Repubblica 29.5.17
“Beren e Lúthien” è l’ennesimo libro postumo dell’autore del “Signore degli anelli”
Tolkien Quella saga ormai divenuta cantiere infinito
di Michele Mari
La
filologia, si dice, è un atto d’amore: tuttavia troppo amore non fa
bene alla filologia. Come sanno gli italianisti, il caso filologico più
spinoso della nostra letteratura è quello delle “Grazie” foscoliane,
tormentatissimo rebus che l’autore non seppe sciogliere in venticinque
anni, e che premurosi discepoli cercarono di sciogliere per lui, col
risultato di rendere sì leggibile il poema, ma a costo di tante e tali
contaminazioni, potature, suture ed aggiunte da richiedere poi, per
oltre un secolo, una controfilologia tutta giocata in negativo. Ma se
anche
dal più devoto dei discepoli ci si aspetta un minimo di
soggezione, come pretenderla da certi consanguinei? Voglio dire che, a
parità di devozione, il consanguineo si sentirà autorizzato dallo stesso
sangue agli interventi più spregiudicati, tanto più autoritari quanto
meno autoriali. Insomma, non c’è bisogno di pensare alle terribili
sorelle di Nietzsche o di Pascoli per provare dei brividi di fronte
all’imponente pubblicazione di “opere” paterne condotta negli ultimi
quarant’anni da Cristopher Tolkien.
All’inizio Tolkien era
Tolkien: come Omero, il grande mitografo aveva solo un nome, e non se ne
sapeva quasi nulla; i suoi adepti si limitavano ad adorare, tant’è vero
che la filologia tolkieniana (al pari di quella lovecraftiana) è nata
in ambito accademico “contro” la religione dei fan. Da quando però ci si
è accorti dell’ingombro filiale, Tolkien è diventato J.J.R. (John
Ronald Reuel) Tolkien, non sia mai lo si confonda col figlio
Christopher. Il quale ha dato alle stampe una tale quantità di “inediti”
paterni negli ultimi decenni che le sue prime imprese, ormai entrate
nel corpus e nel canone, ci appaiono paradossalmente originali ed
autentiche: è il caso soprattutto del Silmarillion, quella specie di
cornice mitologica che contiene tutte le storie poi sviluppate da
Tolkien in altrettanti libri o gruppi di libri, dal Signore degli anelli
allo Hobbit. Ho scritto «poi sviluppate lì» perché effettivamente il
Silmarillion
pre-esisteva, nella mente dell’autore, che anzi ne era ossessionato a
partire dalla sua stessa mostruosa lunghezza e costitutiva
incompiutezza, al cui confronto il Silmarillion postumo (1977) è poco
più di un onesto “bigino”.
Per realizzarlo Christopher utilizzò
diverse bozze licenziate dal padre (che le aveva però destinate a
diventare storie derivate dalla cornice, quindi altra cosa), interpretò
una mole imprecisata di appunti e scalette, disegnò una trama sulla base
di quanto ricordava di avere udito con le proprie orecchie, e
finalmente, per le integrazioni e il maquillage finale, si affidò alla
penna dello scrittore fantasy Guy Gavriel Kay. Ma appena pubblicato, il
Silmarillion era già superato: sprofondando nell’oceano delle carte
paterne, infatti, Christopher trovò ancora tanti di quei materiali
inerenti al progetto da richiedere ben dodici volumi, al ritmo di quasi
uno all’anno (1983-1996). In queste Storie della Terra di Mezzo, come
impropriamente viene designata la serie, si leggono spunti nuovi,
versioni alternative, materiali preparatori, paratesti di commento,
insomma quel che si dice un cantiere, senza però che Christopher abbia
saputo resistere alla tentazione di dare qua e là forma narrativa e
compiuta (il sospetto, anzi, è che vi abbia travasato gran parte di
quella Storia del Silmarillion lunga circa 2.000 pagine che invano cercò
di pubblicare a proprio nome).
L’ultimo titolo della saga è Beren
e Lùthien, in uscita ora in tutto il mondo, e corrisponde a uno dei
racconti (o miti) più importanti fra quelli appartenenti alla Prima Era.
Chi ha maneggiato le
Storie della Terra di Mezzo lo conosce già;
vero è che qui questa vicenda elfica è resa più lineare dall’abolizione –
oltre che delle incongruenze e delle ripetizioni – di tutte le
supefetazioni centrifughe cui Tolkien non sapeva rinunciare. Al tempo
stesso, poiché in Tolkien tout se tient, Christopher ha premesso al
racconto vero e proprio una ricca serie di “cartelli” utili a orientare
il lettore nelle vaste geografie e nelle complesse cronologie e
genealogie tolkieniane: attraverso queste parti liminali la vicenda
dell’umano Beren e dell’elfa Lùthien si sottrae alla logica romanzesca
(«ho cercato di separare la storia di Beren e Lúthien in modo da
renderla autonoma»), e torna a sciogliersi nel mito.
Instabile
come lava che non si solidifichi, l’opera di Tolkien è perennemente in
fieri, tanto che la compulsione al rifacimento sembra più un programma
sistematico che un segno di indecisione. A proposito di tale aspetto,
Cristopher afferma che il corpus paterno «può sembrare simile alla
crescita delle leggende tra i popoli, al prodotto di molte menti e
generazioni ». Se questo è vero, significa che tutte le edizioni postume
di Tolkien assomigliano ai cicli post-omerici, che nei secoli hanno
variato, complicato e approfondito il testo originario, spesso
ricorrendo alla formula del sequel e del prequel. Il paradosso è che,
allontanandosi sempre più dal Testo per articolare il Ciclo, Christopher
ambisce a riconvergere nelle origini, a monte della «grande intrusione e
dipartita del Signore degli Anelli », esattamente come i letterati
alessandrini, che non volendo patire una condizione epigonale
scavalcarono a piè pari la poesia classica per riscrivere quella
arcaica.
Come per Nietzsche o per Pascoli, anche qui sono i
parenti a prendere l’iniziativa È la storia di un umano e di un’elfa che
riprende uno dei racconti più importanti della Prima Era
IL LIBRO
Beren e Lúthien ( Bompiani, a cura di Christopher Tolkien, traduzione
di Luca Manini e Simone Buttazzi, illustrazioni di Alan Lee. Pagg. 288,
euro 22) di John Ronald Reuel Tolkien ( nella foto, 1892- 1973). In
libreria dal primo giugno