mercoledì 28 giugno 2017

SULLA STAMPA DI MERCOLEDI 28 GIUGNO
http://spogli.blogspot.com/2017/06/sulla-stampa-di-mercoledi-28-giugno.html

Corriere 28.6.16
«Esenzioni alla Chiesa? Aiuti di Stato»
di Andrea Ducci

Tutto origina da una causa per 24 mila euro. Un importo relativamente modesto, se paragonato all’effetto economico che potrebbe innescare sui beni della Chiesa cattolica, finora beneficiati da esenzioni fiscali. A segnare la discontinuità è una sentenza della Corte di Giustizia Ue, stabilendo che l’esonero fiscale accordato alla Chiesa, se correlato ad attività economiche, si configura come un aiuto di Stato, quindi vietato dalla Ue. Il caso nasce dalla richiesta di esenzione di un’imposta di 24 mila euro per la ristrutturazione di una scuola cattolica di Madrid, che si era vista rifiutare l’esenzione dalle autorità tributarie spagnole. Di qui il ricorso alla Corte Ue, che ha valutato come aiuto di Stato l’esenzione fiscale per la scuola poiché connessa ad un’attività economica.

Repubblica 28.6.17
“A Rodotà garantito il diritto di non soffrire”
di Caterina Pasolini

il caso. i medici ringraziati su facebook dalla figlia del giurista: la legge sulle cure palliative è anche merito suo
ROMA. «Lo hanno aiutato a stare bene e ad andare via senza star troppo male. Sono stati bravissimi, affettuosi, simpatici. E Stefano, che ha passato la vita a lavorare su e per i diritti degli altri, ha trovato chi garantisse a lui un diritto a cui teneva, quello a morire con dignità. Grazie». Così ha scritto su Facebook Maria Laura Rodotà, parlando dei medici, Giandominik Bossone e Alessandra Pieroni, «arrivati nella nostra vita mentre cercavamo di sfuggire a vari personaggi della sanità romana che all’Alberto Sordi-dott. Guido Tersilli chiaramente si ispirano». I dottori che hanno accompagnato gli ultimi giorni di Rodotà, lavorano alla fondazione Sanità e ricerca che nella capitale ha un centro convezionato di cure palliative e da quasi 30 anni assiste in hospice 30 malati terminali, pazienti colpiti dai sla, Alzheimer, 120 nelle loro case. Italo Penco ne è direttore sanitario, ma soprattutto è presidente dell’Associazione nazionale Cure Palliative.
«Morire come Rodotà, con dignità, senza soffrire, nella propria abitazione è un diritto. Rende sereni le famiglie e il malato. E lo Stato spende meno rispetto ai ricoveri ospedalieri. Eppure ancora molti lo ignorano, non sanno che nel 2010, anche grazie a Rodotà, è stata approvata una legge sulle cure palliative per i malati terminali». Cure gratuite, anche a domicilio, che non si occupano solo del dolore, ma affrontano tutti i bisogni fisici, psicologi del malato. «Si cerca una risposta giusta rispetto ai suoi desideri: perché c’è chi vuole andarsene dormendo e chi preferisce essere lucido sino alla fine» racconta il professore che però denuncia lacune. Le cure palliative dovrebbero essere accessibili negli ambulatori, nelle case, negli ospedali, e invece sono diffuse a macchia di leopardo, anche per mancanza di finanziamenti. E alle carenze finanziarie si sommano quelle mediche. «Manca una parte fondamentale della formazione: oggi non si insegna in università a comunicare al paziente terminale. Spesso gli si nasconde la diagnosi e invece solo dando il quadro reale, le prospettive, le opzioni, lo si lascia libero di scegliere come andarsene» sottolinea Penco. Che trova equilibrata la legge sul biotestamento «perché responsabilizza il sanitario a fare un percorso col malato». E l’eutanasia? «Non c’entra con le cure palliative, ma so per esperienza il paziente a cui si garantiscono assistenza, assenza di dolore o disagio, non chiede di morire».

Corriere 28.7.16
Francia
La scomparsa dei socialisti
di Stefano Montefiori

PARIGI Comincia la XV legislatura, e all’Assemblea nazionale scompare il gruppo parlamentare socialista. I deputati ci sono ancora, sono trentuno, guidati dal 48enne Olivier Faure già autore 10 anni fa di Ségo, François, Papa et moi , racconto — a fumetti — della famiglia Hollande e della sfortunata candidatura Royal all’Eliseo. Ma il punto è la parola «socialista», che dall’inizio della Quinta Repubblica nel 1958 è sempre stata protagonista dei lavori parlamentari, e non poche volte in posizione di maggioranza assoluta.
Nella scorsa legislatura, quella della presidenza Hollande, i socialisti all’Assemblea nazionale erano 295, avevano ottenuto il 51% dei voti e il loro gruppo si chiamava «Socialista, ecologista e repubblicano». Ieri sono entrati al Palais Bourbon 264 deputati in meno, dopo avere conquistato solo 5% dei voti, e quei pochi hanno preso atto della fine di un’epoca.
«Nouvelle Gauche» è il nuovo nome, «perché ricorda chi siamo noi, la Gauche — dice il capogruppo Faure —, e il fatto che crediamo ancora nella divisione sinistra-destra». «E poi, vogliamo rinnovare la sinistra, rifondarla».
L’intento sarebbe quello di aprire il gruppo ad altre sensibilità politiche, e il nome piuttosto generico vorrebbe agevolare questo processo. Il paradosso è che altri deputati della stessa area hanno preferito unirsi al gruppo «progressista» o a quello della République En Marche, il movimento di Macron. Così «Nouvelle Gauche» comprende solo socialisti, che però non hanno più il coraggio di rivendicarsi tali. Il Partito socialista francese non è nuovo a tracolli elettorali, come quello del 1993 quando conquistò solo 57 deputati (comunque quasi il doppio rispetto a oggi). E si è dimostrato capace di risorgere, per esempio con il governo Jospin del 1997. Stavolta però la crisi sembra più profonda, e lo dimostra lo stesso nome «Nouvelle Gauche», uguale a quello di una corrente fondata quasi 25 anni fa da un allora giovanissimo Benoît Hamon, il candidato socialista alle ultime presidenziali (6,36%). Già allora si parlava di «Nuova Sinistra», e «Per una Nuova Sinistra» si intitolava pure il libro, scritto nel 1996 dall’ultimo segretario Jean-Christophe Cambadélis. La «Nouvelle Gauche» rischia di arrivare all’appuntamento già vecchia.
Per adesso solo il gruppo parlamentare ha cambiato nome, il Parti Socialiste resiste in attesa di capire quale direzione prendere. Sabato Benoît Hamon fonderà un movimento rivolto a «socialisti, ecologisti e democratici». Ma tanti sono convinti che «il Partito socialista è morto», come ha dichiarato l’ex premier Manuel Valls da ieri «apparentato» al gruppo dei macroniani. Dagli ecologisti viene il nuovo presidente dell’Assemblea, François de Rugy, che invece di pensare alla rifondazione della sinistra è passato a La République En Marche.

Repubblica 28.7.16
Chi va solo è condannato a perdere
di Massimo Giannini

È GIÀ successo altre volte, nel lungo ventennio berlusconiano. Da qualche parte arriva una “valanga azzurra”, e a sinistra restano solo macerie. Com’era purtroppo prevedibile, questo Pd non regge l’urto della sconfitta alle amministrative. Doveva essere la grande casa comune dei riformisti, si è ridotto a un campeggio rissoso dove si litiga per una tenda. Quella di Romano Prodi, che aveva piantato la sua “canadese” vicino al Partito democratico e ora annuncia di averla riposta nello zaino per andarsene altrove.
Può sembrare una schermaglia qualunque, a chi ha una famiglia da mantenere o un mutuo da pagare, un’azienda da gestire o un lavoro da trovare. Ma la polemica sulla tenda del Professore è invece il drammatico punto di caduta finale per una sinistra che non sa più chi è, non sa più che dire e non sa più cosa fare. È un problema gigantesco, irrisolto e ogni volta rimosso. Che interroga prima di tutto il Pd. Che incrocia certamente la confusione sulle alleanze. Ma che riflette un horror vacui più
generale.
QUELLO di un partito senz’anima. E quello di un Matteo Renzi che (come cantava il poeta) «non sa dove andare, comunque ci va». Lo deve ammettere persino Giuliano Ferrara, il suo biografo più entusiasta: il Royal Baby è diventato Royal Boh.
Cosa insegnano le amministrative? Una cosa su tutte (e a prescindere dalle virtù del maggioritario a doppio turno). I poli possono vincere solo se costruiscono coalizioni. Fare “alleanze tra simili” è una condizione minima: non sempre sufficiente, ma senz’altro necessaria. Vale per il centrodestra, che è già tornato ad essere un elettorato (si rivede qualcosa dei 6,2 milioni di voti evaporati nel 2013), ma non è ancora un’ipotesi di governo (Berlusconi e Salvini si “elidono”). Ma vale ancora di più per il centrosinistra, che non è più un’ipotesi di governo (Renzi non ha i voti, gli altri sono divisi) e non è più un elettorato (fallisce lo sfondamento al centro e non si mobilita più neanche per i ballottaggi, tanto che il Pd ne perde 48 su 77).
Con questi numeri e con il sistema proporzionale delle politiche, chi va da solo non va da nessuna parte. Ripensare la strategia delle alleanze è dunque l’unico modo per uscire dalla palude italiana. Per questo, dopo la disfatta di domenica, sarebbe stato lecito aspettarsi un passo deciso in questa direzione. Renzi, asserragliato nella sua Fortezza Bastiani, ha imboccato la strada opposta. Premessa in politichese: «Un voto a macchia di leopardo», mentre visto il trionfo del Cavaliere è stato semmai «a macchia di giaguaro ». E poi svolta isolazionista: «Lo schema di Prodi e Pisapia l’abbiamo usato a Genova e non ha funzionato». Quindi basta coalizioni e basta “ammucchiate” tipo Unione del 2006. Anche alle elezioni nazionali «conviene che il Pd vada da solo».
Una linea incomprensibile. Se il Pd perde anche dove si allea con le forze alla sua sinistra, forse, è proprio perché quelle alleanze appaiono per quello che sono: una mossa tattica estemporanea, non un’opzione strategica e “strutturale”. Una coalizione significa condivisione, non costrizione: implica una scelta di campo politico-culturale, che il Pd deve fare “a priori”. Non il giorno dopo lo strappo del “patto extra- costituzionale” sul sistema tedesco, passando in un amen dall’abbraccio mortale con Berlusconi alla mano tesa con Pisapia. È chiaro che l’elettorato non capisce e non apprezza. Così non si riscaldano i cuori, si confondono i cervelli.
Ma è anche una linea autolesionistica. In un partito che non ha più coscienza di sé, che bisogno c’è di gettare sale sulle ferite vecchie di chi (come Orlando e Cuperlo) ha resistito al canto delle sirene scissioniste, o di aprire una ferita nuova persino con Franceschini? Ma soprattutto, in un partito che non ha più memoria, che bisogno c’è di irridere l’unico leader di un centrosinistra che ha vinto davvero due volte contro il Cavaliere? La rabbia di Prodi che annuncia il “trasloco” immediato della sua tenda è il minimo che possa accadere. Renzi spazza via in un attimo due settimane di lavoro del Professore, che col suo Vinavil ulivista prova a rimettere insieme i cocci della sinistra. E arricchisce così la sua “collezione” di nemici, che ormai ha esteso ovunque tra il popolo e le élite.
Qual è la logica? Qual è l’approdo? Nessuno lo spiega. E l’incertezza alimenta i soliti sospetti. E cioè che nello sbandamento totale della fase Renzi e Berlusconi (per non farsi risucchiare dagli “opposti estremismi”) vedano come unico sbocco condiviso quello di camminare da soli oggi, per governare insieme domani. Sarebbe una sciagura.
Per i modi e i tempi con i quali si è consumata, la scissione di Bersani- D’Alema-Speranza è stata un altro tragico errore. E quello nel quale si batte il generoso Pisapia, tra inaccettabili personalismi e insopportabili anacronismi, è un Campo di Agramante, più che Progressista. Ma è pur sempre da lì, da quella terra riarsa dalla globalizzazione e dalle disuguaglianze, solcata dalle paure e dalle migrazioni, che il centrosinistra deve ripartire. Ed è in quel cantiere socio-politico, attraversato da tante contraddizioni, che il Pd deve ricostruire la sua “vocazione maggioritaria”, obiettivo ben diverso dall’autosufficienza.
Certo, per farlo servono prima di tutto un progetto, e un’idea di Paese. E ha ragione Renzi a dire che litigare su «coalizioni, Unioni bis o caminetti» non aiuta. Ma un sospetto dovrebbe sfiorare il segretario. Se si litiga su tutto questo, evidentemente, è proprio perché mancano un progetto e un’idea di Paese. Lo ha detto Walter Veltroni, nell’intervista a Repubblica di ieri: il partito democratico non ha più un’identità. Ha perso la voglia di parlare ai più deboli, e di condividerne il disagio e l’insicurezza. Non ha saputo coniugare la modernità del suo dinamismo culturale con la radicalità del suo riformismo sociale. Se e quando riuscirà in questa impresa, la Coalizione verrà di conseguenza. Di sicuro non sarà Grande. Ma magari tornerà a vincere.

Repubblica 28.6.17
Nel Pd l’ora della rivolta contro Renzi Prodi: “Sposto la tenda più lontano”
I fondatori criticano il segretario. La risposta di Guerini: “Stiamo calmi” E il leader insiste: “Basta parlare di coalizioni, io ho vinto le primarie”
di G. C.

ROMA. Dopo la sconfitta ai ballottaggi, Renzi finsce sotto assedio. A contestarlo sono proprio i fondatori del Pd: Romano Prodi, Walter Veltroni, Dario Franceschini.
È una giornata difficile quella di ieri per il segretario dem, più che mai convinto che discutere della coalizione con la quale andare alle elezioni sia «artificiale» e tutto sommato inutile: «Abbiamo un anno di tempo, non continuiamo a dibattere di cespugli e cespuglietti, altrimenti violiamo la possibilità della politica di affrontare i temi reali ». E che su Facebook reagisce: «Noi abbiamo vinto le primarie con quasi due milioni di partecipanti. Ma se invece qualcuno vuole riportare le lancette al passato quando il centrosinistra era la casa delle correnti e dei leader tutti contro tutti, quelli che al mattino stavano in consiglio dei ministri e al pomeriggio in piazza a manifestare contro il governo, noi non ci siamo».
Prodi la prende malissimo. Soprattutto per le parole di Renzi in un’intervista al “ Quotidiano nazionale” in cui riferendosi all’ex premier, a Orlando, Pisapia e Bersani giudica «i migliori amici del Berlusca proprio i suoi nemici», quelli che si erano preparati tra l’altro a dire che «vince solo la coalizione di centrosinistra ». Il Professore ribatte: «Se Renzi mi invita ad allontanare la tenda, lo farò senza difficoltà: la mia tenda è molto leggera. Intanto l’ho messa nello zaino». Mentre i renziani si affannano a smentire e a rassicurare che nessuno ha mai voluto allontanare il “padre fondatore” del Pd, si abbatte su Renzi la critica del ministro Franceschini che del segretario è stato grande elettore alle primarie e sostenitore. Come Renzi all’indomani delle amministrative ha twittato la torta dei Comuni del centrosinistra (67) e del centrodestra (59) per dimostrare che non si è poi trattata di una débacle, anche Franceschini twitta un grafico. Ma è quello dell’andamento in picchiata dei consensi al Pd nel 2012 e nel 2017, con il commento: «Bastano questi numeri per capire che qualcosa non ha funzionato? Il Pd è nato per unire non per dividere il centrosinistra». Dal Nazareno, Lorenzo Guerini dà un ruvido consiglio a Franceschini: «Stia calmo...». È un «linguaggio da bar»: per il Guardasigilli Andrea Orlando, leader della minoranza che ieri ha riunito la sua corrente e promette: «Saremo una lobby per costruire il centrosinistra ». Attacca Gianni Cuperlo, esponente di Sinistra dem: «C’è bisogno di una leadership che unisca, Renzi non lo fa».
Nel Pd lo scontro si allarga. Il segretario torna sui suoi cavalli di battaglia: le riforme, i problemi concreti da risolvere. «Gli iscritti, i militanti, gli amministratori non meritano le polemiche del gruppo dirigente nazionale». Aggiunge: «A chi ci fa l’esame del sangue per capire quanto siamo di sinistra, rispondiamo che stiamo facendo le cose giuste». Per la conta rimanda alla direzione del 10 luglio.

Repubblica 28.6.17
l leader: “C’è chi vuole isolarmi”. Il Prof: lui una causa persa, rinuncio a fare da collante
La paura dei renziani “Congiura anti-Matteo”
Goffredo De Marchis

ROMA. «Mi raccomando: Occidentali’s karma», scrive Matteo Renzi ai fedelissimi nel giorno dell’attacco massiccio contro di lui. Come dire: mantenete la calma, atteggiamento zen. Eppure sia lui sia i suoi generali sono fiumi in piena. E la furia dell’acqua corrisponde a quella dell’anima. «Non vedo una sola analisi che spieghi quello che è successo alle amministrative. L’unica lettura è l’ostilità e il tentativo di isolamento nei confronti del Pd», dice il segretario ai collaboratori. Tradotto: farlo fuori dalla politica, indebolirlo fino allo stremo, altro che salvare il Partito democratico.
La posizione del leader e dello stato maggiore viene sintetizzata
nelle parole taglienti del presidente dem Matteo Orfini: «Ci vogliono costringere a discutere di alleanze e di centrosinistra solo per fare un piacere a loro e a chi ha perso il congresso. In pratica per sei mesi dovremmo fare la campagna elettorale a Pisapia che nessuno conosce e che a occhio non ha nemmeno i voti per entrare in Parlamento. Anzi, non a occhio, perché se non sbaglio la lista Pisapia a Milano ha preso il 3 per cento. Con tutto che portava il nome dell’ex sindaco. Tutto questo non succederà». Un messaggio chiaro a Andrea Orlando e a Dario Franceschini.
Non sono dichiarazioni zen, ma hanno il pregio della chiarezza. La porta di Largo del Nazareno resta chiusa. Anche se i pacificatori disegnano un altro scenario: «Cacciare Renzi non è possibile. È possibile invece immaginare un’alleanza come dicevamo fin dall’inizio, che vada da Calenda a Pisapia benché alla fine di un percorso. Noi costruiamo il nostro, loro ne costruiscono un altro. Alla fine troveremo il punto di incontro. Ma diciamo basta alle geometrie politiche».
Quelle geometrie portano a un solo risultato: mettere in discussione la candidatura a premier di Renzi. Di più: costringerlo a rinunciarvi in partenza. Il segretario dice ai fedelissimi di non occuparsi di Dario Franceschini, con il quale è furibondo (lo fa solo Ernesto Carbone esprimendo il pensiero di Renzi), ma di tenere il filo con Romano Prodi. Sebbene Renzi lo consideri a tutti gli effetti un protagonista della “congiura”, uno degli attori principali della spallata. Il Professore però fa sapere che non ingranerà la retromarcia. Alla sua nota durissima, aggiunge poche considerazioni, altrettanto ultimative nei confronti di Renzi: «Prendo atto e rinuncio a fare il collante, il Vinavil. Non funziona, è una causa persa e a me non piacciono queste cause». Significa che uscirà dal Pd? Risposta velenosa: «Non si può abbandonare un partito al quale non si è iscritti da 3 anni ».
Prodi giura anche che fino alla fine rimarrà neutrale tra Renzi e Pisapia, ma la sua nota fa saltare il tappo che Walter Veltroni aveva anticipato nell’intervista a Repubblica. Ricapitolando, emerge il quadro di un vero smottamento del Partito democratico. Veltroni, Prodi, Franceschini e Piero Fassino che ne condivide il giudizio e l’analisi. Sono i padri fondatori del Pd e, guarda caso, anche interlocutori privilegiati del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. A loro va aggiunto Nicola Zingaretti (che sabato andrà alla manifestazione di Piazza Santi Apostoli), partner di tutta l’area vicina al premier a Roma e nel Lazio. Defilato ma attentissimo, rimane Enrico Letta. Anzi, i renziani considerano l’”esule” del Pd la vera carta nel mazzo di Prodi, sempre che il Professore sia solo un king maker e non giochi una sua partita. Alcuni raccontano di un incontro molto importante avvenuto qualche giorno fa tra il Professore e l’ex premier al quale era presente anche Arturo Parisi. In questo modo, l’accerchiamento è completo.
La situazione è molto complicata, anche se i fedelissimi di Renzi dicono che «Matteo se lo aspettava e tra un paio di giorni la tempesta rientrerà». Il contrario di ciò che pensa un prodiano di peso, con una certa memoria storica: «Questa fase mi ricorda il centrodestra nel 2007 alla vigilia della crisi del governo di Romano. Un bel giorno Berlusconi salì sul predellino, s’invento il Pdl e sconvolse la politica». Ma chi può essere l’uomo del predellino a sinistra, chi ha la forza che aveva allora il Cavaliere?
L’isolamento di Renzi, al di là delle dichiarazioni di facciata, appare oggi un dato di fatto. Non basta la scelta zen a mascherare l’arrabbiatura del segretario. Gli attacchi disorientano gli elettori, come dice Renzi, ma minano la stabilità del gruppo dirigente. Graziano Delrio ammutolisce quando gli mostrano la dichiarazione di Prodi. È un brutto colpo per chi crede nella stagione ulivista ma è un renziano convinto. Agli amici il ministro delle Infrastrutture indica una via d’uscita: «Diciamo subito di sì alle primarie con Pisapia. Sono sicuro che le vincerà Matteo. Una nuova legittimazione non è lesa maestà e non può fargli male». È una scelta. Da fare a prescindere dalla legge elettorale, dalle coalizioni sì o no. Anche perché se qualcuno spera che, attaccato su tutti i fronti, Renzi faccia un passo indietro «non lo conosce — dice Delrio — . Non ci credo nemmeno se lo vedo». In questo modo la guerra è appena iniziata.

Repubblica 28.6.17
Dario Franceschini
Il ministro, azionista di maggioranza del partito chiede al leader “un confronto serio: i numeri del voto parlano di un smacco”
“Nati per unire non per dividere si è rotto qualcosa col Paese così ci consegniamo a Grillo”
di Carmelo Lopapa

ROMA. «Quando perdi vuol dire che si è rotto qualcosa con il tuo elettorato, con il Paese, e devi capire cosa. Devi ricucire. I numeri di questa tornata amministrativa purtroppo parlano chiaro. Qui non ci troviamo solo di fronte a una sconfitta politica del centrosinistra, ma a un bivio. Che riguarda non solo noi, il Pd, il nostro campo, ma i destini del Paese nei prossimi anni. E su questo punto nel Partito democratico si deve aprire un confronto franco, senza ambiguità. La via da intraprendere non può essere che quella della ricomposizione del centrosinistra». Metà pomeriggio, al ministero della Cultura di via del Collegio Romano, a due passi dal Pantheon, Dario Franceschini è nel suo studio in maniche di camicia, fuori Roma è arroventata. Il tweet lanciato poco prima dall’ex segretario, cofondatore nonché “azionista” di maggioranza del partito, ha avuto l’effetto del macigno, più che del sassolino, nello stagno dem.
Imputa al leader il mancato riconoscimento della sconfitta, ministro Franceschini?
«Qui non è solo un problema di mancato riconoscimento della sconfitta. I numeri purtroppo ci consegnano il resoconto di una scacco non solo del centrosinistra, ma anche del nostro partito. Detto questo, il tema è più ampio e ci interroga ben oltre i confini del nostro campo. E non possiamo procedere oltre, far finta di nulla».
Lei che idea si è fatto della débâcle?
«Il dato che emerge è che il centrosinistra perde principalmente perché il suo elettorato ha imboccato la strada dell’astensione. Anche se la coalizione formalmente era unita, agli occhi dei nostri elettori politicamente non lo è più. C’è un fenomeno strutturale più profondo. Il populismo è entrato trasversalmente e prepotentemente negli schieramenti politici, tutti. E noi stiamo perdendo contatto con i ceti sociali che sono stati da sempre la base del nostro consenso. Ecco, tutto questo impone una riflessione in tutta chiarezza».
La rottura con Bersani e D’Alema è assai recente, avrà pesato anche quella.
«Abbiamo alle spalle le scissioni, i contrasti, le polemiche, questo ha influito, certo. Ma non può trasformarsi in un alibi. Bisogna fare un’analisi profonda di quanto avvenuto e voltare pagina».
Dice che Renzi farebbe bene a mettere da parte i veleni e aprire quella che Veltroni chiama una stagione nuova?
«Sia chiaro: io ho sostenuto Matteo Renzi segretario, l’ho sostenuto nell’azione di governo. Nei momenti positivi e in quelli negativi, come all’indomani della sconfitta al referendum e della dolorosa scissione nel Pd. Ne ho condiviso le scelte, talvolta tacendo dissensi. Proprio per quel che è stata la mia storia e la mia lealtà, con lui ho il dovere della schiettezza».
Pensa sia possibile convincere Renzi a tornare a dialogare con D’Alema?
«Non sto parlando di persone con cui andare in vacanza. Quelle per fortuna si scelgono. Sto parlando di ricostruire un campo politico. Sono quelle le forze politiche che hanno sostenuto i governi Letta, Renzi e infine Gentiloni. È il tradizionale campo del centrosinistra ».
Sedersi a un tavolo con Pisapia e con Mdp, insomma?
«Sia chiaro. Io non do nessuna giustificazione a chi ha deciso di uscire dal partito. Capisco bene che ricomporre un campo attraversato da lacerazioni sia molto difficile. Però chi guida il Pd deve lavorarci, deve fare uno sforzo di ricomposizione. Sarà decisivo per riconquistare il consenso perduto e tornare a vincere. Gli esempi di Giuseppe Sala a Milano e di Leoluca Orlando a Palermo, che hanno vinto ricomponendo un campo, pur in due realtà molto diverse, sono illuminanti».
È il senso dell’ultimo appello
lanciato anche da Prodi e Veltroni.
«Esattamente quello: il Pd è nato per unire, per superare le divisioni. Torniamo alla nostra missione originaria. Non regaliamo il Paese a Grillo o alla destra.
Faccia capire, concretamente da oggi Matteo Renzi cosa dovrebbe fare?
«Prima di tutto analizzare insieme con tutto il partito questa sconfitta, in direzione e nei gruppi parlamentari, cosa che mi sembra non stia avvenendo. Nel fine settimana poi ci attende un momento importante, l’assemblea del partito a Milano. Mi sembra un’ottima occasione. Ricordate il “destino cinico e baro” invocato da Giuseppe Saragat quando doveva giustificare le sconfitte dei socialdemocratici? Ecco, in politica non esiste il “destino cinico e baro”. Quando perdi vuol dire che si è rotto qualcosa col tuo elettorato, con il Paese, e devi capire cosa. Devi ricucire».
Renzi sembra aver imboccato un’altra strada. Quella dell’autosufficienza, nonostante tutto.
«Ha ancora tempo per rifletterci, senza soffermarsi su lotte interne e rancori».
La legge elettorale proporzionale non è un incentivo alla ricomposizione.
«Ma una legge elettorale dobbiamo ancora scriverla, al di là delle sentenze della Consulta. Bene, siccome non è realistico pensare che il Pd ottenga da solo il 51 per cento dei seggi, allora ci sono le condizioni per mettere mano a una riforma che consenta di dichiarare la coalizione che governerà il Paese prima del voto o che consenta di farla dopo».
Premio alla coalizione, insomma?
«In un sistema tripolare, con tre aree che si aggirano attorno al 30 per cento, comunque una scelta di coalizione dopo le elezioni bisognerà farla. Allora forse è il caso di farla prima, quella scelta, anche per chiarezza verso gli elettori. E il nostro campo non può che essere quello con cui abbiamo governato in questi anni».
Per la verità avete governato anche con i centristi di Alfano.
«Certo, ha rotto con la destra per sostenere i nostri governi. Anche di questo bisognerà tenere conto. E un campo ampio di centrosinistra può puntare ad arrivare primo e a decidere i destini della prossima legislatura».
Andrà sabato all’iniziativa di Giuliano Pisapia, come altri nel suo partito?
«Io vado alle assemblee del Pd, ma mi porrò in ascolto con quel che verrà da quella piazza, con molta attenzione. Spero sia occasione per aprire un confronto sereno».
Ha letto Guerini? La invita alla calma, a evitare «esasperazioni ».
«Forse Lorenzo ha letto un tweet diverso dal mio. Io ho solo detto, con molta calma e senza traccia di esasperazioni, che il Pd è nato per unire il centrosinistra, non per dividerlo».

La Stampa 28.6.17
Grandi manovre nel partito liquido
di Marcello Sorgi

Si muove Prodi, che avverte che potrebbe spostare la sua tenda dai dintorni del Pd. Si muove, preoccupato, Franceschini. Si muove Zingaretti, che come presidente della Regione Lazio, ai tempi di D’Alema sarebbe stato definito «un cacicco». Il ministro Delrio è preoccupato. Il portavoce della segreteria Richetti cerca invano di rassicurare tutti. L’intervista con cui Renzi ha confermato, con la sua viva voce e non più con indiscrezioni fatte filtrare informalmente, che non considera più la ricostruzione del centrosinistra una prospettiva valida dopo la sconfitta nei ballottaggi ha sollevato un putiferio, e stavolta a protestare non sono più gli esponenti della minoranza, ma grandi nomi come quello del Prof., fondatore dell’Ulivo e due volte presidente del consiglio, del ministro della Cultura considerato architrave di tutte le maggioranze interne del partito, del governatore del Lazio, appena ricandidatosi a succedere a se stesso.
Nei partiti di una volta si sarebbe detto che sono cominciate le grandi manovre che potrebbero portare a un congresso o comunque a un cambio di leader. Ma il Pd, si sa, è un partito liquido che ha appena rieletto Renzi in una tornata di primarie a cui hanno partecipato quasi due milioni di elettori: disarcionarlo non è così facile. Si potrebbe pensare, sempre con l’occhio alle antiche regole, che tutto si risolverebbe con un di più di «collegialità» o con quello che si chiamava un «commissariamento del segretario»: ma anche in questo caso si tratta di termini superati, Renzi non ha alcuna intenzione di farsi commissariare.
Il problema vero - di cui interlocutori e avversari dell’ex-premier sono consapevoli - è che per rifare il centrosinistra occorre togliere di mezzo Renzi, l’ostacolo che buona parte dei fuorusciti mettono avanti a qualsiasi ipotesi di riconciliazione. E Renzi, non volendo farsi da parte, è pronto a rinunciare a una prospettiva che del resto non lo comprende. E a presentarsi alle prossime elezioni con il Pd da solo, riservandosi di decidere dopo con chi allearsi. Le uscite allo scoperto di ieri tenderebbero a convincerlo, con le buone o con le cattive, che non lo può fare. Ma Renzi non è affatto preoccupato, e non solo perché ha una solida maggioranza nella direzione che si riunirà nei prossimi giorni per valutare gli esiti del voto. Se il Pd implode, e anche questo non è da escludere di qui alle prossime elezioni siciliane di novembre, potrebbe perfino prendere in considerazione un gesto alla Macron: rompere gli indugi e fondare un nuovo partito tutto suo.

La Stampa 28.6.17
Pd, assalto a Renzi dopo l’attacco a Prodi
di Carlo Bertini, Martini,

Pd, scatta l’assedio a Renzi
Franceschini: “Così non va”
L’attacco a Prodi scatena la rivolta di tutti i big, da Orlando a Zingaretti
di Carlo Bertini

Sospiro, sguardo che si piega sulle scarpe: Graziano Delrio in pieno Transatlantico fatica a nascondere imbarazzo e preoccupazione, «Prodi che fa una nota così... beh è pesante». Poco prima il Prof se ne era uscito con una frase tagliente, scritta nero su bianco. Non una battuta, ma un impegnativo «sposterò più lontano la tenda, intanto l’ho messa nello zaino». Non è un addio al Pd, ma ci assomiglia. Per ora abbandona il ruolo di mediatore che si era dato per rimettere insieme due mondi, quello del Pd a traino Renzi e quello di Pisapia, due mondi distanti, da provare a unire facendo da «collante». Non ha mandato giù Prodi le frasi consegnate dal leader Pd a Qn, «i migliori amici del Berlusca sono i suoi nemici». O peggio, «quelli che invocano una coalizione di centrosinistra larga il più possibile fanno il gioco del centrodestra, e non del Pd».
Il prof incute timore
Irritazione a parte, che dal Nazareno provano a far sbollire con frasi tipo «Prodi è un punto di riferimento», copyright Guerini; o «nessuno vuole Prodi lontano dal partito», parola di Richetti, l’analisi post-voto del leader Pd sconcerta non solo il Professore. Il rifiuto di inseguire alleanze dopo quel che successo nelle urne, dove le coalizioni all’antica hanno perso, spiazza nemici e alleati interni. Come Dario Franceschini, che per la prima volta, lui solitamente così cauto, fa deflagrare su Twitter una bordata contro Renzi. «Bastano questi numeri per capire che qualcosa non ha funzionato?» chiede pubblicando grafici impietosi sui voti Pd nelle città più importanti, Genova, Parma, Verona e l’Aquila, con la curva dal 2012 a oggi. «Il PD è nato per unire il campo del centrosinistra, non per dividerlo», è la botta decisiva.
«Io non torno ai caminetti dei capicorrente, a riportare le lancette al passato io non ci sto», taglia corto il segretario. Alla Camera i renziani colpiscono duro, «Franceschini come sempre fiuta il vento, speriamo per lui che il suo naso sia quello di una volta» sibila Carbone. Se non è la rottura del sodalizio che lega da quattro anni Renzi e Franceschini, è la spia di un grande freddo calato sui destini di decine di dirigenti: gelo dovuto anche alle ultime scelte sulla segreteria da cui il leader ha tenuto fuori tutte le correnti. E le truppe si agitano come animali impazziti.
Leadership sotto attacco
Ma l’assedio a Renzi è evidente, tutti i big e fondatori del partito lo strattonano, come per svegliarlo da un brutto sogno: da Veltroni che su Repubblica lancia un invito all’unità, allarmato dal vedere il «suo» Pd ristretto nelle sembianze della Margherita, il partito che fu di Rutelli. A Prodi che si vede rigettata la prospettiva di cercare di unire il centrosinistra. Fino a Zingaretti, sempre parco nelle dichiarazioni, che scende in campo nell’arena di Andrea Orlando, il convegno della corrente di minoranza del Guardasigilli, per dire a Renzi di aprire una pagina unitaria e «da solo perde». «Le parole di Prodi «evidenziano il disagio che c’è in tutto il Pd. Prodi non può essere annoverato tra i gufi e i rosiconi, perché il Pd lo ha pensato lui. Le sue parole devono farci riflettere», dice Orlando.
Ma nel partito, l’uscita che fa più rumore è quella di Franceschini: anche se i renziani dicono che conta sempre meno nei gruppi dirigenti «perché abbiamo la maggioranza senza di lui in direzione», le truppe in Parlamento sono cospicue e nel territorio la corrente è ancora strutturata. «A Dario non va giù - spiegano gli amici del ministro - questo atteggiamento sprezzante e divisivo malgrado tutti gli appelli. Se continuiamo a pensare di essere autosufficienti, legati alla leadership di un uomo solo, allora bisogna fermarsi e discutere. Perché così non va». Appuntamento in Direzione il 10 luglio, per la nuova resa dei conti.

Corriere 28.6.17
Pierluigi Bersani
«Canagliesco incolparci Ora i dem vadano dove li porta il cuore»
Il leader mdp: nasce un nuovo soggetto, mai con la destra
intervista di Monica Guerzoni

ROMA «Il mondo non gira attorno alla Leopolda».
Onorevole Bersani, il rottamatore si è autorottamato ?
«Il Paese si è lasciato Renzi alle spalle. Il dramma è che nei gruppi dirigenti del Pd non si prende atto di un processo profondo, che può portare al Paese guai ulteriori».
Non ha letto il tweet di Franceschini? «Il Pd è nato per unire il campo di centrosinistra, non per dividerlo».
«Ho letto Franceschini, Orlando, Zingaretti, Cuperlo. Ma non dicono che bisogna cambiare rotta sui contenuti. Io mi appello al popolo di centrosinistra. Troviamo un altro innesco, sennò il rischio è serio. Tira un’aria di destra ed è un passaggio storico nel mondo, in Europa e in Italia, è il contraccolpo della crisi della globalizzazione. Sono più stupito dai commenti, che dai risultati delle Amministrative».
Allude al «poteva andare meglio» di Renzi?
«Hanno perso lucidità. In Emilia-Romagna nel 2014 c’è stato il record negativo di votanti, poi hanno perso le Amministrative e il referendum, ora un’altra botta e, come ogni volta, dicono “avanti così, anzi di più”. Basterebbe un soprassalto di umiltà per togliersi le cuffie e ascoltare un passante dotato di senso comune».
Se il passante fosse Bersani, cosa direbbe a Renzi?
«Che il Pd sta sulle scatole a un numero crescente di italiani e ha tranciato i rapporti con una sensibilità di sinistra e di civismo. Renzi ha continuato a negare i problemi con un solipsismo sempre più arrogante. Meno tasse per tutti, flessibilità, bonus, i rapporti sociali sono irrilevanti, il nemico sono i Cinque Stelle, l’amico lo cerchiamo nei pascoli di destra. Così si tira la volata a una destra identitaria, sovranista e regressiva».
Come spiega la batosta nelle roccaforti rosse ?
«Io non ci dormo. La punta di diamante del tradimento è che stanno a casa i nostri da quando si è preso l’abbrivio di mettere diserbante nelle radici della sinistra. La destra non ha sfondato, ha risvegliato i suoi voti. Gli elettori di centrosinistra sono stati a casa e per recuperare forse milioni di voti bisogna alzare la bandiera di proposte nuove. Noi dobbiamo fare un nuovo soggetto politico e sperare che questa cosa nuova inneschi una presa di consapevolezza dentro il Pd».
Sbaglia chi la accusa di aver indebolito Renzi ?
«Tutto questo va ben oltre la raffigurazione secondo cui io e altri diremmo queste cose per anti renzismo. Renzi è un di cui di un problema più grande. Per opporci dobbiamo riaccendere la miccia».
La strada del centrosinistra? A sentire Renzi vi porta dritti alla sconfitta.
«Se lui mi dice che la parola centrosinistra, scollegata dai contenuti, non vuol dire nulla, sfonda una porta spalancata. È ora di alzare le bandiere di lavoro, sicurezza, sanità, moralità, giustizia sociale e un fisco progressivo e fedele. Dobbiamo correggere le politiche sull’immigrazione, senza rinunciare ai nostri valori».
Invoca discontinuità dalle politiche di Renzi?
«La parola d’ordine è protezione. La destra la interpreta in modo regressivo, noi dobbiamo interpretarla basandoci sull’uguaglianza e cambiando le politiche di Renzi, ma anche le nostre politiche di vent’anni fa. Io non le rinnego, ma siamo in un una fase diversa. Non abbiamo più tempo. Se il Pd non è in grado di fare una discontinuità netta, vada pure dove lo porta il cuore. Noi con la destra non ci andiamo».
La batosta non è anche colpa della vostra scissione?
«Ci vuole del coraggio a prendersela con quei cirenei, come me e Pisapia, che sono andati in posti dove i dirigenti del Pd si erano fatti di nebbia, tipo Genova e La Spezia, per cercare di arginare la destra. Segnalo dei tratti di ingenerosità che a molti appaiono persino canaglieschi».
È felice che Prodi sposterà la sua tenda lontano dal Pd?
«Prodi non è uno da tirare per la giacca, come sempre deciderà con la sua testa».
Lei dove pianterà la tenda?
«Si mette in cammino un progetto per una nuova soggettività politica alternativa alla destra e sfidante sui Cinque Stelle. La nostra proposta si rivolgerà anche al Pd e a tutte le forze di centrosinistra, sulla base dei contenuti. Il 1° luglio in piazza Santi Apostoli non si parlerà di politicismi, ma di temi precisi, a cominciare dal colossale livello di disuguaglianza che si sta creando».
Renzi può ancora dividervi da Pisapia?
«Manovrette che non esistono, c’è un cammino nuovo».
Se mai riuscirete a costruire un’alleanza, il leader si sceglierà con le primarie?
«Smettiamola di prenderci in giro. Primarie per il capolista di un listone? Siamo al delirio. Ci hanno bocciato una legge basata sulle coalizioni, di che cosa parlano adesso?».
Ribadisce il veto su Renzi candidato premier?
«Si sgomberi il campo. Non pretendiamo di decidere il segretario del Pd, ma se mai ci sarà bisogno di noi per il governo del Paese, o si accetta la discontinuità o noi non ci stiamo. Ogni giorno che passa Renzi non è più discontinuo con se stesso, ma il contrario».
Il vostro leader è Pisapia?
«Ha le caratteristiche per interpretare una leadership nuova, dove c’è una squadra, non c’è arroganza, non c’è idea del comando, c’è stabilità politica e psicologica».
Renzi va verso le larghe intese con Berlusconi?
«Dovrebbe leggere un po’ di storia. In Italia la destra esiste prima della sinistra, mai si farà guidare da un papa straniero».

Corriere 28.6.17
È Palazzo Chigi lo spartiacque tra il segretario e gli avversari
di Massimo Franco

È difficile che la tensione tra Matteo Renzi e personaggi come Giuliano Pisapia e Romano Prodi si riassorba. L’insofferenza del segretario del Pd ha un nome: Palazzo Chigi. Ogni persona o strategia che possa mettere in mora la sua ambizione di ritornarci, viene rimossa dal suo orizzonte politico e psicologico. L’ex premier appare incline a scaricare le responsabilità della sconfitta. Ma si avverte qualche scricchiolio. Il ministro Dario Franceschini, l’alleato interno di maggior peso, ora chiede se le sconfitte non bastino a segnalare il problema di un Pd «nato per unire e non per dividere il centrosinistra».
È un segnale di irritazione verso un Renzi che analizza l’insuccesso ai ballottaggi imputandolo all’idea di una sinistra allargata; e accusando larvatamente lo stesso Prodi di ostacolarlo. Lo schema, però, non convince. L’ex presidente della Commissione europea si è ritagliato un ruolo equidistante per il quale è stato criticato dagli avversari del segretario. Invece, da giorni la cerchia renziana attacca i governi prodiani del passato. E il Professore replica per iscritto: «Renzi mi ha invitato a spostare più lontano la tenda» piantata simbolicamente accanto al Pd. «Lo farò senza difficoltà. La mia tenda è molto leggera».
Se non è uno strappo, ne è la premessa: la prima conseguenza traumatica della batosta ai ballottaggi. D’altronde, il vertice dem scansa come inutile, di più, dannosa, qualunque ipotesi di coalizione con l’area allo stato nascente di Giuliano Pisapia: un progetto al quale invece il fondatore dell’Ulivo crede fortemente, mentre Renzi vuole contarsi da solo, col sistema proporzionale. Una strategia destinata a preparare dopo le elezioni un governo virtuale con Silvio Berlusconi, col segretario del Pd a Palazzo Chigi.
Il partito è diventato una formazione plasmata sul segretario per assecondare le sue ambizioni di premier. Se invece si dovesse aprire una trattativa con tutta la sinistra, il primo effetto sarebbe quello di rimettere in discussione la sua candidatura. Su di lui si scaricherebbe di nuovo la sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre, e quella ai ballottaggi. Di fatto, verrebbe delegittimato come possibile premier. È un gioco a logorarlo che i suoi fedelissimi denunciano apertamente come pericoloso.
Le elezioni politiche saranno, al massimo, tra otto mesi. E cambiare leader in corsa è ritenuto inopportuno da gran parte del Pd. «Con le esasperanti polemiche nel centrosinistra, alle elezioni rischia di vincere qualcun altro», avverte Renzi, definendo «artificiale» la discussione sulle alleanze. D’altronde, quando si chiede ai dem di che umore è il leader, la risposta è sempre la stessa: in cima ai pensieri del segretario rimane la voglia di riprendersi Palazzo Chigi. Aspirazione legittima, da girare agli elettori.

La Stampa 28.6.17
L’assedio al fortino di Matteo
di Federico Geremicca

Il risultato elettorale usato come una clava: per regolare conti interni, ammonire i possibili alleati, richiamare alla disciplina e all’unità. Forse era prevedibile, forse no.
Fatto sta che nei tre poli che stanno ridisegnando la geografia politica del Paese, il voto di domenica ha immediatamente innescato una polemica inaspettatamente aspra.
Invece che festeggiare, litigano i vincitori del centrodestra, con Berlusconi, Salvini e Meloni duramente contrapposti sulla leadership futura e sul profilo della possibile coalizione: moderata o radical-populista? Detta il suo richiamo all’obbedienza Beppe Grillo, innervosito dall’insuccesso elettorale: o ci muoviamo come squadra oppure - se continuano distinguo e mugugni - saremo spazzati via. E il clima si fa incandescente soprattutto nel campo del centrosinistra, dove l’analisi del voto fatta da Matteo Renzi ha lasciato insoddisfatto Walter Veltroni e profondamente offeso Romano Prodi.
È stata una giornata, quella di ieri, che il leader del Partito democratico farebbe bene a segnare con un cerchietto rosso, perché incassare contemporaneamente le critiche del primo segretario del Pd e il gelido addio del fondatore dell’Ulivo («Sposterò un po’ più lontano la mia tenda: intanto l’ho messa nello zaino...») è cosa che pare avviare un cambio di fase nient’affatto semplice per l’ex premier.
Il fatto è che Veltroni e Prodi danno voce, autorevolezza e legittimità a dissensi e malumori che scuotono da tempo il Pd e che ieri hanno visto polemicamente in campo contro Renzi anche il potente ministro Franceschini: «Il Pd è nato per unire il campo del centrosinistra non per dividerlo». Motivo contingente del contendere, la ricostruzione del campo del centrosinistra e della coalizione con la quale affrontare le prossime elezioni politiche. Ieri Renzi ha archiviato il tema quasi con fastidio: tutte queste polemiche su alleanze e coalizioni fanno vincere i nostri avversari. E si tratta di un’affermazione che, all’indomani di risultati elettorali più che deludenti, ha spinto anche leader prudenti e solitamente distanti dal fuoco della polemica ad esprimere contrarietà e dissenso.
Da ieri - e dopo una scissione che ancora sanguina - l’interrogativo che pare porsi è dunque il seguente: per quanto tempo Renzi potrà reggere l’opposizione contemporanea di Prodi, Veltroni, Orlando e Franceschini? E come riuscirà, mentre a Roma gli oppositori si moltiplicano, a riassorbire il dissenso e la delusione che cresce in periferia?
Il capo d’accusa dal quale il segretario dovrà difendersi, è riassumibile più o meno così: hai distrutto il centrosinistra e ora - stando ai risultati elettorali, alle scissioni e al pessimo clima interno - stai distruggendo anche il Pd. L’invito - che pare accompagnato da una sorta di conto alla rovescia - è a cambiar rotta: ma è un invito che Renzi ha già respinto più volte.
E dunque? E dunque si preparano giorni difficili. Difficili, in particolare, per Matteo Renzi. È presumibile che, secondo tradizione, il segretario non cambierà di una virgola la propria posizione: ma la partita che s’avvia a giocare, mentre intorno a lui sembra farsi il vuoto, stavolta è assai insidiosa. Certamente la più insidiosa da quando, nel dicembre di quattro anni fa, conquistò la segreteria del Pd.

La Stampa 28.6.17
“Avevo chiesto a Prodi di non parlare più di Ulivo e di Pisapia”
Renzi: “Sugli 80 euro errore di comunicazione”
di Alberto Mattioli

Di arrivare allo scontro, anzi quasi al tentato parricidio di Romano Prodi, padre nobile del Pd, Matteo Renzi proprio non aveva voglia. Ai fedelissimi racconta di aver spiegato di persona al professore, «e più volte», che non era il momento migliore per insistere sul progetto di coalizione neoulivista fino a Pisapia. Prodi è andato per la sua strada, e ieri Renzi ha replicato con l’intervista nella quale spiegava che chi invoca una coalizione di centrosinistra più larga possibile fa il gioco del centrodestra e non del Pd. Da qui la controreplica di Prodi, la tenda riposta nello zaino e spostata più in là, insomma l’apertura dell’ennesimo fronte nell’infinita faida del Pd.
E dire che a Milano, ieri sera, Renzi di tutto aveva intenzione di parlare meno che di politica, almeno di quella italiana. Del resto, era una ghiotta occasione per volare un po’ più alto del cortile piddino. All’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale il tema era «Il vento della disgregazione sugli stati: le sfide di jihadismo e populismo», dibattito a quattro con l’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente dell’Ispi, il professor Angelo Panebianco e Maurizio Molinari, direttore della «Stampa» e autore, appunto, del saggio «Il ritorno delle tribù. La sfida dei nuovi clan all’ordine mondiale».
Però se sei stato presidente del Consiglio devi difendere la tua azione su quanto hai fatto, o non, su politica estera , immigrazione («I numeri oggi non sono sostenibili»), Africa («Incredibile: sono stato il primo premier italiano a fare un viaggio nell’Africa subsahariana), Unione europea e, insomma, su tutto il nuovo disordine mondiale. Renzi l’ha fatto. Aggiungendoci però un’insolita autocritica, nel caso sugli 80 euro, «la più grande operazione di ridistribuzione della ricchezza fatta da un governo occidentale negli ultimi 15 anni», addirittura, ma che, ammette Renzi, ha lasciato un ricordo «macchiettistico. È stata anche colpa mia. Ho fatto un errore di comunicazione. L’ho presentata come una televendita, perché volevo farmi capire. E invece per annunciarla ci voleva un convegno con tre premi Nobel. L’effetto sarebbe stato diverso».
Pensiamo al futuro, segretario. Molinari ricorda che l’Europa ci guarda perché l’Italia oggi è l’unico grande Paese che corre davvero il rischio di essere governato dai populisti. «Io non credo che vinceranno - giura Renzi -. L’Italia ha scelto una democrazia dell’alternanza. Poi, certo, in Francia il 23% di Macron gli permette di governare per cinque anni, noi siamo andati a casa con il 41. In Italia la vera paura non è che governino i populisti, ma che qualcuno governi».
Già, i populisti. Molinari spiega che M5S e Lega sono partiti tribali, e lui ride amaro: «Beh, se la caratteristica delle tribù è la fedeltà al capo, il Pd tribale di certo non è». E poi dà la linea per gli otto mesi che ci separano dalle elezioni: «Tutto il dibattito sulle coalizioni, sulle alleanze e con chi andremo alle urne è surreale, magari un po’ meno quello sulla legge elettorale. Ma basta parlare di cespugli. Abbiamo vinto le primarie, non torniamo al passato. Confrontiamoci sui contenuti. Da qui alle elezioni, non inseguiremo le polemiche giorno per giorno, i sondaggi, la politique politicienne. Presenteremo un progetto serio per i prossimi dieci anni e su questo ci confronteremo con tutti. Vogliamo idee, non polemiche». Data la cacofonia a sinistra, il progetto suona un po’ difficile.

Repubblica  28.6.17
Troppo finta per essere sinistra
Francesco Merlo

ARIDATECI Cossutta”. So che è un paradosso duro da digerire, ma quasi quasi ci manca quel bambino che abbiamo buttato via insieme all’acqua sporca del comunismo nel 2008: il bambino della sinistra radicale che dava un orizzonte alla rabbia sociale e una razionalità alle mille paure che sono oggi il potente carburante della destra.
FINISCE infatti, sfinita nel paradosso degli operai berlingueriani che domenica scorsa a Genova hanno votato Lega, l’epoca della sinistra che ha provato a liberarsi e a liberarci dall’ideologia, prima calzando scarpe fatte a mano e poi insalsicciandosi in giubbotti di pelle. Mai riuscendo però a diventare davvero moderna restando sinistra.
Proprio mentre l’Inghilterra riscopre la moralità sobria della sinistra pulita e dimessa e premia la trasandatezza autentica ma colta di Jeremy Corbyn che ha prosciugato il populismo britannico restituendo alla plebe il diritto di sentirsi popolo, muore nei vicoli e nei quartieri operai del Nord Italia, ammalati di destra, la sinistra “distinta” degli ex funzionari pervestiti da gran signori e dei ragazzi di improvvisato e bignamizzato sapere, fasciati però nei calzoni “slim fit” e “camisadi” di bianco, sempre più per benino e a modino. Un tempo il colletto era il ”button down” del “tu vo fa l’americano”, quello di Veltroni clintoniano della terza via e dell’ulivo mondiale, e più recentemente è stato il colletto aperto dei giovani spavaldi, sfrontati e irriverenti che hanno surrogato con twitter l’inquietudine e la rapidità e l’efficienza dello studio, che era sempre stato patrimonio della sinistra, del militante con la casa foderata di libri. «Non sono laureato, ma amo la letteratura, la poesia e i libri» ha gridato il vecchio Corbyn ai ragazzi inglesi che ormai gli si stringono attorno come fosse Mick Jagger con la differenza che tutti fingono di non vedere i mille artifizi giovanilistici del cantante mentre di Corbyn invece applaudono proprio l’età raggiunta senza mai diventare un ex. E di nuovo vale il paragone tra le nostre metafore calcistiche, i giaguari da smacchiare, le battutine stizzose, e i corbyniani versi di Percy Bysshe Shelley ( La maschera dell’anarchia) al festival di Glastonbury: «Levatevi come leoni dopo il sonno, in numero invincibile! Fate cadere le vostre catene a terra come rugiada che nel sonno sia scesa su di voi: voi siete molti — essi sono pochi!» Nelle comunali di domenica, una lunga storia di sconfitte e di sconfitti — tutti sconfitti, specie quelli che ora rabbiosamente si disputano i resti — ha avuto il suo suggello finale, il bollo del decesso, il punto di non ritorno e pur senza avere mai ottenuto i trionfi lampeggianti dei Gerhard Schroeder e degli Joschka Fischer, dei Tony Blair, dei Clinton e degli Obama.
Succede infatti che avvenimenti minori rivelino le verità più crudeli. Ebbene, nella capitale del mare, città del grande Meridione italiano, la città del pesce stocco alla messinese, dello scirocco e della vita lenta (macaia e maniman), dell’Appennino che corre sino ai Nebrodi e dei marinai imperiali, in questo luogo-simbolo che ha accorciato le distanze tra Nord e Sud non c’è stato un normale, fisiologico ricambio amministrativo. È stata invece battuta — e dall’astensione che è grugno, stizza e rabbia molto più che dal centrodestra dell’inadeguato Toti — la sinistra delle barche a vela e dei consumi status symbol, della Smart e dell’aereo di Stato, dei fotografi personali, dal ritrattista di D’Alema (1997) a quello di Renzi (2016), la sinistra che in alto flirta con la finanza e in basso spaccia l’estetica del degrado per poesia e per “umanità”, la sinistra che doveva liberarci dai sentimenti e dalle emozioni sempre perdenti, dal camisaccio generoso dell’archeologia marxista, dalla bandiera prigione dalla quale tentiamo di evadere sin dai tempi dell’Eurocomunismo (1976) di Berlinguer, Marchais e Carrillo, quarant’anni di mal di testa appunto per spretarci dall’universo concentrazionario della fabbrica, dal mito della classe operaia, dalle pulsioni comunitaristiche: le sezioni, i compagni, il dopolavoro, i circoli e le sagre.
E siamo naufragati, invece, nel micro deposito di Paperone, negli invincibili rancori personali da borghesi piccoli piccoli, ai quali si è aggiunto ieri un eterno ritorno di Romano Prodi che, invitato da Renzi a stare lontano, si è arrabbiato, ma con la metafora coloniale della tenda e del beduino, quasi ci fosse davvero uno scontro “culturale” tra vecchio e nuovo, come se Renzi fosse ancora il simpatico giovanotto che sfacciatamente voleva impadronirsi del mondo e quell’altro il capo perdente ma scorbutico che si allontana malinconico come l’Humphrey Bogart di Casablanca: «Sposterò la tenda più lontano senza difficoltà. Intanto l’ho messa nello zaino». E sembra di rivivere l’ardente scontro( sempre negato) tra Massimo e Romano, quando era comunque meglio avere torto con Prodi che ragione con D’Alema.
Sono decenni che la sinistra cerca la modernità di Schumpeter contro il denaro mammona di Lenin, e siamo finiti invece nella devozione all’usura delle banche che sono le sole imprese che in Italia non falliscono mai. Ed è stata sconfitta nelle amministrative la sinistra che doveva liberare la scuola dalla burocrazia, dalle cartacce e dagli istogrammi e l’ha consegnata ai presidi sceriffi, negando ai professori, che della sinistra italiana sono ancora il popolo, una vera rivalutazione dello stipendio più basso d’Europa. Eppure era di sinistra pensare che non esistesse un altro modo di iniziare una riforma della scuola se non restituendo agli insegnanti l’antico decoro, se non sottraendoli alla condizione di nuovo proletariato, a un destino di sradicati, cultori di malessere, massa di manovra per ogni genere di demagogia. E si potrebbe a lungo continuare con tutte le sconfitte della sinistra vestita di destra.
È vero che la parola comunismo è ormai solo antiquariato e divertimento intellettuale per vecchi professori, ma l’affezione leghista dei ceti deboli e dei poveri, il populismo e il vaffa, l’angosciante vittoria nelle città rosse e nei quartieri operai di un centrodestra spennato fa venire voglia di allestire quel teatrino di Good Bye, Lenin! e far finta, come i laburisti in Inghilterra, che ci sia ancora un’utopia da fantasticare. E, come scrisse il regista di quel film cult, riportare in scena il paradiso «che nella realtà non era mai esistito».

La Stampa 28.6.17
Fondazioni, D’Alema rilancia
“Lasciatemi fino alla fine dell’anno”
La lettera in vista del vertice a Bruxelles dopo le polemiche
di Francesca Schianchi

Cari amici e compagni, vi propongo un compromesso: confermatemi presidente ancora qualche mese, poi se ne riparla a fine anno. Alla vigilia dell’assemblea generale della Feps, la Foundation for European Progressive Studies che si terrà oggi a Bruxelles e dovrà rinnovare i suoi organi, l’accorato appello del suo capo a rischio licenziamento, Massimo D’Alema, è a una mediazione che «prevenga una crisi e trovi una soluzione rispettosa per tutte le persone coinvolte». A partire da lui, dal 2010 alla guida con malcelato orgoglio dell’organizzazione che riunisce le fondazioni socialiste europee, ma mai così vicino a doverla abbandonare: un paio di settimane fa gli è stata recapitata un’asciutta letterina firmata da sette importanti fondazioni europee (anche se il presidente della francese Jean Jaurès ha successivamente smentito di averla mai sottoscritta) per chiedere le sue dimissioni, causa scissione dal Pd. Seguita da una candidatura formale alternativa: quella della europarlamentare portoghese Maria João Rodrigues. Un nome «illustre», concede D’Alema, e però presentato con un metodo «francamente piuttosto inusuale», senza nemmeno avvisare prima il presidente che, comunica seccato, l’ha letta invece sui giornali italiani prima che nella casella di posta.
«Coglierò l’occasione dell’assemblea generale per chiarire gli aspetti che sono legati alla situazione politica italiana e le imprecisioni che sono circolate» scrive D’Alema nella sua missiva di difesa e di richiesta di proroga dell’incarico, datata 22 giugno, perché secondo lui, la lettera che gli preavvisa lo sfratto, in cui le sette fondazioni europee lo ritengono «incompatibile» con la guida della Feps ora che appartiene a un movimento (Mdp) destinato a competere con il partito membro del Pse, cioè il Pd, «è stata redatta in base a informazioni scorrette». La volontà di farlo fuori dal timone della organizzazione bruxellese, valuta, «è legata alla politica italiana e non alle attività della Feps»: un’iniziativa, mette nero su bianco, «presa indubbiamente sotto pressioni esercitate fuori dalla struttura della Feps», allusione che capiranno meglio di tutti le sette istituzioni italiane aderenti all’organizzazione.
Morale, secondo il presidente quasi disarcionato «rischiamo una tragica rottura all’assemblea generale che potrebbe portare a penose divisioni e mancanza di autonomia nelle nostre attività»: di più, il «brutale congedo del presidente, dopo tutte le nostre conquiste, sarebbe un’offesa non solo all’individuo, ma indebolirebbe severamente la credibilità della nostra comune istituzione». Ecco allora che, anche se riconosce la necessità di promuovere «un turnover nella presidenza», ancora non è il momento: «Chiederò all’assemblea generale un mandato di pochi mesi con due obiettivi: completare alcuni rilevanti progetti che ho iniziato» e «offrire l’opportunità alle fondazioni di valutare candidature». Naturalmente non per fare un favore a lui, ma per «prevenire uno scontro che danneggerebbe la Fondazione». Poi un’assemblea straordinaria entro la fine dell’anno tornerà a votare i suoi vertici. E intanto, magari, se i pugliesi glielo avranno chiesto «in massa», lui potrà rivolgersi a un nuovo obiettivo: la ricandidatura in Parlamento.

La Stampa 28.6.17
Se sinistra e destra perdono senso
di Franco Bruni

Distinguere «destra» da «sinistra» è ancora utile in politica? Se ne discute da tempo e il fenomeno Macron invita a continuare. In Italia la questione riguarda, fra l’altro, la collocazione dei 5 Stelle, la frattura del Pd, l’analisi della convergenza al «centro» che ha sostenuto, in misure diverse, i governi succedutisi dopo l’ultimo di Berlusconi, fino all’interpretazione del risultato delle amministrative dell’altro giorno.
Limitandosi alla politica economica, ci sono almeno due fattori che caratterizzano le idee «di sinistra»: l’attenzione alla distribuzione del reddito e della ricchezza e quella ai beni pubblici. Si parla più della prima; ma la seconda è più distintiva: la sinistra ha una visione inclusiva dei beni pubblici - trova che lo siano in pieno, per esempio, istruzione, sanità, qualità dell’ambiente - e vuole produrne di più. La destra preferisce ci si concentri su quelli indiscutibili, come la difesa e la giustizia.
Anche per la politica economica «di destra» si possono individuare due attenzioni caratterizzanti: quella per i costi delle regole con cui viene limitata la libertà delle decisioni economiche individuali (mentre la sinistra è più attenta ai loro benefici) e quella per la remunerazione del capitale, che deve stimolare gli investimenti senza bisogno di interventi e sussidi pubblici.
Bastano elementi come questi a mantenere significato e utilità alla distinzione fra destra e sinistra. Si tratta però di una distinzione fra idee, non necessariamente fra partiti o governi. Nelle loro versioni radicali sono idee che possono venir coltivate da movimenti animati sia da chi ha interessi particolari (ad esempio i più «poveri» a sinistra e i «capitalisti» a destra) sia da chi mira all’interesse generale. Ma partiti e governi, considerando i problemi di un dato momento dell’economia, possono combinare variamente quelle idee e caratterizzarsi per convinzioni e valori che lo schema destra-sinistra non cattura.
Il rilievo di tale schema è oggi limitato, in diversi Paesi, da quello dei problemi di riorganizzazione di base dell’economia, che è stata sorpresa dall’evoluzione della demografia, della tecnologia, della finanziarizzazione e della globalizzazione. Si tratta di salvare le prospettive di crescita con riforme radicali che facilitino l’adattarsi ai continui cambiamenti. L’adattamento comporta costi per individui e gruppi di interessi che si organizzano per opporsi alle riforme. Nel farlo agitano strumentalmente i cartelli della destra o della sinistra, per dar valore ideale al loro desiderio di non affrontare i cambiamenti. Perché mai è di destra un mercato del lavoro più decentrato a livello di impresa, come si vuol fare in Francia e servirebbe anche in Italia? Perché si considera di sinistra l’uso di denaro pubblico per salvare una banca inefficiente e scorretta? Perché è di destra la meritocrazia nelle carriere delle pubbliche amministrazioni?
C’è destra e sinistra nei cambiamenti necessari e le diverse sensibilità delle due parti possono renderli più fattibili e condivisi. Ma occorre convergenza fra le due parti, perché solo maggioranze ampie possono affrontare la complessità delle misure da prendere e vincere le resistenze conservatrici. Queste maggioranze devono superare (non accantonare) lo schema destra-sinistra. Si può farlo sia con partiti o coalizioni «di centro» che con partiti nuovi, caratterizzati da fattori e valori trasversali a quello schema, come la posizione nei confronti delle burocrazie e delle corporazioni o dell’integrazione internazionale ed europea. Quest’ultima oggi è una discriminante fondamentale.
È un processo difficile. Perché abbia esiti favorevoli occorre smetterla con i politici che si identificano per il solo dirsi enfaticamente più o meno di destra o sinistra. Così facendo non servono i loro ideali, perdono consensi e bloccano il rinnovamento della politica e la riforma dell’economia.

La Stampa 28.6.17
«C’è un dramma nel dramma
Sono sempre di più i bambini che arrivano senza genitori»

«Con la nostra nave abbiamo appena fatto il soccorso più imponente da quando operiamo nel Mediterraneo. Domani la Vos Hestia sbarcherà a Reggio Calabria più di mille persone e molti sono minori». Giovanna Di Benedetto è la portavoce di Save the Children; la sua Ong soccorre migranti da 10 anni, ora con una nave propria, la Vos Hestia, e ha proprio personale su un’altra nave, la Vos Prudence di Medici senza frontiere, che proprio ieri a Palermo ha sbarcato 861 migranti: «Anche in questo caso ci sono molti minori non accompagnati e tanti bambini in braccio alle loro madri».
La situazione è migliore o peggiore delle altre estati?
«E’ sempre così, tempo buono, mare tranquillo, e i migranti si mettono in mare. In queste ore ci sono arrivi a Messina, Catania, Augusta, Palermo, Vibo, Lampedusa, nelle prossime ore altri porti del Sud saranno impegnati, non bisogna stupirsene ma darsi da fare per salvare vite».
Le Ong sono finite nell’occhio del ciclone negli ultimi mesi.
«Questo non significa che noi dobbiamo cambiare la nostra missione, che è quella di salvare chi rischia la vita, e molti, sempre di più, sono bambini e minori non accompagnati».
Cresce il fenomeno dei minori non accompagnati?
«Sì. Come certifica il rapporto Atlante, nel periodo 2011-2016 l’aumento è stato costante. Dal gennaio 2011 al dicembre 2016 ne sono arrivati in Italia, via mare, 62.762, principalmente da Eritrea, Egitto, Gambia, Nigeria, Siria e dai paesi subshariani; ma si è passati dai 4.200 del 2011 ai 25.008 del 2016».
Dove vanno a finire tutti questi minori non accompagnati?
«L’anno scorso in Sicilia ne sono sbarcati 17.177, settemila sono ancora nell’isola. Il problema sono i gruppi vulnerabili, quei minori che dopo l’identificazione spariscono perché vogliono andare in Nord Europa per congiungersi a familiari. Dall’anno scorso però le frontiere di fatto sono chiuse, così vanno in Nord Italia e si affidano di nuovo ai trafficanti. Occorrerebbe che l’Italia, che prima in Europa si è dotata a marzo di una legge sui minori non accompagnati, ora la applicasse davvero».
[f. alb.]

La Stampa 28.6.17
Il pm Woodcock e la Sciarelli indagati
“Rivelarono i segreti del caso Consip”
Roma, la procura accusa il magistrato e la sua compagna: violazione del segreto istruttorio
di Edoardo Izzo

Una svolta clamorosa nell’inchiesta Consip testimonia la rottura che si è consumata tra la procura di Roma e quella di Napoli, che vede il suo pm più mediatico, Henry John Woodcock, indagato per violazione del segreto d’ufficio dai colleghi romani. Una situazione oggettivamente allarmante come dimostra l’apertura di un fascicolo, subito secretato, al Csm. Con Woodcock è stata iscritta, con l’accusa di concorso nello stesso reato, anche la giornalista di RaiTre Federica Sciarelli, che gli è da tempo legata. Nell’inchiesta ci sono già altri indagati eccellenti accusati ugualmente di violazione del segreto d’ufficio, tra i quali il ministro Luca Lotti e il generale Tullio Del Sette, ma si tratta di due distinte fughe di notizie: la prima verso i vertici Consip, perchè si mettessero al riparo dalle intercettazioni ambientali, l’altra, quella che ha portato alle iscrizioni di ieri, verso un giornale. Questa indagine riguarda quanto pubblicato dal Fatto Quotidiano lo scorso dicembre (il 21, 22, 23 e 27) in relazione proprio alle indagini a carico del ministro dello Sport e del comandante generale dell’Arma dei carabinieri. «Ho piena fiducia nei miei colleghi di Roma, sono certo che verificheranno scrupolosamente ogni aspetto di questa vicenda e che quindi potrò dimostrare la mia totale estraneità», ha dichiarato alla Stampa il pm partenopeo, convocato per il giorno 7 luglio e che intenderebbe però chiedere di essere interrogato prima di quella data proprio per chiarire definitivamente la sua posizione.
Lo stesso desidera fare la Sciarelli, che ha dichiarato: «Non posso aver rivelato nulla a nessuno semplicemente perché Woodcock non mi svela nulla delle sue inchieste, tantomeno ciò che è coperto da segreto». Alla conduttrice di “Chi l’ha visto?”, che sarà sentita a piazzale Clodio il 30 giugno, è stato anche sequestrato il telefono cellulare, per esaminare in particolare le conversazioni su WhatsApp che secondo i giudici sarebbero intercorse tra la giornalista Rai e il cronista del Fatto Marco Lillo, autore dei pezzi incriminati.
Quest’ultimo si è presentato ieri dai pm romani chiedendo spontaneamente di essere ascoltato. «La tesi dell’accusa - afferma Lillo - è fondata su un tabulato telefonico del mio cellulare. Ebbene, non c’è grigio in questo caso ma solo bianco o nero: Woodcock e Sciarelli sono innocenti e la procura si è sbagliata. Le telefonate in questione dovrebbero essere quelle fatte da me il 20 dicembre. Quel giorno ho scritto il primo articolo sulle perquisizioni in Consip e sul ruolo di Tiziano Renzi nell’inchiesta, e ho chiamato Federica Sciarelli solo per sapere dove si trovasse Henry John Woodcock. Non è un mistero che il pm Woodcock e Federica Sciarelli siano legati sentimentalmente».
Questi aspetti personali riguardanti gli indagati rendono molto delicato il lavoro del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Paolo Ielo e del pm Mario Palazzi, impegnati ieri anche nell’altro filone dell’inchiesta con l’interrogatorio del vicecomandante del Noe, Alessandro Sessa, al quale sono stati mostrati un’infinità di messaggi WhatsApp, che si è scambiato con il suo collaboratore Scafarto (il capitano indagato anche per falso). Tra questi alcuni tirano in ballo il pm Woodcock: il 23 settembre 2016 Scafarto scrive al suo superiore: «Mi ha chiamato H. Cose brutte. Poi le dico (...)». Il giorno seguente, Sessa scrive a Scafarto: «Sono stato mezz’ora al tel col doctor». «Problemi?», chiede Scafarto, «tra un po’ - replica Sessa - ti chiamo e ti dico (...) oltre alle arance anche i limoni». Per i suoi legali, il colonnello avrebbe chiarito tutto, compresi gli agrumi.

La Stampa 28.6.17
“Ecco perché le Br diedero
i verbali di Moro ai palestinesi”
Fioroni, presidente della Commissione d’inchiesta “I brigatisti volevano riconquistare la loro fiducia”
di Francesca Paci

Il giorno dopo l’audizione di Bassam Abu Sharif davanti alla Commissione bicamerale d’inchiesta sulla morte di Aldo Moro, il presidente Giuseppe Fioroni mette in ordine quelle che definisce «importanti novità» per la ricostruzione dell’Italia di quegli anni. Secondo l’ex del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) che Fioroni ha ascoltato per ore, nel 1978 i palestinesi diffidavano delle Brigate Rosse, riferivano all’intelligence di Roma qualsiasi informazione ricevessero circa potenziali attentati in Italia nel quadro dell’impegno unilaterale firmato da George Habash, accoglievano nei loro campi numerosi nostri giovani connazionali disposti a curare i malati ma anche a combattere per la loro causa.
Abu Sharif cita un accordo scritto in cui Habash s’impegnava a risparmiare l’Italia. È la conferma del cosiddetto Lodo Moro?
«Abu Sharif ha ammesso che dopo l’attentato di Fiumicino del 1973 le intelligence italiana e palestinese avviarono una serie di contatti sfociati in un documento unilaterale firmato da George Habash a nome del Fplp e consegnato al colonnello Giovannone affinché lo portasse a Roma. In quella lettera, che Abu Sharif inquadra nella politica estera di Moro centrata allora sui Paesi arabi e sul Mediterraneo, c’è l’impegno a impedire attentati in Italia e a considerarci solo un Paese di transito. Se Abu Sharif ne troverà copia negli archivi del Fplp lo avremo presto in mano».
A chi rispondeva Giovannone?
«Da un punto di vista tecnico al capo dei servizi italiani, il Sismi. Ma sul piano politico era il referente di Moro per la politica estera in Medioriente».
L’Italia sapeva che nel ’78 il Fplp non si fidava più delle Br?
«È la prima volta che viene fatta questa distinzione. Abu Sharif sostiene che nel 1976 il Fplp, allertato dal capo operativo Wadie Haddad, ritiene già da tempo le Br inaffidabili. Haddad intanto ha rotto con il Fplp perché è in dissenso con l’input di Mosca che chiede la fine dei sequestri aerei, ma i contatti sono stretti. E qui c’è un riscontro importante sul caso Moro, perché già nei primi giorni dopo il rapimento il Sismi cerca tra i fuoriusciti palestinesi. In più, a giugno, Giovannone segnala a Roma rapporti tra ex Fplp e BR aggiungendo che i brigatisti hanno fatto avere ad Habash copia delle dichiarazioni di Moro prigioniero per ripristinare collaborazione e assistenza. Significa che Moretti prova a riallacciare con i palestinesi usando le carte che ha».
Riusciranno le Br nell’impresa?
«Anche qui abbiamo riscontri alle affermazioni di Abu Sharif. A noi risultano transiti di armi tra palestinesi, Br e autonomi nel 1979, ma Abu Sharif sostiene che il Fplp non c’entri (di altre sigle non risponde ndr.) e dice che se avesse ricevuto dai propri 007 informazioni di possibili attacchi in Italia lo avrebbe riferito a Roma. In effetti il 17 febbraio 1978 Giovannone avverte i suoi di un attentato in preparazione e Moro ne parla il 15 marzo, la sera prima del sequestro. Inoltre, il 30 marzo 1978 l’allora uomo dell’Olp in Italia Nemer Hammad assicura a Cossiga che sta facendo il possibile e cita Abu Anzeh Saleh, legato al fronte del rifiuto e in contatto con Wadie Haddad. Un mese dopo, il 24 e 25 aprile, Giovannone annuncia un contatto valido con le Br e dice che verrà a Roma. Sapremo poi che Moro in una lettera del 23 aprile menziona la liberazione di un palestinese a Ostia avvenuta via Giovannone e chiede di averlo a Roma, come se sapesse che si è attivato un canale palestinese».
Come si inquadrano in questo scenario gli italiani addestrati nei campi profughi palestinesi?
«È una conferma. A parlarne la prima volta fu l’ex responsabile esteri del Fplp Taysir Qubaa che in un’intervista del 1980 spiegò come non volesse esportare la rivoluzione in Italia ma potesse contare su “compagni” italiani addestrati nei campi per combattere contro i nemici dei palestinesi. Sapevamo di campi in Yemen, Iraq, Siria, Libano ma ora Abu Sharif torna su questi italiani pronti ad aiutare la resistenza palestinese».
Vede un collegamento con i due giornalisti di Paese Sera De Palo e Toni, spariti a Beirut nel 1980?
«La loro storia ruota intorno al traffico di armi che tra il ’78 e il ’79 esisteva intorno ai campi palestinesi. Abu Sharif smentisce che fosse gestito dal Fplp ma a noi risulta che c’era. E sapevamo da alcuni pentiti che i palestinesi affidavano armi alle Br. Ora sappiamo che degli italiani si addestravano lì».

La Stampa 28.6.17
Il libro sacro dell’Islam va letto con occhi nuovi
Una alternativa a una interpretazione radicale
di Rolla Scolari

 Il Corano: tutti ne parlano, tutti lo evocano. In questi tempi difficili in cui estremisti islamisti e gruppi jihadisti utilizzano le scritture religiose per giustificare la propria barbarie, ognuno fa dire al libro sacro dei musulmani qualcosa di diverso. In pochi, però, hanno realmente studiato il suo contenuto.
Rachid Benzine, sociologo, annoverato tra i nuovi pensatori dell’Islam, e Ismaël Saidi, regista belga il cui ultimo lavoro teatrale, Djihad, una pièce in cui si ride dei giovani in partenza per i fronti dello Stato Islamico, ha raggiunto i 100 mila spettatori tra Francia e Belgio, hanno tentato di farlo in un breve libro. È una semplice lettura storica, antropologica, sociologica condita con molto humor quella di Finalement, il y a quoi dans le Coran? (Ed. La Boite à Pandore), da pochi giorni nelle librerie francesi.
Picchiare la moglie
Nel libro sacro ci sono versetti controversi e dibattiti su molti temi: il jihad, il velo, le relazioni con le diverse religioni, le donne, come per esempio quello in cui si sostiene che la moglie che si ribella debba essere prima ammonita e, se il suo comportamento non migliora, picchiata. Il libro ragiona su questi passi difficili da conciliare con la modernità. Ed è proprio con un dubbio sul comportamento autoritario della moglie che Ismaël, nel primo capitolo, va a trovare Rachid, che sa essere esperto di religione, perché vuole che la consorte gli obbedisca: «Beh, non sono io a volerlo, è scritto nel Corano». «Il Corano dice un sacco di cose, Ismaël, ma lo dice direttamente a te o ha detto prima queste cose a un popolo del VII secolo?», gli risponde il suo nuovo maestro.
Il libro nasce dall’esperienza di Rachid Benzine in Belgio, dove per un anno lo studioso di origini marocchine ha formato un gruppo di professori ed educatori: «Abbiamo letto il Corano da un punto di vista antropologico e storico - spiega -. Abbiamo affrontato il Corano come oggetto di sapere scientifico e non di fede». Gli insegnanti, sia musulmani sia non musulmani, hanno raccontato di essersi trovati davanti a studenti che arrivano a scuola con «verità religiose preconfezionate». E di essere rimasti spesso senza risposte o mezzi per formularle. Benzine ha consigliato loro di non rispondere utilizzando lo stesso registro: la strada migliore sarebbe secondo lui quella della storia e dell’antropologia.
Lo humor
Il libro, attraverso l’utilizzo di un metodo storico-critico alleggerito dallo humor di Ismaël, che tocca il rapporto tra studente e professore e non il testo sacro, cerca di rendere il complicato tema religioso accessibile a tutti. È con lo stesso approccio che, da dicembre 2016, un giovane francese specializzato in comunicazione, musulmano, ha aperto un canale You Tube, IslamJolie. Travestito da esperto di Islam, Prof. FoiRaison, Fede-ragione, cerca di spiegare l’Islam nei suoi principi fondamentali, accanto a un finto ulema imbranato e radicale che lo contraddice. Il giovane ha raccontato d’essersi appassionato al tema religioso attraverso la lettura di Benzine. Mentre in Medio Oriente prestigiose istituzioni religiose islamiche, come la moschea-università egiziana di Al-Azhar, parlano di rinnovamento del discorso religioso per contrastare la narrativa estremista e la visione jihadista, Benzine chiarisce che il suo lavoro si iscrive in un reame diverso.
Approccio profano
«Il mio è un approccio profano e il credente è libero di integrarlo ad altro. Nelle università europee, l’approccio alla Bibbia è scientifico, e non religioso: questo può accadere oggi anche per il Corano. Non è infatti un approccio religioso che ci tirerà fuori dalle ideologie radicali. Occorre passare dalla storia, studiare una cronologia, studiare uomini che non siamo noi, le loro abitudini, studiare quella società del VII secolo da cui è originato il Corano», il libro sacro che per i musulmani è il testo rivelato da Allah al Profeta Maometto. Sulla copertina del libro c’è una vignetta. Ci sono un giovane smandrappato e un adulto in giacca e cravatta, Ismaël e Rachid. Il ragazzo dice: «Non era quello che mi avevano detto». «Non mi stupisce», risponde il professore. È chiaro a che pubblico Saidi e Benzine vogliano rivolgersi: «È necessario avere come obiettivo i giovani, sono loro che devono abituarsi a questo approccio di studio. È una delle maniere che abbiamo per lottare contro le derive radicali cui assistiamo».
I social media
Il problema è secondo gli autori la totale assenza oggi di mediazione tra il Corano e le giovani generazioni. C’è stato attraverso internet e i social media un processo di democratizzazione: «Il Corano diventa accessibile a tutti, e molti giovani sono incapaci di mettere una distanza tra loro e il testo, di capire che parla prima di tutto a persone nate e vissute nel VII. Così il testo rischia di diventare il nostro specchio: che tu sia modernista o jihadista vai a cercare nel Corano quello che pensi già».

La Stampa TuttoScienze 28.6.17
Orgoglio e Passione
Si celebrano i primi 120 anni della Società Italiana di Fisica Dal genio di Enrico Fermi alle indagini sul Big Bang e agli studi sulla superconduttività: l’avventura continua e promette nuove rivoluzioni
di Luisa Cifarelli

«Passion for Physics» è il titolo di un simposio che ha radunato - con l’ambito riconoscimento della Targa del presidente della Repubblica - fisici da tutto il mondo per celebrare il 120° anniversario della Società Italiana di Fisica, la Sif. Perché questo titolo?
Per far capire senza mezzi termini che è questa passione che anima coloro che, giovani o meno giovani, fanno ricerca nei più svariati campi della fisica, da quelli dettati da un irrinunciabile desiderio di conoscenza scientifica a quelli più applicativi e «futuribili» che derivano da sviluppi di metodologie e tecnologie avanzate. Assecondare questa passione per la fisica, questa sete di sapere, e tramandarla alle nuove generazioni è uno dei doveri primari della Sif.
Il simposio ha avuto luogo lo scorso sabato a Varenna, sul Lago di Como, nella cornice di Villa Monastero che ospita i corsi della Scuola internazionale post-universitaria di eccellenza della Sif, intitolata a uno dei più grandi fisici di tutti i tempi, Enrico Fermi. Il simposio è stato inaugurato da personalità del mondo accademico e della ricerca, quali il presidente del Cnr Massimo Inguscio, il presidente dell’Infn Fernando Ferroni, il rettore dell’Università di Milano Bicocca, Cristina Messa, e il presidente della European Physical Society Ruediger Voss.
Mentre Ferroni ha sottolineato l’importanza della comunicazione e della divulgazione scientifica per trasmettere questa passione al grande pubblico, Messa ha enfatizzato quella dell’interdisciplinarità e del connubio, sempre vincente, tra la fisica, la medicina e altre materie scientifiche. Inguscio ha invece ribadito l’importanza del finanziamento della ricerca per far sì che la passione per la scienza, e la fisica in particolare, sia adeguatamente sostenuta: «Un Paese come il nostro, che ha grandi tradizioni scientifiche e che guarda al futuro, non può non recepire il fatto che i fondi destinati alla ricerca non sono spese bensì investimenti, soprattutto per reclutare e dare sicurezza ai giovani appassionati».
Sono state passate in rassegna le più recenti conquiste della fisica nei suoi svariati aspetti teorici e sperimentali, dalle onde gravitazionali, il Big Bang, l’origine del tempo e la materia oscura dell’Universo, fino alla struttura a quark delle particelle, alle oscillazioni dei neutrini, alla struttura della materia a livello atomico, alla superconduttività, alla luce e alle sue innumerevoli applicazioni, ai grandi progetti per nuove infrastrutture di ricerca. Per farlo, oltre ai relatori stranieri, anche alcuni protagonisti italiani del mondo della ricerca, tra cui quattro detentori del Premio Fermi (il più importante premio della Sif, istituito nel 2001 in occasione del centenario della nascita di Fermi), ossia, oltre a Inguscio, Luciano Maiani, Michele Parrinello e Gabriele Veneziano.
Fondata nel 1897 a Roma, attorno alla storica rivista «Il Nuovo Cimento», la Sif da 120 anni promuove e tutela lo studio e il progresso della fisica in Italia e nel mondo. Primo presidente fu Pietro Blaserna. Da allora molti nomi eccellenti si sono avvicendati alla guida della Società, tra cui Vito Volterra, Orso Mario Corbino, Giovanni Polvani, Gilberto Bernardini, Renato Angelo Ricci e Franco Bassani. Se inizialmente la vita della Sif fu soprattutto rivolta ad attività societarie, a partire dagli anni 1930-40, la nuova generazione dei fisici, stimolata da brillanti personalità come Fermi e il suo gruppo, divenne più attiva e numerosa, accelerando lo sviluppo ad ampio raggio della Società e della fisica in Italia e il loro inserimento nel contesto internazionale. Dal 1968 la Sif è associata alla European Physical Society, fondata proprio da Bernardini.
Vanto della Sif è la celebre Scuola Internazionale di Fisica «Enrico Fermi», nata nel 1953 a Varenna e dedicata al grande fisico che vi tenne una memorabile serie di lezioni poco prima della sua immatura scomparsa. Da allora, senza interruzioni, la Sif ha continuato a organizzare ogni anno una serie di corsi che radunano eminenti scienziati e giovani ricercatori, provenienti da ogni angolo del Pianeta, per studiare temi della massima attualità scientifica in tutti i campi della fisica. Da allora i corsi della Scuola sono stati più di 200, con la partecipazione di oltre 13 mila studiosi, tra cui 60 Premi Nobel. Oggi la tradizione continua, mantenendo inalterata la straordinaria qualità della Scuola, e l’altissimo prestigio internazionale di cui gode da sempre.
Esistono pochi luoghi al mondo come la Villa Monastero a Varenna. Qui storia, natura, stile e bellezza si fondono in un’atmosfera che stimola idee e creatività, vivaci scambi di opinioni, dibattiti e confronti. Ecco perché la Sif ha scelto questo luogo per celebrarvi la sua storia.
*Presidente Società Italiana di Fisica

Corriere 28.6.17
Emilio Salgari alla riscossa sui sentieri dell’avventura Sandokan e il Corsaro Nero eroi che non tramontano
di Antonio Carioti

Intere generazioni di ragazzi italiani hanno sognato con i romanzi di Emilio Salgari, che li trasportavano come d’incanto nell’Oceano Pacifico, nella giungla del Bengala, sulle isole dei Caraibi, nelle foreste venezuelane, nelle praterie del Far West, in Africa o in Cina. Eppure l’autore, nato a Verona il 21 agosto 1862 (ancora sotto l’impero asburgico), non era certo un giramondo o un lupo di mare. Aveva frequentato l’Istituto nautico, ma senza ottenere il diploma, e in viaggio per nave era rimasto nel perimetro dell’Adriatico, senza spingersi oltre Brindisi. La sua immaginazione era però smisurata, così come le sue doti di narratore. Ed era curioso, si documentava ampiamente, anche se in modo un po’ disordinato, su enciclopedie e riviste del più vario genere.
Non è certo il rigore dell’ambientazione, ovviamente, quello che colpisce nelle opere di Salgari. Conta semmai la caratterizzazione vivida dei suoi personaggi, che invadono l’immaginario del lettore: Sandokan, Yanez, Kammamuri, Suyodhana, Teotokris, il Corsaro Nero, Wan Guld, Carmaux e Wan Stiller sembra di averli dinanzi agli occhi, con le loro vesti, rozze o raffinate, e le loro armi, sempre micidiali. Non a caso hanno ispirato lavori di notevole pregio da parte degli illustratori, a cominciare da Giuseppe Gamba, detto «Pipein». Ma il vero segreto è la carica emotiva delle trame rocambolesche di Salgari, sempre segnate da passioni forti: amore, odio, amicizia fraterna, gusto di mettersi alla prova, cameratismo di combattenti, senso dell’onore, desiderio di vendetta.
I suoi personaggi, soprattutto i protagonisti più ardimentosi, non conoscono compromessi e mezze misure, anche se a volte la vita li pone di fronte a scelte angosciose che finiscono per spezzare la loro ferrea determinazione. L’esempio più noto è il Corsaro Nero, terrore delle Antille spagnole, che dà il nome al romanzo con il quale si apre la serie in edicola con il «Corriere della Sera»: probabilmente il capolavoro di Salgari, assieme a I pirati della Malesia . Lacerato e combattuto tra passioni contraddittorie, il conte italiano Emilio di Roccabruna, assurto a capo dei filibustieri sul vascello Folgore, giungerà a infierire su se stesso, riducendosi in lacrime, pur di rimanere fedele a un tragico giuramento: solo nel successivo romanzo La regina dei Caraibi (anch’esso incluso nella collana del «Corriere») il suo tormento interiore troverà uno scioglimento positivo.
Nel collocarsi sulla scia di famosi autori d’avventura come Alexandre Dumas padre, Walter Scott, Jules Verne, Robert Louis Stevenson, Salgari mostra tuttavia significative peculiarità, che tra l’altro lo misero in urto con i benpensanti della sua epoca. Oltre alla violenza, ai continui combattimenti per terra e per mare, la sua prosa contiene una dose conturbante di erotismo soffuso. Sia nel descrivere i personaggi femminili, spesso molto sensuali, sia nel plasmare i suoi eroi, solitamente dotati di un forte magnetismo animale, il romanziere veronese trasmette messaggi trasgressivi, accentuati dalla sua predilezione per gli amori meticci.
In un’epoca caratterizzata dal trionfo delle ideologie coloniali e dal forte razzismo, più o meno esplicito, che le accompagnava, Salgari fa costantemente innamorare, nel suo celebre ciclo indo-malese, personaggi che provengono da continenti diversi. Non soltanto Sandokan, principe del Borneo divenuto pirata, si unisce all’anglo-italiana Marianna Guillonk, ma il suo inseparabile compagno d’avventure Yanez de Gomera, nato in Portogallo, sposa l’indiana Surama, erede al trono dell’Assam, mentre il loro alleato Tremal-Naik, cacciatore bengalese e nemico giurato della setta assassina dei Thugs, prende in moglie l’inglese Ada Corishant. Matrimoni misti, dunque, per i principali eroi della saga avvincente (undici romanzi pieni di colpi di scena, tutti compresi nella serie del «Corriere») che si snoda dalle isole di Mompracem e Labuan all’India sotto il dominio britannico. Appare significativo inoltre che l’inventore di Sandokan abbia dato nomi piuttosto esotici (due spiccatamente islamici) ai suoi quattro figli: una femmina (Fatima) e tre maschi (Omar, Nadir, Romero).
Bisogna aggiungere che nei romanzi di Salgari i conquistatori europei di maggior successo, dominatori di grandi imperi territoriali e marittimi, fanno spesso la parte dei cattivi. Vale per gli inglesi, in particolare il «rajah bianco» di Sarawak James Brooke (realmente esistito), cui si contrappongono i pirati della Malesia guidati da Sandokan e Yanez. Ma vale anche per gli spagnoli, messi in scacco dal Corsaro Nero e poi dal suo luogotenente Morgan, che ne sposa la figlia Jolanda. Forse è un po’ eccessiva la lettura «antimperialista» degli eroi di Mompracem proposta di recente dallo scrittore Paco Ignacio Taibo II, ma non c’è dubbio che Salgari si schiera regolarmente dalla parte dei più deboli e dei fuorilegge, contro i poteri costituiti. D’altronde non può essere un caso che i suoi romanzi fossero fra le letture predilette di Ernesto Che Guevara.
Anche Sergio Sollima, regista del riuscitissimo sceneggiato televisivo Sandokan che rilanciò la popolarità di Salgari a metà degli anni Settanta, aveva puntato un po’ su questa lettura politica rivoluzionaria e terzomondista ante litteram , sfruttando anche la bandiera assegnata dall’autore ai pirati di Mompracem, rossa con al centro una testa di tigre, che poteva ricordare quella del Vietnam comunista. Ma Sandokan è pur sempre figlio di un sovrano e finirà per riconquistare il regno che gli spetta, mentre Yanez è destinato a diventare il rajah dell’Assam. Anche se amano Mompracem svisceratamente (e ne torneranno in possesso per due volte, dopo essere stati cacciati a suon di cannonate da forze nemiche preponderanti), il loro destino non è fare i pirati per tutta la vita. Né le vicende narrate da Salgari presentano contenuti d’impegno sociale, anche se spicca, nel romanzo Le due Tigri , la condanna che l’autore pronuncia contro le stragi compiute dai britannici a Delhi nel 1857, durante la repressione scatenata in seguito alla rivolta dei Sepoys. D’altronde bisogna anche aggiungere che lo stesso fascismo, a suo tempo, cercò di strumentalizzare Salgari in funzione anti inglese.
All’epoca del ventennio mussoliniano però l’autore era scomparso da tempo, schiacciato dai debiti e dalle vicissitudini famigliari che lo avevano condotto al suicidio. Benché i suoi romanzi si vendessero eccome, tanto da arricchire parecchio gli editori, Salgari non riusciva a sbarcare il lunario, anche per le cure che doveva prestare alla moglie Ida (lui la chiamava Aida) Peruzzi, affetta da una grave malattia nervosa. Ed era costretto a ritmi di lavoro asfissianti, che si riflettono anche nella ripetitività di alcune scene: in un arco di tempo relativamente breve, non molto più di una ventina d’anni, produsse circa ottanta romanzi. Quando poi Ida fu ricoverata in manicomio, Emilio non resse più e si tolse la vita a Torino, città dove abitava da un decennio, squarciandosi il ventre e la gola, il 25 aprile 1911. Lasciò tre lettere, di cui una, molto risentita, indirizzata a coloro che ne avevano sfruttato il talento senza alcuna considerazione per la sua sofferenza umana.
Nonostante avesse ricevuto nel 1897, su proposta della regina Margherita di Savoia, il titolo di cavaliere, Salgari non era mai stato preso in considerazione dagli ambienti letterari. Era giudicato uno scrittore di serie B, relegato nell’ambito dell’intrattenimento per ragazzi, anche se il suo pubblico contava appassionati di tutte le età. I moralisti lo consideravano diseducativo, i cultori del bello stile lo reputavano volgare. E forse in questo genere di atteggiamenti c’era anche un pizzico d’invidia per la vasta fetta di mercato che la produzione salgariana andava ad occupare.
Tuttavia il tempo è galantuomo. Come si è visto in occasione del centenario della morte, l’opera di Salgari, lungi dall’essere sepolta nell’oblio come alcuni avrebbero auspicato, si è rivelata particolarmente longeva: basti solo pensare al numero enorme di trasposizioni cinematografiche che le sono state dedicate, oppure, per il fumetto, al Sandokan (rimasto a lungo inedito) di Mino Milani e Hugo Pratt. Del resto l’altezzosa noncuranza ostentata per tanto tempo verso l’autore veronese ricorda da vicino la supponenza con cui si è a lungo guardato, per l’appunto, al mondo dei comics. E non poche venature salgariane si ritrovano nelle storie di personaggi dei fumetti popolari come Tex Willer, Zagor, Martin Mystère.
Basta poi dare un’occhiata al documentatissimo sito web www.emiliosalgari.it per constatare come le avventure del Corsaro Nero e delle altre sue creature non solo vengano ristampate di frequente, ma offrano spunti per ricerche di vario genere. Un esempio eloquente è la discussione, con tanto di indagini certosine su carte nautiche dell’Ottocento, per capire se Mompracem esista e in quale isola reale la si possa identificare. Uno sforzo che testimonia quanto affetto leghi ancora tanti lettori al covo impervio di Sandokan e Yanez, un luogo dell’anima su cui sventola il vessillo della fantasi a.


Repubblica 28.6.17
 Nel Seicento si diffonde a Roma l’abitudine di incontrarsi per confrontarsi sul valore dei dipinti Per dar vita a una bellezza condivisa
Le parole dell’arte
Così, conversando conversando, nacque la critica
Francesca Cappelletti

La parola conversazione ha un significato molto preciso, oggi dimenticato e quasi bizzarro, nelle lettere e nei diari di artisti e di viaggiatori all’epoca del Grand Tour. Sta a indicare una pratica sociale per nulla informale, anzi: è il ricevimento organizzato in un giorno preciso della settimana nei grandi palazzi romani, per consentire la visita ai loro magnifici saloni e alle loro raccolte, che nella ridondanza, nell’eccesso e qualche volta nell’aspetto decadente dichiaravano ai fortunati avventori l’appartenenza ai passati fasti barocchi. Nel corso di queste aperture era possibile incon-trare
i proprietari e i loro ospiti; Horace Walpole nel 1740, per esempio, apprezzava molto la conversazione di Agnese Colonna Borghese e la riteneva parte delle bellezze di Roma.
A volte, però, il numero eccessivo di ospiti rendeva quasi impraticabile la conversazione stessa; spesso gli ambienti erano male illuminati e per vedere i dipinti, qualcuno, come Charles de Brosses, preferiva ritornare di giorno per discutere le opere d’arte, anche se a Roma la luce impietosa del sole mattutino svelava le cornici rotte e la mescolanza di capolavori e opere di scarsa qualità su pareti completamente ricoperte di quadri. Insomma, «Conversazione is a place where there is not conversation»: se la conversazione, come noteranno alcuni viaggiatori inglesi, è ormai diventato un luogo dove è impossibile conversare, questo uso si era formato nei secoli precedenti con un processo di sperimentazione sull’allestimento delle raccolte, in gran parte derivato dai dialoghi fra il proprietario e gli artisti che gli erano più vicini.
Nei primi decenni del Seicento, quando si formano le grandi raccolte aristocratiche, parlare davanti alle opere d’arte riattualizza il concetto rinascimentale di comparazione fra gli artisti, fra i soggetti e lo stile dei loro quadri e stabilisce criteri espositivi che rilanciano la conversazione sull’arte. Le corti rinascimentali avevano visto emergere un’ideale personaggio capace di conversare anche di arte con profondità e disinvoltura, ma è con il dispiegarsi delle collezioni seicentesche, con la costruzione delle gallerie e con il tempo trascorso sotto volte affrescate e davanti a dipinti o a statue antiche disposte in file di quattro, come nel palazzo di Vincenzo Giustiniani, che si struttura il discorso sull’arte.
Se oggi siamo abituati a musei che raccontano cronologicamente le vicende della pittura, dovremmo ricordare che questo criterio storicistico è recente e realizzato in gran parte con un intento didattico, adatto al museo pubblico, nel corso dell’Ottocento.
All’inizio del Seicento i quadri sembrano invece disposti con criteri di simmetria in base alle dimensioni, ma soprattutto in modo da generare la comparazione delle “maniere”, degli stili dei diversi autori, del loro modo di usare il disegno, il colore o l’iconografia di uno stesso soggetto.
Secondo Giulio Mancini, medico collezionista e scrittore, le varie maniere dovevano essere appunto «inframmezzate fra di loro » e lo spettatore doveva trarre un godimento estetico dalla vista di un simile assetto, che poi gli consentisse di trattenere qualche immagine e qualche nozione nella memoria. È il piacere dello sguardo e della riflessione, della discussione sull’attribuzione delle opere e sul loro stile a determinare anche l’allestimento delle prime gallerie francesi, come quella del Palais de Luxembourg, dove passeggia André Félibien facendone il teatro dei suoi Entretiens, il trattato dedicato alle vite dei pittori. È attraverso la discussione e la comparazione delle opere che si stabiliscono le qualità di un quadro, le debolezze e i punti di forza del suo autore: questi elementi potevano emergere nel corso di una conversazione, parola che si ritrova nel titolo del trattato di Roger de Piles, influente teorico dell’arte, autore nel 1677 delle
Conversations sur la connoissance de la peinture. Solo lo scambio di idee, solo le parole mettono a fuoco i nessi e i rapporti fra le opere e a volte ne provocano gli accostamenti. È probabile che a Giovan Battista Viola, specialista di paesaggio, guardarobiere di Ludovico Ludovisi, si dovesse nel 1621 l’idea di mettere a confronto, sul tema del dipingere i paesi, i pittori che fornivano, a Roma, il livello più alto e le sfumature diverse di quel genere affermatosi da poco. Nel suo Casino di Porta Pinciana, ora il Casino dell’Aurora Boncompagni Ludovisi, il cardinale Ludovico fece affrescare a Domenichino, al fiammingo Paul Bril, a Guercino e a Giovan Battista Viola la stanza dei paesi, mettendone a confronto l’abilità nel raffigurare gli scenari naturali.
Erano spesso i guardarobieri, oltretutto, a commentare con i visitatori le opere d’arte raccolte nei palazzi e nelle ville e, per quanto l’incontro con il visitatore possa sembrare a volte un colto artificio retorico, questo è indicato come il fattore scatenante delle prime stesure di «guide» al museo. Mattia Rosichino, l’autore della Dichiaratione, il libello che illustra nel 1640 il soggetto dell’affresco di Pietro Cortona nel salone di palazzo Barberini, afferma infatti di aver fatto stampare la spiegazione delle complesse allegorie poiché i visitatori non erano in grado di compren- derle e lo importunavano di continuo con le loro perplessità. Lo stesso riferimento alle domande dei curiosi, soprattutto «oltremontani », affiora nella premessa alla guida che Jacopo Manilli scrive della Villa Borghese nel 1650. La ricchezza straordinaria delle collezioni della villa di Scipione Borghese, che sopravanza il visitatore ancora oggi, era aumentata dalla presenza di molte sculture antiche, alienate nell’Ottocento, e da un arredo ricco e stravagante, in grado di suscitare una vertiginosa meraviglia.
La conversazione si avvaleva di accostamenti inusuali di oggetti, di confronti fra sculture e quadri, aveva come teatro interi camerini o singole pareti dedicate a uno stesso soggetto e anche Anton van Dyck, di passaggio nel febbraio del 1622, appuntò nel suo taccuino una sorta di paragone fra dipinti profani. Pur refrattario al fascino di Roma e delle sue collezioni, lo possiamo immaginare immerso nella stanza di quadri dedicati a Venere, in cui la bellezza e il potere della dea erano celebrati dal sontuoso colorismo di molte tele veneziane e dalla singolarità del linguaggio geometrizzante del genovese Luca Cambiaso. Lo schizzo del giovane Van Dyck mostra tutta la forza del paragone come elemento unificante dell’allestimento:
Venere che benda Amore di Tiziano è raffigurato accanto a una Venere e satiro di Padovanino, con le braccia di una delle ninfe che sconfinano nell’altro quadro, come se i dipinti si animassero nella vicinanza e nel confronto, non solo fra gli stili degli artisti, ma fra le attitudini della dea dell’amore.


Repubblica 28.6.17
Perché l’unica strategia vincente per combattere i populismi è provare a capirne le ragioni
Ilvo Diamanti

Nel suo pamphlet pubblicato da Laterza sul malessere che serpeggia nelle nostre democrazie, tra gli sconfitti della globalizzazione, Tito Boeri evita ogni lettura semplicistica del fenomeno Ricordando però che i suoi maggiori bersagli, la Ue e i migranti, non sono nemici ma risorse
Il populismo è divenuto un argomento “pop”. Frequentato da leader e da esperti su tutti i media. D’altronde, è difficile non misurarsi con un argomento divenuto tanto “popolare”. Questo agile saggio di Tito Boeri, tuttavia, si distacca dalla letteratura prevalente. Per la prospettiva e il punto di vista. L’autore, infatti, è uno studioso noto. Autore di importanti ricerche sul mercato del lavoro e sul welfare. Divenuto da qualche anno presidente dell’Inps. Competenze ed esperienze che orientano questo studio, concepito come lectio magistralis alla recente Biennale Democrazia di Torino.
Il populismo, osserva Boeri, è semplificazione politica e sociale. Perché, per citare Cas Mudde, raffigura la società «composta da due blocchi monolitici, fra loro contrapposti. Il popolo da una parte. L’élite dall’altra». Il populismo ha due bersagli principali. Da un lato, l’Unione Europea. Dall’altro, le migrazioni e i migranti. Al proposito, il populismo offre letture e soluzioni semplici. Anzi, semplicistiche. Per difendersi dagli altri occorre marcare i confini. Fra noi e i nemici. L’élite, gli stranieri, le burocrazie dello Stato e della Ue. Noi di fronte a loro. Senza mediatori e senza mediazioni. Perché, scandisce Boeri, il peggior nemico del populismo e dei populisti è «tutto ciò che sta nel mezzo». E, dunque, i cosiddetti corpi intermedi della società civile. Dai partiti alle associazioni di rappresentanza economica. Agli organismi di partecipazione e di garanzia. Perché ai populisti piace la democrazia diretta. Un grafico eloquente mostra come il grado di affermazione del populismo sia direttamente proporzionale al livello di istruzione e di associazionismo. Più è diffuso il grado di istruzione terziaria e di adesione alle associazioni della società civile, in Europa, più scende la percentuale dei voti ai partiti populisti.
La popolarità dei populisti, negli ultimi anni, è stata, però, amplificata dall’acuirsi del senso di vulnerabilità sociale, espresso dagli sconfitti della globalizzazione, spinti ai margini dai cambiamenti del mercato del lavoro e della tecnologia. Il populismo, come sentimento e come esperienza politica, secondo Boeri, riflette, infatti, una tensione latente fra domanda e offerta di protezione sociale. Che, talora, inibisce la capacità di leggere quel che avviene intorno a noi. Riguardo agli immigrati, anzitutto. Percepiti come un “popolo” che consuma le nostre risorse. Mentre — osserva l’autore — hanno dato risposta a molti problemi dell’occupazione. E contribuiscono a “pagare” le nostre pensioni. Soprattutto se sono integrati, nella società e nel lavoro. L’argomento di Boeri, al proposito, è sostenuto dalla sua competenza “professionale”, maturata all’Inps.
Tuttavia, l’autore non tratta queste opinioni come pregiudizi immotivati. Perché le ragioni da cui emerge il populismo non sono senza motivo. Anzitutto, l’insofferenza contro i privilegi. Sfruttati da cerchie ristrette e, per questo, insopportabili dai cittadini, in tempi di crisi. Boeri indica, in primo luogo, le rendite e i vitalizi degli eletti. Quindi, i comportamenti opportunisti, agevolati dalla globalizzazione. In particolare, l’evasione contributiva — oltre che fiscale — ad opera dei ceti più “globalizzati”. A questo proposito, Boeri propone l’istituzione di un «codice di protezione sociale unico europeo».
Si tratta di questioni note. Ma spesso eluse. Comunque, irrisolte. Talora, per responsabilità degli stessi “corpi intermedi”. Del sindacato, ad esempio, quando si oppone all’introduzione di un salario minimo.
Fra i tanti testi sul populismo, il merito di questo scritto è, dunque, di offrire proposte mirate. Praticabili e perfino “populiste”.
Il testo, semmai, dedica poco spazio al ruolo dei “media”. Oggi, tra gli amplificatori del populismo. Perché hanno spostato la politica oltre la società e il territorio La tv e il digitale: permettono al “Capo” di saltare i “corpi intermedi”, affermando il mito della democrazia diretta. D’altra parte, gli stessi leader dei “corpi intermedi” non esitano a frequentare le televisioni. A comunicare con i social media. A discutere “direttamente” con i populisti usando argomenti populisti. Fino ad assecondare la domanda di confini contro le “invasioni”. E contro l’Europa. Così, però, avverte Boeri, si dimentica che «senza l’Europa saremo sempre troppo piccoli per contare». Quando dovremo affrontare problemi di governance globale. Quando dovremo difenderci davvero dal mondo.
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Il loro punto di forza è contrapporre le élite ai cittadini, abolendo i “corpi intermedi” Ad alimentarli, le rendite degli eletti e il modo in cui i ceti privilegiati aggirano le regole
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IL LIBRO Tito Boeri, Populismo e stato sociale Laterza, pagg. 48, euro 9