SETTIMANALI del 24 giugno 2017
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Perché
far votare i sedicenni
Più
affluenza, impegno, partecipazione. I risultati di una ricerca di Oxford
È arrivato il momento di dare il voto ai
sedicenni e ai diciassettenni? Se nel nostro Paese mettessimo seriamente al
centro delle cronache politiche questa domanda anziché lo sfiancante confronto
sulla legge elettorale potremmo assistere a un dibattito interessante. Quali
sono le ragioni a sostegno dell’inclusione degli under 18 nei confini del club
dei cittadini che godono di pieni diritti politici? Quali potrebbero essere le
implicazioni dell’estensione del diritto di voto a questi adolescenti? Quali
forze politiche potrebbero farsi promotrici di questa proposta nella prossima
Legislatura?
tutte
le ragioni per dare il voto ai sedicenni
Elezioni
| I 5 stelle vogliono abbassare l’età alle urne per via dei sondaggi a loro
favorevoli. Ma in realtà si tratta di una scelta che giova a tutti. Lo dice una
ricerca di Oxford sui Paesi dove già accade. Ecco i dettagli
di
Marco Filoni Pietro Intropi
Andiamo
con ordine. Qualche settimana fa Beppe Grillo–attraverso un post sul suo blog
–ha dichiarato che «il M5s si batterà per dare il diritto di voto ai
sedicenni». Grillo lamentava, inoltre, che«solo in Italia per eleggere una
delle due Camere [il Senato] bisogna aver compiuto 25 anni, causando
distorsioni vistose nella composizione di Camera e Senato che sono tra le cause
dell’ingovernabilità». La dichiarazione del leader del M5s ha avuto scarsa eco
nei media nostrani, ma la proposta merita di essere presa seriamente in
considerazione. In altri Paesi il tema è già entrato stabilmente nel dibattito
politico. Prima delle elezioni politiche dello scorso 8 giugno, tutti i
maggiori partiti politici del RegnoUnito (il Labour, i liberal-democratici, i
verdi) a esclusione del Partito Conservatore, hanno sostenuto nei loro
programmi la proposta di allargare il diritto di voto anche ai 16-17enni. In
alcuni Paesi europei il voto ai 16-17enni è già realtà: in Scozia gli under 18
hanno potuto votare al Referendum per l’Indipendenza del 2014 (ma l’esclusione
dei 16enni dal voto sulla Brexit ha suscitato notevoli polemiche) e, dal 2015,
i più giovani possono esprimere il loro voto in tutte le consultazioni
politiche (nazionali e locali) del loro Paese. In Austria il voto agli under 18
è realtà dal 2007. In Germania il diritto di voto ai 16-17enni è garantito
nelle elezioni dei Parlamenti di alcuni Länder. Nel 2011 la Norvegia ha fatto
un “trial” estendendo il diritto ai 16enni per le elezioni locali. Infine, tra
i Paesi extra-europei che permettono il voto agli under 18, figurano Argentina,
Brasile, Cuba, Ecuador, Nicaragua (si noti che in Argentina e Brasile il voto è
obbligatorio per la fascia di età dai 18-70 anni, e che Cuba, Ecuador, e
Nicaragua, non hanno regimi classificabili come democratici). Sulla base di
queste esperienze è possibile studiare il fenomeno, valutarne vantaggi e svantaggi,
determinare gli scenari che si aprono nel campo democratico. L’ha fatto Tommy
Peto, dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche a Oxford, che
recentemente ha pubblicato un articolo sulle ragioni morali che supportano la
proposta di allargamento del diritto di voto ai 16enni, con un paper dal titolo
Why the voting age should be lowered to 16 (Perché dovremmo abbassare l’età del
voto a 16 anni). Le ragioni etico-politiche che stanno alla base della proposta
di allargamento del suffragio ai teenagers sono almeno di due tipi.
Innanzitutto, dato che i governi prendono decisioni che saranno determinanti
sugli interessi futuri delle giovani generazioni (si pensi al recente
referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea), è giusto che i più
giovani abbiano il diritto di far sentire la propria voce e di far pesare i
propri interessi. Inoltre un allargamento del diritto di voto ai teenagers
costituirebbe un passo fondamentale (analogamente all’allargamento del
suffragio alle donne all’inizio del Novecento) verso il riconoscimento di una
più compiuta eguaglianza fondamentale tra i cittadini delle democrazie
liberali.
• I
teenagers sono politicamente immaturi?
Una
tipica obiezione che viene mossa a chi si oppone all’allargamento del voto consiste
nel sostenere che i 16/17enni sarebbero politicamente immaturi rispetto ai
cittadini che hanno compiuto 18 anni. Ma Tommy Peto, incontrato da pagina99,
ritiene che questo tipo di obiezioni andrebbero rigettate perché, se il
problema è che gli under 18 «avrebbero meno conoscenze» (per esempio del
funzionamento del sistema politico) o «avrebbero meno esperienza» nei diversi
aspetti della pratica politica, le ricerche empiriche sul voto dei 16/17enni in
Austria e Norvegia mostrano che il voto degli under 18 è altrettanto
“politicamente maturo” quanto il voto dei cittadini più anziani. «Per ogni
variabile di misurazione della maturità politica –conoscenze politiche,
interesse, e stabilità delle preferenze – gli under 18 sono o tanto maturi
quanto i cittadini più anziani, o lo diventano dal momento in cui l’età per
avere il diritto di voto viene abbassata». Per esempio Peto fa notare che «la
media di conoscenze civiche e di funzionamento del sistema politico è
leggermente più alta per gli under 18 rispetto ai cittadini di 19, 21 e 23
anni». Fra l’altro tutti gli studi e le ricerche dimostrano che non vi è alcuna
differenza significativa tra le abilità cognitive di un sedicenne e quelle di
un adulto: i sedicenni hanno lo stesso livello di ragionamento morale e
scientifico; sono in grado di decidere in maniera competente; sanno mettere a
fuoco obiettivi e perseguirli; possiedono autonomia di giudizio.Questa la
ragione per cui diversi studiosi sostengono che se la “maturità” politica deve
essere il criterio chiave per decidere se i cittadini possono o meno votare i
loro rappresentanti, allora dovremmo abbandonare l’età come condizione
qualificativa e sostituirla con i test di competenza.
• I
teenagers sono disinteressati alla politica?
Altra
obiezione che viene posta contro l’abbassamento dell’età del voto è quella che
vuole i sedicenni e diciassettenni indifferenti alla politica. La loro apatia
però è tutta da dimostrare. Il ragionamento è il seguente: «Se gli adolescenti
non sono interessati alla politica, significa che non sono disposti a votare;
se non sono disposti, allora sono troppo immaturi per votare; e se sono troppo
immaturi, allora gli va negato il voto». Tuttavia, ci dice Peto, il punto è che
«la maggior parte dei teenagers non si occupano di politica esattamente perché
molta parte della politica non si occupa di loro. Ma, come hanno mostrato le
esperienze di allargamento del suffragio in Austria e Scozia, quando il sistema
politico si impegna a coinvolgere i più giovani, i più giovani si fanno coinvolgere
dalla politica». Infatti, «sebbene nel Regno Unito e negli Stati Uniti gli
under18 sono, in generale, leggermente meno interessati alla politica rispetto
ai cittadini più anziani, questo dato cambia quando gli under 18 ottengono il
diritto di voto. Dopo l’estensione del suffragio ai 16/17enni, in Austria e in
Norvegia questi sono diventati più coinvolti e più informati sulla politica
rispetto ai cittadini di 18-21 anni, e l’affluenza degli under 18 al voto è
maggiore di circa 10-12 punti rispetto all’affluenza dei giovani dai 18 ai 23
anni».
• I
teenagers sono politicamente “capricciosi”?
Non
bisogna far votare gli adolescenti perché non hanno preferenze stabili nel
tempo. In altre parole, sono “politicamente capricciosi”. Questa un’altra delle
ragioni addotte dai contrari all’allargamento del voto. Eppure, sostiene Peto,
i dati non riescono a dimostrare questa affermazione. Non solo: avere idee
politiche vaghe è il prodotto della negazione del voto: se avessero la
possibilità di votare avrebbero preferenze più concrete e definite. E poi Peto
aggiunge un’interessante riflessione sulla “partigianeria”. Chi ha deciso
infatti che cambiare preferenza politica sia un difetto? Gli anziani sono
portati a essere più fermi e stabili rispetto alle loro convinzioni politiche;
sono in qualche sorta più “partigiani” e questo fa sì che siano poi meno
critici, poiché la loro preferenza diventa col tempo abitudine politica. Al
contrario i giovani dimostrano un impegno più motivato quando viene data loro
l’opportunità di votare, come si è visto per esempio in Austria.
• Molte
buone ragioni per farli votare prima
Come
abbiamo visto nelle esperienze di alcuni Paesi, allargare il diritto di voto
ai16/17enni potrebbe avere effetti positivi sulla partecipazione politica, soprattutto
in una fase storica in cui le democrazie occidentali si confrontano con il
problema della progressiva diminuzione dell’affluenza al voto. Peto fa notare
che «abbassare l’età di voto a 16 anni potrebbe aumentare, nel lungo periodo, i
livelli di affluenza. Infatti, le ricerche empiriche mostrano che coloro che
partecipano, esprimendo il loro voto alle prime elezioni in cui possono votare,
sono più portati a mantenere la consuetudine al voto per il resto della loro
vita. E, visto che i dati sull’affluenza dei 16/17enni è molto più alta
rispetto a quella di chi vota per la prima volta nella fascia di età 18-23,
abbassare l’età di voto a 16anni può portare ad avere un vasto numero di
persone che acquisiscono l’abitudine del voto e che continueranno a mantenere
la consuetudine a votare per il resto della loro vita». Insomma, questa ricerca
mette in fila qualche punto su cui riflettere. La maturità politica è già
presente nei sedicenni. Inoltre le esperienze nei Paesi dove c’è già stato
l’abbassamento dell’età del voto ci suggeriscono con ogni evidenzache gli
adolescenti hanno tassi di partecipazione più elevati rispetto ad altri
elettori. I teenagers sono politicamente interessati quanto gli altri elettori
più anziani – e anzi sanno applicare alle loro convinzioni politiche
riflessioni critiche che i più vecchi non applicano più in quanto abitudinari.
Infine il loro voto è competente tanto quello degli altri. In definitiva su
ogni parametro –conoscenza, interesse, stabilità delle preferenze e capacità
critica – i sedicenni e i diciasettenni rispondono ai criteri della maturità
politica. E dar loro il voto significa anche rivitalizzare la vita democratica,
ampliando la partecipazione alle elezioni. Ecco perché sarebbe ora che anche in
Italia si aprisse un dibattito serio sulla proposta di abbassare l’età di voto
a 16 anni. Quali forze politiche si faranno carico di introdurre questo tema
nei loro programmi per la prossima campagna elettorale?
6 nel
mondo
I Paesi
dove i sedicenni possono votare alle elezioni generali:
Argentina,
Austria, Brasile, Cuba, Ecuador, Nicaragua
4 in
Europa
I Paesi
dove in alcune regioni o città è previsto, per determinate tornate elettorali,
il diritto di voto per chi ha compiuto sedici anni:
Austria,
Germania, Scozia, Norvegia, Svizzera
5 nel
mondo
I Paesi
dove è previsto il diritto di voto al compimento dei diciassette anni:
Corea
del Nord, Etiopia, Indonesia, Sudan, Timor Est
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Sii
radicale piacerai ai giovani
Consenso
| Da noi i 5 Stelle e poi la Lega. All’estero Bernie Sanders, Mélenchon e Le
Pen, Corbyn... Per sedurre le nuove generazioni è necessario essere “estremi”
di
Flavia Guidi
È ormai
un vecchio adagio entrato nell’opinione comune. I giovani non hanno chiare e
precise preferenze politiche, sono apatici, sono sempre più distanti dalla
politica. Mentre i partiti di massa risultano incapaci di coinvolgere la loro
generazione, disabituata a votare e lontana dalle istituzioni e dalle classiche
categorie di destra e sinistra.
Certo,
in parte è vero. E si tratta di una tendenza diffusa in Italia così come in
tutte le democrazie occidentali. Ma lo scenario è più complesso di quel che
potrebbe apparentemente sembrare. Prendiamo per esempio il caso italiano. E in
particolare la proposta di legge, depositata lo scorso marzo dal Movimento 5
Stelle alla Camera, che ufficializzava una posizione che il partito di Grillo
sostiene già da tempo: estendere il diritto di voto ai 16enni. La proposta è
figlia di un preciso calcolo politico. Fra le preferenze dei giovani infatti da
qualche anno il Movimento 5 Stelle appare il vincitore indiscusso, seguito
dalla Lega Nord. In uno scenario in cui tre forze politiche si spartiscono in
modo eguale la quasi totalità dei voti, mobilitare i giovani appare perciò
un’operazione fondamentale. Seppur non semplicissima. Come spiega Nicola
Maggini, ricercatore di scienza della politica all’Università di Firenze e
autore del libro Young People’s Voting Behaviour in Europe (Palgrave Macmillan,
2017), a determinare il voto dei giovani intervengono due componenti. «Uno è
l’effetto età, ovvero la mera età anagrafica che incide sulle proprie scelte;
l’altro è l’effetto generazione, quindi il fatto di essere giovane e formarsi
politicamente in un determinato contesto storico», dice Maggini a pagina99. Se
quindi la generazione che era giovane durante gli anni Sessanta e Settanta è
tutt’oggi incline ad avere un’idea politica strutturata e determinata, per le
persone cresciute negli anni Novanta e Duemila, in un’epoca di radicata
“depoliticizzazione”, partecipare alla vita politica è più difficile, e questo
spiega il vasto astensionismo. Eppure c’è un’altra faccia della medaglia, che
rende questa narrativa corretta solo in parte. Le ultime elezioni ci insegnano
infatti che i giovani si recano alle urne, anche in massa, nel caso in cui si
presenti un candidato capace di coinvolgerli. Questo presenta tassativamente
determinate caratteristiche. «I giovani tendono sempre, per loro natura, a
essere attratti da candidati estremi. Candidati con piattaforme e profili forti
e ben riconoscibili», continua Maggini. Non a caso, in Italia, l’ultima volta
che si è registrata una larga partecipazione dei giovani è stato in occasione
delle Europee del 2014, quando Matteo Renzi si presentava con il brand
riconoscibile di rottamatore e riscuoteva i risultati della novità che
incarnava. Ma tutte le elezioni recenti confermano questa tendenza. Nel Regno
Unito, con un programma riconducibile alla sinistra laburista degli anni Settanta,
privo quindi di effetto novità ma forte di una sua chiarezza, Jeremy Corbyn è
riuscito a portare alle urne un numero di giovani che trova pochi precedenti
nella storia inglese, e che in massa lo ha scelto. Quanto avvenuto in
quell’occasione è anche il risultato di quello che Maggini definisce un
«collettive learning» o, in altre parole, la conseguenza della lezione
impartita in occasione della consultazione per la Brexit. In quel caso, il voto
per il Remain era stato preponderante tra i giovani, fatto che aveva dato adito
ad analisi che raffiguravano un Paese diviso nettamente per età anagrafica.
Poco dopo però era emerso un problema: i giovani che avevano votato avevano sì
optato in massa per il Remain, ma la stragrande maggioranza di loro non si era
recata alle urne – lasciando la scelta in mano agli over 65. In occasione delle
ultime elezioni, invece, seppur incapaci di portare Corbyn alla vittoria, sono
riusciti a influenzarne in modo determinante il risultato. Esattamente quello
che non è avvenuto negli Stati Uniti, quando Hillary Clinton si era dimostrata
incapace di far breccia su quella fascia anagrafica. Nonostante anche in quel
caso i giovani si fossero espressi in maniera maggioritaria a suo favore, la
candidata democratica, con il suo profilo moderato e centrista, non era
riuscita a ottenere una mobilitazione giovanile di massa. A lei, i millenial
preferivano nettamente Bernie Sanders. Ma il successo di personaggi come Corbyn
e Sanders, marcatamente di sinistra, non ci dice tutto del comportamento dei
giovani alle urne. Nel caso delle elezioni francesi, caratterizzate dalla
vastissima astensione, Macron ha sì conquistato la maggioranza al secondo
turno, ma non era il candidato con il profilo più giovanile. Come dimostrato
durante le primarie, i giovani preferivano in prima istanza Jean-Luc Mélanchon,
seguito subito dopo da Marine Le Pen: due candidati, seppur posizionati agli
estremi opposti dello spettro politico, accomunati da idee radicali. In uno
scenario in cui tutte le parti politiche in gioco sembrano sacrificare prese di
posizione nette per conquistare un elettorato il più trasversale possibile, al
di là della destra e della sinistra, i giovani dimostrano di premiare posizioni
chiare e radicali. Con una precisazione fondamentale: la storia recente ci
insegna che dove la politica funziona, populismi e destre estreme hanno meno
possibilità di affermarsi. Per il resto, giustificare l’astensione dei giovani
con il fatto che sono irreversibilmente disinteressati alla politica è soltanto
un vecchio adagio.
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la Cina
è obesa
In Cina
ci sono 57 milioni di obesi. A dirlo è un nuovo studio dell’Università di
Washington a Seattle pubblicato sull’ultimo numero del New England Journal of
Medicine. Solo i bambini, erano 15 milioni nel 2015, più che in qualsiasi altro
Paese. In numeri assoluti, gli obesi cinesi sono secondi solo ai 79 milioni
degli Stati Uniti e rappresentano il 12 per cento della popolazione. «Il
girovita dei cinesi cresce più velocemente del Pil della loro nazione»,
scherzano medici e addetti ai lavori. Solo cinquant’anni fa, a seguito del
disastroso “Balzo in avanti” voluto da Mao Zedong, tra i 15 e 45 milioni di
cinesi sono morti per carenza di cibo e problemi connessi. E fino agli anni
Ottanta il cibo era razionato: mangiare carne era una festa, e nelle metropoli
ci si nutriva quasi esclusivamente di riso e verza, si pagava con i mian -
piao, una sorta di tessera annonaria con cui veniva distribuito il cibo
razionato. Oggi la maggior parte dei colletti bianchi mangia almeno una volta
al giorno al ristorante, si sposta in macchina e passa giornate intere davanti
al computer. Con la dieta è cambiato anche l’aspetto fisico dei cinesi,
soprattutto dei bambini. Presto curarli sarà anche un problema sociale. (cag)
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Tech
americane ombre cinesi
Gli
Stati Uniti vogliono controllare meglio gli investimenti cinesi nella Silicon
Valley per proteggere tecnologie sensibili e vitali alla sicurezza nazionale. È
quanto sostiene Reuters, citando anonimi funzionari e un rapporto del Pentagono
non ancora di dominio pubblico. Particolare preoccupazione desterebbero gli
interessi della Cina nell’intelligenza artificiale e nel machine learning,
ovvero l’apprendimento automatico delle macchine. Secondo le fonti dell’agenzia
di stampa britannica l’amministrazione americana teme che tecnologie sviluppate
negli Stati Uniti finiscano per servire gli interessi militari e le industrie
strategiche della seconda economia mondiale. Per questo si starebbe valutando
un rafforzamento del ruolo del Comitato per gli investimenti stranieri negli
Usa (Cfius), un ente che ha il compito di valutare le acquisizioni estere di
aziende americane importanti per la sicurezza nazionale. Già durante
l’amministrazione Obama il Comitato aveva bloccato una tentata acquisizione da
parte dei cinesi di un’azienda leader nel settore dei processori di fascia
alta. Diversi economisti e industriali statunitensi di prim’ordine sono però di
tutt’altro avviso e sottolineano come un atteggiamento tanto protezionista
potrebbe fallire comunque l’obiettivo di evitare il trasferimento di
tecnologie, finendo al contempo per indebolire le relazioni commerciali con la
Cina con un conseguente danno economico per gli Usa. La Repubblica popolare,
dal canto suo, ha preso una posizione ufficiale attraverso il portavoce del
ministro degli Esteri Lu Kang che ha sottolineato come gli investimenti del suo
Paese non debbano essere «interpretati politicamente», né possono essere
tollerate «interferenze politiche». (cag)
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Una
Repubblica popolare di automi
Fabbrica
4.0 | La Cina vuole produrre 400 mila robot industriali entro il 2030. Nel
frattempo acquista know-how e aziende estere leader nel settore
La Cina
ha installato 90 mila robot nel 2016, un aumento del 30 per cento rispetto
all’anno precedente e complessivamente un terzo del totale mondiale.
L’incremento è fortemente sponsorizzato dal governo e va sotto l’etichetta Made
in China 2025 dell’attuale piano quinquennale, quello che indirizza il
difficile processo di transizione da fabbrica del mondo a società di consumi
della seconda economia mondiale. Innovazione e automazione guideranno
l’industria fino al 2025. Poi, se tutto andrà secondo quanto deciso dalla
politica cinese, per il 2035 la Cina potrà competere con i Paesi più avanzati e
nel 2049, per il centenario della Repubblica popolare, sarà nuovamente un Paese
leader nel manifatturiero, superando Germania, Giappone e Stati Uniti. Il cuore
del progetto è la robotica. La fabbrica 4.0 apre le porte a una rivoluzione
industriale che, secondo i più, avrà effetti sulla società paragonabili a
quelli di fine Settecento. I dati parlano chiaro. La Repubblica popolare vuole
essere in grado di produrre 150 mila robot industriali entro il 2020, 260 mila
entro il 2025 e 400 mila entro il 2030. Se gli obiettivi posti dalla leadership
verranno rispettati, nel prossimo decennio la robotica genererà un fatturato da
88 miliardi di dollari. Per questo il governo dispensa incentivi affinché le
fabbriche si automatizzino il prima possibile e sempre più aziende si occupino
della produzione locale di robot. In un discorso del 2014 all’Accademia di
scienze sociali, il principale think tank del Paese, il presidente Xi Jinping
aveva riassunto la sua visione di quella che ha chiamato «la rivoluzione dei
robot»: «Il nostro Paese sarà il mercato principale per la robotica. Ma la
tecnologia e la capacità manifatturiera cinesi saranno in grado di competere
con il resto del mondo? Bisogna sviluppare la nostra robotica e conquistare gli
altri mercati». Nel 2015 l’amministrazione della regione meridionale del
Guangdong ha annunciato un investimento di 135 miliardi di euro per arrivare ad
automatizzare l’80 per cento delle fabbriche entro il 2020. Migliaia di stabilimenti
hanno già aderito al piano e centinaia di start up stanno sperimentando
un’economia legata alla robotica, con tutta l’innovazione che comporta. Nel
frattempo si acquistano know how e aziende estere leader nel settore. Solo nel
2016 sono passate in mano cinesi le tedesche Midea e KraussMaffei, la
multinazionale Dematic e la statunitense Paslin. La sfida è quella di arrivare
il prima possibile alle cosiddette dark factory, fabbriche completamente
automatizzate in cui è necessario talmente poco personale «che si potrebbe
spegnere la luce senza che la produzione venga interrotta». La paura è quella
di arrivarci prima di riuscire a riqualificare centinaia di milioni di
lavoratori. (cag)
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Fiumi
(cinesi) di plastica
Inquinamento
| L’86 per cento della celluloide degli oceani proviene dall’Asia
Gli
oceani, è noto, sono pieni di plastica. Ma secondo una recente ricerca
pubblicata su Nature, l’86 per cento delle particelle più o meno grandi di
poliuretano che, attraverso i fiumi, entra nei mari proviene da un unico
continente: l’Asia. Si stima siano tra 1,15 e 2,41 milioni tonnellate all’anno
che, secondo la fondazione di ricerca olandese Ocean Cleanup Every Year, si
concentrano soprattutto nei fiumi che attraversano Cina, Indonesia e Myanmar.
Tra i venti fiumi più “ricchi”di plastica, infatti, sette sono cinesi. La
classifica di Ocean Cleanup è dominata dalle 20 mila tonnellate all’anno
contenute dal Fiume azzurro, seguito dal Gange e da un affluente del fiume
delle Perle, lo Xi. Seguono i fiumi del continente africano, (appena il 7,8 per
cento del totale globale), il Sud (4,8%) e il Nord (0,95%) America, l’Europa
(0,28%) e l’Australia (0,02%). Un dato ancora più preoccupante è che, secondo
uno studio dell’Università di Cadice, del 99 per cento della plastica che si
stima sia finita negli oceani, non c’è traccia. Ovvero: quello che riusciamo a
quantificare è solo la punta dell’iceberg. Sicuramente l’Asia paga il fatto di
essere il continente più popoloso al mondo, ma bisogna considerare che la
quantità di plastica procapite è infinitamente inferiore a quella di Paesi più
orientati al consumo come gli Stati Uniti. La Cina come al solito fa caso a sé.
È infatti il più grande produttore di oggetti di plastica al mondo: quasi il 30
per cento dei 269 milioni di tonnellate fabbricati globalmente. E l’esplosione
dell’e-commerce non ha aiutato. Si calcola che solo l’anno scorso, le aziende
che si occupano della consegna abbiano usato 12 miliardi di buste di plastica.
Secondo i dati raccolti dal programma ambientale dell’Onu, entro il 2050 il 99
per cento degli uccelli marini avrà ingerito della plastica. I rifiuti in mare
hanno già importanti conseguenze su 600 specie marine: il 15 per cento di
queste è oggi in via di estinzione. E il rischio che la plastica entri nella
catena alimentare è ormai concreto. (cag)
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Se la
sinistra liberale non sa parlare agli esclusi
Nell’ultimo
anno nel mondo occidentale sono accadute diverse cose inattese. Il 24 giugno
scorso i cittadini britannici hanno votato a favore della Brexit, poi, a
novembre, Donald Trump ha vinto le elezioni. Più recentemente il leader
laburista Jeremy Corbyn ha registrato un successo che nessuno aveva previsto
alle elezioni indette dal primo ministro Theresa May, convinta di una vittoria
a valanga dei conservatori; e un giovane outsider, Emmanuel Macron, ha ottenuto
la maggioranza assoluta nel parlamento di Parigi in un’elezione che ha visto la
quasi estinzione del partito socialista. L’elemento che lega questi quattro
avvenimenti è l’imprevedibilità.
Dibattito
| La crisi del modello democratico occidentale affonda le radici nel
neoliberismo degli anni ’70 e ’80. Uno schema che favorisce pochi a scapito
della maggioranza. E che travasato nella terza via blairiana e clintoniana ha
allontanato i ceti più svantaggiati dalle élite riformiste
di
Enrico Pedemonte
Nell’ultimo
anno nel mondo occidentale sono accadute diverse cose inattese. Il 24 giugno
scorso i cittadini britannici hanno votato a favore della Brexit, poi, a
novembre, Donald Trump ha vinto le elezioni. Più recentemente il leader
laburista Jeremy Corbyn ha registrato un successo che nessuno aveva previsto
alle elezioni indette dal primo ministro Theresa May, convinta di una vittoria
a valanga dei conservatori; e un giovane outsider, Emmanuel Macron, ha ottenuto
la maggioranza assoluta nel parlamento di Parigi in un’elezione che ha visto la
quasi estinzione del partito socialista. L’elemento che lega questi quattro
avvenimenti è l’imprevedibilità.
I
cosiddetti esperti consideravano Trump nulla più che un fastidioso ostacolo per
Hillary Clinton nella corsa alla casa Bianca; il referendum sulla Brexit era
stato indetto nella certezza che l’appartenenza del Regno Unito all’Unione
europea non fosse in discussione; Emmanuel Macron è stato a lungo considerato
solo un giovane di belle speranze; quanto a Corbyn, negli ultimi mesi gli
analisti si sono affannati a descrivere la sua nomina alla guida del Labour
come la ricetta sicura per la fine del partito storico della sinistra
britannica: Corbyn il veterocomunista schierato a favore della sanità pubblica
e della scuola gratuita, l’idealista che predica reti di protezione sociale per
i ceti meno abbienti e chiede tasse più alte ai ricchi. Più tasse? Quando mai
si è sentito, negli ultimi quarant’anni, un uomo politico con ambizioni di
successo predicare un aumento delle imposte? Gli analisti che hanno fatto a
pezzi Corbyn non hanno spiegato perché i giovani britannici abbiano votato in
massa per lui, né perché gli iscritti al partito, nell’era della disaffezione
alla politica, siano cresciuti di mezzo milione; e neppure hanno scritto che il
successo del leader è stato possibile grazie a decine di migliaia di giovani
militanti che hanno girato casa per casa a convincere gli elettori. Per
chiudere il cerchio di questa introduzione, è bene ricordare che sull’altra
sponda dell’Atlantico il radicale Bernie Sanders, che alle primarie del 2016
aveva combattuto come un leone contro Hillary Clinton, continua a essere uno
dei politici più amati dai democratici. Come Corbyn, Sanders basa la sua
battaglia politica sulla lotta alle diseguaglianze e si definisce «socialista»,
un aggettivo che i politici americani, almeno fino a ieri, hanno sempre evitato
con molta cura per non essere considerati degli inaffidabili sognatori. Che
cosa sta succedendo?
•
Liberalismo in ritirata
Edward
Luce, uno dei più prestigiosi opinionisti del Financial Times, ha appena
pubblicato il saggio The Retreat of Western Liberalism (La ritirata del liberalismo
occidentale, Little,Brown) che racconta con toni piuttosto cupi (ma
convincenti) la crisi del modello occidentale a partire dai due Stati guida,
gli Stati Uniti e il Regno Unito, e del modello neoliberista che in quei Paesi
si è sviluppato a partire dalla fine degli anni Settanta, con l’ascesa di
Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Luce, che pure è una colonna del giornale
simbolo della City londinese, costruisce una narrativa che fa risalire la crisi
attuale (una crisi grave, strutturale, che coinvolge tutto l’Occideente) a
quell’epoca di estremismo ideologico che ha segnato un’era: l’epoca in cui, per
dirla con Reagan, «il governo era il problema, non la soluzione», e il mercato
– specie se non regolato – era considerata la bacchetta magica in grado di
risolvere tutti i problemi. Fu quell’ideologia a plasmare il processo di
globalizzazione che si è imposto nel mondo e che – nelle intenzioni di allora –
avrebbe dovuto portare benefici per tutti «come la marea che fa salire tutte le
barche». La realtà è andata diversamente: molte barche sono affondate, altre
imbarcano acqua e oggi rischiano di portare al naufragio l’intero mondo
occidentale.
• Quei
leader a Firenze
Perché
quella visione del mondo – che nel frattempo si è infranta contro la realtà –
ha contagiato in modo profondo la cultura contemporanea, anche quella della
sinistra. Luce ricorda un incontro che si svolse a Firenze allo scadere del
secolo scorso (era il novembre 1999) tra i primi ministri europei (quelli
progressisti) che allora sembravano incarnare lo spirito stesso della
modernità: c’erano il britannico Tony Blair, il francese Lionel Jospin, il
tedesco Gerhard Schroeder e l’italiano Massimo D’Alema. E insieme a loro erano
presenti anche Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea, oltre
a Bill e Hillary Clinton, che ancora alloggiavano alla Casa Bianca. Quei leader
parteciparono a una tavola rotonda che aveva un titolo (La nuova economia:
uguaglianza e opportunità) che oggi suona beffardo. Naturalmente è facile dare giudizi
a posteriori, e a quell’epoca molti di noi erano incantati da una sinistra che
si andava “modernizzando” e da leader che predicavano un mondo post-ideologico
e discettavano di una “terza via” che avrebbe superato le divisioni tra le
classi sociali. Ma quei leader “moderni” che avevano adottato il linguaggio di
Davos e della McKinsey – dice Luce –, sapevano sì dialogare con la nuova classe
cosmopolita, ma non non erano più in grado di parlare ai perdenti.
• Come
votano i poveri
È
questa la ragione che ha portato alla rottura tra la sinistra tradizionale e le
classi subalterne? Luce ne è convinto e i dati sembrano dargli ragione. Negli
Stati Uniti e in Gran Bretagna l’analisi dei voti recenti mostra in modo
lampante come la “nuova economia” abbia cambiato la geografia stessa della
ricchezza che si è concentrata soprattutto nelle grandi metropoli. Così, mentre
due terzi dei londinesi ha votato per restare in Europa, tutto il resto
dell’Inghilterra e il Galles si sono espressi per la Brexit. E negli Stati
Uniti tutte le 493 contee più ricche del Paese hanno votato per Hillary mentre
le altre 2.623 hanno preferito Trump. La “nuova economia”, con il mito di una
meritocrazia che in realtà serve a perpetuare ricchezza e potere all’interno
delle classi agiate, porta a una concentrazione di “talenti” e di cittadini ad
alto reddito nelle grandi metropoli: un fenomeno che non è mai stato così
estremo e che è ben visibile anche nelle elezioni italiane, dove a votare a
sinistra sono ormai le classi sociali più abbienti, istruite e metropolitane.
«Le città dell’Occidente», scrive Edward Luce con un’immagine che fotografa con
precisione il mondo in cui viviamo, «sono isole circondate da un mare di
risentimento». Se nel mondo l’uno per cento dei più abbienti controlla il 30%
della ricchezza complessiva e le élite continuano a parlare del potere
salvifico del “mercato”, nell’opinione pubblica si diffonde un pessimismo cupo.
E i perdenti, nella confusione ideologica che ha rotto gli steccati tra destra
e sinistra, scelgono chi promette un ritorno a un mondo foderato di sicurezze
prendendo di mira i “nemici” principali: la globalizzazione, l’Unione europea,
gli immigrati... Ai tempi della prima industrializzazione, a una crescita delle
ineguaglianze erano seguiti un aumento del benessere collettivo e la
moltiplicazione dei posti di lavoro. Oggi la storia non sembra ripetersi. In
alcuni Paesi (gli Stati Uniti, per esempio) il tasso di occupazione scende,
l’innovazione tecnologica impone cambiamenti così rapidi da creare insicurezza,
le aspettative diminuiscono e la rabbia cresce.
• La
crisi delle democrazie
Tutto
ciò non produce solo una generale sfiducia nelle élite, ma nel concetto stesso
di democrazia. Dalla fine del secolo scorso in almeno 25 Paesi nel mondo i
sistemi democratici hanno fallito e tre di questi (Turchia, Russia e Ungheria)
sono in Europa. E in tutti i casi la colpa del fallimento è da imputare alla
sfiducia dei cittadini “rimasti indietro”. «Non c’è democrazia senza
borghesia», disse il sociologo americano Barrington Moore. E in molti Paesi
dell’Occidente la classe media sente franare la terra sotto i piedi. C’è da
stupirsi se queste persone si schierano contro chi dice di difenderli? No, è
sempre accaduto nella storia. Edward Luce nota che nell’Europa continentale il
peso dei partiti populisti è tanto più forte quanto è più solido il welfare da
difendere: in Danimarca il Partito del popolo e in Olanda il partito per la
libertà di Geert Wilder, ponendosi come baluardi contro gli immigrati (che
usano lo stato sociale pagato dai cittadini) hanno conquistato i voti di oltre
un quarto dei lavoratori che fino a ieri votavano socialdemocratico. In Francia
Marine Le Pen propone un «contratto sociale contro l’occupazione islamica».
L’Ukip britannico, nato come piccolo partito antitasse, è diventato poi uno
strenuo difensore del servizio sanitario, e nel corso della campagna della
Brexit diffuse la colossale bugia che uscendo dalla Ue il Regno Unito avrebbe
liberato 350 milioni di sterline da investire nella sanità per i cittadini
britannici. E anche in Italia il Movimento Cinque Stelle, vedendo l’aria che
tira, sta indurendo la propria strategia anti-immigrati schierandosi contro lo
ius soli.
• Il
sogno infranto
Tutto
ciò – dice Luce – ha naturalmente un impatto molto radicale sul ruolo che
l’Occidente ha nel mondo. Il fatto che si stiano moltiplicando gli Stati
autoritari e le democrazie illiberali è il segno che qualcosa è andato storto:
forse pensare che il resto del mondo seguisse il nostro copione è stato solo il
frutto della nostra arroganza. In realtà la marcia verso la libertà – e verso
un benessere sempre maggiore – non è un processo inarrestabile. In Occidente
abbiamo una visione lineare della storia, dove il tempo si srotola di fronte a
noi e non può che portarci al progresso e alla felicità. Ma quel sogno si è
spezzato. E forse hanno ragione i cinesi e gli indiani, che invece hanno una
visone circolare della storia. Forse torneremo a un mondo multipolare, dove il
primato dell’Occidente sarà un ricordo. Cina, India e Russia si stanno battendo
contro la nostra ambizione di imporre valori universali a tutti , e c’è da
augurarsi che questo scontro - qualunque esito abbia - prosegua pacificamente.
Ma per tornare con i piedi per terra, e capire la reale dimensione di quello
che sta accadendo conviene dare un’occhiata a una vignetta del New Yorker che
racconta meglio di qualunque altra cosa la crisi che sta vivendo l’Occidente.
C’è una povera donna cinese che dice al figlio, davanti a una ciotola di riso:
«Mangia, e pensa ai bambini della West Virginia che hanno fame». Siamo in
difficoltà, le aspettative non sono più quelle di un tempo, il populismo
cresce. Ma non esageriamo: un po’ di ironia non guasta.
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I
terroristi sono dei dementi?
Senso
di ingiustizia, religione, politica. I percorsi di radicalizzazione alla base
degli atti di terrorismo sono fenomeni complessi, risultato di svariate cause.
Ma chi lo avrebbe detto che fra queste c’è anche qualcosa di molto simile alla
demenza? Un team di ricercatori guidati da Sandra Baez, psicologa
dell’Università Favaloro di Buenos Aires, ha pubblicato su Nature uno studio
secondo cui il terrorista, pur non essendo clinicamente uno psicopatico, ha
qualcosa che non va dal punto di vista neurologico. Più precisamente, ad
apparire “deviante” è il modo - simile a quello dei bambini o di chi soffre di
danni nella regione frontotemporale del cervello - in cui il terrorista formula
i suoi giudizi morali, . Nel corso del loro studio, i ricercatori hanno selezionato
66 ex-terroristi colombiani, colpevoli (in media) di 33 omicidi a testa, e
hanno sottoposto loro un questionario. Alle stesse domande hanno risposto due
gruppi di controllo, uno composto da incensurati e l’altro costituito da
assassini non legati al terrorismo. Il test ha misurato alcune caratteristiche
come il quoziente intellettivo, la capacità di riconoscere le emozioni delle
persone e il giudizio morale. In relazione a quest’ultimo aspetto, le “cavie”
sono state messe di fronte a 24 scenari di violenza intenzionale o accidentale
e successivamente è stato chiesto loro di esprimere un giudizio in merito.
Quasi tutti i componenti dei due gruppi di controllo, come era prevedibile,
hanno fornito una valutazione morale in cui a prevalere sono le intenzioni
dell’azione piuttosto che i risultati. Ma per i terroristi è stato esattamente
l’inverso: per loro ciò che conta è l’esito finale nel giudizio etico delle
azioni compiute. Detentori di visioni utopiche che sono un pensiero fisso, per
loro uccidere degli innocenti è moralmente accettabile se l’azione va verso la
realizzazione di queste visioni. Tale prospettiva, precisa lo studio, è quella
che più ha discriminato i gruppi esaminati: una distorsione tipica della
mentalità terroristica. In sintesi, se l’azione contribuisce a raggiungere il
finale desiderato, allora è moralmente accettabile. Un modello etico che per i
ricercatori assomiglia molto a quello dei pazienti con patologie neurologiche
come la demenza frontotemporale.
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Il
potere logora il cervello di chi ce l’ha
Studio
| La morale di chi fa attentati è simile a quella dei neuropatici
«Il
potere logora chi non ce l’ha», diceva sarcastico Giulio Andreotti. Può darsi,
ma può provocare danni significativi anche – e soprattutto – a chi ne dispone.
Dacher Keltner, psicologo dell’università di Berkeley che ha studiato per anni
il comportamento di personaggi di potere, sostiene che nel lungo periodo questi
soggetti comincino a comportarsi come se avessero subito delle lesioni al
cervello, diventando più impulsivi, meno consapevoli del rischio e –
soprattutto – meno capaci di vedere le cose da punti di vista diversi dal
proprio. Più di recente, gli studi del neuroscienziato Sukhvinder Obhi
dell’università dell’Ontario, sono arrivati a conclusioni simili a quelle di
Keltner. «Una volta raggiunto il potere, perdiamo alcune di quelle capacità che
in un primo momento ci avevano consentito di conquistarlo», spiega Jerry Useem
su The Atlantic. In particolare è la capacità di empatia, di mettersi nei panni
dell’altro a venire meno o a ridursi notevolmente. Nel 2009, Lord David Owen,
neurologo britannico con una certa familiarità con il potere – ex parlamentare,
negli anni Settanta fu anche segretario agli affari esteri – in un articolo pubblicato
sulla rivista Brain e scritto insieme al collega Jonathan Davidson, descrisse
quella che definì la “sindorme di Hubris”, un disturbo della personalità dei
potenti, «in particolare di quelli che hanno avuto un notevole successo,
mantenuto per un periodo di anni e con limitazioni minime per il leader». Owen
aveva analizzato il comportamento dei presidenti americani e dei primi ministri
inglesi nel corso del Novecento. Le persone affette da sindrome di Hubrsi
manifestano, scriveva Owen, marcato disprezzo per gli altri, mancanza di
contatto con la realtà e la capacità di compiere azioni spregiudicate e persino
di arrivare a ostentare la propria incompetenza. Owen ha fondato anche una
associazione per studiare e curare il disturbo.
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RICERCA
il tempo diverso dei bilingue
Il
tempo è un concetto astratto, non possiamo toccarlo ne vederlo, eppure è
intorno a esso, e all’idea di spazio, che costruiamo la nostra vita e la nostra
visione del mondo. Il tempo influenza la percezione dell’altro e le nostre
emozioni. Per capire come questo avvenga, Panos Athanasopoulos e Emanuel
Bylund, ricercatori dell’Università di Lancaster, hanno analizzato il
linguaggio di persone diverse, arrivando alla conclusione che, rispetto a chi
parla una sola lingua, i bilingue pensano al tempo in modi differenti, più
flessibili, a seconda del «contesto linguistico in cui stanno stimando la
durata di un determinato evento». «Il linguaggio può influenzare i nostri sensi
di base», spiegano gli studiosi, «incluse le nostre emozioni, le nostre
percezioni visive e, ora sappiamo, anche il nostro senso del tempo». I bilingue
pensano in maniera più «flessibile: la loro capacità di passare agevolmente da
un idioma a un altro, quotidianamente, dà loro un vantaggio sia nella capacità
di apprendimento che di multitasking. E nel lungo periodo anche un benessere
mentale superiore».
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Bimbi,
imparate da Stalin e Mao
Dibattiti
| Esce in America Communism for kids. Bollato da decine di recensori come una
vergogna. Peccato che, al di là del titolo, si tratta di una critica
Si sa,
l’educazione dei nostri bambini sta a cuore a tutti. E si moltiplicano allora
utilissimi manuali di consigli per allevarli nel migliore dei modi. Fra i molti
qualcuno spicca per sensibilità e aureo estro. Per esempio: è importante dar
loro modelli a cui far riferimento. Ecco: volete che i vostri piccoli cuccioli
crescano imitando le gesta dei dittatori comunisti, artefici di non pochi
genocidi? Volete amorevolmente insegnare loro come gestire un gulag? Volete che
crescano con i giusti valori, come la distruzione dell’Occidente? Finalmente
c’è il libro per voi, e pure per una cifra modesta: appena 12,95 dollari. Si
tratta di Communism for Kids, pubblicato in America nientemeno che dalle
blasonate edizioni del Mit di Boston – traduzione del volumetto tedesco di Bini
Adamczak, apparso con il titolo K o m m u n ismus: kleine Geschichte, wie
endlich alles anders wird (Comunismo: piccola storia di come tutto sarebbe
potuto andare diversamente). Qui troverete i grandi eroi della storia, da
Barack Obama a Stalin, da Mao a Bernie Sanders passando per Fidel Castro:
campioni di libertà, valorosi e prodi combattenti per un mondo più giusto e…
comunista! Il tutto raccontato come si deve: ci sono le principesse (gelose), i
contadini (arrabbiati), i lavoratori sfruttati (che rompono le catene del giogo
del padrone)... Ora, in America il libretto non è proprio passato inosservato.
Il New York Times s’è preso la briga di fare l’elenco di testate, autorevoli
esponenti politici, intellettuali e non solo che si sono scandalizzati e hanno
gridato con voce forte Vergogna!Si va da Breitbart alla National Review, dal
Daily Best alla Fox News, e poi ancora Milo Yiannopoulos e Steven Crowder e
così via. Reazioni sacrosante, si dirà. Certo, se non fosse per un piccolo,
piccolissimo problema: è tutto falso. Chiunque si sia preso la briga di leggere
il libro non fermandosi al solo titolo, capirà che è una critica della storia
del comunismo. L’autrice, che ha scritto diverse opere sulle tragedie
dell’Unione Sovietica, cerca di raccontarle con un linguaggio semplice, non da
specialisti. E la sua è una narrazione di sofferenze, sconfitte e fallimenti.
Parlarne non è semplice. Lei lo fa con ironia, certo, ma anche prendendo sul
serio le motivazioni, i desideri e gli ideali di coloro che hanno sostenuto il
comunismo con i suoi fallimenti. Ah, se i recensori leggessero i libri anche in
America! Insomma, bisogna rivolgere un appello agli editori italiani: correte ad
accaparrarvi i diritti di questo libello. Ci pensate alle reazioni scomposte,
immotivate, e a quanto ci si potrebbe divertire qui da noi?
Internazionale
24.6.17
RUSSIA
Condannate le norme sui gay Il 20 giugno la Corte europea dei diritti umani ha
stabilito che la Russia deve risarcire gli attivisti per i diritti degli
omosessuali condannati in base alla legge sulla propaganda gay adottata nel
2013, riferisce il Moscow Times. Secondo la corte la legge, che vieta di
“promuovere davanti ai bambini relazioni non tradizionali” e prevede multe ino
a 1.500 euro, viola la libertà di espressione.
Internazionale
24.6.17
Cina
Giappone Stop ai prestiti online
Caijing,
Cina
Il
governo cinese ha vietato il sistema di prestiti peer-to-peer che permette agli
studenti universitari cinesi di trovare su internet persone disposte a fargli
credito per comprare beni di consumo e alla moda. Solo nel 2016, scrive
Caijing, i giovani cinesi hanno speso circa 450 miliardi di yuan (più di 40
miliardi di euro). Si tratta però di sistemi di prestito poco sicuri, con
crediti concessi spesso a tassi d’usura (in un caso limite anche del 30 per
cento) a ragazzi inesperti che non sanno cosa voglia dire comprare a debito.
Nel 2016 fece scalpore la notizia di alcune ragazze costrette a dare come
garanzia per il prestito delle foto in cui apparivano nude e che sarebbero
state diffuse online se non fossero riuscite a ripagare gli strozzini. E non
mancano casi di ragazze costrette a prostituirsi per restituire le somme.
Settantaquattro piattaforme che offrono prestiti dovranno sospendere le
attività rivolte agli universitari. I ragazzi potranno rivolgersi però alle
banche di stato.
Internazionale
24.6.17
Un
linguaggio complesso
di
Nathaniel Herzberg, Le Monde, Francia
Didier
Demolin è categorico: “I murichi dispongono del sistema di comunicazione vocale
più avanzato mai scoperto nel mondo non umano”. A dirlo non è un primatologo,
ma un linguista, docente all’università Sorbonne nouvelle di Parigi ed esperto
di acustica e fonetica. Da molti anni analizza il linguaggio dei primati per
risalire alle fonti della nostra comunicazione. Ha studiato a lungo le grandi
scimmie africane, i gorilla e i bonobo. “Poi un giorno sono stato contattato da
alcuni brasiliani che avevano registrato le comunicazioni tra murichi e
volevano il mio parere”. Esaminando il materiale lo scienziato ha scoperto
innanzitutto alcuni elementi acustici particolari, salti di frequenze,
bifonazioni (due note insieme), subarmonici. “Negli esseri umani sono fenomeni
eccezionali e segnalano sempre una patologia; per loro sembravano naturali”. In
particolare Demolin ha osservato la comparsa di alcune regolarità nelle
registrazioni, degli “schemi”, come dicono i linguisti, “che si ripetevano con
una cadenza costante”. “Ho avvertito Francisco Mendes dell’università di
Brasília, il collega che mi aveva mandato i materiali. Lui ha scherzato: ‘Ah,
l’hai visto anche tu?’. Così ho continuato a indagare”. Demolin ha isolato
quattordici “elementi discreti”, unità di base. Poi ha individuato dei
raggruppamenti di elementi. Infine quelli che i linguisti definiscono
enunciati, associazioni di raggruppamenti. “Ci guardiamo bene dal parlare di lettere,
parole e frasi per non incorrere in interminabili guerre di religione che
rendono impossibile qualsiasi lavoro, ma capirei se qualcuno facesse questo
paragone”, sorride il linguista. E in effetti i risultati delle sue ricerche
potrebbero essere un duro colpo per quelli che vedono proprio nel linguaggio la
specificità più intrinsecamente umana. Il ricercatore belga e i colleghi
brasiliani hanno evidenziato scambi sequenziali tra gli animali: uno esprime un
enunciato, un altro risponde riprendendo una parte del primo, poi lui o un
terzo animale ricomincia, il tutto senza sovrapposizioni. Gli studenti hanno
inoltre individuato una struttura ricorrente nelle curve d’intensità sonora di
ogni enunciato: prima crescente, poi decrescente. Hanno dimostrato che lungi
dall’essere stereotipati o di natura emotiva, gli enunciati sono imprevedibili.
“Come negli umani”, spiega Didier Demolin. Sul terzo gradino Soprattutto, i
ricercatori pensano di avere le prove del fatto che il linguaggio dei murichi
sia ricorsivo e sensibile al contesto. La ricorsività consiste nell’inserire
elementi in altri elementi per formare gli enunciati: “L’uomo mangia la mela,
che è rossa, che cresce in Normandia”. La sensibilità al contesto si traduce
nell’associare ciascun elemento a quello che lo precede e a quello che lo
segue. “Si credeva che fossimo gli unici a disporre di queste due
caratteristiche”, precisa Demolin. Il linguista statunitense Noam Chomsky ha
teorizzato una scala dei linguaggi che prevede quattro livelli. Gli animali sono
al primo livello, tutt’al più al secondo. L’uomo al quarto, quello delle lingue
“non limitate”. Con la ricorsività e la sensibilità al contesto il murichi si
colloca sul terzo gradino. Demolin e Mendes proseguiranno le loro ricerche per
provare a definire il senso dei diversi elementi. “Per il momento non siamo
ancora a quel punto”, dice Demolin. Mendes ha inoltre osservato che alcuni
elementi sembrano essere riservati alle femmine sessualmente ricettive, o che
gli elementi corti sono rivolti ad animali vicini mentre quelli più lunghi
hanno dei destinatari più lontani. “Dobbiamo scoprire ancora molte cose”,
garantisce il linguista.