martedì 2 ottobre 2018

Repubblica 2.10.18
La grande illusione dei partiti leggeri
Un saggio degli americani Frances McCall Rosenbluth e Ian Shapiro
di Nadia Urbinati


Dagli anni Sessanta si è assistito a un processo di democratizzazione che ha caratterizzato non tanto le istituzioni quanto le associazioni della società, per esempio i partiti. Un processo fatto di primarie e di altre forme di decentramento che ha creato l’illusione per cui meno organizzazione significasse più democrazia. L’esito è impietoso: le nostre democrazie hanno prodotto decisioni che forse sono più vicine all’opinione popolare del momento e hanno consentito la selezione di politici più vicini al sentire popolare e al volere dell’audience eppure... sono più cesaristiche e i suoi leader meno soggetti al controllo dei cittadini.
I partiti hanno adottato riforme interne (il PD ne è un esempio) con lo scopo appunto di diminuire al massimo l’organizzazione per essere più vicini agli elettori.
Rovesciando la "legge ferrea dell’oligarchia" si potrebbe pensare che partiti più liquidi o leggeri significhino partiti più democratici. Ma così non è. A partiti deboli è seguita una più debole democrazia. Questa è la linea guida del libro di Frances McCall Rosenbluth e Ian Shapiro, Responsible Parties: Saving Democracy from Itself (Cambridge University Press).
Combinando un metodo empirico e comparatistico con un metodo teorico, il volume propone diversi casi per dimostrare che partiti forti corrispondono a una democrazia forte, non solo perché più preferenze e interessi hanno in effetti più possibilità di essere rappresentati o avere voce, ma anche nel senso che la stessa partecipazione, elettorale e d’opinione, ha maggior spazio o uno spazio meno aleatorio. Tra i casi raccolti da Robenbluth e Shapiro vi è anche l’Italia, che per gli autori ha fallito nel corso degli ultimi anni il progetto di dare un assetto più funzionale al proprio sistema elettorale. E ha fallito, sostengono, anche per la presenza di vari fattori concomitanti: un pluralismo che ha ostacolato decisioni, una frammentazione delle dirigenze dei partiti, la presenza di leader poco saggi e ingombranti.
Al di là delle valutazioni sui singoli paesi e dell’assunto astratto del modello Westminster come il più stabile (anche se in crisi proprio nel paese che lo ha inaugurato), il tema che questo libro graffiante e controcorrente ci propone è riassumbile in una massima che la vicenda italiana dimostra con disarmante facilità: il partito leggero non è il miglior amico della democrazia. Né lo è il movimento che coltiva l’illusione di connettere e fare interagire i cittadini per mezzo di piattaforme digitali e senza un’organizzazione. Il primo è una sicura ricetta per leader autoreferenziali; il secondo crea il potere insindacabile di un piccolo gruppo. In entrambi i casi l’esito non è più democrazia ma la vulnerabilità della democrazia al potere di minoranze da un lato e del populismo dell’uomo forte dall’altro. Se, come sosteneva Robert Michels, l’organizzazione è l’arma dei molti contro i pochi, «il grande paradosso è che partiti gerarchici sono vitali per una sana democrazia».