il manifesto 25.5.17
Numero chiuso
Il sapere ridotto a residuo
di Marco Bascetta
Il
 numero chiuso è un’infamia in qualunque branca del sapere. Il voto del 
senato accademico milanese che lo ha esteso alle facoltà umanistiche 
che, fino ad oggi, non vi dovevano sottostare (storia, filosofia, 
geografia, beni culturali), la porta ora a compimento.
Con il che 
la formazione culturale entra ufficialmente a far parte dei generi 
voluttuari, dei diritti di serie B. Immaginiamo la stessa logica 
applicata alla sanità: più di tanti non ne curiamo; o alla giustizia: 
più di tanti non ne processiamo. Nei fatti accade proprio così, ma a 
nessuno verrebbe in mente di farne un principio o una norma. La 
contraddizione tra il diritto garantito e la sua effettività rimane 
almeno aperta, un problema da risolvere.
Nell’università, invece, 
la servile accettazione di una costante e vergognosa riduzione delle 
risorse si esprime nella moltiplicazione delle barriere all’ingresso, 
non di rado tramite test progettati sotto l’effetto dell’acido 
lisergico. Non dovrebbe sfuggire a nessuno il fatto che il numero chiuso
 legittima, normalizza o addirittura trasforma in una qualità etica il 
taglio delle risorse, preparando il terreno per ulteriori riduzioni 
della spesa. Come è accaduto alla statale di Milano il corpo accademico,
 nel quale certo non abbondano grandi maestri dalle lezioni imperdibili 
(il che dovrebbe aiutare a ridurre la calca), tende a dividersi. La 
maggioranza ragiona così: intanto chi sta dentro rimane dentro, dunque 
perché affannarsi a trovare soluzioni tampone o battersi affinché la 
politica cambi rotta?
Assai più semplice ridurre forzosamente il 
numero (già in forte declino) degli studenti e la pressione su di noi. 
Con la promessa di una qualità dell’istruzione del tutto fantasmagorica 
in una accademia nella quale la compilazione dei moduli e gli 
adempimenti burocratici hanno reso lo studio «un miserabile residuo». 
Questa posizione corrisponde a un corporativismo non si sa se più 
sclerotico o furbastro.
La minoranza capisce, invece, che la 
catena dei tagli non avrà fine e che il numero chiuso non è altro che 
una scelta suicida la quale, prima o poi, condurrà alla soppressione 
pura e semplice di un certo numero di insegnamenti. E allora nessuno 
sarà più al sicuro. L’ eterno mantra sull’adeguamento della formazione 
alle richieste del mondo del lavoro (dopo innumerevoli fallimenti ancora
 caparbiamente inconsapevole della sua impossibilità logica) per le 
facoltà umanistiche non può che significare l’estinzione.
Questa 
consapevolezza richiederebbe, tuttavia, una mobilitazione permanente di 
studenti e docenti e un sabotaggio attivo dei dispositivi di controllo e
 di esclusione. Infine, una battaglia di ampio respiro contro la 
concezione lavorista dell’istruzione ed economicista della cultura che 
domina incontrastata da decenni.
Vi sono, però, istituzioni 
culturali che uno stato sviluppato non può permettersi di chiudere. Per 
esempio una Biblioteca nazionale, per esempio sedi museali importanti 
anche se meno frequentate. Così provvede al loro funzionamento il 
ricorso al lavoro semigratuito (e a volte del tutto gratuito) di 
presunti «volontari» presi per il collo dalla mancanza di alternative e 
forse, nel futuro, costretti alla corvée del servizio civile 
obbligatorio proposto dalla ministra della difesa Pinotti.
La 
vicenda dei cosiddetti «scontrinisti» della Biblioteca nazionale romana 
conferma ancora una volta come gran parte delle istituzioni culturali 
italiane (comprese le università del numero chiuso) sarebbero destinate 
alla paralisi senza il ricorso al lavoro gratuito o vergognosamente 
sottopagato, mascherato da passione volontaria, da formazione permanente
 o da altro ancora. Non si tratta di una emergenza, di una situazione 
transitoria, bensì di un elemento sistemico imprescindibile e 
consolidato. Resta da chiedersi perché, limitando l’accesso alle facoltà
 umanistiche si voglia ridurre il bacino che alimenta questo processo di
 sostituzione del lavoro equamente retribuito con il finto volontariato.
 Forse perché le diverse corporazioni si premurano di proteggere il solo
 segmento che le riguarda. Ma forse anche perché le maggiori aspettative
 suscitate da un livello di istruzione generale più elevato, 
politicizzandosi, potrebbero fare esplodere gli scellerati equilibri, i 
ricatti e le vessazioni che dietro l’insopportabile retorica 
sull’unicità del patrimonio culturale italiano ne costituiscono 
l’effettiva gestione.
 
