Repubblica 25.5.17
Rosi & il Che
Esce il diario inedito del regista che andò a Cuba per realizzare un film su Guevara, bloccato da Castro
di Claudia Morgoglione
Parafrasando
il titolo di un suo film, tratto dall’omonimo romanzo di Gabriel García
Márquez, l’avventura cubana di Francesco Rosi è la cronaca di una morte
(cinematografica) annunciata. Un progetto che il grande regista,
scomparso nel 2015, coltivò con tenacia – girare una pellicola sulle
gesta del Che, appena dopo il suo assassinio – ma destinato al
fallimento: l’autore di capolavori come Salvatore Giuliano e Le mani
sulla città, uomo di sinistra e artista con la passione per la libertà,
era scomodo sia per il regime di Castro, a cui chiese collaborazione
senza ottenerla mai fino in fondo, che per i finanziatori italiani,
forse turbati dall’aura rivoluzionaria del protagonista. E così il
viaggio di fine 1967 sulle tracce del guerrigliero più celebre del
Novecento, che portò Rosi sull’isola caraibica e poi in Bolivia, non
diede frutti.
Almeno finora. Perché adesso – grazie alla figlia
Carolina – l’affresco su Guevara, perduto per il grande schermo, rinasce
in libreria. I 199 giorni del Che, edito da Rizzoli, contiene infatti
il diario di quei mesi, scritto di suo pugno dal cineasta: la partenza
per L’Avana del 31 ottobre, appena 22 giorni dopo la morte dell’eroe; la
tappa boliviana; il ritorno a Cuba; le lunghe settimane trascorse al
rientro a Roma, nel tentativo vano di fare il film. Corredano il volume
il soggetto originale della pellicola mai nata, una prefazione della
curatrice Maria Procino, un apparato fotografico, una cronologia e uno
straordinario racconto sulla trasferta a Cuba scritto da Rosi molti anni
più tardi, nel 2012, dopo aver ripreso in mano in mano i diari. E di
cui pubblichiamo qui un estratto.
Un libro che è tanti libri. Un
romanzo on the road, un documento cinematografico, una ricostruzione
d’epoca, un’inchiesta sulla morte del Che (il regista nel suo viaggio
parlò con i testimoni diretti). Ma su tutto c’è lo sguardo di un vero
artista: «Questo film – scrive – senza la presenza dolorosa e angosciosa
dell’America del Sud sarebbe poca cosa. Quegli indios muti, fermi nel
passare dei secoli. Il battesimo di quell’esserino nudo tra le braccia
di una madre più impaurita per la sorte che gli toccherà che felice. E
quei cimiteri di fango, tumuli senza nome. E le Ande coperte di neve
nella solitudine di un mare di terra non coltivata». Poche righe, un
continente.
Bugiardo e geniale, Fidel è il sosia barbuto di Fellini
Francesco Rosi
Nell’ottobre
del 1967 mi rompevo la testa per far quadrare un’idea che mi agitava da
qualche tempo: mi affascinava il personaggio di Bruto, l’uccisore di
Cesare. Il fanatico amore della giustizia e della virtù che lo aveva
spinto al tirannicidio, e l’incapacità di gestire le conseguenze del suo
gesto se non con la forza della logica ma non con quella della
conoscenza dell’animo della plebe sorda al linguaggio degli astratti
ideali, mi sembravano elementi da riproporre emblematicamente in un
confronto con l’attualità; e mi muovevo infatti alla ricerca di una
struttura che facesse di un regista di cinema un investigatore nella
coscienza e nel comportamento tra un intellettuale di ieri e uno di
oggi. Richard Burton mi aveva dato serie speranze di voler correre
l’avventura con me.
Poi, una volta, volli leggere di seguito le
pagine di Svetonio, di Plutarco e, infine, la tragedia di Shakespeare; e
mi fu chiaro che stavo perdendo tempo: il drammaturgo si era servito
del cronista e dello storico come sceneggiatori e aveva aggiunto i
dialoghi, cioè la poesia. E c’era tutto quello che io avrei voluto dire;
ma non mi sentivo di misurarmi al cinema con Shakespeare, con attori
che avrebbero dovuto recitare in inglese. Mi aggiravo quindi tra le
pietre dei Fori sconsolato e rabbioso di non riuscire a trovare una
soluzione, quando fui raggiunto dalla notizia della morte di Che
Guevara. Fu un’illuminazione improvvisa: sarebbe stato lui il mio Bruto.
Corsi dai miei amici e collaboratori Tonino Guerra e Raffaele La
Capria: furono d’accordo sulle mie riflessioni, ma rimasero sbalorditi
quando dissi loro che sarei partito subito, senza perdere tempo, per
Cuba.
[A L’Avana] mi tennero a bagnomaria: mi facevano incontrare
gli studenti, i cineasti, mi portavano in giro, vedevo film dell’America
Latina, spettacoli, sentivo jazz che era proibito, andavo a vedere
lotte di galli, anche quelle proibite, ma non si entrava mai
nell’argomento che a me interessava: il film. Il Che era morto da appena
una ventina di giorni e La Habana era tappezzata di suoi ritratti
listati a lutto; si parlava solo di quello, ovviamente. E posso capire
che un pazzo che si era precipitato lì per voler fare un film sul
personaggio più scottante allora nel mondo, potesse costituire un
problema quasi insolubile in una società a struttura comunista. Ma io,
ingenuo, fino a un certo punto però, avevo voluto agire come mi ero
comportato con la struttura della società mafiosa, quando avevo fatto
Salvatore Giuliano: disarmarli provocandoli con un comportamento chiaro e
controllabile alla luce del sole. Ma gli ostacoli erano tanti. Prima di
tutto essere sicuri di come io la pensavo veramente. E di qua, la
necessità di «consegnarmi in caserma », l’hotel Habana Libre. Il
pretesto della lunga consegna era l’appuntamento con Fidel che non
arrivava mai.
Erano passati ormai venti giorni: m’ero stufato,
volevo andar via. Quando arriva Tutino (Saverio Tutino, corrispondente
dell’Unità, ndr) e mi dice misterioso: «Scendi! C’è il ministro della
Cultura che ti aspetta ». Il ministro arriva in Giulietta (le auto le
avevano solo i dirigenti). Carica me e Saverio. Comincia a correre per
La Habana in un itinerario tortuoso come per una gimcana: capisco che fa
così per far perdere le tracce a un eventuale inseguitore; arriviamo
finalmente a casa sua.
Un momento di silenzio, poi « Olà, Rosi! »
ed entra… Federico Fellini. Fidel è come Federico con la barba, è alto
come lui, ha la stessa corpulenza, la stessa voce; la stessa voglia di
piacerti e di inchiodarti al suo “charme”; è bugiardo come lui, e come
lui geniale, parlatore irresistibile, canaglia e disarmato allo stesso
tempo. Qualsiasi cosa si pensi di Castro, è impossibile non restare
affascinati dall’uomo. È il patriarca di Márquez, l’ultimo dittatore
dell’America Latina, e allo stesso tempo il capo di una leggendaria
rivoluzione che, al tempo, aveva fatto sperare che il socialismo
democratico e liberale potesse essere realizzato anche nei Paesi a
conduzione comunista.
Fidel parlò di agricoltura, di vacche da
latte, di caffè, di zucchero, tutti problemi fondamentali sui quali
aveva puntato per lo sviluppo del Paese; di economia, di Sartre, di
Hemingway, di baseball, e poi mi disse: «Se la moglie è d’accordo, tu il
film sul Che lo puoi fare». Ci lasciammo demandando la decisione ultima
al Comitato politico che si occupava di tutte le attività che
riguardavano la persona del Che. E intanto avrei visto Aleida, la
seconda moglie del Che. L’incontro andò bene, ma anche Aleida si
rimetteva alle decisioni del Comitato e di Fidel.
La scommessa era
quasi impossibile, ma ero riuscito a girare nei luoghi della verità
impenetrabile di Salvatore Giuliano, sotto gli occhi della mafia, perché
non avrei dovuto riuscirci qui? Sbagliavo non nei calcoli, ma nel
giudizio: di fronte ai politici la mafia è uno scherzo.