mercoledì 28 giugno 2017

settimanali


SETTIMANALI del 24 giugno 2017


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Perché far votare i sedicenni
Più affluenza, impegno, partecipazione. I risultati di una ricerca di Oxford

 È arrivato il momento di dare il voto ai sedicenni e ai diciassettenni? Se nel nostro Paese mettessimo seriamente al centro delle cronache politiche questa domanda anziché lo sfiancante confronto sulla legge elettorale potremmo assistere a un dibattito interessante. Quali sono le ragioni a sostegno dell’inclusione degli under 18 nei confini del club dei cittadini che godono di pieni diritti politici? Quali potrebbero essere le implicazioni dell’estensione del diritto di voto a questi adolescenti? Quali forze politiche potrebbero farsi promotrici di questa proposta nella prossima Legislatura?
tutte le ragioni per dare il voto ai sedicenni
Elezioni | I 5 stelle vogliono abbassare l’età alle urne per via dei sondaggi a loro favorevoli. Ma in realtà si tratta di una scelta che giova a tutti. Lo dice una ricerca di Oxford sui Paesi dove già accade. Ecco i dettagli
di Marco Filoni Pietro Intropi

Andiamo con ordine. Qualche settimana fa Beppe Grillo–attraverso un post sul suo blog –ha dichiarato che «il M5s si batterà per dare il diritto di voto ai sedicenni». Grillo lamentava, inoltre, che«solo in Italia per eleggere una delle due Camere [il Senato] bisogna aver compiuto 25 anni, causando distorsioni vistose nella composizione di Camera e Senato che sono tra le cause dell’ingovernabilità». La dichiarazione del leader del M5s ha avuto scarsa eco nei media nostrani, ma la proposta merita di essere presa seriamente in considerazione. In altri Paesi il tema è già entrato stabilmente nel dibattito politico. Prima delle elezioni politiche dello scorso 8 giugno, tutti i maggiori partiti politici del RegnoUnito (il Labour, i liberal-democratici, i verdi) a esclusione del Partito Conservatore, hanno sostenuto nei loro programmi la proposta di allargare il diritto di voto anche ai 16-17enni. In alcuni Paesi europei il voto ai 16-17enni è già realtà: in Scozia gli under 18 hanno potuto votare al Referendum per l’Indipendenza del 2014 (ma l’esclusione dei 16enni dal voto sulla Brexit ha suscitato notevoli polemiche) e, dal 2015, i più giovani possono esprimere il loro voto in tutte le consultazioni politiche (nazionali e locali) del loro Paese. In Austria il voto agli under 18 è realtà dal 2007. In Germania il diritto di voto ai 16-17enni è garantito nelle elezioni dei Parlamenti di alcuni Länder. Nel 2011 la Norvegia ha fatto un “trial” estendendo il diritto ai 16enni per le elezioni locali. Infine, tra i Paesi extra-europei che permettono il voto agli under 18, figurano Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador, Nicaragua (si noti che in Argentina e Brasile il voto è obbligatorio per la fascia di età dai 18-70 anni, e che Cuba, Ecuador, e Nicaragua, non hanno regimi classificabili come democratici). Sulla base di queste esperienze è possibile studiare il fenomeno, valutarne vantaggi e svantaggi, determinare gli scenari che si aprono nel campo democratico. L’ha fatto Tommy Peto, dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche a Oxford, che recentemente ha pubblicato un articolo sulle ragioni morali che supportano la proposta di allargamento del diritto di voto ai 16enni, con un paper dal titolo Why the voting age should be lowered to 16 (Perché dovremmo abbassare l’età del voto a 16 anni). Le ragioni etico-politiche che stanno alla base della proposta di allargamento del suffragio ai teenagers sono almeno di due tipi. Innanzitutto, dato che i governi prendono decisioni che saranno determinanti sugli interessi futuri delle giovani generazioni (si pensi al recente referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea), è giusto che i più giovani abbiano il diritto di far sentire la propria voce e di far pesare i propri interessi. Inoltre un allargamento del diritto di voto ai teenagers costituirebbe un passo fondamentale (analogamente all’allargamento del suffragio alle donne all’inizio del Novecento) verso il riconoscimento di una più compiuta eguaglianza fondamentale tra i cittadini delle democrazie liberali.
• I teenagers sono politicamente immaturi?
Una tipica obiezione che viene mossa a chi si oppone all’allargamento del voto consiste nel sostenere che i 16/17enni sarebbero politicamente immaturi rispetto ai cittadini che hanno compiuto 18 anni. Ma Tommy Peto, incontrato da pagina99, ritiene che questo tipo di obiezioni andrebbero rigettate perché, se il problema è che gli under 18 «avrebbero meno conoscenze» (per esempio del funzionamento del sistema politico) o «avrebbero meno esperienza» nei diversi aspetti della pratica politica, le ricerche empiriche sul voto dei 16/17enni in Austria e Norvegia mostrano che il voto degli under 18 è altrettanto “politicamente maturo” quanto il voto dei cittadini più anziani. «Per ogni variabile di misurazione della maturità politica –conoscenze politiche, interesse, e stabilità delle preferenze – gli under 18 sono o tanto maturi quanto i cittadini più anziani, o lo diventano dal momento in cui l’età per avere il diritto di voto viene abbassata». Per esempio Peto fa notare che «la media di conoscenze civiche e di funzionamento del sistema politico è leggermente più alta per gli under 18 rispetto ai cittadini di 19, 21 e 23 anni». Fra l’altro tutti gli studi e le ricerche dimostrano che non vi è alcuna differenza significativa tra le abilità cognitive di un sedicenne e quelle di un adulto: i sedicenni hanno lo stesso livello di ragionamento morale e scientifico; sono in grado di decidere in maniera competente; sanno mettere a fuoco obiettivi e perseguirli; possiedono autonomia di giudizio.Questa la ragione per cui diversi studiosi sostengono che se la “maturità” politica deve essere il criterio chiave per decidere se i cittadini possono o meno votare i loro rappresentanti, allora dovremmo abbandonare l’età come condizione qualificativa e sostituirla con i test di competenza.
• I teenagers sono disinteressati alla politica?
Altra obiezione che viene posta contro l’abbassamento dell’età del voto è quella che vuole i sedicenni e diciassettenni indifferenti alla politica. La loro apatia però è tutta da dimostrare. Il ragionamento è il seguente: «Se gli adolescenti non sono interessati alla politica, significa che non sono disposti a votare; se non sono disposti, allora sono troppo immaturi per votare; e se sono troppo immaturi, allora gli va negato il voto». Tuttavia, ci dice Peto, il punto è che «la maggior parte dei teenagers non si occupano di politica esattamente perché molta parte della politica non si occupa di loro. Ma, come hanno mostrato le esperienze di allargamento del suffragio in Austria e Scozia, quando il sistema politico si impegna a coinvolgere i più giovani, i più giovani si fanno coinvolgere dalla politica». Infatti, «sebbene nel Regno Unito e negli Stati Uniti gli under18 sono, in generale, leggermente meno interessati alla politica rispetto ai cittadini più anziani, questo dato cambia quando gli under 18 ottengono il diritto di voto. Dopo l’estensione del suffragio ai 16/17enni, in Austria e in Norvegia questi sono diventati più coinvolti e più informati sulla politica rispetto ai cittadini di 18-21 anni, e l’affluenza degli under 18 al voto è maggiore di circa 10-12 punti rispetto all’affluenza dei giovani dai 18 ai 23 anni».
• I teenagers sono politicamente “capricciosi”?
Non bisogna far votare gli adolescenti perché non hanno preferenze stabili nel tempo. In altre parole, sono “politicamente capricciosi”. Questa un’altra delle ragioni addotte dai contrari all’allargamento del voto. Eppure, sostiene Peto, i dati non riescono a dimostrare questa affermazione. Non solo: avere idee politiche vaghe è il prodotto della negazione del voto: se avessero la possibilità di votare avrebbero preferenze più concrete e definite. E poi Peto aggiunge un’interessante riflessione sulla “partigianeria”. Chi ha deciso infatti che cambiare preferenza politica sia un difetto? Gli anziani sono portati a essere più fermi e stabili rispetto alle loro convinzioni politiche; sono in qualche sorta più “partigiani” e questo fa sì che siano poi meno critici, poiché la loro preferenza diventa col tempo abitudine politica. Al contrario i giovani dimostrano un impegno più motivato quando viene data loro l’opportunità di votare, come si è visto per esempio in Austria.
• Molte buone ragioni per farli votare prima
Come abbiamo visto nelle esperienze di alcuni Paesi, allargare il diritto di voto ai16/17enni potrebbe avere effetti positivi sulla partecipazione politica, soprattutto in una fase storica in cui le democrazie occidentali si confrontano con il problema della progressiva diminuzione dell’affluenza al voto. Peto fa notare che «abbassare l’età di voto a 16 anni potrebbe aumentare, nel lungo periodo, i livelli di affluenza. Infatti, le ricerche empiriche mostrano che coloro che partecipano, esprimendo il loro voto alle prime elezioni in cui possono votare, sono più portati a mantenere la consuetudine al voto per il resto della loro vita. E, visto che i dati sull’affluenza dei 16/17enni è molto più alta rispetto a quella di chi vota per la prima volta nella fascia di età 18-23, abbassare l’età di voto a 16anni può portare ad avere un vasto numero di persone che acquisiscono l’abitudine del voto e che continueranno a mantenere la consuetudine a votare per il resto della loro vita». Insomma, questa ricerca mette in fila qualche punto su cui riflettere. La maturità politica è già presente nei sedicenni. Inoltre le esperienze nei Paesi dove c’è già stato l’abbassamento dell’età del voto ci suggeriscono con ogni evidenzache gli adolescenti hanno tassi di partecipazione più elevati rispetto ad altri elettori. I teenagers sono politicamente interessati quanto gli altri elettori più anziani – e anzi sanno applicare alle loro convinzioni politiche riflessioni critiche che i più vecchi non applicano più in quanto abitudinari. Infine il loro voto è competente tanto quello degli altri. In definitiva su ogni parametro –conoscenza, interesse, stabilità delle preferenze e capacità critica – i sedicenni e i diciasettenni rispondono ai criteri della maturità politica. E dar loro il voto significa anche rivitalizzare la vita democratica, ampliando la partecipazione alle elezioni. Ecco perché sarebbe ora che anche in Italia si aprisse un dibattito serio sulla proposta di abbassare l’età di voto a 16 anni. Quali forze politiche si faranno carico di introdurre questo tema nei loro programmi per la prossima campagna elettorale?

6 nel mondo
I Paesi dove i sedicenni possono votare alle elezioni generali:
Argentina, Austria, Brasile, Cuba, Ecuador, Nicaragua

4 in Europa
I Paesi dove in alcune regioni o città è previsto, per determinate tornate elettorali, il diritto di voto per chi ha compiuto sedici anni:
Austria, Germania, Scozia, Norvegia, Svizzera

5 nel mondo
I Paesi dove è previsto il diritto di voto al compimento dei diciassette anni:
Corea del Nord, Etiopia, Indonesia, Sudan, Timor Est

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Sii radicale piacerai ai giovani
Consenso | Da noi i 5 Stelle e poi la Lega. All’estero Bernie Sanders, Mélenchon e Le Pen, Corbyn... Per sedurre le nuove generazioni è necessario essere “estremi”
di Flavia Guidi

È ormai un vecchio adagio entrato nell’opinione comune. I giovani non hanno chiare e precise preferenze politiche, sono apatici, sono sempre più distanti dalla politica. Mentre i partiti di massa risultano incapaci di coinvolgere la loro generazione, disabituata a votare e lontana dalle istituzioni e dalle classiche categorie di destra e sinistra.
Certo, in parte è vero. E si tratta di una tendenza diffusa in Italia così come in tutte le democrazie occidentali. Ma lo scenario è più complesso di quel che potrebbe apparentemente sembrare. Prendiamo per esempio il caso italiano. E in particolare la proposta di legge, depositata lo scorso marzo dal Movimento 5 Stelle alla Camera, che ufficializzava una posizione che il partito di Grillo sostiene già da tempo: estendere il diritto di voto ai 16enni. La proposta è figlia di un preciso calcolo politico. Fra le preferenze dei giovani infatti da qualche anno il Movimento 5 Stelle appare il vincitore indiscusso, seguito dalla Lega Nord. In uno scenario in cui tre forze politiche si spartiscono in modo eguale la quasi totalità dei voti, mobilitare i giovani appare perciò un’operazione fondamentale. Seppur non semplicissima. Come spiega Nicola Maggini, ricercatore di scienza della politica all’Università di Firenze e autore del libro Young People’s Voting Behaviour in Europe (Palgrave Macmillan, 2017), a determinare il voto dei giovani intervengono due componenti. «Uno è l’effetto età, ovvero la mera età anagrafica che incide sulle proprie scelte; l’altro è l’effetto generazione, quindi il fatto di essere giovane e formarsi politicamente in un determinato contesto storico», dice Maggini a pagina99. Se quindi la generazione che era giovane durante gli anni Sessanta e Settanta è tutt’oggi incline ad avere un’idea politica strutturata e determinata, per le persone cresciute negli anni Novanta e Duemila, in un’epoca di radicata “depoliticizzazione”, partecipare alla vita politica è più difficile, e questo spiega il vasto astensionismo. Eppure c’è un’altra faccia della medaglia, che rende questa narrativa corretta solo in parte. Le ultime elezioni ci insegnano infatti che i giovani si recano alle urne, anche in massa, nel caso in cui si presenti un candidato capace di coinvolgerli. Questo presenta tassativamente determinate caratteristiche. «I giovani tendono sempre, per loro natura, a essere attratti da candidati estremi. Candidati con piattaforme e profili forti e ben riconoscibili», continua Maggini. Non a caso, in Italia, l’ultima volta che si è registrata una larga partecipazione dei giovani è stato in occasione delle Europee del 2014, quando Matteo Renzi si presentava con il brand riconoscibile di rottamatore e riscuoteva i risultati della novità che incarnava. Ma tutte le elezioni recenti confermano questa tendenza. Nel Regno Unito, con un programma riconducibile alla sinistra laburista degli anni Settanta, privo quindi di effetto novità ma forte di una sua chiarezza, Jeremy Corbyn è riuscito a portare alle urne un numero di giovani che trova pochi precedenti nella storia inglese, e che in massa lo ha scelto. Quanto avvenuto in quell’occasione è anche il risultato di quello che Maggini definisce un «collettive learning» o, in altre parole, la conseguenza della lezione impartita in occasione della consultazione per la Brexit. In quel caso, il voto per il Remain era stato preponderante tra i giovani, fatto che aveva dato adito ad analisi che raffiguravano un Paese diviso nettamente per età anagrafica. Poco dopo però era emerso un problema: i giovani che avevano votato avevano sì optato in massa per il Remain, ma la stragrande maggioranza di loro non si era recata alle urne – lasciando la scelta in mano agli over 65. In occasione delle ultime elezioni, invece, seppur incapaci di portare Corbyn alla vittoria, sono riusciti a influenzarne in modo determinante il risultato. Esattamente quello che non è avvenuto negli Stati Uniti, quando Hillary Clinton si era dimostrata incapace di far breccia su quella fascia anagrafica. Nonostante anche in quel caso i giovani si fossero espressi in maniera maggioritaria a suo favore, la candidata democratica, con il suo profilo moderato e centrista, non era riuscita a ottenere una mobilitazione giovanile di massa. A lei, i millenial preferivano nettamente Bernie Sanders. Ma il successo di personaggi come Corbyn e Sanders, marcatamente di sinistra, non ci dice tutto del comportamento dei giovani alle urne. Nel caso delle elezioni francesi, caratterizzate dalla vastissima astensione, Macron ha sì conquistato la maggioranza al secondo turno, ma non era il candidato con il profilo più giovanile. Come dimostrato durante le primarie, i giovani preferivano in prima istanza Jean-Luc Mélanchon, seguito subito dopo da Marine Le Pen: due candidati, seppur posizionati agli estremi opposti dello spettro politico, accomunati da idee radicali. In uno scenario in cui tutte le parti politiche in gioco sembrano sacrificare prese di posizione nette per conquistare un elettorato il più trasversale possibile, al di là della destra e della sinistra, i giovani dimostrano di premiare posizioni chiare e radicali. Con una precisazione fondamentale: la storia recente ci insegna che dove la politica funziona, populismi e destre estreme hanno meno possibilità di affermarsi. Per il resto, giustificare l’astensione dei giovani con il fatto che sono irreversibilmente disinteressati alla politica è soltanto un vecchio adagio.

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la Cina è obesa

In Cina ci sono 57 milioni di obesi. A dirlo è un nuovo studio dell’Università di Washington a Seattle pubblicato sull’ultimo numero del New England Journal of Medicine. Solo i bambini, erano 15 milioni nel 2015, più che in qualsiasi altro Paese. In numeri assoluti, gli obesi cinesi sono secondi solo ai 79 milioni degli Stati Uniti e rappresentano il 12 per cento della popolazione. «Il girovita dei cinesi cresce più velocemente del Pil della loro nazione», scherzano medici e addetti ai lavori. Solo cinquant’anni fa, a seguito del disastroso “Balzo in avanti” voluto da Mao Zedong, tra i 15 e 45 milioni di cinesi sono morti per carenza di cibo e problemi connessi. E fino agli anni Ottanta il cibo era razionato: mangiare carne era una festa, e nelle metropoli ci si nutriva quasi esclusivamente di riso e verza, si pagava con i mian - piao, una sorta di tessera annonaria con cui veniva distribuito il cibo razionato. Oggi la maggior parte dei colletti bianchi mangia almeno una volta al giorno al ristorante, si sposta in macchina e passa giornate intere davanti al computer. Con la dieta è cambiato anche l’aspetto fisico dei cinesi, soprattutto dei bambini. Presto curarli sarà anche un problema sociale. (cag)

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Tech americane ombre cinesi

Gli Stati Uniti vogliono controllare meglio gli investimenti cinesi nella Silicon Valley per proteggere tecnologie sensibili e vitali alla sicurezza nazionale. È quanto sostiene Reuters, citando anonimi funzionari e un rapporto del Pentagono non ancora di dominio pubblico. Particolare preoccupazione desterebbero gli interessi della Cina nell’intelligenza artificiale e nel machine learning, ovvero l’apprendimento automatico delle macchine. Secondo le fonti dell’agenzia di stampa britannica l’amministrazione americana teme che tecnologie sviluppate negli Stati Uniti finiscano per servire gli interessi militari e le industrie strategiche della seconda economia mondiale. Per questo si starebbe valutando un rafforzamento del ruolo del Comitato per gli investimenti stranieri negli Usa (Cfius), un ente che ha il compito di valutare le acquisizioni estere di aziende americane importanti per la sicurezza nazionale. Già durante l’amministrazione Obama il Comitato aveva bloccato una tentata acquisizione da parte dei cinesi di un’azienda leader nel settore dei processori di fascia alta. Diversi economisti e industriali statunitensi di prim’ordine sono però di tutt’altro avviso e sottolineano come un atteggiamento tanto protezionista potrebbe fallire comunque l’obiettivo di evitare il trasferimento di tecnologie, finendo al contempo per indebolire le relazioni commerciali con la Cina con un conseguente danno economico per gli Usa. La Repubblica popolare, dal canto suo, ha preso una posizione ufficiale attraverso il portavoce del ministro degli Esteri Lu Kang che ha sottolineato come gli investimenti del suo Paese non debbano essere «interpretati politicamente», né possono essere tollerate «interferenze politiche». (cag)


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Una Repubblica popolare di automi
Fabbrica 4.0 | La Cina vuole produrre 400 mila robot industriali entro il 2030. Nel frattempo acquista know-how e aziende estere leader nel settore

La Cina ha installato 90 mila robot nel 2016, un aumento del 30 per cento rispetto all’anno precedente e complessivamente un terzo del totale mondiale. L’incremento è fortemente sponsorizzato dal governo e va sotto l’etichetta Made in China 2025 dell’attuale piano quinquennale, quello che indirizza il difficile processo di transizione da fabbrica del mondo a società di consumi della seconda economia mondiale. Innovazione e automazione guideranno l’industria fino al 2025. Poi, se tutto andrà secondo quanto deciso dalla politica cinese, per il 2035 la Cina potrà competere con i Paesi più avanzati e nel 2049, per il centenario della Repubblica popolare, sarà nuovamente un Paese leader nel manifatturiero, superando Germania, Giappone e Stati Uniti. Il cuore del progetto è la robotica. La fabbrica 4.0 apre le porte a una rivoluzione industriale che, secondo i più, avrà effetti sulla società paragonabili a quelli di fine Settecento. I dati parlano chiaro. La Repubblica popolare vuole essere in grado di produrre 150 mila robot industriali entro il 2020, 260 mila entro il 2025 e 400 mila entro il 2030. Se gli obiettivi posti dalla leadership verranno rispettati, nel prossimo decennio la robotica genererà un fatturato da 88 miliardi di dollari. Per questo il governo dispensa incentivi affinché le fabbriche si automatizzino il prima possibile e sempre più aziende si occupino della produzione locale di robot. In un discorso del 2014 all’Accademia di scienze sociali, il principale think tank del Paese, il presidente Xi Jinping aveva riassunto la sua visione di quella che ha chiamato «la rivoluzione dei robot»: «Il nostro Paese sarà il mercato principale per la robotica. Ma la tecnologia e la capacità manifatturiera cinesi saranno in grado di competere con il resto del mondo? Bisogna sviluppare la nostra robotica e conquistare gli altri mercati». Nel 2015 l’amministrazione della regione meridionale del Guangdong ha annunciato un investimento di 135 miliardi di euro per arrivare ad automatizzare l’80 per cento delle fabbriche entro il 2020. Migliaia di stabilimenti hanno già aderito al piano e centinaia di start up stanno sperimentando un’economia legata alla robotica, con tutta l’innovazione che comporta. Nel frattempo si acquistano know how e aziende estere leader nel settore. Solo nel 2016 sono passate in mano cinesi le tedesche Midea e KraussMaffei, la multinazionale Dematic e la statunitense Paslin. La sfida è quella di arrivare il prima possibile alle cosiddette dark factory, fabbriche completamente automatizzate in cui è necessario talmente poco personale «che si potrebbe spegnere la luce senza che la produzione venga interrotta». La paura è quella di arrivarci prima di riuscire a riqualificare centinaia di milioni di lavoratori. (cag)

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Fiumi (cinesi) di plastica
Inquinamento | L’86 per cento della celluloide degli oceani proviene dall’Asia

Gli oceani, è noto, sono pieni di plastica. Ma secondo una recente ricerca pubblicata su Nature, l’86 per cento delle particelle più o meno grandi di poliuretano che, attraverso i fiumi, entra nei mari proviene da un unico continente: l’Asia. Si stima siano tra 1,15 e 2,41 milioni tonnellate all’anno che, secondo la fondazione di ricerca olandese Ocean Cleanup Every Year, si concentrano soprattutto nei fiumi che attraversano Cina, Indonesia e Myanmar. Tra i venti fiumi più “ricchi”di plastica, infatti, sette sono cinesi. La classifica di Ocean Cleanup è dominata dalle 20 mila tonnellate all’anno contenute dal Fiume azzurro, seguito dal Gange e da un affluente del fiume delle Perle, lo Xi. Seguono i fiumi del continente africano, (appena il 7,8 per cento del totale globale), il Sud (4,8%) e il Nord (0,95%) America, l’Europa (0,28%) e l’Australia (0,02%). Un dato ancora più preoccupante è che, secondo uno studio dell’Università di Cadice, del 99 per cento della plastica che si stima sia finita negli oceani, non c’è traccia. Ovvero: quello che riusciamo a quantificare è solo la punta dell’iceberg. Sicuramente l’Asia paga il fatto di essere il continente più popoloso al mondo, ma bisogna considerare che la quantità di plastica procapite è infinitamente inferiore a quella di Paesi più orientati al consumo come gli Stati Uniti. La Cina come al solito fa caso a sé. È infatti il più grande produttore di oggetti di plastica al mondo: quasi il 30 per cento dei 269 milioni di tonnellate fabbricati globalmente. E l’esplosione dell’e-commerce non ha aiutato. Si calcola che solo l’anno scorso, le aziende che si occupano della consegna abbiano usato 12 miliardi di buste di plastica. Secondo i dati raccolti dal programma ambientale dell’Onu, entro il 2050 il 99 per cento degli uccelli marini avrà ingerito della plastica. I rifiuti in mare hanno già importanti conseguenze su 600 specie marine: il 15 per cento di queste è oggi in via di estinzione. E il rischio che la plastica entri nella catena alimentare è ormai concreto. (cag)


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Se la sinistra liberale non sa parlare agli esclusi

Nell’ultimo anno nel mondo occidentale sono accadute diverse cose inattese. Il 24 giugno scorso i cittadini britannici hanno votato a favore della Brexit, poi, a novembre, Donald Trump ha vinto le elezioni. Più recentemente il leader laburista Jeremy Corbyn ha registrato un successo che nessuno aveva previsto alle elezioni indette dal primo ministro Theresa May, convinta di una vittoria a valanga dei conservatori; e un giovane outsider, Emmanuel Macron, ha ottenuto la maggioranza assoluta nel parlamento di Parigi in un’elezione che ha visto la quasi estinzione del partito socialista. L’elemento che lega questi quattro avvenimenti è l’imprevedibilità.
Dibattito | La crisi del modello democratico occidentale affonda le radici nel neoliberismo degli anni ’70 e ’80. Uno schema che favorisce pochi a scapito della maggioranza. E che travasato nella terza via blairiana e clintoniana ha allontanato i ceti più svantaggiati dalle élite riformiste
di Enrico Pedemonte

Nell’ultimo anno nel mondo occidentale sono accadute diverse cose inattese. Il 24 giugno scorso i cittadini britannici hanno votato a favore della Brexit, poi, a novembre, Donald Trump ha vinto le elezioni. Più recentemente il leader laburista Jeremy Corbyn ha registrato un successo che nessuno aveva previsto alle elezioni indette dal primo ministro Theresa May, convinta di una vittoria a valanga dei conservatori; e un giovane outsider, Emmanuel Macron, ha ottenuto la maggioranza assoluta nel parlamento di Parigi in un’elezione che ha visto la quasi estinzione del partito socialista. L’elemento che lega questi quattro avvenimenti è l’imprevedibilità.
I cosiddetti esperti consideravano Trump nulla più che un fastidioso ostacolo per Hillary Clinton nella corsa alla casa Bianca; il referendum sulla Brexit era stato indetto nella certezza che l’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea non fosse in discussione; Emmanuel Macron è stato a lungo considerato solo un giovane di belle speranze; quanto a Corbyn, negli ultimi mesi gli analisti si sono affannati a descrivere la sua nomina alla guida del Labour come la ricetta sicura per la fine del partito storico della sinistra britannica: Corbyn il veterocomunista schierato a favore della sanità pubblica e della scuola gratuita, l’idealista che predica reti di protezione sociale per i ceti meno abbienti e chiede tasse più alte ai ricchi. Più tasse? Quando mai si è sentito, negli ultimi quarant’anni, un uomo politico con ambizioni di successo predicare un aumento delle imposte? Gli analisti che hanno fatto a pezzi Corbyn non hanno spiegato perché i giovani britannici abbiano votato in massa per lui, né perché gli iscritti al partito, nell’era della disaffezione alla politica, siano cresciuti di mezzo milione; e neppure hanno scritto che il successo del leader è stato possibile grazie a decine di migliaia di giovani militanti che hanno girato casa per casa a convincere gli elettori. Per chiudere il cerchio di questa introduzione, è bene ricordare che sull’altra sponda dell’Atlantico il radicale Bernie Sanders, che alle primarie del 2016 aveva combattuto come un leone contro Hillary Clinton, continua a essere uno dei politici più amati dai democratici. Come Corbyn, Sanders basa la sua battaglia politica sulla lotta alle diseguaglianze e si definisce «socialista», un aggettivo che i politici americani, almeno fino a ieri, hanno sempre evitato con molta cura per non essere considerati degli inaffidabili sognatori. Che cosa sta succedendo?
• Liberalismo in ritirata
Edward Luce, uno dei più prestigiosi opinionisti del Financial Times, ha appena pubblicato il saggio The Retreat of Western Liberalism (La ritirata del liberalismo occidentale, Little,Brown) che racconta con toni piuttosto cupi (ma convincenti) la crisi del modello occidentale a partire dai due Stati guida, gli Stati Uniti e il Regno Unito, e del modello neoliberista che in quei Paesi si è sviluppato a partire dalla fine degli anni Settanta, con l’ascesa di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Luce, che pure è una colonna del giornale simbolo della City londinese, costruisce una narrativa che fa risalire la crisi attuale (una crisi grave, strutturale, che coinvolge tutto l’Occideente) a quell’epoca di estremismo ideologico che ha segnato un’era: l’epoca in cui, per dirla con Reagan, «il governo era il problema, non la soluzione», e il mercato – specie se non regolato – era considerata la bacchetta magica in grado di risolvere tutti i problemi. Fu quell’ideologia a plasmare il processo di globalizzazione che si è imposto nel mondo e che – nelle intenzioni di allora – avrebbe dovuto portare benefici per tutti «come la marea che fa salire tutte le barche». La realtà è andata diversamente: molte barche sono affondate, altre imbarcano acqua e oggi rischiano di portare al naufragio l’intero mondo occidentale.
• Quei leader a Firenze
Perché quella visione del mondo – che nel frattempo si è infranta contro la realtà – ha contagiato in modo profondo la cultura contemporanea, anche quella della sinistra. Luce ricorda un incontro che si svolse a Firenze allo scadere del secolo scorso (era il novembre 1999) tra i primi ministri europei (quelli progressisti) che allora sembravano incarnare lo spirito stesso della modernità: c’erano il britannico Tony Blair, il francese Lionel Jospin, il tedesco Gerhard Schroeder e l’italiano Massimo D’Alema. E insieme a loro erano presenti anche Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea, oltre a Bill e Hillary Clinton, che ancora alloggiavano alla Casa Bianca. Quei leader parteciparono a una tavola rotonda che aveva un titolo (La nuova economia: uguaglianza e opportunità) che oggi suona beffardo. Naturalmente è facile dare giudizi a posteriori, e a quell’epoca molti di noi erano incantati da una sinistra che si andava “modernizzando” e da leader che predicavano un mondo post-ideologico e discettavano di una “terza via” che avrebbe superato le divisioni tra le classi sociali. Ma quei leader “moderni” che avevano adottato il linguaggio di Davos e della McKinsey – dice Luce –, sapevano sì dialogare con la nuova classe cosmopolita, ma non non erano più in grado di parlare ai perdenti.
• Come votano i poveri
È questa la ragione che ha portato alla rottura tra la sinistra tradizionale e le classi subalterne? Luce ne è convinto e i dati sembrano dargli ragione. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna l’analisi dei voti recenti mostra in modo lampante come la “nuova economia” abbia cambiato la geografia stessa della ricchezza che si è concentrata soprattutto nelle grandi metropoli. Così, mentre due terzi dei londinesi ha votato per restare in Europa, tutto il resto dell’Inghilterra e il Galles si sono espressi per la Brexit. E negli Stati Uniti tutte le 493 contee più ricche del Paese hanno votato per Hillary mentre le altre 2.623 hanno preferito Trump. La “nuova economia”, con il mito di una meritocrazia che in realtà serve a perpetuare ricchezza e potere all’interno delle classi agiate, porta a una concentrazione di “talenti” e di cittadini ad alto reddito nelle grandi metropoli: un fenomeno che non è mai stato così estremo e che è ben visibile anche nelle elezioni italiane, dove a votare a sinistra sono ormai le classi sociali più abbienti, istruite e metropolitane. «Le città dell’Occidente», scrive Edward Luce con un’immagine che fotografa con precisione il mondo in cui viviamo, «sono isole circondate da un mare di risentimento». Se nel mondo l’uno per cento dei più abbienti controlla il 30% della ricchezza complessiva e le élite continuano a parlare del potere salvifico del “mercato”, nell’opinione pubblica si diffonde un pessimismo cupo. E i perdenti, nella confusione ideologica che ha rotto gli steccati tra destra e sinistra, scelgono chi promette un ritorno a un mondo foderato di sicurezze prendendo di mira i “nemici” principali: la globalizzazione, l’Unione europea, gli immigrati... Ai tempi della prima industrializzazione, a una crescita delle ineguaglianze erano seguiti un aumento del benessere collettivo e la moltiplicazione dei posti di lavoro. Oggi la storia non sembra ripetersi. In alcuni Paesi (gli Stati Uniti, per esempio) il tasso di occupazione scende, l’innovazione tecnologica impone cambiamenti così rapidi da creare insicurezza, le aspettative diminuiscono e la rabbia cresce.
• La crisi delle democrazie
Tutto ciò non produce solo una generale sfiducia nelle élite, ma nel concetto stesso di democrazia. Dalla fine del secolo scorso in almeno 25 Paesi nel mondo i sistemi democratici hanno fallito e tre di questi (Turchia, Russia e Ungheria) sono in Europa. E in tutti i casi la colpa del fallimento è da imputare alla sfiducia dei cittadini “rimasti indietro”. «Non c’è democrazia senza borghesia», disse il sociologo americano Barrington Moore. E in molti Paesi dell’Occidente la classe media sente franare la terra sotto i piedi. C’è da stupirsi se queste persone si schierano contro chi dice di difenderli? No, è sempre accaduto nella storia. Edward Luce nota che nell’Europa continentale il peso dei partiti populisti è tanto più forte quanto è più solido il welfare da difendere: in Danimarca il Partito del popolo e in Olanda il partito per la libertà di Geert Wilder, ponendosi come baluardi contro gli immigrati (che usano lo stato sociale pagato dai cittadini) hanno conquistato i voti di oltre un quarto dei lavoratori che fino a ieri votavano socialdemocratico. In Francia Marine Le Pen propone un «contratto sociale contro l’occupazione islamica». L’Ukip britannico, nato come piccolo partito antitasse, è diventato poi uno strenuo difensore del servizio sanitario, e nel corso della campagna della Brexit diffuse la colossale bugia che uscendo dalla Ue il Regno Unito avrebbe liberato 350 milioni di sterline da investire nella sanità per i cittadini britannici. E anche in Italia il Movimento Cinque Stelle, vedendo l’aria che tira, sta indurendo la propria strategia anti-immigrati schierandosi contro lo ius soli.
• Il sogno infranto
Tutto ciò – dice Luce – ha naturalmente un impatto molto radicale sul ruolo che l’Occidente ha nel mondo. Il fatto che si stiano moltiplicando gli Stati autoritari e le democrazie illiberali è il segno che qualcosa è andato storto: forse pensare che il resto del mondo seguisse il nostro copione è stato solo il frutto della nostra arroganza. In realtà la marcia verso la libertà – e verso un benessere sempre maggiore – non è un processo inarrestabile. In Occidente abbiamo una visione lineare della storia, dove il tempo si srotola di fronte a noi e non può che portarci al progresso e alla felicità. Ma quel sogno si è spezzato. E forse hanno ragione i cinesi e gli indiani, che invece hanno una visone circolare della storia. Forse torneremo a un mondo multipolare, dove il primato dell’Occidente sarà un ricordo. Cina, India e Russia si stanno battendo contro la nostra ambizione di imporre valori universali a tutti , e c’è da augurarsi che questo scontro - qualunque esito abbia - prosegua pacificamente. Ma per tornare con i piedi per terra, e capire la reale dimensione di quello che sta accadendo conviene dare un’occhiata a una vignetta del New Yorker che racconta meglio di qualunque altra cosa la crisi che sta vivendo l’Occidente. C’è una povera donna cinese che dice al figlio, davanti a una ciotola di riso: «Mangia, e pensa ai bambini della West Virginia che hanno fame». Siamo in difficoltà, le aspettative non sono più quelle di un tempo, il populismo cresce. Ma non esageriamo: un po’ di ironia non guasta.

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I terroristi sono dei dementi?

Senso di ingiustizia, religione, politica. I percorsi di radicalizzazione alla base degli atti di terrorismo sono fenomeni complessi, risultato di svariate cause. Ma chi lo avrebbe detto che fra queste c’è anche qualcosa di molto simile alla demenza? Un team di ricercatori guidati da Sandra Baez, psicologa dell’Università Favaloro di Buenos Aires, ha pubblicato su Nature uno studio secondo cui il terrorista, pur non essendo clinicamente uno psicopatico, ha qualcosa che non va dal punto di vista neurologico. Più precisamente, ad apparire “deviante” è il modo - simile a quello dei bambini o di chi soffre di danni nella regione frontotemporale del cervello - in cui il terrorista formula i suoi giudizi morali, . Nel corso del loro studio, i ricercatori hanno selezionato 66 ex-terroristi colombiani, colpevoli (in media) di 33 omicidi a testa, e hanno sottoposto loro un questionario. Alle stesse domande hanno risposto due gruppi di controllo, uno composto da incensurati e l’altro costituito da assassini non legati al terrorismo. Il test ha misurato alcune caratteristiche come il quoziente intellettivo, la capacità di riconoscere le emozioni delle persone e il giudizio morale. In relazione a quest’ultimo aspetto, le “cavie” sono state messe di fronte a 24 scenari di violenza intenzionale o accidentale e successivamente è stato chiesto loro di esprimere un giudizio in merito. Quasi tutti i componenti dei due gruppi di controllo, come era prevedibile, hanno fornito una valutazione morale in cui a prevalere sono le intenzioni dell’azione piuttosto che i risultati. Ma per i terroristi è stato esattamente l’inverso: per loro ciò che conta è l’esito finale nel giudizio etico delle azioni compiute. Detentori di visioni utopiche che sono un pensiero fisso, per loro uccidere degli innocenti è moralmente accettabile se l’azione va verso la realizzazione di queste visioni. Tale prospettiva, precisa lo studio, è quella che più ha discriminato i gruppi esaminati: una distorsione tipica della mentalità terroristica. In sintesi, se l’azione contribuisce a raggiungere il finale desiderato, allora è moralmente accettabile. Un modello etico che per i ricercatori assomiglia molto a quello dei pazienti con patologie neurologiche come la demenza frontotemporale.


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Il potere logora il cervello di chi ce l’ha
Studio | La morale di chi fa attentati è simile a quella dei neuropatici

«Il potere logora chi non ce l’ha», diceva sarcastico Giulio Andreotti. Può darsi, ma può provocare danni significativi anche – e soprattutto – a chi ne dispone. Dacher Keltner, psicologo dell’università di Berkeley che ha studiato per anni il comportamento di personaggi di potere, sostiene che nel lungo periodo questi soggetti comincino a comportarsi come se avessero subito delle lesioni al cervello, diventando più impulsivi, meno consapevoli del rischio e – soprattutto – meno capaci di vedere le cose da punti di vista diversi dal proprio. Più di recente, gli studi del neuroscienziato Sukhvinder Obhi dell’università dell’Ontario, sono arrivati a conclusioni simili a quelle di Keltner. «Una volta raggiunto il potere, perdiamo alcune di quelle capacità che in un primo momento ci avevano consentito di conquistarlo», spiega Jerry Useem su The Atlantic. In particolare è la capacità di empatia, di mettersi nei panni dell’altro a venire meno o a ridursi notevolmente. Nel 2009, Lord David Owen, neurologo britannico con una certa familiarità con il potere – ex parlamentare, negli anni Settanta fu anche segretario agli affari esteri – in un articolo pubblicato sulla rivista Brain e scritto insieme al collega Jonathan Davidson, descrisse quella che definì la “sindorme di Hubris”, un disturbo della personalità dei potenti, «in particolare di quelli che hanno avuto un notevole successo, mantenuto per un periodo di anni e con limitazioni minime per il leader». Owen aveva analizzato il comportamento dei presidenti americani e dei primi ministri inglesi nel corso del Novecento. Le persone affette da sindrome di Hubrsi manifestano, scriveva Owen, marcato disprezzo per gli altri, mancanza di contatto con la realtà e la capacità di compiere azioni spregiudicate e persino di arrivare a ostentare la propria incompetenza. Owen ha fondato anche una associazione per studiare e curare il disturbo.



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RICERCA il tempo diverso dei bilingue

Il tempo è un concetto astratto, non possiamo toccarlo ne vederlo, eppure è intorno a esso, e all’idea di spazio, che costruiamo la nostra vita e la nostra visione del mondo. Il tempo influenza la percezione dell’altro e le nostre emozioni. Per capire come questo avvenga, Panos Athanasopoulos e Emanuel Bylund, ricercatori dell’Università di Lancaster, hanno analizzato il linguaggio di persone diverse, arrivando alla conclusione che, rispetto a chi parla una sola lingua, i bilingue pensano al tempo in modi differenti, più flessibili, a seconda del «contesto linguistico in cui stanno stimando la durata di un determinato evento». «Il linguaggio può influenzare i nostri sensi di base», spiegano gli studiosi, «incluse le nostre emozioni, le nostre percezioni visive e, ora sappiamo, anche il nostro senso del tempo». I bilingue pensano in maniera più «flessibile: la loro capacità di passare agevolmente da un idioma a un altro, quotidianamente, dà loro un vantaggio sia nella capacità di apprendimento che di multitasking. E nel lungo periodo anche un benessere mentale superiore».

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Bimbi, imparate da Stalin e Mao
Dibattiti | Esce in America Communism for kids. Bollato da decine di recensori come una vergogna. Peccato che, al di là del titolo, si tratta di una critica

Si sa, l’educazione dei nostri bambini sta a cuore a tutti. E si moltiplicano allora utilissimi manuali di consigli per allevarli nel migliore dei modi. Fra i molti qualcuno spicca per sensibilità e aureo estro. Per esempio: è importante dar loro modelli a cui far riferimento. Ecco: volete che i vostri piccoli cuccioli crescano imitando le gesta dei dittatori comunisti, artefici di non pochi genocidi? Volete amorevolmente insegnare loro come gestire un gulag? Volete che crescano con i giusti valori, come la distruzione dell’Occidente? Finalmente c’è il libro per voi, e pure per una cifra modesta: appena 12,95 dollari. Si tratta di Communism for Kids, pubblicato in America nientemeno che dalle blasonate edizioni del Mit di Boston – traduzione del volumetto tedesco di Bini Adamczak, apparso con il titolo K o m m u n ismus: kleine Geschichte, wie endlich alles anders wird (Comunismo: piccola storia di come tutto sarebbe potuto andare diversamente). Qui troverete i grandi eroi della storia, da Barack Obama a Stalin, da Mao a Bernie Sanders passando per Fidel Castro: campioni di libertà, valorosi e prodi combattenti per un mondo più giusto e… comunista! Il tutto raccontato come si deve: ci sono le principesse (gelose), i contadini (arrabbiati), i lavoratori sfruttati (che rompono le catene del giogo del padrone)... Ora, in America il libretto non è proprio passato inosservato. Il New York Times s’è preso la briga di fare l’elenco di testate, autorevoli esponenti politici, intellettuali e non solo che si sono scandalizzati e hanno gridato con voce forte Vergogna!Si va da Breitbart alla National Review, dal Daily Best alla Fox News, e poi ancora Milo Yiannopoulos e Steven Crowder e così via. Reazioni sacrosante, si dirà. Certo, se non fosse per un piccolo, piccolissimo problema: è tutto falso. Chiunque si sia preso la briga di leggere il libro non fermandosi al solo titolo, capirà che è una critica della storia del comunismo. L’autrice, che ha scritto diverse opere sulle tragedie dell’Unione Sovietica, cerca di raccontarle con un linguaggio semplice, non da specialisti. E la sua è una narrazione di sofferenze, sconfitte e fallimenti. Parlarne non è semplice. Lei lo fa con ironia, certo, ma anche prendendo sul serio le motivazioni, i desideri e gli ideali di coloro che hanno sostenuto il comunismo con i suoi fallimenti. Ah, se i recensori leggessero i libri anche in America! Insomma, bisogna rivolgere un appello agli editori italiani: correte ad accaparrarvi i diritti di questo libello. Ci pensate alle reazioni scomposte, immotivate, e a quanto ci si potrebbe divertire qui da noi?



Internazionale 24.6.17
RUSSIA Condannate le norme sui gay Il 20 giugno la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la Russia deve risarcire gli attivisti per i diritti degli omosessuali condannati in base alla legge sulla propaganda gay adottata nel 2013, riferisce il Moscow Times. Secondo la corte la legge, che vieta di “promuovere davanti ai bambini relazioni non tradizionali” e prevede multe ino a 1.500 euro, viola la libertà di espressione.

Internazionale 24.6.17
Cina Giappone Stop ai prestiti online
Caijing, Cina

Il governo cinese ha vietato il sistema di prestiti peer-to-peer che permette agli studenti universitari cinesi di trovare su internet persone disposte a fargli credito per comprare beni di consumo e alla moda. Solo nel 2016, scrive Caijing, i giovani cinesi hanno speso circa 450 miliardi di yuan (più di 40 miliardi di euro). Si tratta però di sistemi di prestito poco sicuri, con crediti concessi spesso a tassi d’usura (in un caso limite anche del 30 per cento) a ragazzi inesperti che non sanno cosa voglia dire comprare a debito. Nel 2016 fece scalpore la notizia di alcune ragazze costrette a dare come garanzia per il prestito delle foto in cui apparivano nude e che sarebbero state diffuse online se non fossero riuscite a ripagare gli strozzini. E non mancano casi di ragazze costrette a prostituirsi per restituire le somme. Settantaquattro piattaforme che offrono prestiti dovranno sospendere le attività rivolte agli universitari. I ragazzi potranno rivolgersi però alle banche di stato.

Internazionale 24.6.17
Un linguaggio complesso
di Nathaniel Herzberg, Le Monde, Francia



Didier Demolin è categorico: “I murichi dispongono del sistema di comunicazione vocale più avanzato mai scoperto nel mondo non umano”. A dirlo non è un primatologo, ma un linguista, docente all’università Sorbonne nouvelle di Parigi ed esperto di acustica e fonetica. Da molti anni analizza il linguaggio dei primati per risalire alle fonti della nostra comunicazione. Ha studiato a lungo le grandi scimmie africane, i gorilla e i bonobo. “Poi un giorno sono stato contattato da alcuni brasiliani che avevano registrato le comunicazioni tra murichi e volevano il mio parere”. Esaminando il materiale lo scienziato ha scoperto innanzitutto alcuni elementi acustici particolari, salti di frequenze, bifonazioni (due note insieme), subarmonici. “Negli esseri umani sono fenomeni eccezionali e segnalano sempre una patologia; per loro sembravano naturali”. In particolare Demolin ha osservato la comparsa di alcune regolarità nelle registrazioni, degli “schemi”, come dicono i linguisti, “che si ripetevano con una cadenza costante”. “Ho avvertito Francisco Mendes dell’università di Brasília, il collega che mi aveva mandato i materiali. Lui ha scherzato: ‘Ah, l’hai visto anche tu?’. Così ho continuato a indagare”. Demolin ha isolato quattordici “elementi discreti”, unità di base. Poi ha individuato dei raggruppamenti di elementi. Infine quelli che i linguisti definiscono enunciati, associazioni di raggruppamenti. “Ci guardiamo bene dal parlare di lettere, parole e frasi per non incorrere in interminabili guerre di religione che rendono impossibile qualsiasi lavoro, ma capirei se qualcuno facesse questo paragone”, sorride il linguista. E in effetti i risultati delle sue ricerche potrebbero essere un duro colpo per quelli che vedono proprio nel linguaggio la specificità più intrinsecamente umana. Il ricercatore belga e i colleghi brasiliani hanno evidenziato scambi sequenziali tra gli animali: uno esprime un enunciato, un altro risponde riprendendo una parte del primo, poi lui o un terzo animale ricomincia, il tutto senza sovrapposizioni. Gli studenti hanno inoltre individuato una struttura ricorrente nelle curve d’intensità sonora di ogni enunciato: prima crescente, poi decrescente. Hanno dimostrato che lungi dall’essere stereotipati o di natura emotiva, gli enunciati sono imprevedibili. “Come negli umani”, spiega Didier Demolin. Sul terzo gradino Soprattutto, i ricercatori pensano di avere le prove del fatto che il linguaggio dei murichi sia ricorsivo e sensibile al contesto. La ricorsività consiste nell’inserire elementi in altri elementi per formare gli enunciati: “L’uomo mangia la mela, che è rossa, che cresce in Normandia”. La sensibilità al contesto si traduce nell’associare ciascun elemento a quello che lo precede e a quello che lo segue. “Si credeva che fossimo gli unici a disporre di queste due caratteristiche”, precisa Demolin. Il linguista statunitense Noam Chomsky ha teorizzato una scala dei linguaggi che prevede quattro livelli. Gli animali sono al primo livello, tutt’al più al secondo. L’uomo al quarto, quello delle lingue “non limitate”. Con la ricorsività e la sensibilità al contesto il murichi si colloca sul terzo gradino. Demolin e Mendes proseguiranno le loro ricerche per provare a definire il senso dei diversi elementi. “Per il momento non siamo ancora a quel punto”, dice Demolin. Mendes ha inoltre osservato che alcuni elementi sembrano essere riservati alle femmine sessualmente ricettive, o che gli elementi corti sono rivolti ad animali vicini mentre quelli più lunghi hanno dei destinatari più lontani. “Dobbiamo scoprire ancora molte cose”, garantisce il linguista.