sotto qualsiasi forma si presentino.
Poi è stata nuovamente criticata, sempre dalle destre, quando ha sospeso il trattato di Schengen: ecco prima incita i migranti a venire in Europa e poi li stoppa alle sue frontiere. Come ha spiegato al Fatto il direttore di Die Zeit Giovanni di Lorenzo: “È una misura temporanea causata dal massiccio afflusso di profughi”. Un modo per regolare il traffico evitando ingorghi che rallentano le operazioni.
l’articolo continua qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/migranti_economici
Questione politica
La Merkel, unico uomo di Stato dell’Europa Unita
Comodo dire “migranti economici”!
di Massimo Fini
È ineccepibile il tentativo di Angela Merkel di ripristinare, a livello europeo, il principio del diritto d’asilo per chi fugge dalle guerre.
È un diritto che esiste dalla notte dei tempi (come il dovere del soccorso in mare) e che comunque è sanzionato da tutte le convenzioni internazionali. Naturalmente la Merkel è stata ferocemente criticata da tutte le destre europee che vedono gli immigrati come il fumo negli occhi, sotto qualsiasi forma si presentino.
Poi è stata nuovamente criticata, sempre dalle destre, quando ha sospeso il trattato di Schengen: ecco prima incita i migranti a venire in Europa e poi li stoppa alle sue frontiere. Come ha spiegato al Fatto il direttore di Die Zeit Giovanni di Lorenzo: “È una misura temporanea causata dal massiccio afflusso di profughi”. Un modo per regolare il traffico evitando ingorghi che rallentano le operazioni.
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http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/migranti_economici
Repubblica 19.9.15
Il filo spinato “made in Spain”
di Alessandro Oppes
MADRID Un muro “made in Spain”. La speranza di migliaia di profughi siriani di superare il confine ungherese s’infrange davanti a un filo spinato di produzione andalusa: 175 chilometri di rete metallica dispiegati dal governo Orbán lungo la frontiera con la Serbia. Un grande affare per la ditta European Security Fencing (Esf), Grupo Salazar, con sede a Malaga, sulla Costa del Sol. La cosa sarebbe passata inosservata se l’azienda non avesse diffuso un trionfale tweet: «Da qui al resto d’Europa! Il 100 per cento del filo spinato in Europa proviene dalla nostra fabbrica». Apriti cielo: sulla rete sociale è piovuta una valanga d’insulti che ha costretto immediatamente Esf a chiudere l’account.
Business is business. Ma la sofferenza dei disperati in fuga dalla guerra sembra incompatibile con l’entusiasmo di un’azienda che si definisce “leader nella fabbricazione di elementi di alta sicurezza passiva”.
In più, il tipo di rete destinato al committente ungherese è lo stesso, terribile “modello 22” già acquistato tra enormi polemiche dal governo spagnolo nel tentativo di rendere invalicabile il triplo muro di protezione innalzato alla frontiera di Melilla, che ogni giorno tentano di passare decine di migranti dell’Africa subsahariana: un filo “arricchito” con lamette che dovrebbero servire da deterrente e che provocano a chi rimane impigliato nella rete profonde ferite.
Il filo spinato “made in Spain”
di Alessandro Oppes
MADRID Un muro “made in Spain”. La speranza di migliaia di profughi siriani di superare il confine ungherese s’infrange davanti a un filo spinato di produzione andalusa: 175 chilometri di rete metallica dispiegati dal governo Orbán lungo la frontiera con la Serbia. Un grande affare per la ditta European Security Fencing (Esf), Grupo Salazar, con sede a Malaga, sulla Costa del Sol. La cosa sarebbe passata inosservata se l’azienda non avesse diffuso un trionfale tweet: «Da qui al resto d’Europa! Il 100 per cento del filo spinato in Europa proviene dalla nostra fabbrica». Apriti cielo: sulla rete sociale è piovuta una valanga d’insulti che ha costretto immediatamente Esf a chiudere l’account.
Business is business. Ma la sofferenza dei disperati in fuga dalla guerra sembra incompatibile con l’entusiasmo di un’azienda che si definisce “leader nella fabbricazione di elementi di alta sicurezza passiva”.
In più, il tipo di rete destinato al committente ungherese è lo stesso, terribile “modello 22” già acquistato tra enormi polemiche dal governo spagnolo nel tentativo di rendere invalicabile il triplo muro di protezione innalzato alla frontiera di Melilla, che ogni giorno tentano di passare decine di migranti dell’Africa subsahariana: un filo “arricchito” con lamette che dovrebbero servire da deterrente e che provocano a chi rimane impigliato nella rete profonde ferite.
Repubblica 19.9.15
Così si violano tutte le normative internazionali
di Enzo Cannizzaro
ordinario di diritto internazionale e dell’Unione europea nell’Università Sapienza di Roma
LA chiusura della frontiera ungherese viola la normativa internazionale ed europea che impone di valutare individualmente le domande di asilo e vieta respingimenti collettivi. Egualmente illegittimo appare il divieto di lasciare il territorio ungherese per quei profughi che intendono dirigersi verso altri Stati, come la Germania, che nei giorni scorsi si sono dichiarati disponibili ad accoglierli.
La normativa dell’Unione europea stabilisce che lo Stato di primo ingresso abbia la competenza primaria a esaminare una domanda di asilo. Il Regolamento 604/2013 (Dublino 3), tuttavia, assicura a qualsiasi altro Stato, in via di deroga, il diritto di esaminare richieste di asilo per motivi umanitari. Il divieto di lasciare il territorio ungherese impedisce l’esercizio di tale diritto e costituisce, quindi, una violazione del regolamento. Né esso può essere giustificato con l’assenza di validi documenti di identità. I profughi non stanno, infatti, esercitando la propria libertà di circolazione nello spazio Schengen. Essi si dirigono con decisione verso la Germania al fine di presentare domanda di asilo. Sarà questo Paese a dover valutare quindi se l’assenza di documenti costituisca una condizione ostativa per l’accoglimento della domanda.
Così si violano tutte le normative internazionali
di Enzo Cannizzaro
ordinario di diritto internazionale e dell’Unione europea nell’Università Sapienza di Roma
LA chiusura della frontiera ungherese viola la normativa internazionale ed europea che impone di valutare individualmente le domande di asilo e vieta respingimenti collettivi. Egualmente illegittimo appare il divieto di lasciare il territorio ungherese per quei profughi che intendono dirigersi verso altri Stati, come la Germania, che nei giorni scorsi si sono dichiarati disponibili ad accoglierli.
La normativa dell’Unione europea stabilisce che lo Stato di primo ingresso abbia la competenza primaria a esaminare una domanda di asilo. Il Regolamento 604/2013 (Dublino 3), tuttavia, assicura a qualsiasi altro Stato, in via di deroga, il diritto di esaminare richieste di asilo per motivi umanitari. Il divieto di lasciare il territorio ungherese impedisce l’esercizio di tale diritto e costituisce, quindi, una violazione del regolamento. Né esso può essere giustificato con l’assenza di validi documenti di identità. I profughi non stanno, infatti, esercitando la propria libertà di circolazione nello spazio Schengen. Essi si dirigono con decisione verso la Germania al fine di presentare domanda di asilo. Sarà questo Paese a dover valutare quindi se l’assenza di documenti costituisca una condizione ostativa per l’accoglimento della domanda.
Corriere 19.9.15
Sfida sui profughi nei Balcani L’Ungheria accusa la Croazia
Zagabria li rispedisce ai vicini. La Slovenia non esclude un «corridoio per l’Europa»
di Francesco Battistini
DAL NOSTRO INVIATO ZAGABRIA « Dove si prendono i pullman per Dobova?». Si chiudono altre porte, ma le gambe sono più veloci dei proclami. Chi entra in Europa è più deciso di chi vuole sbatterlo fuori. Alla stazione di Zagabria, mentre il premier croato Zoran Milanovic annuncia che sbarrerà le frontiere con la Serbia e rispedirà tutti in Ungheria — «sono arrivati oltre 15.000 profughi, non possiamo prenderne altri» — un gruppo di siriani è già in marcia per il confine successivo: la Slovenia. «Non daremo alcun corridoio per l’Europa», dicono in un primo tempo a Lubiana ma in serata ci ripensano e non escludono più il «passaggio umanitario» che potrebbe far arrivare i rifugiati fino alle porte dell’Italia.
Vengono da Idlib, terra Isis, e non sarà un gendarme balcanico a spaventarli: «Tornare indietro è impossibile — dice Abu Mohamed —. Non abbiamo né i soldi, né la forza. Voglio solo dire ai croati di non aver paura di noi, siamo gente tranquilla. Il terrorismo non cammina con noi». Parole inutili. La Croazia è già Ue, ma non ancora Schengen. L’Ungheria e la piccola Slovenia sono sia Ue che Schengen: teneteveli voi, dice Zagabria. L’onda deve tornare da dov’è venuta: mille siriani e afghani vengono rispediti al mittente con un treno, stazione di Magyarboly, Ungheria. Altri seguiranno, per un corridoio che raggiunga il Nord Europa: «Voi siete i benvenuti — dice il premier a chi è già entrato —. Avrete cibo, acqua, medicine. Poi però ve ne andrete». Dove? «Budapest ha chiuso le frontiere col filo spinato. Non è una soluzione, ma non lo è nemmeno tenere questa gente in Croazia. Noi non diventeremo un hotspot per l’Europa: abbiamo un piano B». Sospesi tutti i collegamenti ferroviari da e per la Serbia, apertura d’un solo valico stradale su otto. Milanovic allarga le braccia: «Che altro possiamo fare? Abbiamo un cuore, ma anche una testa».
Tutti contro tutti. Fra Budapest e Zagabria siamo quasi alla convocazione degli ambasciatori: gli ungheresi accusano i croati d’incoraggiare l’illegalità. La Slovenia schiera la polizia sull’autostrada a Obrezje e chiude i binari da Zagabria: 150 profughi vengono spediti in un centro a 50 km da Lubiana, un siriano l’hanno ripescato che nuotava in un fiume sul confine. L’impreparazione è la sola cosa che unisce i governi investiti dalla nuova ondata. «Non volevamo rivedere certe scene ai confini e l’unico dato positivo è che abbiamo mostrato al mondo le nostre buone maniere», è critica col suo governo la presidentessa croata Kolinda Kitarovic, in un clima già caldo per le elezioni: per il resto «l’organizzazione s’è rivelata inadeguata».
A Beli Manastir, è emergenza vera: scontri fra afghani e siriani, migliaia a dormire per terra da un distributore a un parcheggio. Molti camminano lungo il Danubio, ma al confine serbo di Tovarnik è facile attraversare i campi di grano ed entrare nell’Ue. La polizia croata tenta una selezione, donne e bambini al centro d’accoglienza, indietro gli uomini, ma come piano B non sembra granché. E pure la mossa d’imitare gli ungheresi e d’alzare i ponti levatoi ha un che d’improvvisato: «La solidarietà dei croati dura solo due giorni — protesta il serbo Vulin, ministro d’un Paese che è l’anello debole della catena — non possiamo pagare noi il prezzo dell’incapacità altrui. Se le frontiere rimangono chiuse, porteremo Zagabria davanti alle corti internazionali».
Ha da ridire pure Orbán, il leader ungherese. Che alza una nuova barriera sul confine croato — 41 chilometri di filo spinato e 1.800 soldati, «il resto lo farà il fiume Drave che è difficile da attraversare» —, chiude la frontiera rumena sul Mures e intanto definisce «totalmente inaccettabile» il comportamento croato: «Noi ci siamo attrezzati in nove mesi, loro sono già al collasso dopo un giorno». È un altro effetto collaterale: «Nei Balcani — dice Dejan Jovic, politologo di Zagabria — si risentono echi del passato. La retorica delle destre rispolvera l’antico ruolo di baluardo continentale contro le invasioni turche. E per i populisti è facile dire che le primavere arabe ci stanno portando solo una cosa: l’autunno europeo».
Sfida sui profughi nei Balcani L’Ungheria accusa la Croazia
Zagabria li rispedisce ai vicini. La Slovenia non esclude un «corridoio per l’Europa»
di Francesco Battistini
DAL NOSTRO INVIATO ZAGABRIA « Dove si prendono i pullman per Dobova?». Si chiudono altre porte, ma le gambe sono più veloci dei proclami. Chi entra in Europa è più deciso di chi vuole sbatterlo fuori. Alla stazione di Zagabria, mentre il premier croato Zoran Milanovic annuncia che sbarrerà le frontiere con la Serbia e rispedirà tutti in Ungheria — «sono arrivati oltre 15.000 profughi, non possiamo prenderne altri» — un gruppo di siriani è già in marcia per il confine successivo: la Slovenia. «Non daremo alcun corridoio per l’Europa», dicono in un primo tempo a Lubiana ma in serata ci ripensano e non escludono più il «passaggio umanitario» che potrebbe far arrivare i rifugiati fino alle porte dell’Italia.
Vengono da Idlib, terra Isis, e non sarà un gendarme balcanico a spaventarli: «Tornare indietro è impossibile — dice Abu Mohamed —. Non abbiamo né i soldi, né la forza. Voglio solo dire ai croati di non aver paura di noi, siamo gente tranquilla. Il terrorismo non cammina con noi». Parole inutili. La Croazia è già Ue, ma non ancora Schengen. L’Ungheria e la piccola Slovenia sono sia Ue che Schengen: teneteveli voi, dice Zagabria. L’onda deve tornare da dov’è venuta: mille siriani e afghani vengono rispediti al mittente con un treno, stazione di Magyarboly, Ungheria. Altri seguiranno, per un corridoio che raggiunga il Nord Europa: «Voi siete i benvenuti — dice il premier a chi è già entrato —. Avrete cibo, acqua, medicine. Poi però ve ne andrete». Dove? «Budapest ha chiuso le frontiere col filo spinato. Non è una soluzione, ma non lo è nemmeno tenere questa gente in Croazia. Noi non diventeremo un hotspot per l’Europa: abbiamo un piano B». Sospesi tutti i collegamenti ferroviari da e per la Serbia, apertura d’un solo valico stradale su otto. Milanovic allarga le braccia: «Che altro possiamo fare? Abbiamo un cuore, ma anche una testa».
Tutti contro tutti. Fra Budapest e Zagabria siamo quasi alla convocazione degli ambasciatori: gli ungheresi accusano i croati d’incoraggiare l’illegalità. La Slovenia schiera la polizia sull’autostrada a Obrezje e chiude i binari da Zagabria: 150 profughi vengono spediti in un centro a 50 km da Lubiana, un siriano l’hanno ripescato che nuotava in un fiume sul confine. L’impreparazione è la sola cosa che unisce i governi investiti dalla nuova ondata. «Non volevamo rivedere certe scene ai confini e l’unico dato positivo è che abbiamo mostrato al mondo le nostre buone maniere», è critica col suo governo la presidentessa croata Kolinda Kitarovic, in un clima già caldo per le elezioni: per il resto «l’organizzazione s’è rivelata inadeguata».
A Beli Manastir, è emergenza vera: scontri fra afghani e siriani, migliaia a dormire per terra da un distributore a un parcheggio. Molti camminano lungo il Danubio, ma al confine serbo di Tovarnik è facile attraversare i campi di grano ed entrare nell’Ue. La polizia croata tenta una selezione, donne e bambini al centro d’accoglienza, indietro gli uomini, ma come piano B non sembra granché. E pure la mossa d’imitare gli ungheresi e d’alzare i ponti levatoi ha un che d’improvvisato: «La solidarietà dei croati dura solo due giorni — protesta il serbo Vulin, ministro d’un Paese che è l’anello debole della catena — non possiamo pagare noi il prezzo dell’incapacità altrui. Se le frontiere rimangono chiuse, porteremo Zagabria davanti alle corti internazionali».
Ha da ridire pure Orbán, il leader ungherese. Che alza una nuova barriera sul confine croato — 41 chilometri di filo spinato e 1.800 soldati, «il resto lo farà il fiume Drave che è difficile da attraversare» —, chiude la frontiera rumena sul Mures e intanto definisce «totalmente inaccettabile» il comportamento croato: «Noi ci siamo attrezzati in nove mesi, loro sono già al collasso dopo un giorno». È un altro effetto collaterale: «Nei Balcani — dice Dejan Jovic, politologo di Zagabria — si risentono echi del passato. La retorica delle destre rispolvera l’antico ruolo di baluardo continentale contro le invasioni turche. E per i populisti è facile dire che le primavere arabe ci stanno portando solo una cosa: l’autunno europeo».
La Stampa 19.9.15
La Croazia spinge via i profughi
Ungheria e Slovenia si barricano
Il governo: sono troppi, non possiamo tenerli. E li porta con i pullman ai confini Germania ai paesi dell’Est: pronti a decidere a maggioranza al vertice Ue
di Giordano Stabile
Respinti, ricollocati, caricati su pullman e portati di corsa verso frontiere che si chiudono una dopo l’altra. Per i profughi arrivati dalla Siria, e da altri Paesi asiatici devastati da guerre civili e terrorismo islamista come Pakistan e Afghanistan, i Balcani si sono trasformati in una trappola. Il gesto di generosità della Croazia, che mercoledì di fronte alle immagini dei gas lacrimogeni e degli spray urticanti usati dalla polizia ungherese aveva spalancato i confini, si è infranto dopo due giorni contro le difficoltà organizzative, le divisioni politiche interne. Un cambio di registro brutale, riassunto da una frase del ministro dell’Interno, Ranko Ostojic: «Siamo saturi».
Nuovo muro in costruzione
In meno di 48 ore sono arrivati in Croazia «oltre 15 mila» rifugiati. Il Paese non ha le strutture per ospitarle. Il premier Zoran Milanovic aveva preso la decisione convinto di poter fare solo da transito. Il Paese è parte dell’Unione europea, ma non di Schengen, la logica voleva che i profughi puntassero subito verso la Slovenia per entrare nello spazio di libera circolazione. Non è andata così. Lubiana ha bloccato i passaggi, sospeso i collegamenti ferroviari, annunciato di voler sospendere Schengen per scoraggiare il transito attraverso il suo territorio e accusato Zagabria di non ottemperare al regolamento di Dublino che impone la registrazione dei profughi.
Il governo croato sì è irrigidito. Milanovic ha avvertito l’Europa: «Abbiamo un cuore ma anche una testa. Daremo cibo, acqua e assistenza sanitaria ai profughi e poi se ne possono andare. Non diventeremo un hotspot». Tradotto: non saranno né ospitati né registrati ma spinti verso i Paesi vicini.
Ieri mattina un migliaio di profughi sono stati caricati su venti pullman e portati alla frontiera ungherese, ai valichi Szentgotthard e Vamosszabadi, vicini anche all’Austria. La risposta dell’Ungheria è arrivata dal premier Viktor Orban. Il via libera alla costruzioni di un muro anche alla frontiera con la Croazia, dopo quelli con la Serbia e la Romania. «Costruisco muri - si è giustificato Orban - perché nessuno ci aiuta. Né i vicini, né l’Europa».
Il confine con la Croazia è lungo quasi 300 chilometri, ma in gran parte delimitati dal fiume Drava, difficilissimo da attraversare. Il muro coprirà solo i 41 chilometri di terraferma. Per Zagabria e i 15 mila profughi prigionieri sul suo territorio contro la loro volontà è un colpo al cuore. Fra due settimane si vota. Il Paese è spaccato a metà fra i socialdemocratici del premier Milanovic e i nazionalisti della presidente Kolinda Grabar-Kitarovic che ha già evocato l’uso dell’esercito.
Il vertice di lunedì
Lunedì la questione croata sarà un ulteriore problema al vertice dell’Ue sulla crisi dei rifugiati. Il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha avvertito i Paesi dell’Est, i più rigidi: se non ci sarà «un’altra strada» si va verso «un voto a maggioranza» per superare il loro ostruzionismo alle quote vincolanti. Bruxelles, però, potrebbe estendere i benefici del ricollocamento, inizialmente previsti solo per Italia e Grecia, anche a Ungheria, Croazia e Slovenia.
La Croazia spinge via i profughi
Ungheria e Slovenia si barricano
Il governo: sono troppi, non possiamo tenerli. E li porta con i pullman ai confini Germania ai paesi dell’Est: pronti a decidere a maggioranza al vertice Ue
di Giordano Stabile
Respinti, ricollocati, caricati su pullman e portati di corsa verso frontiere che si chiudono una dopo l’altra. Per i profughi arrivati dalla Siria, e da altri Paesi asiatici devastati da guerre civili e terrorismo islamista come Pakistan e Afghanistan, i Balcani si sono trasformati in una trappola. Il gesto di generosità della Croazia, che mercoledì di fronte alle immagini dei gas lacrimogeni e degli spray urticanti usati dalla polizia ungherese aveva spalancato i confini, si è infranto dopo due giorni contro le difficoltà organizzative, le divisioni politiche interne. Un cambio di registro brutale, riassunto da una frase del ministro dell’Interno, Ranko Ostojic: «Siamo saturi».
Nuovo muro in costruzione
In meno di 48 ore sono arrivati in Croazia «oltre 15 mila» rifugiati. Il Paese non ha le strutture per ospitarle. Il premier Zoran Milanovic aveva preso la decisione convinto di poter fare solo da transito. Il Paese è parte dell’Unione europea, ma non di Schengen, la logica voleva che i profughi puntassero subito verso la Slovenia per entrare nello spazio di libera circolazione. Non è andata così. Lubiana ha bloccato i passaggi, sospeso i collegamenti ferroviari, annunciato di voler sospendere Schengen per scoraggiare il transito attraverso il suo territorio e accusato Zagabria di non ottemperare al regolamento di Dublino che impone la registrazione dei profughi.
Il governo croato sì è irrigidito. Milanovic ha avvertito l’Europa: «Abbiamo un cuore ma anche una testa. Daremo cibo, acqua e assistenza sanitaria ai profughi e poi se ne possono andare. Non diventeremo un hotspot». Tradotto: non saranno né ospitati né registrati ma spinti verso i Paesi vicini.
Ieri mattina un migliaio di profughi sono stati caricati su venti pullman e portati alla frontiera ungherese, ai valichi Szentgotthard e Vamosszabadi, vicini anche all’Austria. La risposta dell’Ungheria è arrivata dal premier Viktor Orban. Il via libera alla costruzioni di un muro anche alla frontiera con la Croazia, dopo quelli con la Serbia e la Romania. «Costruisco muri - si è giustificato Orban - perché nessuno ci aiuta. Né i vicini, né l’Europa».
Il confine con la Croazia è lungo quasi 300 chilometri, ma in gran parte delimitati dal fiume Drava, difficilissimo da attraversare. Il muro coprirà solo i 41 chilometri di terraferma. Per Zagabria e i 15 mila profughi prigionieri sul suo territorio contro la loro volontà è un colpo al cuore. Fra due settimane si vota. Il Paese è spaccato a metà fra i socialdemocratici del premier Milanovic e i nazionalisti della presidente Kolinda Grabar-Kitarovic che ha già evocato l’uso dell’esercito.
Il vertice di lunedì
Lunedì la questione croata sarà un ulteriore problema al vertice dell’Ue sulla crisi dei rifugiati. Il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha avvertito i Paesi dell’Est, i più rigidi: se non ci sarà «un’altra strada» si va verso «un voto a maggioranza» per superare il loro ostruzionismo alle quote vincolanti. Bruxelles, però, potrebbe estendere i benefici del ricollocamento, inizialmente previsti solo per Italia e Grecia, anche a Ungheria, Croazia e Slovenia.
La Stampa 19.9.15
Immigrati, quella brutta legge della Lombardia
di Ugo De Siervo
Tre giorni fa il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato un ampio testo di legge relativo agli interventi di questa Regione «in materia di turismo», disciplinando -fra l’altro - la possibilità di contributi ed agevolazioni per le strutture ricettive alberghiere. A quest’ultima disposizione sono stati però presentati da parte di esponenti della Lega Nord due emendamenti, secondo i quali sarebbero stati esclusi da possibilità del genere chi avesse ospitato immigrati privi di permesso di soggiorno o che non avessero ancora ottenuto lo status di rifugiato; oppure addirittura sarebbero stati sanzionati economicamente gli imprenditori che avessero ospitato «soggetti entrati illegalmente in territorio italiano» (e cioè tutti gli altri profughi). Ma in tal modo si discriminavano palesemente le libere scelte di tanti imprenditori alberghieri, eventualmente anche in conformità con quanto suggerito dalle autorità statali competenti in materia di immigrazione. Pertanto, dopo le vivaci reazioni che mettevano in evidenza la manifesta disarmonia di ipotesi del genere con la politica nazionale di accoglienza dei profughi, l’assessore competente ha presentato un meno radicale sub-emendamento – che è stato accolto dalla maggioranza dei consiglieri regionali, seppur sempre fra non poche polemiche - secondo il quale dovrebbero essere esclusi da contributi ed agevolazioni gli imprenditori alberghieri che non possono dimostrare di aver ottenuto nel triennio precedente entrate provenienti soltanto «dall’attività turistica» e cioè non derivanti dall’accoglienza di persone ospitate per altri motivi. Inoltre, tramite un’aggiunta ulteriore, si è anche ammesso che gli albergatori possano giustificare entrate derivanti da attività conseguenti a situazioni originate da «calamità naturali», «disastri naturali o incidenti di particolare rilevanza», o alla necessità di dare esecuzione a «specifici provvedimenti coattivi». Ma anche queste disposizioni più «moderate» fanno emergere seri dubbi di costituzionalità sia sul piano della ragionevolezza che su quello del rispetto della competenza esclusiva dello Stato in materia di immigrazione. Infatti non può sfuggire che il legislatore lombardo arriva a escludere dalle attività di accoglienza in una struttura alberghiera tutte quelle che non definisce «turistiche», quasi che sia indispensabile che la permanenza sia finalizzata a interessi meramente turistici e non a tutte le attività che i clienti liberamente scelgano. Ma poi il recupero di varie situazioni di emergenza che è stato operato con il testo infine approvato esclude, a ben vedere, proprio le situazioni derivanti dalle politiche di immigrazione, a meno che non siano fatte consistere in ipotetici «provvedimenti coattivi»: ma assumere scelte del genere od operare altrimenti spetta allo Stato e non certo al legislatore regionale. Penso quindi che di questa brutta norma si sentirà ancora parlare, quando il Governo o qualche interessato si rivolgeranno alla Corte Costituzionale contestandone la compatibilità costituzionale. Già così un danno serio è stato però fatto alla nostra società, che non ha certo bisogno della diffusione di nuove tensioni e di polemiche false ed ingiuste verso gli imprenditori che hanno accolto i migranti, quasi che, invece, uno dei nostri principali valori costituzionali non sia la solidarietà: occorrerebbe sempre ricordarsi che il fondamentale art. 2 della Costituzione non solo «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», ma richiede a tutti noi «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
Immigrati, quella brutta legge della Lombardia
di Ugo De Siervo
Tre giorni fa il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato un ampio testo di legge relativo agli interventi di questa Regione «in materia di turismo», disciplinando -fra l’altro - la possibilità di contributi ed agevolazioni per le strutture ricettive alberghiere. A quest’ultima disposizione sono stati però presentati da parte di esponenti della Lega Nord due emendamenti, secondo i quali sarebbero stati esclusi da possibilità del genere chi avesse ospitato immigrati privi di permesso di soggiorno o che non avessero ancora ottenuto lo status di rifugiato; oppure addirittura sarebbero stati sanzionati economicamente gli imprenditori che avessero ospitato «soggetti entrati illegalmente in territorio italiano» (e cioè tutti gli altri profughi). Ma in tal modo si discriminavano palesemente le libere scelte di tanti imprenditori alberghieri, eventualmente anche in conformità con quanto suggerito dalle autorità statali competenti in materia di immigrazione. Pertanto, dopo le vivaci reazioni che mettevano in evidenza la manifesta disarmonia di ipotesi del genere con la politica nazionale di accoglienza dei profughi, l’assessore competente ha presentato un meno radicale sub-emendamento – che è stato accolto dalla maggioranza dei consiglieri regionali, seppur sempre fra non poche polemiche - secondo il quale dovrebbero essere esclusi da contributi ed agevolazioni gli imprenditori alberghieri che non possono dimostrare di aver ottenuto nel triennio precedente entrate provenienti soltanto «dall’attività turistica» e cioè non derivanti dall’accoglienza di persone ospitate per altri motivi. Inoltre, tramite un’aggiunta ulteriore, si è anche ammesso che gli albergatori possano giustificare entrate derivanti da attività conseguenti a situazioni originate da «calamità naturali», «disastri naturali o incidenti di particolare rilevanza», o alla necessità di dare esecuzione a «specifici provvedimenti coattivi». Ma anche queste disposizioni più «moderate» fanno emergere seri dubbi di costituzionalità sia sul piano della ragionevolezza che su quello del rispetto della competenza esclusiva dello Stato in materia di immigrazione. Infatti non può sfuggire che il legislatore lombardo arriva a escludere dalle attività di accoglienza in una struttura alberghiera tutte quelle che non definisce «turistiche», quasi che sia indispensabile che la permanenza sia finalizzata a interessi meramente turistici e non a tutte le attività che i clienti liberamente scelgano. Ma poi il recupero di varie situazioni di emergenza che è stato operato con il testo infine approvato esclude, a ben vedere, proprio le situazioni derivanti dalle politiche di immigrazione, a meno che non siano fatte consistere in ipotetici «provvedimenti coattivi»: ma assumere scelte del genere od operare altrimenti spetta allo Stato e non certo al legislatore regionale. Penso quindi che di questa brutta norma si sentirà ancora parlare, quando il Governo o qualche interessato si rivolgeranno alla Corte Costituzionale contestandone la compatibilità costituzionale. Già così un danno serio è stato però fatto alla nostra società, che non ha certo bisogno della diffusione di nuove tensioni e di polemiche false ed ingiuste verso gli imprenditori che hanno accolto i migranti, quasi che, invece, uno dei nostri principali valori costituzionali non sia la solidarietà: occorrerebbe sempre ricordarsi che il fondamentale art. 2 della Costituzione non solo «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», ma richiede a tutti noi «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
Il Fatto 19.9.15
La sentenza
“Gli Alemanno boys assunti illegalmente” Marino: li licenziamo
Assunti per vie clientelari, ora rischiano di essere licenziati. Dopo le motivazioni della sentenza sulla Parentopoli dell’Ama, la municipalizzata romana per l’ambiente, nelle quali ben 41 assunzioni dell’era Alemanno sono definite “arbitrarie e clientelari”, il sindaco Ignazio Marino promette: “Ora saranno licenziati”. Il 27 maggio scorso il tribunale di Roma ha condannato l’ex ad Franco Panzironi (5 anni e 3 mesi, nella foto) arrestato per corruzione nell’ambito di Mafia capitale e altri dirigenti, accusati di abuso d’ufficio e falso. “Molti degli assunti erano legati a rapporti di parentela o affinità con esponenti politici o persone a costoro vicine ed erano espressione del volere, per nulla trasparente, dell’amministratore delegato”. C’erano il figlio del responsabile della segreteria di Alemanno, la figlia del caposcorta di quest’ultimo e almeno altre sei persone vicine ad ambienti della politica locale romana. “L’Ama dovrà procedere, come è giusto che sia e come impone la legge, ai licenziamenti – tuona Marino –.Panzironi nei suoi anni in Ama ha gestito una vera e propria cabina di regia del malaffare, per far assumere in modo illecito molti amici e parenti e anche sodali dell’allora sindaco Gianni Alemanno”.
La sentenza
“Gli Alemanno boys assunti illegalmente” Marino: li licenziamo
Assunti per vie clientelari, ora rischiano di essere licenziati. Dopo le motivazioni della sentenza sulla Parentopoli dell’Ama, la municipalizzata romana per l’ambiente, nelle quali ben 41 assunzioni dell’era Alemanno sono definite “arbitrarie e clientelari”, il sindaco Ignazio Marino promette: “Ora saranno licenziati”. Il 27 maggio scorso il tribunale di Roma ha condannato l’ex ad Franco Panzironi (5 anni e 3 mesi, nella foto) arrestato per corruzione nell’ambito di Mafia capitale e altri dirigenti, accusati di abuso d’ufficio e falso. “Molti degli assunti erano legati a rapporti di parentela o affinità con esponenti politici o persone a costoro vicine ed erano espressione del volere, per nulla trasparente, dell’amministratore delegato”. C’erano il figlio del responsabile della segreteria di Alemanno, la figlia del caposcorta di quest’ultimo e almeno altre sei persone vicine ad ambienti della politica locale romana. “L’Ama dovrà procedere, come è giusto che sia e come impone la legge, ai licenziamenti – tuona Marino –.Panzironi nei suoi anni in Ama ha gestito una vera e propria cabina di regia del malaffare, per far assumere in modo illecito molti amici e parenti e anche sodali dell’allora sindaco Gianni Alemanno”.
Corriere 19.9.15
Giannini bersagliata alle feste dem: tra un anno capiranno
di Al. T.
ROMA Il sorriso non l’ha perso ma la parola sì, perché un centinaio di insegnanti e sindacalisti inferociti le hanno impedito di parlare, alla festa dell’Unità di Ferrara. Non sono giorni facili per il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, che per la seconda volta ha dovuto rinunciare a parlare a una festa dell’Unità per una contestazione. Era successo a Bologna il 24 aprile, con manifestanti che pestavano pentole e urlavano. Ed è risuccesso l’altra sera a Ferrara, con i «partigiani per la scuola» che hanno cinto d’assedio la conferenza, facendola annullare, per la rabbia del segretario regionale Paolo Calvano. Non è un segreto che la riforma della «Buona scuola» abbia fatto inferocire una parte degli insegnanti e dei sindacalisti. E non è la prima volta che il ministro viene contestato. Era successo a Milano, alla festa nazionale dell’Unità, dove alle urla e alle critiche, lei aveva risposto di essere «orgogliosa della riforma». E altre contestazioni ci sono state a Torino, a Foggia, a Lecce. Ma è l’Emilia-Romagna la regione più ostica. «Sono uno sparuto gruppetto di insegnanti non assunti — minimizza Francesca Puglisi, responsabile scuola Pd — che ci insegue da tempo con pentoline e fischietti. Ma non riusciranno a intimidirci». Il ministro, in partenza per l’India, pare non subire contraccolpi e si limita a commentare: «Sono dispiaciuta per le proteste ma sono fiduciosa che tra un anno tutti capiranno l’importanza di questa legge». Il 9 ottobre ci sarà una giornata di studio al Nazareno, a Roma, con parlamentari e sindacalisti. «Ma ci sono stati molti incontri — spiega la Puglisi — affollati e pacifici. Il clima sta cambiando: forse la riforma comincia a essere compresa, al di là di qualche contestatore isolato. Il ministro? La vedo tonica. Non sarà qualche gazzarra a toglierle il sorriso e la determinazione ».
Giannini bersagliata alle feste dem: tra un anno capiranno
di Al. T.
ROMA Il sorriso non l’ha perso ma la parola sì, perché un centinaio di insegnanti e sindacalisti inferociti le hanno impedito di parlare, alla festa dell’Unità di Ferrara. Non sono giorni facili per il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, che per la seconda volta ha dovuto rinunciare a parlare a una festa dell’Unità per una contestazione. Era successo a Bologna il 24 aprile, con manifestanti che pestavano pentole e urlavano. Ed è risuccesso l’altra sera a Ferrara, con i «partigiani per la scuola» che hanno cinto d’assedio la conferenza, facendola annullare, per la rabbia del segretario regionale Paolo Calvano. Non è un segreto che la riforma della «Buona scuola» abbia fatto inferocire una parte degli insegnanti e dei sindacalisti. E non è la prima volta che il ministro viene contestato. Era successo a Milano, alla festa nazionale dell’Unità, dove alle urla e alle critiche, lei aveva risposto di essere «orgogliosa della riforma». E altre contestazioni ci sono state a Torino, a Foggia, a Lecce. Ma è l’Emilia-Romagna la regione più ostica. «Sono uno sparuto gruppetto di insegnanti non assunti — minimizza Francesca Puglisi, responsabile scuola Pd — che ci insegue da tempo con pentoline e fischietti. Ma non riusciranno a intimidirci». Il ministro, in partenza per l’India, pare non subire contraccolpi e si limita a commentare: «Sono dispiaciuta per le proteste ma sono fiduciosa che tra un anno tutti capiranno l’importanza di questa legge». Il 9 ottobre ci sarà una giornata di studio al Nazareno, a Roma, con parlamentari e sindacalisti. «Ma ci sono stati molti incontri — spiega la Puglisi — affollati e pacifici. Il clima sta cambiando: forse la riforma comincia a essere compresa, al di là di qualche contestatore isolato. Il ministro? La vedo tonica. Non sarà qualche gazzarra a toglierle il sorriso e la determinazione ».
Il Fatto 19.9.15
Contro la Giannini
Anief: “La Buona scuola produce caos 100 mila supplenti”
ANCHE quest’anno ci saranno 100mi- la supplenti e per studenti e famiglie continua il caos. Lo denuncia l’Anief che parla di “resa” del ministro Giannini: “Lo sosteniamo da mesi, mentre il governo continuava a dire, come un disco rotto, che la riforma avrebbe sconfitto il precariato scolastico. Ora, per boc- ca del ministro Giannini, si è finalmente capito chi aveva ragione: ‘l’incidenza delle supplenze
era del 12%, quest’anno arriviamo al 10%’, ha dichiarato il titolare del Miur. Siccome la ma- tematica non è un’opinione, significa - osserva il sindacato - che a fronte di un milione di di- pendenti della scuola, ben 100mila continua- no ad essere supplenti. Ed è esattamente la ci- fra che il sindacato aveva indicato due mesi fa. Si tratta di una cifra altissima, in linea con il passato. E che, come gli altri anni, produrrà un inizio di anno scolastico caotico e all’insegna
del balletto” delle cattedre. “Per noi l’ammis- sione del ministro dell’Istruzione - commenta Marcello Pacifico, presidente Anief - equivale a una resa delle armi. Perché significa che la riforma della scuola ha fallito il suo obiettivo. Giannini, anziché esaltarsi, farebbe bene a fare un passo indietro: questi numeri dimostrano che non è in grado di gestire il Miur”.
Contro la Giannini
Anief: “La Buona scuola produce caos 100 mila supplenti”
ANCHE quest’anno ci saranno 100mi- la supplenti e per studenti e famiglie continua il caos. Lo denuncia l’Anief che parla di “resa” del ministro Giannini: “Lo sosteniamo da mesi, mentre il governo continuava a dire, come un disco rotto, che la riforma avrebbe sconfitto il precariato scolastico. Ora, per boc- ca del ministro Giannini, si è finalmente capito chi aveva ragione: ‘l’incidenza delle supplenze
era del 12%, quest’anno arriviamo al 10%’, ha dichiarato il titolare del Miur. Siccome la ma- tematica non è un’opinione, significa - osserva il sindacato - che a fronte di un milione di di- pendenti della scuola, ben 100mila continua- no ad essere supplenti. Ed è esattamente la ci- fra che il sindacato aveva indicato due mesi fa. Si tratta di una cifra altissima, in linea con il passato. E che, come gli altri anni, produrrà un inizio di anno scolastico caotico e all’insegna
del balletto” delle cattedre. “Per noi l’ammis- sione del ministro dell’Istruzione - commenta Marcello Pacifico, presidente Anief - equivale a una resa delle armi. Perché significa che la riforma della scuola ha fallito il suo obiettivo. Giannini, anziché esaltarsi, farebbe bene a fare un passo indietro: questi numeri dimostrano che non è in grado di gestire il Miur”.
Corriere 19.9.15
Landini-Camusso, è scontro sull’elezione del segretario
di Enrico Marro
Il segretario generale e i membri della segreteria di tutte le strutture non saranno più eletti dal Direttivo, dove in genere i delegati eletti nei luoghi di lavoro sono non più del 20-30% mentre gli altri sono dirigenti, ma da un nuovo organismo, l’Assemblea generale, composta per almeno il 50% più uno di delegati eletti
ROMA Scontro tra il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e il leader dei metalmeccanici Fiom, Maurizio Landini, sulle nuove regole di elezione dei segretari approvate ieri dalla Conferenza di organizzazione della Cgil. Il documento proposto da Camusso è passato con 587 sì, 151 no e 8 astenuti. Tra i contrari Landini, che in una breve dichiarazione di voto ha accusato il segretario generale della Cgil di «raccontare balle» a proposito delle nuove regole che allargherebbero la partecipazione della base nella scelta dei vertici.
Con le modifiche allo Statuto sancite ieri, il segretario generale e i membri della segreteria di tutte le strutture (territori, categorie, confederazione) non saranno più eletti dal Direttivo, dove in genere i delegati eletti nei luoghi di lavoro sono non più del 20-30% mentre gli altri sono dirigenti, ma da un nuovo organismo, l’Assemblea generale, composta per almeno il 50% più uno di delegati eletti. Landini ha rivendicato che nella Fiom il parlamentino è già formato per il 35-40% di delegati e che con le nuove regole i membri dello stesso dovranno scendere da 181 a 100: «Quindi questa storia che stiamo allargando la partecipazione, secondo me è raccontare balle». Landini avrebbe voluto che la sua proposta, far eleggere i vertici da tutti gli iscritti o almeno da tutti i delegati, fosse portata al prossimo congresso, quello del 2018, anno in cui cesserà il mandato di Camusso e la Cgil dovrà scegliere il successore.
Enrico Marro
Landini-Camusso, è scontro sull’elezione del segretario
di Enrico Marro
Il segretario generale e i membri della segreteria di tutte le strutture non saranno più eletti dal Direttivo, dove in genere i delegati eletti nei luoghi di lavoro sono non più del 20-30% mentre gli altri sono dirigenti, ma da un nuovo organismo, l’Assemblea generale, composta per almeno il 50% più uno di delegati eletti
ROMA Scontro tra il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e il leader dei metalmeccanici Fiom, Maurizio Landini, sulle nuove regole di elezione dei segretari approvate ieri dalla Conferenza di organizzazione della Cgil. Il documento proposto da Camusso è passato con 587 sì, 151 no e 8 astenuti. Tra i contrari Landini, che in una breve dichiarazione di voto ha accusato il segretario generale della Cgil di «raccontare balle» a proposito delle nuove regole che allargherebbero la partecipazione della base nella scelta dei vertici.
Con le modifiche allo Statuto sancite ieri, il segretario generale e i membri della segreteria di tutte le strutture (territori, categorie, confederazione) non saranno più eletti dal Direttivo, dove in genere i delegati eletti nei luoghi di lavoro sono non più del 20-30% mentre gli altri sono dirigenti, ma da un nuovo organismo, l’Assemblea generale, composta per almeno il 50% più uno di delegati eletti. Landini ha rivendicato che nella Fiom il parlamentino è già formato per il 35-40% di delegati e che con le nuove regole i membri dello stesso dovranno scendere da 181 a 100: «Quindi questa storia che stiamo allargando la partecipazione, secondo me è raccontare balle». Landini avrebbe voluto che la sua proposta, far eleggere i vertici da tutti gli iscritti o almeno da tutti i delegati, fosse portata al prossimo congresso, quello del 2018, anno in cui cesserà il mandato di Camusso e la Cgil dovrà scegliere il successore.
Enrico Marro
Corriere 19.9.15
Tempi più sfavorevoli per gli imputati? Milano si rivolge alla Consulta
«La prescrizione in Italia è corta» Una sentenza Ue blocca i processi La diatriba La richiesta di allungare i tempi, ieri l’ok della Cassazione e i dubbi di costituzionalità
di Luigi Ferrarella
MILANO Sottovalutata 10 giorni fa mentre in Parlamento ci si balocca con il giocattolo della legge sulle intercettazioni, esplode la «mina» che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha acceso l’8 settembre sotto la disciplina italiana della prescrizione. E così, mentre la III sezione della Cassazione (presidente Franco, relatore Scarcella) dà l’ok alla disapplicazione della prescrizione nazionale ordinata appunto dalla Corte Ue in materia di frodi sull’Iva, a Milano la Corte d’appello chiede alla Corte costituzionale di fare chiarezza sulla più generale «bomba» sottostante quell’ordine europeo di disapplicazione: e cioè sulla possibilità che da essa possa persino discendere un effetto sfavorevole per l’imputato, quale il riallungarsi della prescrizione durante il processo e quindi il rivivere di una condanna per fatti che in base alla legge italiana sarebbero già prescritti.
L’8 settembre, infatti, la Corte del Lussemburgo, in una questione pregiudiziale posta nel 2014 dal giudice cuneese Alberto Boetti in una milionaria frode fiscale Iva, ha risposto che, riguardo al bilancio dell’Unione alimentato anche dalle entrate di un’aliquota Iva uniforme secondo regole Ue, la normativa italiana sulla prescrizione delle frodi Iva è incompatibile con le norme del Trattato sul funzionamento della Ue, che impone agli Stati di dotarsi di sanzioni penali «effettive, proporzionate e dissuasive» contro le frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione europea: al punto che il giudice italiano, tenuto a garantire la piena efficacia del diritto Ue, deve all’occorrenza anche disapplicare le norme italiane sulla prescrizione.
Il caso si presenta ieri a Milano in una milionaria frode fiscale per la quale le condanne in Tribunale a 8 anni nel 2014 si erano prescritte già prima dell’Appello a causa di termini che la legge nazionale prevede in 7 anni e mezzo, elevabili al massimo di un quarto. Disapplicarla, come impone la Corte Ue, farebbe riallungare la prescrizione e quindi «resuscitare» (per norma sovranazionale) fatti già prescritti dalle norme nazionali. Ma la relatrice Locurto, il presidente Maiga e il giudice Scarlini si chiedono: possiamo farlo senza violare il «principio di legalità» in base al quale una persona può essere punita solo per un fatto e con una pena già previsti dalla legge al momento del reato?
La Corte Ue già anticipava di sì, argomentando che per gli imputati «non sussiste un affidamento, meritevole di tutela, a che le norme sulla prescrizione debbano necessariamente orientarsi sempre» alla «legge in vigore al momento della commissione del reato»: come dire che le norme sulla prescrizione sono di diritto processuale. Ma la giurisprudenza costituzionale italiana, da ultimo nel 2006 e 2008 dopo la berlusconiana legge ex Cirielli, ha sempre detto il contrario, e cioè che «sono di diritto sostanziale, soggette al principio di legalità: tanto che le questioni di legittimità costituzionale, tendenti ad ampliare in malam partem i termini di prescrizione, sono state sinora sempre giudicate inammissibili», proprio perché l’eventuale accoglimento avrebbe comportato un peggioramento per l’imputato «e dunque un’ingerenza della Corte costituzionale in un dominio riservato esclusivamente al legislatore». Perciò «si profila un contrasto tra l’obbligo di disapplicazione» della prescrizione italiana delle frodi Iva, «considerato dalla Corte di giustizia Ue conforme al principio di legalità in sede europea», e invece «il principio di legalità in materia penale, nella estensione attribuitagli dal diritto costituzionale italiano»: sia allora la Consulta a «valutare l’opponibilità di un “controlimite” alle limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’Italia all’ordinamento dell’Unione europea».
Tempi più sfavorevoli per gli imputati? Milano si rivolge alla Consulta
«La prescrizione in Italia è corta» Una sentenza Ue blocca i processi La diatriba La richiesta di allungare i tempi, ieri l’ok della Cassazione e i dubbi di costituzionalità
di Luigi Ferrarella
MILANO Sottovalutata 10 giorni fa mentre in Parlamento ci si balocca con il giocattolo della legge sulle intercettazioni, esplode la «mina» che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha acceso l’8 settembre sotto la disciplina italiana della prescrizione. E così, mentre la III sezione della Cassazione (presidente Franco, relatore Scarcella) dà l’ok alla disapplicazione della prescrizione nazionale ordinata appunto dalla Corte Ue in materia di frodi sull’Iva, a Milano la Corte d’appello chiede alla Corte costituzionale di fare chiarezza sulla più generale «bomba» sottostante quell’ordine europeo di disapplicazione: e cioè sulla possibilità che da essa possa persino discendere un effetto sfavorevole per l’imputato, quale il riallungarsi della prescrizione durante il processo e quindi il rivivere di una condanna per fatti che in base alla legge italiana sarebbero già prescritti.
L’8 settembre, infatti, la Corte del Lussemburgo, in una questione pregiudiziale posta nel 2014 dal giudice cuneese Alberto Boetti in una milionaria frode fiscale Iva, ha risposto che, riguardo al bilancio dell’Unione alimentato anche dalle entrate di un’aliquota Iva uniforme secondo regole Ue, la normativa italiana sulla prescrizione delle frodi Iva è incompatibile con le norme del Trattato sul funzionamento della Ue, che impone agli Stati di dotarsi di sanzioni penali «effettive, proporzionate e dissuasive» contro le frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione europea: al punto che il giudice italiano, tenuto a garantire la piena efficacia del diritto Ue, deve all’occorrenza anche disapplicare le norme italiane sulla prescrizione.
Il caso si presenta ieri a Milano in una milionaria frode fiscale per la quale le condanne in Tribunale a 8 anni nel 2014 si erano prescritte già prima dell’Appello a causa di termini che la legge nazionale prevede in 7 anni e mezzo, elevabili al massimo di un quarto. Disapplicarla, come impone la Corte Ue, farebbe riallungare la prescrizione e quindi «resuscitare» (per norma sovranazionale) fatti già prescritti dalle norme nazionali. Ma la relatrice Locurto, il presidente Maiga e il giudice Scarlini si chiedono: possiamo farlo senza violare il «principio di legalità» in base al quale una persona può essere punita solo per un fatto e con una pena già previsti dalla legge al momento del reato?
La Corte Ue già anticipava di sì, argomentando che per gli imputati «non sussiste un affidamento, meritevole di tutela, a che le norme sulla prescrizione debbano necessariamente orientarsi sempre» alla «legge in vigore al momento della commissione del reato»: come dire che le norme sulla prescrizione sono di diritto processuale. Ma la giurisprudenza costituzionale italiana, da ultimo nel 2006 e 2008 dopo la berlusconiana legge ex Cirielli, ha sempre detto il contrario, e cioè che «sono di diritto sostanziale, soggette al principio di legalità: tanto che le questioni di legittimità costituzionale, tendenti ad ampliare in malam partem i termini di prescrizione, sono state sinora sempre giudicate inammissibili», proprio perché l’eventuale accoglimento avrebbe comportato un peggioramento per l’imputato «e dunque un’ingerenza della Corte costituzionale in un dominio riservato esclusivamente al legislatore». Perciò «si profila un contrasto tra l’obbligo di disapplicazione» della prescrizione italiana delle frodi Iva, «considerato dalla Corte di giustizia Ue conforme al principio di legalità in sede europea», e invece «il principio di legalità in materia penale, nella estensione attribuitagli dal diritto costituzionale italiano»: sia allora la Consulta a «valutare l’opponibilità di un “controlimite” alle limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’Italia all’ordinamento dell’Unione europea».
Corriere 19.9.15
Il confronto Il duello con l’Ue sull’impatto delle riforme
di Francesca Basso
Sarà una coincidenza, ma l’incontro tra il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il commissario europeo agli Affari monetari Pierre Moscovici a Roma proprio nel giorno dell’approvazione della Nota al Def è servito ancora una volta a Bruxelles per ricordare le regole del gioco. Moscovici ha riconosciuto l’azione riformatrice del governo e i frutti che le riforme stanno producendo, a cominciare da quella del lavoro. Ma ha anche evidenziato che l’Italia ha un debito pubblico alto e da molto tempo. Ha anche detto che i contatti tra Roma e Bruxelles sono continui e costruttivi. Il governo nella Nota ha rivisto il deficit al rialzo al 2,2% per il 2016. E vuole ottenere flessibilità per lo 0,8%: 0,5% per le riforme e 0,3% per gli investimenti. Bruxelles prima di qualsiasi giudizio aspetta la legge di Stabilità che arriverà sul suo tavolo il 15 ottobre e che indicherà tagli alle tasse e coperture. Poi la giudicherà — avrà un mese — anche sulla base delle nuove previsioni di novembre. Renzi punta a usare tutta la flessibilità che il patto di Stabilità mette a disposizione. L’Italia è già il primo Stato Ue ad averne beneficiato: a maggio le è stato concesso di godere per il 2015 della clausola per le riforme strutturali per lo 0,4% del Pil: 6-7 miliardi in più a disposizione. Oltre che per le riforme, la flessibilità è prevista dal patto di Stabilità in caso di crescita negativa di un Paese o sotto il suo potenziale, o se ha bisogno di una spinta per investire in progetti cofinanziati dai fondi europei e dal Piano Juncker. L’Italia non poteva chiedere l’attuazione della clausola sugli investimenti per il 2015 — spiegano a Bruxelles — perché questa consente di scorporare la spesa per quelli cofinanziati dalla Ue ma solo fino al tetto del 3%. Con un deficit a 2,6%, per il 2015 non avrebbe assicurato il «margine di sicurezza» richiesto. Sulla carta le condizioni per ricorrere alle altre due clausole (riforme e crescita negativa) non ci sarebbero più. Dunque l’Italia deve dimostrare che l’impatto positivo delle riforme è maggiore del previsto per poterne godere anche nel 2016. L’ultima parola ora spetta a Bruxelles.
Il confronto Il duello con l’Ue sull’impatto delle riforme
di Francesca Basso
Sarà una coincidenza, ma l’incontro tra il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il commissario europeo agli Affari monetari Pierre Moscovici a Roma proprio nel giorno dell’approvazione della Nota al Def è servito ancora una volta a Bruxelles per ricordare le regole del gioco. Moscovici ha riconosciuto l’azione riformatrice del governo e i frutti che le riforme stanno producendo, a cominciare da quella del lavoro. Ma ha anche evidenziato che l’Italia ha un debito pubblico alto e da molto tempo. Ha anche detto che i contatti tra Roma e Bruxelles sono continui e costruttivi. Il governo nella Nota ha rivisto il deficit al rialzo al 2,2% per il 2016. E vuole ottenere flessibilità per lo 0,8%: 0,5% per le riforme e 0,3% per gli investimenti. Bruxelles prima di qualsiasi giudizio aspetta la legge di Stabilità che arriverà sul suo tavolo il 15 ottobre e che indicherà tagli alle tasse e coperture. Poi la giudicherà — avrà un mese — anche sulla base delle nuove previsioni di novembre. Renzi punta a usare tutta la flessibilità che il patto di Stabilità mette a disposizione. L’Italia è già il primo Stato Ue ad averne beneficiato: a maggio le è stato concesso di godere per il 2015 della clausola per le riforme strutturali per lo 0,4% del Pil: 6-7 miliardi in più a disposizione. Oltre che per le riforme, la flessibilità è prevista dal patto di Stabilità in caso di crescita negativa di un Paese o sotto il suo potenziale, o se ha bisogno di una spinta per investire in progetti cofinanziati dai fondi europei e dal Piano Juncker. L’Italia non poteva chiedere l’attuazione della clausola sugli investimenti per il 2015 — spiegano a Bruxelles — perché questa consente di scorporare la spesa per quelli cofinanziati dalla Ue ma solo fino al tetto del 3%. Con un deficit a 2,6%, per il 2015 non avrebbe assicurato il «margine di sicurezza» richiesto. Sulla carta le condizioni per ricorrere alle altre due clausole (riforme e crescita negativa) non ci sarebbero più. Dunque l’Italia deve dimostrare che l’impatto positivo delle riforme è maggiore del previsto per poterne godere anche nel 2016. L’ultima parola ora spetta a Bruxelles.
Corriere 19.9.15
Torna a crescere la fiducia in Renzi Pd al 33% davanti a M5S, risale FI
Salvini arretra ma è secondo con Meloni, poi Di Maio. Forza Italia si riavvicina alla Lega
di Nando Pagnoncelli
I sondaggi realizzati nel mese di settembre solitamente fanno registrare un peggioramento del clima sociale e un calo di consensi per il governo e le istituzioni, conseguenza del rientro dalle ferie e delle prospettive incerte. Basti pensare che nel settembre dello scorso anno, dopo la revisione al ribasso delle stime del Pil e la previsione di chiudere l’anno nuovamente in recessione, la fiducia in Renzi era diminuita di 10 punti rispetto al mese di luglio. Quest’anno le cose sembrano andare diversamente: il premier guadagna 5 punti di fiducia rispetto a luglio, passando dal 32% al 37%.
Le ragioni di questo aumento sembrano riconducibili all’andamento dell’economia e alla riforma del Senato. L’aumento del Pil superiore alle previsioni, il miglioramento dei dati occupazionali, la crescita dei consumi nonché le prospettiva di ridurre le tasse, rappresentano segnali che fanno intravvedere la luce in fondo al tunnel della crisi. Certo, sono segnali deboli, tutti da consolidare, soprattutto in un periodo caratterizzato da una forte volatilità delle opinioni.
Quanto alla riforma del Senato che, come abbiamo visto nel sondaggio della scorsa settimana, incontra il largo favore dei cittadini (nonostante il malumore per la non elettività) il duro scontro di queste settimane sembra rafforzare la volontà di cambiamento di Renzi.
Tra gli altri esponenti politici rilevati nel sondaggio odierno si registra il secondo posto di Meloni e Salvini (quest’ultimo in calo di 4 punti rispetto a luglio) seguiti da Di Maio, Grillo, Berlusconi, Alfano e Vendola, con valori sostanzialmente stabili.
Lo scenario elettorale non presenta variazioni di rilievo rispetto alla rilevazione dello scorso mese di giugno: il Pd si mantiene in testa (33,1%, +1,6% rispetto a giugno) seguito dal Movimento 5 Stelle (27%), dalla Lega (13,7%, in calo di 1%), incalzata da Forza Italia (12,8%). I centristi di Area popolare (3,7%) fanno registrare una lieve flessione, come pure Fratelli d’Italia che ottiene lo stesso risultato di Sel (3,5%). Astensionisti e indecisi rappresentano poco più di un elettore su tre (34,9%).
Cumulando i risultati di più cicli di sondaggi recenti (per poter disporre di dati solidi e affidabili) e confrontandoli con gli orientamenti di voto dei mesi precedenti emergono alcune indicazioni interessanti. Vediamole in dettaglio.
1. Il Pd sembra beneficiare del miglioramento del clima di fiducia e continua a registrare un piccolo ma costante cambiamento della composizione interna dei propri elettori. Rispetto alle elezioni europee pur mantenendo una fedeltà elevata (oltre due elettori su tre) perde all’incirca un milione di elettori e i flussi elettorali mostrano una perdita più consistente in direzione dell’astensione (i delusi che consideravano il Pd renziano una sorta di «ultima spiaggia») e del Movimento 5 Stelle. In generale è la componente che si colloca più a sinistra ad aver voltato le spalle al partito che, al contrario, guadagna consensi provenienti dall’area centrista e di Forza Italia e da chi si era astenuto alle Europee.
2. Il M5S sta consolidando il proprio consenso che appare tutt’altro che una «bolla» generata dalle reazioni alle inchieste giudiziarie (in primis Mafia Capitale) rafforzando l’opinione che il Movimento sia l’unico soggetto politico integro. Infatti a ciò si aggiungono alcune scelte particolarmente premianti: innanzitutto l’emergere di una leadership giovane, competente, propositiva, caratterizzata da uno stile molto distante dai toni forti del leader storico; inoltre la scelta di partecipare ai talk televisivi ha reso popolari i giovani esponenti, dato che la tv continua a rappresentare il principale mezzo di informazione degli italiani; infine la proposta del reddito di cittadinanza ha ottenuto un forte consenso da parte dei ceti più esposti alla crisi economica (studenti, disoccupati, operai) che, peraltro, sono quelli che hanno maggiormente voltato le spalle al Pd.
3. La crescita della Lega Nord si è fermata: oggi appare in difficolta ad allargare il proprio consenso presso l’elettorato moderato, spesso spaventato dai toni estremi, dalle «ruspe» alle parole utilizzate nello scontro con i vescovi. A ciò va aggiunto che il parziale cambiamento di atteggiamento degli italiani nei confronti dell’immigrazione, dopo le emozioni suscitate dalle recenti immagini dei profughi e il colpo d’ala dell’Europa (e della Germania) su questo tema, ha indebolito il cavallo di battaglia di Salvini.
4. Nel centro destra Forza Italia si è avvicinata alla Lega, ma si conferma una forte difficoltà ad aggregare consenso in assenza di un’alleanza, di un progetto e di una leadership condivisa. Permane un consistente elettorato «moderato» che appare orfano, indeciso tra la scelta di un partito di centro o di centrodestra e sospeso tra l’astensione e la tentazione di votare per il Pd di Renzi nella versione «Partito della nazione».
5. La stessa difficoltà si riscontra a sinistra del Pd dove fatica ad emergere un progetto convincente: non a caso è il M5S a beneficiare della componente di sinistra delusa dai democratici.
Insomma, in uno scenario complessivo apparentemente stabile, si osservano cambiamenti significativi nella composizione degli elettorati dei singoli partiti. Sono cambiamenti che confermano la fluidità che ha preso avvio con le elezioni del 2013 e che rischia di mettere in difficoltà i leader nell’individuare aspettative e bisogni dei propri elettori .
Torna a crescere la fiducia in Renzi Pd al 33% davanti a M5S, risale FI
Salvini arretra ma è secondo con Meloni, poi Di Maio. Forza Italia si riavvicina alla Lega
di Nando Pagnoncelli
I sondaggi realizzati nel mese di settembre solitamente fanno registrare un peggioramento del clima sociale e un calo di consensi per il governo e le istituzioni, conseguenza del rientro dalle ferie e delle prospettive incerte. Basti pensare che nel settembre dello scorso anno, dopo la revisione al ribasso delle stime del Pil e la previsione di chiudere l’anno nuovamente in recessione, la fiducia in Renzi era diminuita di 10 punti rispetto al mese di luglio. Quest’anno le cose sembrano andare diversamente: il premier guadagna 5 punti di fiducia rispetto a luglio, passando dal 32% al 37%.
Le ragioni di questo aumento sembrano riconducibili all’andamento dell’economia e alla riforma del Senato. L’aumento del Pil superiore alle previsioni, il miglioramento dei dati occupazionali, la crescita dei consumi nonché le prospettiva di ridurre le tasse, rappresentano segnali che fanno intravvedere la luce in fondo al tunnel della crisi. Certo, sono segnali deboli, tutti da consolidare, soprattutto in un periodo caratterizzato da una forte volatilità delle opinioni.
Quanto alla riforma del Senato che, come abbiamo visto nel sondaggio della scorsa settimana, incontra il largo favore dei cittadini (nonostante il malumore per la non elettività) il duro scontro di queste settimane sembra rafforzare la volontà di cambiamento di Renzi.
Tra gli altri esponenti politici rilevati nel sondaggio odierno si registra il secondo posto di Meloni e Salvini (quest’ultimo in calo di 4 punti rispetto a luglio) seguiti da Di Maio, Grillo, Berlusconi, Alfano e Vendola, con valori sostanzialmente stabili.
Lo scenario elettorale non presenta variazioni di rilievo rispetto alla rilevazione dello scorso mese di giugno: il Pd si mantiene in testa (33,1%, +1,6% rispetto a giugno) seguito dal Movimento 5 Stelle (27%), dalla Lega (13,7%, in calo di 1%), incalzata da Forza Italia (12,8%). I centristi di Area popolare (3,7%) fanno registrare una lieve flessione, come pure Fratelli d’Italia che ottiene lo stesso risultato di Sel (3,5%). Astensionisti e indecisi rappresentano poco più di un elettore su tre (34,9%).
Cumulando i risultati di più cicli di sondaggi recenti (per poter disporre di dati solidi e affidabili) e confrontandoli con gli orientamenti di voto dei mesi precedenti emergono alcune indicazioni interessanti. Vediamole in dettaglio.
1. Il Pd sembra beneficiare del miglioramento del clima di fiducia e continua a registrare un piccolo ma costante cambiamento della composizione interna dei propri elettori. Rispetto alle elezioni europee pur mantenendo una fedeltà elevata (oltre due elettori su tre) perde all’incirca un milione di elettori e i flussi elettorali mostrano una perdita più consistente in direzione dell’astensione (i delusi che consideravano il Pd renziano una sorta di «ultima spiaggia») e del Movimento 5 Stelle. In generale è la componente che si colloca più a sinistra ad aver voltato le spalle al partito che, al contrario, guadagna consensi provenienti dall’area centrista e di Forza Italia e da chi si era astenuto alle Europee.
2. Il M5S sta consolidando il proprio consenso che appare tutt’altro che una «bolla» generata dalle reazioni alle inchieste giudiziarie (in primis Mafia Capitale) rafforzando l’opinione che il Movimento sia l’unico soggetto politico integro. Infatti a ciò si aggiungono alcune scelte particolarmente premianti: innanzitutto l’emergere di una leadership giovane, competente, propositiva, caratterizzata da uno stile molto distante dai toni forti del leader storico; inoltre la scelta di partecipare ai talk televisivi ha reso popolari i giovani esponenti, dato che la tv continua a rappresentare il principale mezzo di informazione degli italiani; infine la proposta del reddito di cittadinanza ha ottenuto un forte consenso da parte dei ceti più esposti alla crisi economica (studenti, disoccupati, operai) che, peraltro, sono quelli che hanno maggiormente voltato le spalle al Pd.
3. La crescita della Lega Nord si è fermata: oggi appare in difficolta ad allargare il proprio consenso presso l’elettorato moderato, spesso spaventato dai toni estremi, dalle «ruspe» alle parole utilizzate nello scontro con i vescovi. A ciò va aggiunto che il parziale cambiamento di atteggiamento degli italiani nei confronti dell’immigrazione, dopo le emozioni suscitate dalle recenti immagini dei profughi e il colpo d’ala dell’Europa (e della Germania) su questo tema, ha indebolito il cavallo di battaglia di Salvini.
4. Nel centro destra Forza Italia si è avvicinata alla Lega, ma si conferma una forte difficoltà ad aggregare consenso in assenza di un’alleanza, di un progetto e di una leadership condivisa. Permane un consistente elettorato «moderato» che appare orfano, indeciso tra la scelta di un partito di centro o di centrodestra e sospeso tra l’astensione e la tentazione di votare per il Pd di Renzi nella versione «Partito della nazione».
5. La stessa difficoltà si riscontra a sinistra del Pd dove fatica ad emergere un progetto convincente: non a caso è il M5S a beneficiare della componente di sinistra delusa dai democratici.
Insomma, in uno scenario complessivo apparentemente stabile, si osservano cambiamenti significativi nella composizione degli elettorati dei singoli partiti. Sono cambiamenti che confermano la fluidità che ha preso avvio con le elezioni del 2013 e che rischia di mettere in difficoltà i leader nell’individuare aspettative e bisogni dei propri elettori .