Corriere 25.5.16
Big Sur
Strade interrotte e turisti scomparsi, la costa ritorna alle origini
Viaggio nella California dei santuari della Beat Generation
di Massimo Gaggi
BIG
SUR (California) I capricci del «Niño», un inverno di piogge
torrenziali dopo quattro anni di siccità, cascate di fango, qualche
ponte crollato: Big Sur torna ad essere quella di poco meno di un secolo
fa, prima della costruzione, negli anni Trenta, della Highway 1,
l’unica strada che attraversa questa costa impervia di canyon a montagne
a picco sul mare. Quarantacinque miglia di costa, compresi i santuari
della «beat generation» come l’Esalen Institute, il Ventana, e luoghi
celebri della letteratura e della controcultura americana degli anni
Cinquanta e Sessanta, privi di collegamenti da mesi. Semidistrutti i
bungalow di legno in stile norvegese del Deetjen’s nei quali
alloggiarono pittori, scultori e poeti: da Robinson Jeffers a Lawrence
Ferlinghetti.
«Chi è venuto a vivere qui — siamo solo un migliaio
spasi in un territorio vasto — ama la quiete, la meditazione. Ora stiamo
un po’ tornando alle origini: senza il rumore del turismo riscopriamo
suoni dimenticati, la natura torna padrona» mi dice Tom Birmingham, un
fotografo, lunghi capelli grigi, che vive al «Nepenthe»: un sperone di
roccia proteso sull’oceano, il ritrovo più celebre della costa.
Mi
ha fatto avere un permesso dei «ranger» per salire a Big Sur
percorrendo il sentiero riservato ai residenti che è stato aperto dalle
guardie forestali in un bosco di altissimi «redwood».
Più in
basso, nel parco Pfeiffer, gli operai sono al lavoro per ricostruire il
ponte crollato a febbraio, ma quello nuovo non sarà pronto fino a
ottobre. «Sentiamo di nuovo gli animali, il rumore dell’acqua. È tornata
la natura selvatica: linci e volpi ovunque» dice Tom mentre saliamo.
«Vedi quella lassù? È un’aquila. C’erano anche prima, ma non si facevano
vedere quasi mai« aggiunge ansimando perché mentre io salgo con uno
zainetto, lui ha sulle spalle un grosso «backpack» da campo pieno di
provviste. Nessun trasporto via terra? «No, per le emergenze ci sono gli
elicotteri. E, poi, una specie di trattore usato per portare i bimbi di
Big Sur attraverso il bosco, fino al ponte crollato dove viene a
prenderli l’autobus scolastico. Ma per le provviste, salvo casi rari, ci
arrangiamo da soli. È un bell’esercizio mentale. Impari a comprare solo
l’essenziale».
Il Nepenthe fa uno strana impressione: mentre
tutto sulla costa è chiuso, anche l’ufficio postale, qui bar e
ristorante sono aperti, ma viene solo quale residente. Deserta la pedana
a scacchi dei balli notturni scatenati, resa celebre da Liz Taylor e
Richard Burton che qui nei primi anni Sessanta girarono «The Sandpiper«
(«Castelli di Sabbia»). Sopra al ristorante c’è la «log cabin», la baita
di tronchi d’albero comprata da Orson Wells nel 1944, poco dopo aver
sposato Rita Hayworth. Doveva essere il loro nido d’amore, lontano da
Hollywood. Ma lei scappò quasi subito: divorziarono dopo due anni. Poi
in questa capanna venne a vivere Henry Miller, già celebre e controverso
per il «Tropico del Cancro» e il «Tropico del Capricorno».
«Qui
scrisse “Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch”, ma in queste stanze
sono passati tanti altri artisti, anche Jack Kerouac» racconta Erin
Gafill, che mi fa visitare la baita nella quale vive. Fa anche lei parte
del clan del Fassett, la famiglia che nel 1947 acquistò questa
proprietà dal grande attore e regista. I suoi cognati gestiscono il
ristorante, lei dipinge.
«Per me» racconta, «è una stagione da
sogno. Giorni fa ero qui con la mia tela. Mi sembra di sentire un
battito d’ali. Mi giro e vedo sul tetto un condor che mi fissa,
tranquillo e incuriosito. Sono emozioni uniche. Ma capisco che per chi
vive di turismo tutto questo è una vera disgrazia. Il Nepenthe aveva 115
dipendenti: ne sono rimasti 15».
Per Erin qualche mese di
isolamento non è un problema: «Dialoghiamo coi social network, io vendo i
miei quadri online. E poi, come ogni anno, sto organizzando un viaggio
in Italia con un gruppo di artisti. Roma e Toscana. Torno sempre a Roma:
vado sulla tomba della mia bisnonna, anche lei pittrice. Visse a Capri
ed è sepolta dal 1944 nel cimitero degli acattolici, vicino alla
Piramide Cestia».
Le poche persone che incontri sembrano
rilassate. L’isolamento comincia a pesare, ma più per il lavoro perduto
che altro. In fondo qui l’elettricità è arrivata negli anni Cinquanta e
la televisione negli anni Ottanta.
Vorrei salire ancora, fino al
monte più alto della costa dove vive l’unica colonia di condor del Nord
America e dove sorge il Camaldoli Hermitage. Ma non è possibile: i
monaci camaldolesi dell’eremo che intervistai anni fa per il Corriere
sono isolati. È franata anche la stradina che sale al monastero. Pure
qui ci si affida a Internet: i frati organizzano una colletta digitale
per riparare il sentiero che è privato.
Storie di un luogo che per
un anno è tornato a meritarsi il suo nome: furono gli spagnoli, che
avevano aperto le loro missioni sulla costa pianeggiante più a nord, a
fermarsi davanti a queste regione impervia, rispettosamente battezzata
Big Sur: un Grande Sud aspro, impenetrabile, misterioso.