Corriere 2.10.18
Si può colorare la storia
L’intervento sulle immagini della Grande Guerra nel nuovo film di Peter Jackson (Signore degli Anelli)
Gli studiosi: «Se il messaggio è onesto si può»
di Roberta Scorranese
Toccare
le sfumature di grigio della storia non è mai indolore: basta ricordare
«Dunkirk» (2017) di Christopher Nolan per evocare le polemiche di chi
faceva notare che la pellicola sulla Seconda guerra mondiale ha
enfatizzato soprattutto il ruolo delle divisioni dalla pelle bianca. Ma
il nuovo film di Peter Jackson, «They Shall Not Grow Old» (traducibile
con «Non invecchieranno», che verrà presentato in anteprima al London
Film Festival il 16 ottobre) si addentra in un altro territorio
delicato: è giusto colorare i filmati d’archivio della Grande Guerra e
restituirli poi in 3D?
È quello che ha fatto il regista de «Il
signore degli anelli»: attraverso un sofisticato intervento tecnologico
durato anni e articolato in laboratori indiani, canadesi e californiani,
ha selezionato centinaia di materiali originali sul conflitto — tra i
quali molti video custoditi nell’Imperial War Museum di Londra. Poi li
ha colorati, arricchiti nella qualità video e audio e resi in tre
dimensioni. Lo staff di Jackson ha spiegato che in questo modo «si
restituisce voce ai soldati e si può meglio indagare nelle speranze e
nelle paure dei veterani». Sì, però quelle sembrano immagini dell’altro
ieri, quando invece sono trascorsi cento anni.
Non è però detto
che sia sbagliato. Siamo davvero sicuri che quei filmati «originali» ci
abbiano mostrato la guerra così com’era e non fossero, invece, qualcosa
di già edulcorato, romanzato? Marco Mondini, storico del Novecento e
autore del saggio «Il capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna»
(Il Mulino), appoggia la scelta di Jackson: «Io credo che stia
semplicemente ricreando lo sguardo originale che fotografi e
cineoperatori avevano sul primo conflitto mondiale. Perché quella fu una
guerra fortemente mediatica: per una serie di ragioni, quasi mai nei
filmati dell’epoca c’è la verità». Prima di tutto, la censura: si
mostravano quasi sempre immagini di soldati sorridenti, sulle vette
scintillanti dell’Adamello o nelle trincee intenti a leggere lettere.
«Quasi
mai si vede un corpo dilaniato, al massimo ci sono cadaveri composti e
sempre appartenenti al nemico — continua Mondini — quando sappiamo bene
che ci sono stati milioni di vittime su tutti i fronti. E poi il colore
non è estraneo al racconto della Grande Guerra: noi oggi se pensiamo a
quel conflitto abbiamo in mente le vivacissime illustrazioni di Achille
Beltrame sulla Domenica del Corriere, uno che non andò mai al fronte,
bensì, nel suo studio di Milano, fece quello che ha sempre fatto, per
tutta la vita: ha inventato».
Eppure la «colorizzazione» delle
immagini in bianco e nero non è mai andata giù, non solo a molti
storici, ma anche a molti cinefili. Quando, esattamente trent’anni fa,
l’emittente via cavo Tbs mise in onda una versione colorata di
«Casablanca», si mosse persino la (avida) industria di Hollywood, che
parlò di «degrado di una forma d’arte americana». James Stewart ne fece
una battaglia personale sin da quando gli colorarono (sempre in quel
fatale 1988) «La vita è meravigliosa», dove interpretava un grandissimo
George Bailey, il quale non solo figurava in bianco e nero ma che in
bianco e nero pensava (almeno all’inizio).
Un altro storico,
Franco Cardini fa notare che, nei documentari, si è andati anche oltre,
perché «hanno colorato filmati che riproducono raduni nazisti o riprese
video sull’Olocausto», dove, in effetti, la manipolazione potrebbe
ferire la sensibilità di molte più persone. Però lo storico invita a non
ragionare «per nuda filologia» e a riflettere su che cosa si va a
colorare: «Una corsia d’ospedale è di per sé bianca e nera o bianca e
grigia, il colore sarebbe superfluo. Però se si restituisce una
sfumatura a un contesto che di quella sfumatura ha bisogno, penso che
sia giusto».
Dunque, la domanda è: rendere più vivida (cioè
attuale, pulsante) la Grande Guerra attraverso il colore può giovare
alla memoria? Può aiutare a coinvolgere i più giovani e a non
dimenticare che la pace è un organismo fragile, tutto sommato giovane
(almeno in Europa)? E che nei primi del Novecento ci arrivammo come dei
«Sonnambuli» (per citare un bellissimo libro di Christopher Clark), cioè
ignari delle sue conseguenze? Sia Mondini che Cardini evitano inutili
rigidità: «L’importante — dicono — è che il messaggio di fondo sia
onesto».