giovedì 29 giugno 2017

SULLA STAMPA DI GIOVEDI 29 GIUGNO

http://spogli.blogspot.com/2017/06/sulla-stampa-di-giovedi-29-giugno.html


il manifesto 29.6.17
Spretato (ma non scomunicato) Inzoli, il don accusato di pedofilia
Comunione e Liberazione. Dopo la condanna italiana in primo grado, Papa Francesco lo dimette dallo stato clericale
di Ernesto Milanesi

Mauro condannato dal Tribunale di Cremona (in primo grado) a 4 anni e 9 mesi. Inzoli non più monsignor CL né «don Mercedes» (non può più celebrare nulla di sacro). Per lui è arrivata la sentenza definitiva, datata 20 maggio con la firma di papa Francesco, trasmessa alla Congregazione per la dottrina della fede e ieri mattina annunciata dal vescovo Daniele Gianotti davanti a tutti i sacerdoti della diocesi di Crema.
Mauro Inzoli, 67 anni, è stato conclamato protagonista nel periodo 2004-2008 di episodi di violenza sessuale su ragazzi in età compresa fra i 12 e i 16 anni. Alcuni durante i «soggiorni spirituali» a Falcade nel Bellunese e in altre località di villeggiatura. Una vicenda che ha segnato Crema ma l’eco ha imbarazzato la fraternità religiosa di Comunione e liberazione, la Compagnia delle Opere e il comitato organizzatore del Meeting di Rimini.
Inzoli è un personaggio di primo piano nella «chiesa dentro la chiesa»: era a fianco di don Giussani, animatore di Gioventù Studentesca, parroco della Ss. Trinità e rettore del liceo linguistico Shakespeare a Crema. Per 14 anni presidente del Banco Alimentare, ospite d’onore a Rimini, ma anche legato a filo doppio con il “celeste” governatore Roberto Formigoni. Sempre con uno stile di vita tutt’altro che francescano, Inzoli era il punto di riferimento in Lombardia della comunità ciellina a cavallo fra fede, politica, economia.
Finché è affiorata la sua vocazione alla pedofilia. Benedetto XVI aveva emesso un drastico provvedimento: riduzione allo stato laicale. Il 27 giugno 2014 papa Francesco aveva preferito la «pena medicinale perpetua», imponendo «una vita di preghiera e di umile riservatezza come segni di conversione e di penitenza». Ma Inzoli non ha esitato a partecipare al Pirellone ad un convegno omofobo né a sentirsi al di sopra di tutto. Così Franco Bordo (deputato eletto da Sel, ora con i bersaniani) ha interpretato la voglia di verità e giustizia di Crema, presentando un esposto alla Procura della Repubblica che ha aperto il fascicolo di indagine e rinviato a giudizio Inzoli.
Nell’udienza preliminare gli avvocati difensori Nerio Diodà e Corrado Limentani puntano al rito abbreviato. Lo ottengono e, dopo il risarcimento delle 5 parti civili con 25 mila euro a testa, Inzoli va alla sbarra per 8 episodi di violenza sessuale perché gli altri 15 sono ormai prescritti. Agli atti, il sacerdote ciellino (definito un «idolo meritevole di venerazione» dagli stessi genitori) si permetteva baci, carezze, abbracci, pesanti palpeggiamenti nei confronti di ragazzi incapaci di reagire, soprattutto perché psicologicamente sottomessi a Inzoli. E il procuratore Roberto Di Martino nella sua requisitoria aveva sollecitato una condanna a 6 anni di reclusione. Il gup di Cremona Letizia Platè sentenzierà 4 anni e 9 mesi.
«La giustizia italiana ha fatto il suo corso. E ora arriva anche il pronunciamento del papa – commenta Bordo – Dopo anni di silenzi, omertà e coperture, nonostante la mancata collaborazione del Vaticano, si è riusciti a ricostruire i reati legati a circa 20 episodi accertati, purtroppo forse non tutti. Rimane la vicinanza al dolore delle vittime e tanta amarezza: se i fatti fossero stati denunciati da chi di dovere e con tempestività, alcune non avrebbero subito quella terribile esperienza».
E dopo la condanna italiana arriva quella vaticana: «In quanto dimesso dallo stato clericale, non potrà esercitare il ministero sacerdotale né presiedere le celebrazioni sacramentali, neppure in forma privata; tuttavia – è bene precisarlo – non è scomunicato: resta un membro della chiesa, un fratello in Cristo», si legge nel comunicato ufficiale del vescovo Gianotti, che alle vittime di violenza sessuale e alle loro famiglie assicura: «A loro va ancora una volta tutta la solidarietà mia e della nostra chiesa, che non può non provare un profondo dolore per il male compiuto da uno dei suoi preti».

il manifesto 29.6.17
Il deja vu del congresso Cisl, il vero sindacalista è il papa
di Massimo Franchi

È tutto uguale al giugno 2013. Manca solo Bonanni. Il primo dei tre giorni del congresso Cisl è un déjà vu di quattro anni fa. Stesso luogo – l’ormai vecchio e caldo Centro congressi dell’Eur di Roma – stessa relazione per «un sindacato contrattualista» – anche se a farla è l’attuale segretaria generale Annamaria Furlan – stessi applausi ad un premier centrista – nel 2013 Enrico Letta a pochi mesi dal celeberrimo #enricostaisereno, ieri Paolo Gentiloni, uniti dalla stretta relazione con la comunità cislina e l’origine democristiana.
L’UNICA VERA NOVITA’ è esterna. E viene dal Vaticano. Dove il congresso è cominciato ieri mattina con l’udienza concessa ai delegati da parte di papa Francesco. Da lui sono arrivate le parole più di sinistra della giornata. E non ci voleva molto. In primis sul significato stesso di sindacato: «Nasce e rinasce tutte le volte che dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli scarti». E ancora: «Ma forse la nostra società non capisce il sindacato perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali. Pensiamo al 40 per cento dei giovani che non hanno lavoro». «È una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti». Il monito di Bergoglio è per «un nuovo patto sociale, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per permettere ai giovani, che ne hanno il diritto-dovere, di lavorare». La staffetta generazionale, insomma.
Il passaggio più forte è però quello sulle pensioni d’oro. «Sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni». Parole che avranno fatto fischiare le orecchie a Raffaele Bonanni, dimessosi nel 2014 – per Annamaria Furlan – proprio a causa delle polemiche sulla sua pensione. E infine l’accenno alla corruzione: «La corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti». Rieccheggiando le faide nella Cisl campana commissariata con le accuse di peculato per l’ex segretaria regionale Lina Lucci.
IL RINGRAZIAMENTO per le parole del papa è stato uno dei momenti più applauditi della relazione introduttiva di Annamaria Furlan. Una relazione tutta imbastita su messaggi al governo, aprendo alla revisione della normativa sullo sciopero «con un intervento legislativo a sostegno della contrattazione e della rappresentanza» inteso come «nodo culturale prima che politico»; ad «una stagione di contrattazione di secondo livello nelle imprese basata sulla produttività»; «a finalmente chiudere la riforma del lavoro con la gamba delle politiche attive», per chiudere con il rituale tema della detassazione del cuneo fiscale.
DOPO DI LEI tocca subito ad un Paolo Gentiloni in maniche di camicia in rappresentanza di una pattuglia di ben otto ministri in prima fila (da destra a sinistra: Franceschini, Poletti, Martina, Gentiloni stesso, Alfano, Pinotti, Delrio, Fedeli). «Nonostante il caldo il governo tiene», è la battuta iniziale che scioglie i delegati. Il resto è miele puro per la sala cislina: «Annamaria l’ho conosciuta e apprezzata 10 anni fa quando ero ministro e lei seguiva il settore delle Poste», poi arriva la citazione di Pierre Carniti («Si chiede “Che fai?” alle persone perché lavoro è centrale»). Il resto è misurata propaganda – «Proprio oggi il Centro studi Confindustira (quello del meno 4 per cento in caso di vittoria di No al referendum, ndr) aumenta la stima del Pil a 1,3 per cento annuo: è molto positivo ma non vogliamo fermarci; ora lavoreremo su regole e tutele per ogni singolo lavoratore come abbiamo fatto col sindacato per arrivare al Reddito di inclusione e a ricostruire il filo della rappresentanza in un paesaggio del lavoro frastagliato mettendo al centro i giovani». I delegati ormai applaudono tutto. Anche il salvataggio delle banche «che abbiamo dovuto fare perché l’Europa non c’è stata» e «i nuovi voucher per famiglie (la Cisl era favorevole, ndr) e microimprese (la Cisl era contraria, ndr)». La chiusa «ad evitare una contrapposizione ideologica inutile» fa spellare le mani alla platea. Come toccò ad Enrico Letta.
IL CONGRESSO DOMANI rieleggerà Annamaria Furlan e la sua segreteria che verrà solo leggermente ringiovanita con gli ingressi di Andrea Cucello (Lazio) e Angelo Colombini (Femca chimici) e l’uscita di Beppe Farina (ex Fim) e Giovanni Luciano (ex trasporti). Non entrerà invece Marco Bentivogli, per il sindacalista più amato dai renziani («fossero tutti come lui») la strada è comunque spianata.

Corriere 29.6.17
L’arcivescovo Becciu e il dolore della signora Orlandi
«Il dossier non c’è, ma per lei la mia porta è aperta»
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO Eccellenza, la famiglia Orlandi è convinta che la Segreteria di Stato custodisca un dossier segreto sul caso della scomparsa di Emanuela, 34 anni fa. Esiste questo dossier?
«Guardi, non c’è nulla di segreto. Del resto dipende da cosa si intende quando si parla di “dossier”. Se si tratta di un carteggio che ricostruisce la vicenda certamente sì, è normale. Se però si crede che esista un dossier che custodisce chissà quali documenti riservati o segreti mai svelati, allora no: non c’è niente di simile».
L’arcivescovo Angelo Becciu è il Sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana. A lui, in una lettera pubblicata dal Corriere , si è rivolta giorni fa la signora Maria Pezzano Orlandi, madre di Emanuela.
La signora si riferiva a una sua frase e obiettava: Emanuela non è un caso chiuso, è mia figlia.
«Mi dispiace profondamente se una mia espressione, tolta dal contesto, ha potuto aggiungere altra pena al dolore immenso della signora. Non avrei mai voluto che accadesse, di fronte a una sofferenza simile ci si inginocchia. Forse non esiste un dolore più grande, è difficile anche solo da immaginare. Non intendevo affatto spegnere le speranze di una madre che dopo tutto questo tempo vuole sapere se sua figlia sia ancora viva o cosa sia accaduto».
Lei lo sa?
«Io non lo so, cosa è accaduto. Rispondevo a una domanda precisa dei giornalisti che mi chiedevano del “caso” di Emanuela. Un articolo sul Corriere , quel giorno, parlava di una istanza della famiglia per poter visionare un dossier segreto. E io ho ripetuto ciò che abbiamo detto più volte: che quel presunto dossier segreto, semplicemente, non esiste. Che il caso sia chiuso, nel senso di archiviato, lo ha detto la magistratura italiana. E per parte nostra, purtroppo, non abbiamo segreti da svelare».
E non siete a conoscenza di possibili «piste»?
«Magari lo fossimo. Non avremmo esitato un attimo a suggerirle, e non solo adesso ma fin da subito. Non c’era e non c’è nulla da nascondere, il Vaticano ha collaborato fin dall’inizio, sospettare il contrario significherebbe negare la realtà dei fatti».
Quale realtà?
«Tutto ciò che avevamo, lo abbiamo condiviso fin da allora con gli inquirenti italiani che stavano conducendo l’indagine. Ci furono tre rogatorie delle autorità italiane che trovarono risposta, le deposizioni dei testimoni di quel tempo. Tutta la documentazione in nostro possesso è stata consegnata alla magistratura».
Si riferiva a quei documenti quando diceva che in Segreteria di Stato esiste un carteggio che ricostruisce la vicenda?
«Sì, è chiaro. Non c’è nulla che non abbiamo già condiviso con chi stava indagando».
Il cardinale Re, allora assessore agli Affari generali in Segreteria di Stato, ha detto al «Corriere»: «Avremmo desiderato rendere pubblico qualsiasi elemento, solo che non avevamo nulla di concreto».
«Appunto, conferma quello che dicevo. Non avevamo e non abbiamo alcuna pista, ci fosse stato qualcosa di concreto lo avremmo detto subito».
Incontrerà la signora Orlandi?
«La mia porta per lei rimane sempre aperta. Già alcuni mesi fa mi sono impegnato perché potesse incontrare il Santo Padre, e ha parlato con papa Francesco. Se le può essere di conforto sono pronto a riceverla».

Repubblica 29.6.17
Landini: in Italia non c’è più la sinistra ora serve un partito dei lavoratori
Il leader lascia la Fiom “Politicamente non mi sento rappresentato da nessuno, sto con la Cgil. Bisogna recuperare quel 50% che non va a votare”
di Roberto Mania

ROMA. Maurizio Landini lascia la Fiom di cui aveva assunto la guida nel 2010. L’11 luglio l’assemblea della Cgil lo eleggerà membro della segreteria nazionale della Cgil. Il prossimo anno nel congresso si deciderà anche il successore di Susanna Camusso, Landini è tra i potenziali candidati. Ma in questa intervista ragiona soprattutto della sinistra politica. Anzi, della sinistra che non c’è. «Perché — dice il segretario generale uscente della Fiom — io penso che ci sia ancora una differenza tra destra e sinistra. La discriminante è il lavoro, la rappresentanza del mondo del lavoro. Nessuno rappresenta più questo mondo. Nessuno ha un progetto per cambiare il modello sociale. Per questo non c’è più la sinistra ».
Il Pd di Renzi non è un partito di sinistra?
«Renzi non è di sinistra. Lo dice lui, non io», Eppure lei e Renzi vi siete lungamente corteggiati.
«Poi lui ha scelto Marchionne, ha cancellato l’articolo 18, ha varato il Jobs act. C’è stata il referendum costituzionale nel quale la Cgil si è tutta schierata per il no. Renzi non è più a Palazzo Chigi ed è il segretario di un partito che perde ruolo e consenso nel Paese».
Lei in quale sinistra si riconosce oggi? Con chi sta?
«Oggi non sto con nessuno. Sto con la Cgil. La precondizione perché oggi possa ricostruirsi la sinistra è l’unità del mondo del lavoro, superare la frantumazione che si è determinata in questi anni ».
Ma il movimento di Bersani che richiama l’articolo uno della Costituzione non si muove proprio in questa direzione?
«Bisogna muoversi con un’idea di progetto non minoritario perché come diceva Totò “non è la somma che fa il totale”».
Cosa pensa dell’iniziativa di Pisapia?
«In generale penso che sia sempre utile e positivo muoversi per tentare di recuperare quel cinquanta per cento e passa di cittadini che non vota più. Il problema è innovare nelle proposte, recuperare la centralità del lavoro ed elaborare 5/6 questioni sulle quali costruire un progetto».
È vero che dalle nuove aggregazioni della sinistra, da Sinistra italiana all’iniziativa di Falcone e Montanari, le sono arrivate richieste per una sua discesa in campo?
«Il faccio il sindacalista».
Da sindacalista ha promosso la Coalizione sociale che si è rivelata un flop.
«Non sono d’accordo. L’idea della coalizione nasce esattamente con l’intento di ricomporre ad unità il mondo del lavoro. Non mi pare che a questa domanda sia ancora data una risposta. A un sindacato autonomo e indipendente dalla politica spetta anche il compito di avanzare proposte tanto più in un contesto in cui si punta da più fronti alla disintermediazione sociale, da una parte Renzi, dall’altra il Movimento 5 stelle».
Ma l’avanzata dei populismi non è anche effetto del vuoto lasciato, per la sua parte, dal sindacato?
«Non credo sia un problema del sindacato. Certo noi dobbiamo innovarci, tornare a rappresentare tutto il lavoro e recuperare credibilità dopo la ferita rimasta aperta delle riforma pensionistica di Monti. A cosa è servito in quel caso il sindacato?».
Per lei è anche un momento di fare un bilancio: ha preso la guida dei metalmeccanici nel 2010 e ad oggi ha perso oltre 27 mila iscritti. Non esattamente un successo.
«Se penso che nello stesso periodo sono stati persi nel settore metalmeccanico oltre 350 mila posti di lavoro e che la precarietà è aumentata mentre il tasso di sindacalizzazione è cresciuto non posso affatto lamentarmi. Aggiungo che siamo riusciti ad impedire che il modello Marchionne che aveva tentato di cacciarci dalle fabbriche non si è affermato fuori dal pianeta Fca, la Fiom è il primo sindacato anche in quel mondo nelle elezioni per i

Corriere 29.6.17
Fermezza inevitabile
di Fiorenza Sarzanini

La scelta italiana di mettere in mora l’Unione Europea ipotizzando il divieto di attracco per le navi straniere cariche di migranti, segna certamente un deciso cambio di strategia. È la linea della fermezza che finora non si era mai riusciti a percorrere. Ma nell’ultima settimana qualcosa di nuovo è successo e il governo guidato da Paolo Gentiloni ha evidentemente avuto la percezione che la situazione potesse davvero degenerare. Come ha chiarito il ministro dell’Interno Marco Minniti, mai prima d’ora era infatti accaduto che arrivassero in appena tre giorni 12.000 migranti. Mai erano state avvistate in mare 22 navi dirette nei porti italiani. E dunque il titolare del Viminale ha chiarito di fronte al Consiglio dei ministri che senza una presa di posizione forte, il rischio di un’invasione impossibile da gestire, può diventare concreto. L’iniziativa del governo è condivisa dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha definito molto difficile la situazione che il nostro Paese deve affrontare. In pochi mesi le imbarcazioni delle organizzazioni non governative si sono moltiplicate.
Giorno dopo giorno è aumentato il numero delle associazioni che hanno come obiettivo primario il salvataggio dei migranti. È un’opera meritoria che deve essere appoggiata e sostenuta anche economicamente. Ma che deve essere soprattutto governata. E invece per mesi l’Italia ha assistito impotente mentre queste navi si posizionavano in acque internazionali e attendevano l’arrivo di gommoni e pescherecci da cui trasbordare uomini, donne e bambini da trasferire nel nostro Paese. Ha subito la loro attività anziché guidarla.
I risultati sono ormai evidenti: ci sono centinaia di migliaia di stranieri che vengono accolti nel nostro Paese senza alcuna speranza di futuro, sempre più spesso destinati a perdersi visto che non hanno possibilità di ottenere l’asilo politico. E dunque è con questa realtà che adesso bisogna confrontarsi. Anche tenendo conto che nonostante le promesse di reale cooperazione, l’Unione Europea si è limitata a mettere a disposizione una parte dei finanziamenti, pur nella consapevolezza che l’emergenza non si può affrontare soltanto con i soldi.
Nei mesi scorsi ci si è illusi che l’accordo siglato con la Libia potesse risolvere ogni problema. In realtà, dopo il patto stretto a febbraio dal premier Gentiloni, è apparso chiaro che il presidente Fayez al-Serraj non aveva il pieno controllo del Paese e dunque non era in grado di garantire una lotta efficace contro i clan che organizzano le partenze. Il ministro Minniti continua la sua trattativa con le tribù del sud che certamente potrà portare risultati, ma i tempi non sono brevi e invece è diventato urgente intervenire.
L’ipotesi di vietare l’ingresso in porto alle navi straniere è una mossa che può rivelarsi vincente. Un deterrente efficace. Anche perché, se davvero la soluzione per salvare le persone che si affidano agli scafisti è quella di andare a prenderli quasi sotto costa, molto più utile sarebbe la creazione di corridoi umanitari gestiti insieme da quegli stessi Stati che concedono la loro bandiera alle navi delle Ong. Una grande operazione internazionale che garantisca un futuro a chi non ha niente da perdere.
L’alternativa è quella di intervenire direttamente nei Paesi d’origine creando campi di accoglienza e affidando alle organizzazioni che si muovono sotto l’egida dell’Onu le procedure per i richiedenti asilo. Un impegno che l’Unione Europea aveva preso, ma che finora non è riuscita a concretizzare stretta tra i veti incrociati di chi si oppone a politiche di accoglienza, ma anche di chi non ritiene di dover fornire alcun contributo neppure dal punto di vista economico.
In attesa che da Bruxelles arrivi una reazione alla mossa italiana, sarà interessante vedere che cosa accadrà nel nostro Paese. Anche tenendo conto che quello dell’immigrazione è sempre stato un tema da campagna elettorale. Ieri, la maggior parte dei partiti ha espresso un plauso alla decisione presa dall’esecutivo ma non è escluso che, di fronte alla direttiva, comincerebbero le polemiche e i distinguo. È un rischio che non si dovrebbe correre. Di fronte a una presa di posizione così forte è necessario essere uniti. A meno che non si pensi che il problema dei migranti debba essere sfruttato soltanto a fini propagandistici.

Corriere 29.6.17
Medici Senza Frontiere
«I naufraghi starebbero troppi giorni in mare»
«Se si attuerà il blocco dei porti italiani, le conseguenze sul piano umanitario potrebbero essere devastanti». Marco Bertotto (foto) , responsabile advocacy di Medici Senza Frontiere Italia, vede nero.
Perché devastanti?
«Perché sbarcare i migranti in porti che non sono italiani significa perdere molti giorni di mare».
Riguarda solo le navi straniere. Voi ne avete?
«Siamo lì con due navi e una batte bandiera di Gibilterra. Se dovessimo portarli lì ci vorrebbero due settimane, contro i due giorni delle coste italiane».
Mossa sbagliata?
«È legittimo che l’Italia batta i pugni sui tavoli europei ma spero tanto che questa rimanga solo una minaccia. La situazione già è tragica, cerchiamo di non peggiorarla».
A. P.

Corriere 29.6.17
«Una scelta a rischio di illecito umanitario»
«In linea di principio la decisione di chiudere i suoi porti l’Italia potrebbe prenderla anche da sola, senza la Ue».
E invece in pratica Pasquale De Sena (nella foto) ? Lei che insegna Diritto internazionale all’Università cattolica ci aiuta a capire?
«In pratica questa decisione potrebbe far correre il rischio di illeciti di tipo umanitario».
Ovvero?
«Per esempio se a bordo ci sono persone che hanno bisogno di cure. Ma soprattutto rifugiati politici. In ogni caso non è soltanto l’Italia che deve temere illeciti. Bisogna capire ad esempio se l’Italia ha superato le quote di accoglienza che ha sottoscritto».
In questo caso?
«Gli illeciti sarebbero a carico dell’Unione europea».
Al. Ar.

il manifesto 29.6.17
Msf: «Si vuole lasciarli sulle navi? Gli obblighi internazionali sono precisi»
Intervista a Michele Trainiti. Medici Senza Frontiere: le partenze aumentano perché i trafficanti quest’anno sono più organizzati
di Rachele Gonnelli

«È vero che c’è un sensibile aumento delle persone che si imbarcano dalla Libia, lo vediamo ogni giorno e era previsto, ma non è possibile non salvarli, ci sono obblighi internazionali precisi». Michele Trainiti è il coordinatore delle operazioni di ricerca e soccorso della nave Prudence di Msf, Medici Senza Frontiere.
State vivendo un’emergenza sbarchi?
Sì, numeri importanti. Del resto le stesse Nazioni Unite hanno segnalato da tempo che ci sono 250 mila persone nei centri di detenzione libici pronte a partire verso l’Europa.
Se l’Italia chiudesse i porti all’attracco delle navi delle ong, cosa succederebbe?
Non abbiamo nessun tipo di comunicazione in questo senso, solo notizie rilanciate dai giornali, niente di concreto. Chiudere i porti sarebbe una non soluzione perché cosa potremmo fare? lasciare le persone sulle navi? e poi? Sono anni che aspettiamo una iniziativa dell’Unione europea per la ricerca e il soccorso delle persone in mare, un meccanismo ufficiale dedicato. Invece di fronte a un flusso storico, alla chiusura di altre rotte e alla mancanza di alternative di arrivo legale, ci sono sempre più partenze su questa che è la tratta più pericolosa di tutte del Mediterraneo centrale.
Perché sempre più migranti in arrivo dalle coste libiche? Sono aumentati i fattori che li spingono, come dice l’Oim?
I «push factors» sono a monte, sono ciò che li spinge ad abbandonare le proprie case, e sono sicuramente aumentati perché nessuno lo fa volentieri. Poi ci sono le condizioni in Libia, agghiaccianti, le loro testimonianze e i rapporti delle organizzazioni internazionali parlano di torture efferate nei centri di detenzione dove i migranti sono lasciati anche senza acqua potabile e senza servizi igienici, di mercati di schiavi nelle piazze dei paesi della costa, di persone rapite per chiedere un riscatto ai genitori…La situazione è sicuramente molto peggiorata rispetto all’anno scorso.
Ancora peggiore?
Sì, confrontando i racconti delle violenze subite dai migranti salvati l’anno scorso con quelli di quest’anno, la percezione è netta: le condizioni, sia per strada che nei centri di detenzione, si sono ulteriormente deteriorate.
Per questo partono in numero maggiore?
I grandi numeri di quest’anno dipendono dalla capacità organizzativa dei trafficanti in Libia, che evidentemente sono cresciute perché non è mica uno scherzo mettere in acqua ogni giorno 2mila gommoni. Si deve contare che molti di quelli che siamo riusciti a salvare sono in così cattive condizioni perché sono al secondo o al terzo tentativo, in precedenza sono stati intercettati e riportati a terra dalla Guardia costiera libica e una volta ritornati in Libia venduti come schiavi, ricattati e torturati in modo sempre più agghiacciante. Sarebbe inaccettabile per noi riportali lì.
E se venisse dirottato il flusso in altri porti più vicini rispetto all’Italia?
C’è un obbligo internazionale al soccorso dei naufraghi in base alle convenzioni Sar e Solas che non può essere disatteso. Le stesse convenzioni impongono di portarli nel porto «sicuro» più vicino. La Tunisia non garantisce il diritto alla richiesta di asilo, quindi può essere considerata un porto sicuro per i naufraghi di uno yacht ma non di una imbarcazione di profughi. L’Algeria è troppo lontana, la Francia lo è più dell’Italia, la Spagna è più vicina solo per i naufragi a largo del Marocco.
E se in Libia si verificasse davvero una riconciliazione nazionale tra i governi di Tripoli e di Baida?
Se anche fosse, e per ora l’Oim parla di violazioni incredibili di diritti umani, la Libia dovrebbe ancora ratificare le convenzioni Sar e Solas. Altra cosa è l’attività della Guardia costiera libica nelle sue acque nazionali e in quelle contigue, dove può liberamente intercettare e riportare indietro i barconi, come fa.
I libici che l’Italia aiuta regalando motovedette e addestrandoli possono fare questo?
Certo, anche nell’incidente del 10 maggio, quando la nave dell’ong SeaWatch fu quasi speronata, non c’era nessun rapporto gerarchico tra i libici e la Guardia costiera italiana che coordina i soccorsi internazionali. La Guardia costiera italiana non ci ha mai chiesto di collaborare con i libici né può chiederci di consegnare le persone a loro, è solo tenuta ad avvertirli per primi delle operazioni di soccorso. Ma la clausola del divieto di respingimento a mare è valida solo per i paesi terzi come il nostro rispetto ai migranti in fuga dalla Libia. Certo, resta il dilemma degli aiuti dati a chi non è in condizioni di assicurare il rispetto dei diritti umani. Un bel dilemma per l’Italia.

Repubblica 29.6.17
Il gesto più utile che Renzi può fare
di Stefano Folli

SPIEGARE le disavventure della politica come effetto di congiure e complotti è sempre segno di grave debolezza. Un modo per rifiutare la realtà quando questa risulta spiacevole. S’intende, i complotti talvolta esistono, ma sono efficaci se rivolti verso obiettivi circoscritti: ad esempio annichilire un avversario o tagliare le gambe a un candidato sgradito. Ne abbiamo avuto qualche esempio nella politica italiana degli anni recenti. Servono a poco, invece, quando c’è da approfondire le cause di una sconfitta. O riconsiderare una strategia sbagliata.
Nel Pd la tensione interna è palpabile, ma non ha ancora dato luogo a un esame critico degli errori commessi nell’ultimo anno. Da quando la campagna sul referendum costituzionale — un momento non privo di solennità che richiedeva il massimo rispetto per il cittadino chiamato a esprimersi sulla Carta fondamentale — si trasformò nella battaglia personale di un uomo, Renzi, contro il resto del mondo. La mancata analisi di quella disfatta è all’origine della crisi che attraversa oggi il Pd. In mezzo ci sono tre passaggi solo in apparenza privi di nesso: la scissione; le primarie che hanno di nuovo consacrato Renzi segretario del partito; e le elezioni comunali, in cui il leader della formazione più importante è rimasto sempre silente e di fatto indifferente agli esiti del voto.
Le primarie dovevano restituire al Pd una salda leadership, dopo che Renzi aveva disatteso la promessa di ritirarsi dalla vita pubblica in caso di insuccesso al referendum. In pratica hanno suggellato il partito personale in un rapporto carismatico fra il leader e i suoi fedeli elettori. Gli altri, dirigenti e capi- corrente, sono una sovrastruttura destinata prima o poi a essere spazzata via ( si veda la direzione composta da giovani militanti). Di conseguenza le elezioni amministrative sono apparse un accadimento minore sulla via dell’unica prospettiva che conta: le elezioni politiche da celebrare il prima possibile, così da affrettare il ritorno a Palazzo Chigi. In che modo? Attraverso quale percorso, considerando che non si prevede un vincitore sicuro e, anzi, i sondaggi delineano un Parlamento ingovernabile (“ impiccato”, dicono gli inglesi)? Qui entra in gioco la straordinaria fiducia in se stesso di Renzi, il suo volontarismo. Se un milione e ottocentomila italiani mi hanno votato nelle primarie — ecco più o meno il ragionamento — cosa impedisce di credere che in proporzione una massa di italiani mi voterà alle politiche, consegnandomi una vittoria che gli scettici escludono e che invece è a portata di mano? A patto ovviamente di liberarmi di lacci e laccioli, cioè di tutti i notabili vecchi e nuovi. Anche se accampati all’esterno come il più insidioso di tutti: Romano Prodi.
Questo spiega perché il magro bottino di domenica viene presentato come una mezza vittoria. Se la realtà non piace, meglio rimuoverla. E laddove la sconfitta non si può celare, va attribuita alla congiura dei nemici interni. « Non bisogna cambiare le decisioni del partito, bisogna cambiare il popolo » diceva Brecht in un famoso paradosso. In questo caso, gli elettori di Genova e delle altre città vanno messi fra parentesi perché disturbano, sono un ostacolo lungo il cammino che conduce alla grande sfida finale. Uno contro tutti, come sempre.
Se questa è la scelta, i rischi sono notevoli. Gli stessi che si corrono puntando tutto su un numero alla “ roulette”. Attendiamoci frizioni sempre più aspre. Quando un personaggio compassato come Franceschini o una figura storica come Veltroni lanciano l’allarme, vuol dire che è stato superato il livello di guardia. Il capo è stato plebiscitato dalle primarie, ma i dirigenti e i quadri intermedi sono disorientati e stanno perdendo la fiducia in lui. È una contraddizione esplosiva che Renzi può sanare con una semplice mossa: rinunciando a candidarsi a Palazzo Chigi. Del resto, rinuncerebbe a qualcosa che in ogni caso è irrealizzabile. Quasi nessuno crede che possa essere lui il premier in grado di creare una coalizione: servirebbe una tendenza alla mediazione che non fa parte del bagaglio renziano. Inoltre, in un sistema proporzionale il presidente del Consiglio lo sceglie Mattarella. E a Palazzo Chigi oggi c’è un uomo, Gentiloni, che si fa apprezzare anche all’estero per il suo equilibrio. Un simile gesto, da parte di Renzi, restituirebbe pace al partito. Toglierebbe dal tavolo l’impressione che si sta giocando solo una spietata lotta di potere. E farebbe di Renzi un politico che sa pensare anche all’interesse generale, quando è necessario.

Il Fatto 29.6.17
“Ma quale leader! Matteo è un bambino autoritario”
Massimo Cacciari - Il filosofo stronca tutti i protagonisti (Prodi compreso) della guerra in corso nel Pd e nell’intero centrosinistra
di Fabrizio d’Esposito

Senza speranza. Senza via d’uscita. Da filosofo che ha sperimentato la prassi della politica, Massimo Cacciari carica il suo pessimismo sul centrosinistra italiano (e non solo) con frasi nettissime. Da una parte Renzi, dall’altra tutti i big litigiosi dell’Ulivo e dell’Unione che furono: Prodi, D’Alema, Veltroni, Bersani. Due eserciti perdenti in guerra tra di loro.
Professore, tutti contro Renzi.
Ormai hanno smonato (rotto, ndr) gli italiani, stanno cadendo nel ridicolo.
Proprio tutti? Anche Prodi, il Grande Padre indiscusso?
È il primo a cadere nel ridicolo.
Addirittura.
Ma che vuol dire ‘faccio il Vinavil della coalizione’? Che cos’è questo Vinavil? Per favore.
Il Vinavil serve per incollare. Un indizio di ricostruzione.
Romano benedetto cosa vuoi incollare? Ma se i tuoi amici ti hanno mandato a casa in una situazione infinitamente meno corrotta di questa.
Corrotta?
Sì, corrotta nei rapporti personali.
Ah!
Per carità, Pisapia è una persona seria, perbene ma che senso ha mettere insieme Bersani, D’Alema, Veltroni?
È il remake di un brutto film.
Saranno sommersi da una risata per disperazione.
Veltroni dice che il Pd renziano è solo una Margherita.
Lasciamo stare.
Perché?
Le sciagure sono cominciate con lui e D’Alema. Eppoi, tu Veltroni prima fai il Partito democratico e poi fai carte false per andare con Antonio Di Pietro?
Il paragone con la Margherita resta. È oggettivo.
Ma la Margherita era una versione farsesca e mini della Dc, io l’ho vissuta. Questo Pd è un’altra cosa.
Che cos’è?
È il partito di un capo infantilmente autoritario, che compie errori grossolani da Abc della politica e si circonda solo di fedelissimi.
Tanti errori?
Tantissimi.
Qualche esempio?
Tu Renzi volevi essere il Macron italiano, continuare a fare il Rottamatore spavaldo e spocchioso della Leopolda? Bene. Invece che cosa fai?
Cosa fai, appunto?
Rimani tre anni a farti logorare dai tuoi oppositori. Non si fa così. Il Partito di Renzi lo dovevi fare immediatamente, allora sì che diventavi Macron. Adesso è tardissimo.
Senza contare scandali e fallimenti di governo, il carattere un po’ ha pesato. O no?
Certo, Renzi ha un carattere che gli impedisce di fare il capo di un partito. Non è capace di costruire, per questo non è un leader e fa errori. Le leadership sono una cosa seria, pensiamo alla storia della Dc, del Pci.
Un altro errore?
Il referendum: è riuscito a mettersi tutti contro, da Berlusconi ai grillini.
Proseguiamo.
Il finto sostegno a Gentiloni.
Renzi ha sofferto troppo a lasciare Palazzo Chigi.
Ed è diventato out of mind.
Che suona per fuori di testa.
Invece di appoggiare lealmente il governo si è messo a fare la fronda. Una volta cercando la sponda di Berlusconi, un’altra quella dei grillini. Errori su errori.
E ora?
Non ci sono alternative.
Zero assoluto?
Mah, l’unica potrebbe essere quella di un golpe di Gentiloni nel Pd.
Per il resto?
In questo Pd, per quello che è diventato, Renzi non ha alternative.
Il Guardasigilli Orlando?
Ma di che parliamo? Politicamente è una nullità. Nel Pd non c’è più nessuno.
Lei è spietato.
Ma li ha visti i risultati delle Amministrative?
Sì.
E le pare normale l’astensionismo al 50 per cento?
Un dato enorme.
Di cui nessuno parla. Si preferisce il silenzio. Se questa non è delegittimazione, che cos’è? L’astensionismo è il fatto più importante di queste elezioni.
Anche per questo si stanno rendendo tutti ridicoli, come dice lei.
Certamente. Se si andasse a votare domani nessuno riuscirebbe a governare.
Né Berlusconi che detesta Salvini, né i grillini.
Ognuno farà il suo bottino, ma ormai siamo in un gioco di trincee.
A partire da Renzi.
Lui, come gli altri, sta scavando la sua trincea.
Per fare cosa?
Per difendersi, innanzitutto. E coltivare poi la speranza di sopravvivere: un po’ per la rendita che gli viene dalla storia che ha ereditato nel Pd, un po’ per le debolezze altrui. E farà altri errori.
Perseverare è diabolico.
Questa storia delle larghe intese con Berlusconi è un altro autogol clamoroso. Ma come si fa?

La Stampa 29.6.17
“Ora basta, con Renzi leader rischiamo una sconfitta storica”
Cuperlo: “Altrimenti faremo la fine dei proci a Itaca”
di Carlo Bertini

Renzi è sotto assedio ma non vuole inseguire i capi corrente come Franceschini che si ribellano. Come finisce questa storia Cuperlo, con la disgregazione del Pd?
«Questa storia deve ritrovare il senso che ha smarrito. Io non mi chiedo perché il Pd potrebbe finire, mi chiedo perché è nato. La risposta era dare all’Italia quella forza popolare e di sinistra che gli eventi avevano sempre impedito. Ma se dopo dieci anni il popolo che volevi unire si divide e si allontana allora devi chiederti cosa succede e come si raddrizza la barca».
Dicono che anche lei è in procinto di andarsene, è vero?
«Io so che senza la forza più grande, un centrosinistra di governo si allontana. E mi batto perché questo Pd cambi radicalmente. Rivendico lealtà e coerenza, ma non accetto il destino di un partito che cambia natura».
Alla fine il problema è la leadership di Renzi? Il leader Pd deve scordarsi Palazzo Chigi?
«Renzi è forte dentro il Pd ma il Pd oggi è debole nella società. Prima le sconfitte in Veneto, Roma, Torino. Poi la sfida sulla Costituzione con esito catastrofico. Ora si torna a perdere mentre Prodi sposta la sua tenda più lontano. Davanti a una scena simile spiegare che le politiche saranno un’altra storia è come lanciarsi senza paracadute».
Voi stessi dite che servono alleanze larghe e una capacità di unire che non è tra le prime qualità di Renzi.
«La domanda è se lui ha una linea in grado di evitare una sconfitta storica. Il mio cruccio è non consegnare l’Italia alla destra. In questo senso la sorte di un leader non può dipendere dalle chances di tornare a Palazzo Chigi».
E allora chi può guidare il centrosinistra al voto?
«Prima del nome conta la missione. Poi un programma di traguardi partecipati a cominciare dalla lotta a diseguaglianze immorali. E solo a quel punto alleanze e un leader».
Quali sono i limiti dell’operazione Pisapia secondo lei?
«Io tifo, e lo dico a partire dalla sinistra del Pd, perché tutti i pontieri abbiano successo. Lo faccio perché so che nessuno vincerà alzando muri».
Alla vigilia delle comunali i tifosi della coalizione speravano nelle vittorie locali per trovare conferma alla loro tesi. E ora Renzi ha gioco facile a riaffermare il rovescio, un Pd riformista che non insegue alleanze. Sbaglia?
«Sì perché l’autosufficienza non paga mai. Anche dire centrosinistra da solo non basta. Devi spiegare cos’è. Per me vuol dire capire che si sono spezzati legami profondi con chi si è risvegliato più povero. Non serve sommare le sigle. Servirebbe una grande alleanza civica e solidale con un radicamento tra quelli che vogliamo tutelare. Almeno se pensiamo che la sinistra oggi è senza un popolo alle spalle».
Lei dice che serve una rifondazione profonda a partire dai valori. Serve anche un luogo dove cominciare a realizzarla? Le primarie di coalizione possono essere un’occasione in tal senso?
«Potrebbero servire, a patto di capire che la crisi del nostro campo ha toccato una vetta e non ne usciamo con qualche scontro televisivo tra i leader. Ci sono luoghi dove non mettiamo piede da anni e legami sociali letteralmente spezzati. Somigliamo sempre più al ceto politico che dovremmo combattere. Appendevamo al muro Che Guevara e ora rischiamo la parte dei proci a Itaca. Il centrosinistra rinascerà da un viaggio nel Paese vero. Poi a settembre facciamo incontrare i percorsi diversi che credono in una nuova alleanza sociale e politica».
Che effetto le fa D’Alema che dice di voler trattare col Pd accordi dopo il voto come si faceva nella prima Repubblica?
«D’Alema cerca consensi per un altro partito, lo rispetto. Io vorrei un Pd che si impegna a non governare più con la destra».

Il Fatto 29.6.17
Pd, cercasi disperatamente un leader al posto di Renzi
Il segretario si arrocca e lavora alla riunione dei circoli (domani e lunedì a Milano). Una prima conta potrebbe esserci il 10 luglio in Direzione
Pd, cercasi disperatamente un leader al posto di Renzi
di Wanda Marra

Al congresso della Cisl, ieri, l’ospite d’onore era Paolo Gentiloni. Con lui, una folta rappresentanza di membri del governo, tra cui Roberta Pinotti e Dario Franceschini. E poi un’ampia delegazione del Pd, da Tommaso Nannicini a Matteo Richetti. Presenza impressionante, che la dice lunga su quanto i Dem cerchino nuovi luoghi di aggregazione, alternativi a quelli “dovuti”. Senza contare che il premier la mette così: “Tra parti sociali e istituzioni abbiamo bisogno di un dialogo che produca risultati”.
Approccio totalmente diverso rispetto al superamento dei corpi intermedi praticato e predicato da Matteo Renzi, che si è poi concretizzato in feroci e continui attacchi ai sindacati. L’assedio è partito, il fortino è circondato, la corsa a scalzare Renzi è cominciata anche ufficialmente. Nessuno, però, sa come farlo e, soprattutto, con chi sostituirlo.
Nell’ennesimo “day after” della tragicommedia che offre a scadenze regolari il Partito democratico, si registra un clima che è una via di mezzo tra disorientamento e attesa. L’incertezza riguarda anche il governo: non nel senso che Gentiloni rischi di cadere (non c’è una legge elettorale e comunque alle urne non ci vuole andare nessuno), ma nella scelta dei provvedimenti da approvare, nel sostegno che il Pd – in quanto partito di maggioranza relativa – vuole dare all’esecutivo. E anche quanto è in grado di farlo: le incertezze, le esitazioni, la confusione sulla gestione del codice antimafia, che va al voto oggi in Senato è un esempio lampante della situazione. Ieri, invece, la Camera ha calendarizzato la legge elettorale a settembre: segno evidente che non c’è una strategia, un’idea, una linea.
Il segretario del Pd, tanto per cominciare, non cambia di un millimetro la strada presa. La parola d’ordine che consegna ai suoi è: “Alle primarie per Renzi hanno votato 2 milioni di persone, non si rimettono in discussione”. Erano sì e no 1 milione e 800mila e Renzi ha preso il 70%, ma evidentemente per lui fa lo stesso. Per una volta si fa notare in una dichiarazione pubblica pure Luca Lotti: “Abbiamo votato, pochi giorni fa, abbiamo fatto le nostre primarie: fine della discussione. No al logoramento interno”.
Dario Franceschini risponde: “È appena cominciata”. Tanto per chiarire. Oltre a lui, allineati contro Renzi, ci sono Prodi, Letta, Fassino, Chiamparino, Veltroni, Orlando, Zingaretti. Tutti per la coalizione. E abbastanza per fare “un Ulivo senza il segretario”, che è poi il vero timore di Renzi. Timore? “Nel 2012, dopo la sconfitta alle primarie con Bersani, avremmo dovuto uscire dal Pd, fare un partito nuovo”, è il ragionamento che torna in questi giorni. Un rimpianto, davanti all’esempio di Macron. “Non scappo col pallone”, disse il segretario allora. Valutò che il Pd gli conveniva scalarlo per arrivare a Palazzo Chigi. Anche se di per sè gli interessava poco. Chissà che a un certo punto non si arrivi all’uscita di massa dal partito col Pd trasformato definitivamente nel Partito di Renzi. Nel frattempo, la trattativa è aperta. Ieri il coordinatore della segreteria dem, Lorenzo Guerini e lo stesso Franceschini hanno parlato più volte. Per evitare il definitivo abbandono da parte del ministro della Cultura, i renziani sono pronti a offrirgli posti in lista alle prossime elezioni. Il punto è se potranno garantirne abbastanza per soddisfarlo.
La prima tappa di questa guerra di nervi è la riunione dei circoli domani e dopodomani a Milano (in contemporanea con la convention di Pisapia a Roma): ci sarà lo stato maggiore del partito, il segretario farà una relazione “alta”, che è un modo per dire che non parlerà di coalizione (che non vuole), ma di Ue e migranti. Il 10, poi, è convocata la Direzione: lì ci potrebbe essere una prima conta, ma l’ex premier l’ha composta in modo di avere una maggioranza bulgara. Fino a prova contraria.

Corriere 29.6.17
Renzi e le accuse: non mi vogliono in piedi per il voto
di Maria Teresa Meli

Matteo Renzi si difende dopo gli attacchi dal Pd: parla di accuse inaccettabili e lancia il sospetto che non lo vogliano in piedi alle Politiche. Intanto il ministro Dario Franceschini chiede al partito di cambiare linea.
ROMA «Non mi vogliono far arrivare in piedi alle politiche. Mettere in discussione le primarie dopo neanche due mesi significa voler distruggere tutto». E ancora: «Vogliono far passare l’idea che a me interessa solo tornare a palazzo Chigi e che sacrifico la linea politica del Pd a questo. È inaccettabile». Renzi è preoccupato e non nasconde questo stato d’animo ai suoi. Franceschini è partito all’attacco dopo la dichiarazione di Prodi.
Il segretario e i suoi collaboratori si interrogano sul perché dell’uscita dell’ex leader dell’Ulivo che era «studiata» e sulle altre sue possibili mosse: «Se Romano dicesse che il Pd ha cambiato dna un po’ di male ce lo farebbe». E poi, c’è forse anche l’obiettivo di staccare dei pezzi del partito che finora sono stati con Renzi? Delrio e Gentiloni, per esempio? Del resto, il tentativo di seminare zizzania tra il premier e il segretario, secondo i renziani è in atto da tempo. «Ma non riusciranno a farmi litigare con Paolo», assicura il leader.
Ieri, però, era soprattutto Franceschini il protagonista dei colloqui del leader con i suoi uomini. Il ministro non intende mollare la presa. Lo ha detto chiaramente ad alcuni renziani: «Basta, la linea politica del Pd va cambiata». Insomma è un’offensiva seria e Franceschini non vuole fermarsi. Luca Lotti, solitamente parco di dichiarazioni, questa volta parla per intimargli l’altolà: «Non possiamo sempre rimettere in discussione tutto. Due milioni di persone due mesi fa hanno votato Renzi, fine della discussione». Il ministro replica prontamente con un minaccioso «la discussione è appena iniziata». Lorenzo Guerini ed Ettore Rosato cercano di fare da pacieri tra i due, ma al momento non sembra aria, anche se un incontro Franceschini-Renzi potrebbe diventare inevitabile.
Anche al di fuori del Pd si interrogano sulle intenzioni del ministro. Nico Stumpo, ora in Articolo 1 fornisce questa spiegazione ai compagni di partito. «Il “capo dei capi” ha parlato e Franceschini ha risposto all’appello, non può fare sempre la parte del necrofilo che uccide politicamente i leader solo quando sono già morti, questa volta gli è stato chiesto di agire adesso». E i colleghi di Stumpo si chiedono chi sia il «capo dei capi»: Prodi ? Veltroni?
Ai renziani comunque viene il dubbio che l’offensiva contro il segretario sia partita dopo che Renzi ha lasciato chiaramente intendere che non toccherà la legge elettorale e non farà alleanze. «Con quali voti dovremmo riformare la legge? Non ci sono», aveva detto. «C’è chi teme che questo significhi che con l’attuale legge elettorale Renzi si farà le liste a sua immagine e somiglianza e perciò si sono mossi, per paura di non tornare in Parlamento», sostengono i renziani.
Nel Transatlantico rimbalzano i sospetti e i dubbi. I componenti della Direzione (che si riunirà il 10 luglio) sono 120 e 64 sono di assoluta fiducia del segretario. Quindi come pensa Franceschini, che ne ha solo 20, di scardinare le cose? Non gli basta giocare di sponda con Andrea Orlando, dovrebbe lavorare su Maurizio Martina, ragiona qualcuno. Mentre altri danno Piero Fassino in rotta di allontanamento da Renzi. Si accavallano le ipotesi, si torna a parlare di elezioni anticipate come di una strada per uscire dall’impasse.
Intanto il segretario si prepara alla due giorni di Milano. Lancerà l’agenda del Pd. Ma basterà a metterlo al riparo dal fuoco amico? Per tirarsi fuori dallo stallo c’è chi gli suggerisce di andare alle urne , e chi, al contrario, gli consiglia di intestarsi il lavoro del governo e proporre nuovi provvedimenti, lasciando agli altri le beghe. «Dobbiamo riflettere bene sui prossimi passi», osserva lui.

Repubblica 29.6.17
Per avere più tranquillità Renzi finisce nell’ufficio di Lusi, il tesoriere della Margherita arrestato
Porta blindata e video il leader cambia stanza e il bunker è anche realtà
di Goffredo De Marchis

ROMA. La nuova stanza di Matteo Renzi nella sede nazionale del Pd a Largo del Nazareno, ha la porta blindata e il videocitofono. «Potrebbe anche metterci un cartello con su scritto “Indietro popolo” », scherza un vecchio dirigente giocando sul più famoso slogan della sinistra.
Non c’è una coincidenza temporale tra la scelta logistica del segretario del Pd e l’assedio dei big del partito successivo al brutto risultato delle comunali. Renzi ha deciso il trasloco un mese e fa, appena rieletto alla segreteria, prima dei ballottaggi di domenica. Ma è evidente che la particolare struttura dell’ufficio alimenta, in questi giorni, la metafora del bunker.
La stanza del segretario, occupata da quattro predecessori — Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani — è sempre stata al secondo piano dell’edificio, a metà di un lungo corridoio su cui si affacciano gli uffici dei funzionari e dei dirigenti. La stanza blindata del leader è invece al terzo piano. Si esce dall’ascensore. A sinistra si va verso la terrazza, affacciata sui tetti di Roma e ora attrezzata a set per i talk show fatti in casa. A destra invece si aprono alcune porte. In fondo, c’è quella corazzata, l’apertura a scatto e la telecamera. Lì si è sistemato Renzi. In origine, era il quartier generale di Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita condannato a 7 anni di reclusione per essersi appropriato di decine di milioni del finanziamento pubblico. Allora Lusi giustificò la blindatura con i pericoli che derivavano dalla fusione tra Ds e Margherita. Largo del Nazareno si riempì di dipendenti diessini, il dirigente rutelliano non si sentiva al sicuro circondato dagli “amici-nemici”. Poi, si scoprì che in effetti aveva molto da nascondere, non solo agli alleati ma anche alla legge. Dunque, la stanza blindata di Renzi non è costata nulla alle casse esangui del Pd. Giusto il prezzo di una veloce imbiancata.
Le motivazioni dello spostamento sono abbastanza banali. Al secondo piano c’era troppa confusione, un via vai continuo, zero privacy e la fila di questuanti che sempre si accompagnano al potere. Il segretario voleva stare più tranquillo. Al potere del resto si accompagna anche la mitologia dell’ufficio (da Fantozzi in giù) e Renzi non è certo il primo leader a immaginare filtri speciali. Quando Massimo D’Alema si dimise da Palazzo Chigi, gli fu assegnata una stanza in una sede periferica della Camera, a Palazzo Marini. I dalemiani fecero il diavolo a quattro per trovargli uno spazio protetto a Montecitorio. Dopo l’addio alla segreteria del Pd, Veltroni ebbe in dotazione ben tre stanze al gruppo Pd della Camera. Lo stesso fece Bersani, che individuò un “quartierino” personale nell’ala riservata a Sinistra italiana, anticipo della scissione che sarebbe venuta.
Nessun segretario prima di Renzi aveva però sentito il bisogno di spostarsi. La decisione ha stupito anche alcuni renziani. Primo, perché «Matteo» non ama la solitudine, preferisce stare in mezzo agli altri e in realtà molte riunioni le fa in terrazza o nella sala della direzione. Secondo, perché la porta blindata e il videocitofono smentiscono le dichiarazioni dello stesso «Matteo» eletto nel 2014 segretario. «La mia scorta è la gente», disse quando faceva avanti e indietro da Firenze in treno. Certo, in mezzo ci sono i mille giorni a Palazzo Chigi e uno status da ex premier che impone maggiore riservatezza.
Intorno alla stanza blindata circolano poi alcune leggende. Per salire al terzo piano, gli ospiti avrebbero bisogno di un’autorizzazione speciale. E in quell’ufficio si studierebbero le strategie multimediali del segretario, comprese le sue pagine social. Non a caso Alessio De Giorgi, consigliere per il web, ha l’ufficio accanto a quello del leader, unico tra tutti i dirigenti dem.
A sinistra, la superprotezione non è una novità. I segretari del Pci avevano sempre un uomo della vigilanza davanti all’ufficio. Le porte aperte erano invece una caratteristica della Dc. Da Giulio Andreotti che dava udienza agli elettori ciociari (“la corte dei miracoli”) la domenica all’alba in Piazza San Lorenzo in Lucina, a Remo Gaspari, ras abruzzese, che non si fermava neanche in vacanza: riceveva i clientes alla pensione Sabrina di Vasto, lui in bermuda e loro in giacca e cravatta sotto il sole. Altri tempi, meno difficili forse.

Il Fatto 29.6.17
Pur di vincere, il Pd è disposto a perdersi?
di Franco Monaco

Siamo investiti da un profluvio di letture circa la recente tornata amministrativa, ma mi pare si possano fissare con una certa sicurezza due dati: la vittoria del centrodestra e l’esteso astensionismo tra gli ex elettori del Pd. Lasciamo stare le maldestre minimizzazioni renziane (le macchie di leopardo, sic), vecchio vezzo della vecchia politica che, con enfasi, si era giurato di abbandonare. La chiara vittoria del centrodestra – va riconosciuto – dà ragione a chi, come Bersani, da tempo ammoniva a non esorcizzare la “mucca nel corridoio”. Cioè una destra montante che ci si ostina a non vedere, che lievita ovunque in occidente e che, anche in Italia, è il vero competitor delle forze democratiche e progressiste. L’esatto contrario della lettura e della conseguente strategia renziana tutta centrata sull’assunto che il competitor sistemico del Pd sarebbero i 5 stelle, così da catalizzare il voto utile (di sinistra e di destra) per scongiurare la minaccia di un governo grillino. Non un dettaglio, anzi la bussola che ha guidato la politica di Renzi sembra smentita.
In secondo luogo, l’astensionismo che, non da oggi, penalizza il Pd. Cui minoranza interna e Pisapia, pur da postazioni diverse, reagiscono proponendo di arricchire l’offerta politica di un centrosinistra largo, plurale, inclusivo e civico, imperniato su più soggetti. L’opposto della presuntuosa, velleitaria autosufficienza accarezzata dal Pd renziano e sconfessata persino da Veltroni (che in verità ne aveva posto le basi). A tali sollecitazioni il vertice Pd replica infastidito facendo osservare come si sia perso anche laddove ci si è proposti con uno schieramento di centrosinistra. Vero, in parte. Ma prendiamo sul serio l’argomento. Al quale, a mia volta, opporrei due obiezioni. Prima: davvero si può sostenere che, sulla disaffezione dell’elettorato di centrosinistra, non abbiano inciso, assai più delle ragioni locali, politica e politiche (al plurale) intestate al Pd nazionale? A cominciare dai segnali di fumo tra Renzi e Berlusconi a cavallo della discussione su una legge elettorale che manifestamente conduceva a un governo insieme? Seconda obiezione: esibendo una rappresentazione caricaturale del vecchio Ulivo (intenzionalmente confuso con il governo dell’Unione) dai vertici Pd si è respinta l’idea e la prospettiva di un’alleanza di centrosinistra. Domando: quale l’alternativa? Renzi, si è detto, accentui il suo profilo riformista. Traduzione: sostituisca gli elettori di sinistra disamorati con quelli di centro e di destra. Facile a dirsi. Osservo: già ci ha provato e non gli è riuscito; il centrodestra rivela una sorprendente tenuta tra i suoi elettori, a dispetto della disputa per l’egemonia tra Berlusconi e Salvini; davvero Renzi pensa di imitare Macron cui è riuscita una impresa straordinaria proprio perché si è proposto come “altro” e “contro” partiti ed establishment (l’opposto di ciò che rappresenta Renzi), in un sistema costituzionale profondamente diverso? Diciamola tutta: l’unica, reale alternativa alla costruzione di un nuovo centrosinistra sarebbe quella di un patto più o meno dichiarato tra Renzi e Berlusconi che traguarda a un loro governo con l’obiettivo di aiutarsi reciprocamente ad alleggerirsi l’uno della sinistra interna ed esterna, l’altro della egemonia di Salvini. Il Pd è a un bivio: se chiude a un’alleanza con Pisapia, sceglie Berlusconi. Naturalmente – tanto peggio – dopo il voto.
Infine e soprattutto: davvero, pur di vincere, si è pronti a qualunque politica? Non dovrebbe valere il principio secondo il quale, avendo qualche ancoraggio ideale, si cerca certo di vincere, ma si mette nel conto anche di poter perdere, pur di non perdersi? Cioè di vendere l’anima. Mi chiedo se l’astensionismo dilagante, non solo a sinistra, non sia riconducibile proprio allo spettacolo di una politica senza principi, tutta risolta nella contesa per il potere personale o di gruppo.

Il Fatto 29.6.17
Banca Etruria, la Boschi tace sulle 4 domande del Fatto Bugie e omissioni - Dal tentativo di far salvare l’istituto del papà a Unicredit fino ai summit coi banchieri a casa sua: si rifiuta di chiarire 4 questioni aperte
Gli uffici Etruria Maria Elena Boschi Gli uffici Etruria Maria Elena Boschi Gli uffici Etruria Maria Elena Boschi
di Giorgio Meletti e Davide Vecchi

Tra una visita a Vallo di Nera per il mercato Fior di Cacio e un giro al museo Maxxi ad ammirare le opere di Zaha Hadid, il sottosegretario Maria Elena Boschi, dal 20 giugno, non ha trovato il tempo per rispondere a quattro domande che le abbiamo posto in merito al suo interessamento nella vicenda banca Etruria, di cui il padre Pier Luigi è stato vicepresidente fino al commissariamento avvenuto nel febbraio 2015. Boschi senior venne poi indagato per bancarotta fraudolenta e lo è ancora oggi. Da ministro per le Riforme, nel dicembre 2015, Maria Elena sostenne di non essersi mai occupata della banca. In tv, sui giornali e alla Camera dei deputati, di fronte ai suoi onorevoli colleghi, garantì di aver sempre mantenuto una attenta e coscienziosa distanza da ciò che accadeva a Laterina, tra le mura dell’abitazione di famiglia. Come non crederle? Da allora però sono accaduti dei fatti nuovi che hanno minato la credibilità delle sue dichiarazioni.
A inizio maggio, Ferruccio de Bortoli nel libro Poteri forti (o quasi) ha rivelato che nel 2015 l’allora ministro si rivolse al numero uno di Unicredit, Federico Ghizzoni, chiedendogli di intervenire per salvare Etruria. Lei ha annunciato querela. Ma non è ancora stata presentata. Sempre a inizio maggio, l’11 con esattezza, il Fatto ha dato notizia di una riunione a Laterina, a casa Boschi, avvenuta nel marzo 2014. Riunione tra il presidente di banca Etruria Giuseppe Fornasari, i vertici di Veneto Banca, Flavio Trinca e Vincenzo Consoli, il papà del ministro e il ministro. Infine sempre il Fatto, domenica 18 giugno, ha pubblicato una telefonata intercorsa tra Consoli e papà Boschi il 3 febbraio 2015, quasi un anno dopo l’incontro a Laterina.
Il governo Renzi ha appena varato per decreto legge la riforma delle banche popolari che impone loro la trasformazione in società per azioni, Etruria compresa. La banca è prossima al commissariamento (arriverà una settimana dopo), Boschi cerca un salvatore e Consoli si dice disponibile a unire gli istituti, verosimilmente desideroso di acquisire benemerenze presso Palazzo Chigi, tanto che all’ormai amico Pier Luigi chiede di organizzargli un incontro con Renzi. Dal colloquio emerge come l’allora presidente del Consiglio, a dire di Boschi senior, fosse aggiornato. E a sua volta aggiornasse. Il papà del ministro, infatti, rassicura Consoli riferendogli di aver fatto un “passaggio sulla Capitale” e che gli è stato detto che per unire Veneto ed Etruria serve un aumento di capitale garantito dal consorzio, così la Bce dà l’ok. Boschi senior aggiunge pure che “lui”, cioè Renzi, non sarebbe contrario alla fusione. Consoli chiede da chi ha avuto queste informazioni: dalla vigilanza di Banca d’Italia? No, ribatte Boschi, da ambienti “un pochino più sopra”.
L’intercettazione è un sunto contenuto nelle carte relative al procedimento sui vertici di Veneto banca aperto dalla procura di Roma. Gli uomini della Guardia di Finanza sintetizzano: “Consoli in chiusura di chiamata prega il proprio interlocutore (Pier Luigi Boschi, ndr) di far presente al presidente (Renzi, ndr) la propria disponibilità (a un incontro, ndr) ”. Gli incisi fra parentesi sono stati inseriti dalla Gdf. La risposta di Boschi è riportata così come espressa: “Domani in serata se ne parla, io ne parlo con mia figlia, col presidente domani e ci si sente in serata”. La conversazione, come detto, avviene un anno dopo l’incontro a casa Boschi. Un incontro che deve essere stato proficuo, tanto da portare Consoli a fidarsi della famiglia aretina, altrimenti non si rivolgerebbe a loro, saprebbe che Maria Elena esige di non essere coinvolta.
Legittimo ritenere che l’allora ministro non se ne sia disinteressata. A meno che suo padre non sia un millantatore. Delle due una. Come la querela a De Bortoli: o la presenta o no. Semplice. Doveroso chiedere quale è stato il reale comportamento osservato dal ministro. Per questo il 20 giugno abbiamo inviato le 4 domande all’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio e due giorni dopo nuovamente agli uffici di Boschi, seguite da una telefonata da parte del Fatto all’ufficio stampa di Chigi e alla segreteria dell’ex ministro.
Ieri un nuovo giro di telefonate. Ancora senza esito. Ci auguriamo che Boschi trovi il tempo per sciogliere i dubbi sul suo operato. E sulla credibilità della sua parola.

Il Fatto 29.6.17
Prodi: primarie di coalizione senza nessun veto
Schema di gioco - “Ci vuole un programma comune, coi democratici e tutte le forze che ci stanno”
di Giampiero Calapà

Lo schema di Romano Prodi per il futuro del centrosinistra rimane uno e uno soltanto: “L’elaborazione di una base programmatica comune, con il Partito democratico e tutte le forze politiche e i movimenti anche della società civile che ci staranno, senza veti per nessuno, altrimenti salta tutto e si consegna il Paese al populismo”, che sia quello berlusconian-salviniano o grillino. Tutto questo, nella migliore delle ipotesi, dopo l’approvazione da parte del Parlamento di una nuova legge elettorale maggioritaria e uniforme per Camera e Senato. Per concludersi, alla fine, “con primarie di coalizione” non per far fuori Renzi da possibili ritorni a Palazzo Chigi ma per una leadership unitaria. Parole che il Prof ha ripetuto anche al segretario del Pd Matteo Renzi, nei due incontri che hanno avuto recentemente prima delle disastrose elezioni amministrative. Le stesse parole che ha ripetuto ai suoi interlocutori in queste ultime settimane, Pisapia compreso, nel tentativo di tenere unito il centrosinistra.
Per questo motivo le parole, i pensieri e le strategie di Renzi, lette due giorni fa sui quotidiani hanno fatto saltare il Prof sulla sedia. Intanto per esser stato tirato in ballo e accomunato ad altri cosiddetti big, o rottamati, in una sorta di congiura anti-renziana “che non mi appartiene”. E, secondo, per non aver sentito le stesse parole pronunciate da Renzi, appunto, in quei due incontri, dove l’ex premier si è limitato ad annuire e non solo: Renzi riferì chiaramente a Prodi di non avere nessuna intenzione di arrivare a un alleanza post-elettorale con Silvio Berlusconi, non lo ha contraddetto riguardo l’idea della necessità di ritrovare un centrosinistra allargato e unitario, ma se queste sono le vere intenzioni di Renzi per il Prof c’è poco da fare, così ha inteso paventando la possibilità di infilare la tenda canadese nello zaino per recarsi altrove, lontano dal Pd. Concetto, per altro, che aveva già argomentato nell’intervista al Fatto uscita il 5 giugno, giorno in cui in Parlamento saltava la possibilità di una legge elettorale proporzionale che non piacerebbe per nulla al Prof: “Bloccherà il Paese all’ingovernabilità”.
Insomma, Prodi non si spiega il motivo per cui Renzi non abbia colto quelle due occasioni per dirgli in faccia che l’idea di centrosinistra plurale, aggregato con metodo ulivista, per il Pd attuale è finita per sempre. Inoltre tutto questo ha scatenato una serie di reazioni e di retroscena svelati da cui il Prof vorrebbe stare ben lontano.
Ieri mattina, poi, la ricostruzione de La Stampa gli attribuisce l’idea di un “candidato che metta d’accordo tutte le aree del centro-sinistra. Per esempio Enrico Letta”. Ma è da escludere che Prodi pensi a un candidato, fosse anche Letta, per il quale non ha mai nascosto la sua stima.
La sua stella polare finale restano le primarie di coalizione, quindi nessuna benedizione: prima un programma unitario, poi i candidati che abbiano voglia di mettersi in gioco, che rappresentino diverse anime dell’area progressista e poi, solo a quel punto, Prodi deciderà il candidato su cui puntare.

La Stampa 29.6.17
D’Alema perde la sua battaglia e lascia la fondazione socialista
Bruxelles, passa la sfiducia. E lui: “E’ una vendetta”
di Emanuele Bonini

Detto, fatto. Massimo D’Alema è stato ufficialmente sfiduciato e cessa di essere il presidente della Foundation for European Studies (Feps), l’organizzazione delle fondazioni dei partiti che aderiscono al Pse. Lui, secondo alcuni membri, aveva agito contro la famiglia progressista, e ha pagato pegno. La portoghese Maria João Rodrigues assume la guida dell’associazione. Non è servito il tentativo di compromesso dello stesso D’Alema di rinnovo temporaneo del mandato fino a ottobre. L’hanno bocciato in ventidue. Tra questi anche le fondazioni italiane. Non tutte, solo alcune. Il voto è segreto, ma per chi conosce la materia è facile immaginare chi ha contribuito alla caduta dalemiana.
«Temo abbiano prevalso orientamenti condizionati dalla politica italiana. Si sente il profumo della vendetta di qualcuno», il commento di Arturo Scotto, deputato di Movimento Democratico e Progressista, formazione nata da scissioni interne al Pd. Lui, D’Alema, ha preferito invece non commentare e limitarsi a rassegnare le dimissioni dopo la bocciatura in assemblea generale. Quello che aveva da dire lo aveva del resto già detto, respingendo le accuse di chi gliele aveva promesse.
L’assemblea di ieri è stata preceduta da una lettera che di fatto ha sfiduciato D’Alema ben prima del voto. Sette fondazioni (Res Publica, Friedrich Ebert Stiftung, Jean Jaurès, Pablo Iglesias, Olof Palme International Center, Masarykova Demokraticka Akademie e Ideat), poi divenuti sei (i francesi di Jean Jaurès hanno smentito) hanno rimproverato per iscritto la condotta tenuta dal presidente della Feps, considerato «figura chiave» per le scissioni dei democratici in Italia, cosa che mette in competizione i membri nazionali del Pse, indebolendoli. Per questo gli è stato preferito Rodrigues. Oggi è lei il nuovo presidente. Detto, fatto.
Anche l’epilogo della vicenda era scritto. La portoghese è arrivata a Bruxelles da unica candidata alla successione di D’Alema. Dopo il voto che ha respinto il compromesso di quest’ultimo, si sono cercate altre candidatura, ma alla fine l’ha spuntata Rodrigues. Una figura che ha saputo attrarre i consensi necessari a ristabilire un’unità che il mondo delle fondazioni progressiste, numeri alla mano, ha mostrato di non avere. Il voto di sfiducia contro D’Alema ha di fatto diviso l’Assemblea generale: ventidue «no» su quaranta membri è indicativo del clima interno (dove però la sfiducia è passata con il risultato di 22 a 15).
La Foundation for European Studies volta pagina, questo è quello che conta alla luce delle decisioni prese. L’era D’Alema si chiude dopo sette anni, e si apre ora il periodo Rodrigues. L’ex premier e ora anche ex presidente Feps potrebbe adesso lavorare ad un ritorno al Parlamento. Lui stesso ha ammesso che se gli elettori lo vorranno, risponderà alle richieste. Dopo il voto di ieri potrà farlo ancor più libero da impegni.

Repubblica 29.6.17
D’Alema silurato dal Pse. “Una vendetta”
Fallita la riconferma al vertice della Feps, il centro studi delle fondazioni progressiste Ue. Sette soci lo avevano attaccato per la scissione del Pd. Eletta la portoghese Rodrigues. Speranza (Mdp): pagina nera ordita dall’Italia
di Alberto D’Argenio

BRUXELLES. Massimo D’Alema scuro in volto si alza, raccoglie le sue cose, le infila nella borsa, lascia il banco della presidenza e lentamente prende posto in platea. L’ex premier è appena stato silurato dal Feps, l’associazione delle fondazioni del Partito socialista europeo che dirigeva dal 2010. Tutto si è consumato in una giornata, nella sede della Foundation for European Progressive Studies di Rue Montoyer 40, nel cuore del quartiere comunitario di Bruxelles. D’Alema ha provato a resistere fino all’ultimo, ma la votazione è stata chiara: delle 45 fondazioni del Pse 15 si sono schierate con lui, 22 gli hanno votato contro. Una vendetta politica orchestrata da Renzi, diranno poi i suoi compagni di partito di Mdp. Che una tela politica sia stata tessuta nelle ultime settimane è fuori di dubbio, anche se a guidare l’operazione che ha portato alla guida del Feps la portoghese Maria Joao Rodrigues sono stati i tedeschi della Spd, gli spagnoli del Psoe e i socialisti svedesi.
D’Alema era entrato in rotta di collisione con il Pse già ai tempi della campagna elettorale per il referendum dello scorso dicembre. I socialisti europei avevano criticato la sua scelta di schierarsi per il No e la risposta del Lider Maximo era stata netta: si facciano gli affari loro. Nelle scorse settimane sette grandi fondazioni, guidate appunto dai tedeschi, avevano chiesto all’ex premier di fare un passo indietro causa scissione del Pd. D’Alema ha raccolto le forze, sfruttando anche l’appoggio delle fondazioni che lui stesso aveva fatto entrare nella Feps, e ha organizzato la controffensiva che ha preso corpo in una lettera in cui chiedeva che il suo mandato fosse allungato fino a dicembre, in modo da terminare i progetti che aveva lanciato. Infine accusando: «La decisione è legata alla situazione politica italiana, non alle attività della Feps».
Ieri mattina però il bureau non ha appoggiato la richiesta di prolungare il mandato avanzata dal presidente e così, nel pomeriggio, D’Alema ha portato la proposta all’assemblea a titolo personale. Se in sala nessuno lo ha appoggiato apertamente, l’ex capo del governo è riuscito a ottenere il voto segreto, confidando di poter far saltar fuori una maggioranza a lui favorevole dal chiuso dell’urna. Ma è andato sotto lo stesso. Oltre a spagnoli, tedeschi e nordici contro di lui si è schierata anche Eyu, la fondazione del Partito democratico. Per lui avrebbero invece votato i socialisti francesi, l’Istituto Gramsci e le fondazioni Nenni e Giuseppe Di Vittorio della Cgil. Da Roma Roberto Speranza, coordinatore di Mdp, ha attaccato: «Oggi si è scritta una pagina nera della storia del Pse che rappresenta limpidamente la crisi drammatica del socialismo europeo. Si consuma una vendetta politica ordinata dall’Italia». Ma ormai era finita, D’Alema aveva già lasciato, non senza una certa dose di teatralità, il banco della presidenza e l’assemblea aveva già eletto per acclamazione la Rodrigues, ex ministro portoghese e attuale vicecapogruppo dei Socialisti e democratici al Parlamento europeo.

il manifesto 29.6.17
Consultellum
Alla camera. Rinviata a settembre la legge elettorale. Quando sarà troppo tardi
Renzi si tiene stretti i capolista bloccati e vuole la soglia di sbarramento alta al senato. Con il rischio caos

La camera ha deciso, di legge elettorale non si parlerà fino a settembre. Quando sarà ormai troppo tardi per tentare una riforma ordinata del sistema misto lasciato in eredità dal governo Renzi e dal suo fallimento nel referendum costituzionale: due leggi diverse per camera e senato. E la prospettiva di un futuro parlamento senza maggioranza.
L’aria era questa da settimane, ma quando ieri la Conferenza dei capigruppo di Montecitorio si è trovata a dover decidere formalmente sul calendario dei lavori dell’aula, è venuta fuori la richiesta del Pd e dei suoi instabili alleati centristi di rinviare la legge elettorale a dopo l’estate. Settembre, e magari anche settembre inoltrato: il giorno preciso sarà stabilito nell’ultima conferenza dei capigruppo di agosto. Prima della chiusura per ferie.
Ma il quadro è chiaro: perduta la mano di poker sulla legge finto tedesca giocata con Forza Italia e grillini al suo fianco, Matteo Renzi vuole tenersi stretto il sistema ereditato da due diverse sentenze della Corte costituzionale. Quella di fine 2013 contro il Porcellum, mutilato del premio di maggioranza e delle liste bloccate: il sistema residuo è in vigore per il senato. E la sentenza di inizio 2017 sull’Italicum, al quale è stato tolto invece il ballottaggio e la possibilità dei pluricandidati di decidere in quale collegio farsi eleggere, una volta incassata l’elezione da capolista: questo sistema è in vigore per la camera.
A forza di taglia e cuci è rimasto in piedi un proporzionale differenziato, che alla camera mantiene soglie di sbarramento non troppo alte (3%) e un premio di maggioranza all’apparenza irraggiungibile per le liste (sono escluse le coalizioni) fissato al 40% (l’omaggio di seggi arriva fino al15%). Per i pluricandidati plurieletti, il metodo di selezione del collegio rimasto in piedi è quello paradossale del sorteggio.
Per il senato, invece, le soglie di sbarramento ci sono e sono alte: 20% per le coalizioni (permesse e anzi incentivate), 8% per i partiti (a meno che non facciano parte di una coalizione che supera la soglia, in questo caso devono raggiungere il 3%). Non c’è premio di maggioranza. E c’è una preferenza, da raccogliere in una circoscrizione vastissima, grande come una regione.
Due le convenienze di Renzi nel votare con questi due diversi brandelli di leggi elettorali: il mantenimento dei capilista bloccati alla camera e delle soglie elevate al senato. Due almeno gli interventi indispensabili del legislatore, malgrado le sentenze della Consulta siano formalmente auto applicative: il regolamento per l’espressione della preferenza al senato e la garanzia delle pari chance per le candidate donna sempre al senato (obbligo costituzionale). Molti altri sarebbero gli interventi consigliabili, in direzione di quella «omogeneizzazione» delle due leggi richiesta a gran voce dal presidente della Repubblica Mattarella, di certo preoccupato di dover dare un’ordine al prossimo parlamento. Potenzialmente con due leggi e due corpi elettorali diversi (al senato non votano i 18-24enni) potrebbero esserci anche due maggioranze diverse nelle due camere.
Il rinvio e le prevedibili difficoltà di un parlamento che avrà di fronte a sé, in autunno, una complicata sessione di bilancio prima di avviarsi allo scioglimento naturale, lasciano pensare che alla fine sarà indispensabile un decreto elettorale. Decreto che però non potrà intervenire sulla sostanza dei problemi (soglie, premi di maggioranza) ma al più fare i due interventi indispensabili già segnalati.
Nei commenti di ieri, la Lega nord ha gridato allo scandalo per il rinvio a settembre, proseguendo sulla linea che va bene qualsiasi legge elettorale purché si voti subito. Forza Italia, unica a votare contro il rinvio a settembre insieme a Mdp-Articolo 1, ha fatto però notare che i deputati di Salvini non avevano fatto obiezioni durante la conferenza dei capigruppo. «Renzi punta al Consultellum ma la sua è una scelta irrispettosa del parlamento e di Mattarella» ha detto Alfredo D’Attorre di Mdp. red. pol.

La Stampa 29.6.17
“Torinesi, sosteniamo il Museo della Resistenza”
di Beppe Minello

«Il Museo della Resistenza deve continuare a vivere». Lo chiede un nutrito gruppo di intellettuali, politici ed esponenti della società civile come si diceva una volta, quando gli appelli e i manifesti erano moneta corrente nella dialettica politica. Appelli che per colpa o merito dell’alfabeto, vedono quasi sempre Aldo Agosti, lo storico «specializzato» in Togliatti, come primo firmatario e un Zagrebelsky, in questo caso Vladimiro fratello del presidente emerito della Corte Costituzionale, a chiudere. Nomi che danno la cifra e il peso dell’appello che arriva dagli eredi della storia torinese le cui radici affondano nella guerra di Liberazione dal fascismo e dalla guerra. Radici che sono, va da sè, anche quelle del Museo ora minacciato dai continui tagli ai contributi ma, soprattutto, dalla necessità di «ridefinire il ruolo e la funzione del Museo stesso» dice un po’ sconsolato il direttore Guido Vaglio facendo eco ad analoghe esortazioni contenute nella lettera con la quale Pietro Marcenaro ha recentemente rassegnato le dimissioni dalla presidenza. E dunque, tra Agosti e Zagrebelsky, ecco i Bobbio, Caselli i Castellani, Piero Fassino insieme con Novelli e Revelli, i Violante, i Segre, i Migone, Maruffi, Firpo e Sestero. Tutti insieme a rivolgersi alle istituzioni affinchè assicurino le «risorse» al Museo. Appello esteso ai torinesi ai quali chiedono di aderire a una sottoscrizione. Regione e Comune si sono già mossi. La prima, sollecitata da Nino Boeti, del Comitato Resistenza e Costituzione, ha promesso l’immediato stanziamento dei 60 mila euro dovuti (in passato erano 100 mila); l’assessora Leon dice che il contributo (70 mila euro, ma per il 2016) parte oggi, mentre altri 50 mila sono stati inserito nel bilancio 2017.

Repubblica 29.6.17
Hong Kong
I ragazzi del ’97 sfidano Pechino “Noi non saremo mai cinesi”
di Angelo Aquaro

HONG KONG. Hanno incartato perfino la regina Vittoria. Due cartelloni da due metri e mezzo, uno davanti e uno dietro alla sovrana che qui dà il nome a tutta la città, Victoria Peak, Victoria Park. E ovviamente Victoria Bay, la baia dove James Bremer innalzò l’Union Jack nel 1841 e oggi si specchia l’International Commerce Center, il grattacielo più alto, mezzo chilometro di hybris in cui si srotola questa Hong Hong «dalle caratteristiche cinesi». Hanno incartato la regina Vittoria per scriverci sopra «Celebriamo il 20simo anniversario del ritorno alla madrepatria»: e cancellare ogni traccia del passato?
Dicono che l’oscuramento sia l’ultimo trucchetto per presentare a Xi Jinping, che arriva oggi e resta fino a sabato, anniversario del passaggio dalla Corona Inglese al Dragone, una città cinesizzata. «Hanno blindato tutto per quello: vie fortificate, barriere alte così agli angoli delle strade, pur di non fargli vedere la città che protesta», dice a Repubblica Jason Y. Ng, il presidente del Pen, l’associazione degli scrittori, e lui stesso biografo di “Occupy”, la rivoluzione degli ombrelli che provò a chiedere il suffragio universale. È la sfida dei vent’anni: vent’anni sono passati dal passaggio alla Cina, vent’anni hanno i ragazzi che lottano per la libertà. E il capo della rivolta, Joshua Wong, il ragazzino celebrato dal film Teenager vs Superpower, premiato al Sundance festival, ieri è già finito in carcere, urlando «Venite a manifestare il 1 luglio!». Protestava a pochi metri da quell’Hotel Renaissance che finora aveva conosciuto i brividi della folla solo per l’arrivo del due pop russo delle Tatù, e da oggi ospiterà Xi e la first lady Peng Liyuan, in fondo anche lei ex diva, anche se dell’opera di Stato.
La città è sotto stress: 10mila poliziotti possono bastare? La limousine con i vetri antiproiettili è pronta, e sarà sotto lo sguardo dei cecchini appostati dal Convention and Exhibition Center fino alle strade ancora top secret che Xi sfilerà portandosi da Pechino la Troupe 8341, il corpo scelto che Mao Zedong volle a guardia del partito. L’uomo che riunificò la Cina sotto la bandiera rossa non riuscì a vedere il capolavoro realizzato dal suo successore Deng Xiaoping, l’”handover” della colonia più ricca. Un “passaggio di mano” che fu strappato grazie a quel compromesso chiamato One Country Two Systems, Un Paese Due Sistemi, la dottrina che dal 1997 avrebbe dovuto governare l’ex colonia per mezzo secolo. Ma hanno ragione Joshua e gli altri ragazzi a parlare, oggi, di “Un Paese e un Sistema e mezzo”, visto come Pechino sta svuotando la democrazia di qui. E che ironia vedere, proprio mentre si dibatte di One Country, la città assediata dai manifesti che promettono One Republic, intesa come la band Usa che qui suona a settembre – e questa sì unica altra repubblica, altro che quella popolare, che abbraccerebbero i ventenni come Chau Ho-oi. «Ricordo le Olimpiadi del 2008», dice oggi il ragazzo alla Reuters, «e che eccitazione per quelle vittorie. Ma oggi no, non direi mai sono cinese, neppure se me lo chiedeste cento volte».
Anche Chau, per quella cosa che purtroppo non è in palio alle Olimpiadi, la democrazia, è già finito in carcere. E come pensa di dialogare la nuova Hong Kong con la gente come lui? Carrie Lam, la leader che sale al potere proprio il primo luglio, eletta ovviamente per volontà di Pechino, dice che «Io sono cinese» è concetto che va inculcato dalla tenera età, e per questo a scuola arriveranno corsi di cultura e storia cinese: obbligatori. C’era una volta Hong Kong? «Quando cominciarono le proteste ero a studiare all’estero», dice Marco Yan, giovanissimo autore di Hong Kong 20/ 20, antologia di scrittori che il Pen ha fatto uscire giusto in tempo per l’anniversario. «Mi sentivo frustrato: poi ho capito che ognuno manifesta come sa. Io sono troppo timido per scendere in strada: ma chi l’ha detto che con la poesia non puoi sollevare le coscienze? ». Non è retorica: mentre Marco parla un altro dei venti autori di questo libro-manifesto, e cioè quel diavolo di un Joshua Wong, si sta facendo arrestare in piazza. Perché a Hong Kong ci sarà pure chi avrà incartato la Regina Vittoria: ma non sarà mica così facile incartare la voglia di libertà.

Il Sole 29.6.17
Il nuovo volto (cinese) di Hong Kong
Il leader Xi Jinping per la prima volta in visita ufficiale nell’ex città Stato
di Rita Fatiguso

Hong Kong Se c’è un versante sul quale il gigante Cina negli ultimi vent’anni ha picconato muri innalzando avveniristici ponti, connections borsistiche, meccanismi finanziari per favorire la One Belt One Road initiative e l’internazionalizzazione del renminbi, ebbene, è quello della minuscola ex colonia britannica di Hong Kong.
Da oggi, il presidente cinese core leader Xi Jinping inizia il suo primo viaggio ufficiale nella Regione amministrativa speciale, un percorso guidato tra queste meraviglie della tecnica ingegneristica e finanziaria, quasi fosse un feudatario in visita al ricco e lontano latifondo. La visita a Hong Kong è un tassello importante nella strategia personale e politica del presidente Xi Jinping, forse molto più di quanto non lo sia stato per i suoi predecessori.
Domani assisterà al giuramento della nuova Chief Executive, Carrie Lam, organizzato, non a caso, in occasione del ventennale dell’handover.
Chi c’era, a Hong Kong, il 1° luglio del 1997, giorno del passaggio di consegne tra Cina e Gran Bretagna, ricorda un cielo terso punteggiato di nuvole, poi un forte vento e la pioggia e, tra gli italiani, c’è chi ebbe la sorpresa di vedere arrivare i soldati della Repubblica popolare cinese su furgoncini Iveco. Serpeggiava il timore diffuso che l’handover potesse essere traumatico, la corsa dei locali a conquistare un passaporto straniero serviva a garantirsi una via di uscita dall’ex colonia.
I cambi negli ultimi 20 anni
Pechino insiste, in questi ultimi vent’anni il principio «One country two systems» ha favorito la crescita economica e la stabilità.
Se chiedete ai locali vi diranno, con varie sfumature, che il trauma, molto lentamente, si consuma ogni giorno. L’architettura giuridica dei rapporti tra Hong Kong e Mainland China, per quanto opinabile, ha comunque rappresentato un compromesso dignitoso se si guarda alla strada lunga cinquant’anni, tanto quanto durerà l’intera fase di passaggio sottoscritta dalle parti.
La Cina, dal canto suo, nel 1984 firmò la dichiarazione Sino-Britannica che avrebbe creato i presupposti del passaggio delle consegne nel 1997, si impegnava solennemente a rispettare per la durata di 50 anni le architetture economiche e sociali. Ma le incertezze erano molte. La stessa Cina probabilmente aveva bisogno di più tempo per capire cosa fare di sé stessa e, di conseguenza, di Hong Kong. Da allora, forse anche per questo, entrambe le sponde hanno fatto prevalere l’esigenza della stabilità, ma a Hong Kong, nel frattempo, si è allargata la forchetta tra ricchi e poveri. Un Pil che veleggia sul 3,2 e un tasso di disoccupazione al 3,5% non suscitano certamente entusiasmo.
La pressione di Mainland China sulla Regione amministrativa speciale ha indirettamente favorito i boss del real estate, veri arbitri del costo della vita in questo lembo di terra densamente popolato, al quale i cinesi guardano con cupidigia per i più svariati motivi: dal turismo di massa, ai figli da mandare a scuola (possibilmente in quelle internazionali dove si studia anche il «putonghua», la lingua standard cinese e non il cantonese) allo shopping di lusso, alle case da comprare a prezzi proibitivi, agli uffici che non si trovano e, se si trovano, si affittano a peso d’oro, al denaro – sì c’è anche questo e le autorità di Hong Kong di recente hanno puntato i piedi con Pechino sulle difese «anti-money laundering» – da spedire all’estero.
La pressione sugli abitanti
Una pressione enorme per gli abitanti e per le stesse istituzioni che devono trovare altri strumenti per reinventare il modello di crescita, un tasto sul quale si sta pigiando è l’incentivazione di start up innovative, che richiederanno anni per produrre effetti concreti sull’economia locale.
E non è finita. La spallata finale verrà dagli effetti combinati dell’«Hong Kong closer economic partnership arrangement», dalla Stock connection tra Shanghai e Hong Kong (per favorire quotazioni e investimenti reciproci, nel 2015) e, l’anno scorso, anche quella tra le borse di Hong Kong e Shenzhen, per seguire con la GuangDong Hong Kong Macao Great Bay area e il ponte Hong Kong Zhuhai Macao Great Bay ormai agli ultimi ritocchi, all’alta velocità tra SAR e Shenzhen e Guangzhou, l’anno prossimo.
C’è da registrare la crescita dell’Hong Kong hub finanziario, il primo al mondo per «clearing» dello yuan, ma anche quello dell’e-commerce, mentre l’effetto calamita delle IPO cinesi accorcia le distanze ancor di più per finire con l’impatto delle tecniche crossborder per ottimizzare i profitti riducendo i rischi, due elementi essenziali per la One Belt One Road initiative di Pechino.
Ultima arrivata su piazza, l’Aiib, la Banca asiatica multilaterale per lo sviluppo delle infrastrutture nata su impulso di Pechino nella quale Hong Kong, a marzo, è entrata in via autonoma, sottoscrivendo quote di capitale consistenti, a tutto beneficio delle prossime mosse sul versante infrastrutturale asiatico.
Forse è presto, dunque, per tirare le somme su cosa ne sarà di Hong Kong. Mainland China punta con forza all’integrazione, grazie a opere monumentali anche rispetto all’entità dei reciproci rapporti commerciali, raddoppiati due volte e mezza in quanto a volumi, ma pur sempre relativi alle dimensioni dei due protagonisti. Per non parlare del fiume di turisti cinesi, pari ormai a sei volte la consistenza della popolazione residente.
In questi giorni la visita all’ex colonia diventa per il presidente Xi Jinping, in vista del prossimo strategico 19esimo Congresso del partito di novembre, un elemento chiave per rafforzare la sua immagine di leader di una sola Cina in cui i due sistemi diventano sempre più difficili da distinguere l’uno dall’altro.
E in cui il Governo di Hong Kong deve in ogni caso ricevere l’imprimatur dello State Council e gli elettori sottoposti a un vaglio individuale da parte delle autorità di Pechino. Ecco, in questo contesto, proteste e manifestazioni non saranno ammesse (ma ci sono già state in questi giorni) e il controllo del territorio, com’è noto molto frastagliato e, per questo, difficile da presidiare, dovrà essere garantito palmo a palmo. Le immagini della protesta di piazza che paralizzò Hong Kong per settimane sembrano, almeno per il momento, confinate in archivio.

Repubblica 29.6.17
Restituite l’arte rubata
A Kassel “documenta 14”, celebre esposizione dedicata alla creatività contemporanea, rilancia il tema dei tesori sottratti agli ebrei dai nazisti, partendo dall’affaire Gurlitt Ma c’è chi critica la doppia morale verso i furti sovietici
di Tonia Mastrobuoni

BERLINO L’idea originaria dei curatori di “documenta 14” — l’edizione 2017 della grande esposizione d’arte contemporanea che si svolge a Kassel, in Germania — era quella di riflettere sull’arte confiscata dai nazisti esponendo le opere ritrovate nelle case di Cornelius Gurlitt. La storia è nota: su un treno per Monaco, sei anni fa, la polizia perquisisce un anziano nullatenente e gli trova 9.000 euro cuciti nella giacca. Qualche tempo dopo, insospettiti da quello strano caso, gli agenti fanno irruzione
nel suo appartamento di Monaco e trovano, in mezzo a tonnellate di immondizia, il più grande tesoro d’arte del secolo. Mille e cinquecento capolavori che spaziano da Picasso a Klee, da Matisse a Rodin, confiscati durante il regime nazista agli ebrei. Oppure, in quanto “arte degenerata”, ai legittimi proprietari.
Quelle miriadi di opere dal valore inestimabile sono finite, negli anni delle persecuzioni naziste, al padre di Cornelius, il “mercante di Hitler” Hildegard Gurlitt. Dopo la guerra l’amico intimo di Hermann Goering le dichiara disperse nel celebre incendio di Dresda. Il figlio Cornelius, dopo la morte del padre avvenuta nel 1956, mantiene il silenzio più totale su quel tesoro e ne vende di tanto in tanto un pezzo per mangiare o curarsi, insomma per sopravvivere. Fino all’incredibile scoperta del 2011.
La storia di quei quadri, per certi versi, è appena cominciata. L’impresa di rintracciarne i legittimi proprietari è titanica. E l’idea dei curatori di “documenta 14”, vista l’impossibilità di esporre direttamente gli scippi di Gurlitt, è stata quella di mettere in evidenza l’immenso dramma della restituzione. Un tema in parte delegato all’artista tedesca Maria Eichhorn, che ha lanciato il progetto “Rose-Valland- Institut”. Lo scopo dichiarato è quello di indagare «sulle confische ai danni della popolazione ebraica e sulle conseguenze fino ai giorni nostri» di qualsiasi oggetto strappato di mano ai legittimi proprietari durante la dittatura di Hitler. L’appello provocatorio è dunque quello di fornire informazioni su oggetti ma anche su beni confiscati o proprietà sequestrate dai seguaci di Hitler a un apposito “istituto” che Eichhorn ha istituito fino al 17 settembre, cioè fino all’ultimo giorno di “documenta 14”, alla Neue Galerie di Kassel.
Proprio il caso Gurlitt dimostra quanto sia disperante l’impresa di risalire alle famiglie espropriate. La commissione creata ad hoc con diciassette membri e trenta esperti esterni, dopo due anni di ricerche su 499 opere in odore di confisca, ha presentato un bilancio magrissimo, all’inizio del 2016. Sono appena undici le provenienze dei quadri in mano a Gurlitt chiarite con certezza. Al di là di alcuni casi clamorosi che hanno riempito le prime pagine dei giornali come la restituzione del Ritratto di signora di Henri Matisse ad Anne Sinclair, ex moglie di Dominique Strauss-Kahn, o La Seine, vue du Pont- Neuf, au fond le Louvre di Camille Pissarro che è stato riconsegnato ai discendenti di Max Heilbronn, un uomo d’affari parigino a cui il quadro fu sottratto nel 1942, il lavoro da fare per rintracciare le origini di quelle opere dal valore incommensurabile sembra ancora lunga. Il prossimo inverno, intanto, Bonn dovrebbe esporre la prima mostra del lascito Gurlitt.
Nel frattempo, sul caso si è innescata una polemica più ampia. Non è un caso, argomentava ieri la storica dell’Est Europa Corinna Kuhr-Korolev dalle colonne della Frankfurter Allgemeine Zeitung, che i beni sottratti nei Paesi occupati dai nazisti a Est occupino un ruolo marginale nel progetto di Maria Eichhorn. «È tipico — polemizza — di un certo modo di intendere i furti d’arte perpetrati dai nazisti che viene portato avanti dagli anni Novanta ». Quella delle opere rubate dai tedeschi nell’Est e, viceversa, dai soldati sovietici nella Germania liberata è una storia a sé, poco indagata. Dal punto di vista terminologico si è adottata una distinzione tra «arte confiscata dai nazisti» e «arte saccheggiata », sostiene.
Il primo termine riguarda anche, nello specifico, i beni sottratti «illegittimamente a proprietari ebrei». L’«arte saccheggiata», invece, descrive i trofei che i soldati sovietici portarono nell’Urss dopo la fine della guerra. Negli anni Novanta è cominciata una trattativa per trovare un accordo su quei furti di guerra, ma nel 1997 il negoziato si è insabbiato. Da parte russa ci si è irrigiditi su un punto di vista storico e si considerano i trofei saccheggiati dai sovietici in Germania come una sorta di compensazione per l’arte rubata dai soldati nazisti nei territori occupati al di là dell’Oder. In Germania si continua invece a considerare la questione dal punto di vista giuridico.
Un saccheggio, quello a Est, che non riguardò solo i tesori dell’arte. Come dimostrano alcune testimonianze d’epoca come il Diario di una collaborazionista di Lidia Ossipowa, in cui vengono descritti gli scambi osceni proposti dai soldati tedeschi alle popolazioni dell’Est Europa ridotte alla fame più nera. A Puskin, dove Ossipowa raccoglieva le sue impressioni, mille persone morirono di fame soltanto nell’inverno tra il 1941 e ’42. Le camicie brune, è scritto nel diario, «comprano soprattutto oro e