martedì 2 ottobre 2018

Corriere 2.10.18
Le trincee del medioevo
Lo scontro fra goti e bizantini in italia fu anche una lunga guerra di posizione
Un volume a più voci, curato da Paolo Grillo e Aldo A. Settia (il Mulino), passa in rassegna una serie di assedi e battaglie. Molto astuti e bellicosi si mostraronogli Ungari, capaci di prevalere sul campo a dispetto della inferiorità numerica
di Paolo Mieli


Una iscrizione celebrativa del ponte Salario di Roma racconta che quel ponte, «distrutto dal nefandissimo tiranno Totila», fu ricostruito nel 565 dal «gloriosissimo Narsete» dopo che lo stesso Narsete ebbe sconfitto i Goti «con mirabile celerità». Tale «mirabile celerità» — come si fa notare in Guerre ed eserciti nel Medioevo, a cura di Aldo A. Settia e Paolo Grillo, che sta per essere pubblicato dal Mulino nell’ambito di quattro diversi libri su «guerre ed eserciti» progettati da Nicola Labanca — consistette in un durissimo conflitto durato ben diciotto anni al quale, per giunta, presto seguirono in Italia i «non meno gravi turbamenti provocati dall’invasione longobarda». Curioso che fosse quella la percezione di «avvenimenti verificatisi fra la metà e la fine del V secolo che provocarono la frammentazione dell’Italia», rimasta tale poi per mille e cinquecento anni.
Quel periodo segnò in un certo senso l’inizio del «Medioevo militare» dal momento che, sostengono Settia e Grillo «la lunga contesa fra Goti e Bizantini anticipò procedimenti, tattiche ed espedienti, come la crescente importanza dei luoghi fortificati e la supremazia del combattente a cavallo, che caratterizzarono le guerre anche nei secoli successivi». Con una crescita nella guerra di posizione davvero considerevole: un conteggio degli assedi tra il 400 e l’800 nell’area bizantino-islamica e nell’Occidente europeo vede aumentare tali assedi dai 50 nel V secolo ai ben 252 del VI. Altro dato da mettere in evidenza è che gli eserciti bizantini di Belisario e Narsete erano composti in gran parte da mercenari unni. Che i Goti palesarono il loro «maggiore disagio nei confronti delle cerchie murarie manifestando la tendenza a distruggerle con l’illusione di costringere così il nemico a scendere in campo a viso aperto». Totila decise di distruggere sistematicamente le mura delle città affinché non potessero essere riutilizzate dagli eserciti nemici. Così fece a Benevento, Napoli, Roma, ma — affermano Settia e Grillo — «con scarso frutto poiché in alcuni casi egli stesso fu indotto a ricostruire le cerchia demolite». I Bizantini, per parte loro, non distruggevano mai le mura delle città di cui si impadronivano, «dando così implicitamente una prova della loro superiorità nella guerra d’assedio».
E le armi? Fra V e VI secolo, scrivono Settia e Grillo, il potente arco da guerra dei nomadi delle steppe, per quanto considerato in Occidente «arma ignobile», si impose nella necessità di contrastare validamente gli arcieri unni. Già Procopio di Cesarea mise in risalto come di quell’arma si servirono i cavalieri bizantini di Belisario, che nei fatti ridussero i fanti a funzione ausiliaria con il compito di formare la falange dietro la quale si riordinavano i cavalieri. Non di rado, però, i «cavalieri di entrambe le parti affrontarono i loro avversari smontando da cavallo e Narsete — riferisce Procopio di Cesarea — appiedò addirittura gli alleati barbari nel sospetto che potessero fuggire troppo in fretta abbandonando i fanti al loro destino, come in altri casi effettivamente avvenne». Fu in questo periodo che si stabilirono analogie tra Goti e altri barbari: si evitava in linea di massima di combattere di notte; la necessità di assumere i pasti al cospetto del nemico rappresentava un momento critico «che entrambe le parti cercavano di sfruttare a loro vantaggio»; il desiderio di preda prevaleva spesso su ogni altra considerazione.
L’Italia fu unita per l’ultima volta sotto il governo bizantino. Nel 568 calarono i Longobardi di Alboino e fu la fine di ogni unità. I Longobardi, durante la loro permanenza nell’area danubiana, in qualità di «federati dell’impero» assimilarono un’almeno superficiale «romanità da caserma» che sembra però limitata al nome delle cariche militari (dux, comes), a certi particolari del vestiario e dell’equipaggiamento e ad alcune regole disciplinari. Inoltre, per qualche decennio dopo l’arrivo in Italia, dovettero conservare la «consueta inciviltà di modi» loro attribuita da Procopio di Cesarea e continuarono a comportarsi «con la mentalità del federato che, militando per denaro, è pronto a cambiare facilmente padrone», tendenza che li predisponeva a lasciarsi corrompere. Gli uomini di Alboino non incontrarono grande resistenza e non già perché, come a lungo si ritenne, avessero preventivamente stretto un patto con i Bizantini, bensì per «la situazione di crisi in cui l’Italia versava a causa dei postumi di una grave pestilenza e della successiva carestia». L’impresa di Alboino si concluse con il «presunto assedio triennale di Pavia» che, scrivono Settia e Grillo, «se non è per intero un’invenzione del Diacono, si presenta come coloritura letteraria di un poco significativo episodio di resistenza locale».
Assai scarse sono, secondo i due autori, le battaglie in campo aperto delle quali si trova menzione nelle fonti: nel 643 i Bizantini furono sconfitti sul Panaro in uno scontro assai sanguinoso nel quale avrebbe perso la vita l’esarca Isacio. Di «minore impegno» dovette invece essere la battaglia avvenuta a Fiorino, fra Napoli e Avellino, dove l’esercito dell’imperatore Costante II sarebbe «fuggito terrorizzato davanti alla spettacolare prodezza del longobardo Amalongo, mostratosi capace di sollevare di peso un nemico con la sua lancia». A Cornate d’Adda nel 693 i Longobardi si affrontarono invece fra loro in un «tipico grande scontro di cavalleria» nel quale il ribelle Alahis rimase ucciso e molti dei suoi annegarono nel fiume.
Conquistata gran parte dell’Italia, i Longobardi assimilarono con prontezza i criteri difensivi propri della tarda romanità e dei precedenti regni barbarici: «Le fortificazioni alpine, in coordinamento con le numerose città fortificate, continuarono così per qualche secolo a essere strumento di una difesa elastica contro la penetrazione dei Franchi e degli Avari». Le chiuse alpine, costituite da un sistema di avvistamento e di rifugio che, almeno dal IV secolo d.C. sbarrava le valli principali, per quanto scarsamente presidiate, erano in grado di esercitare un’azione ritardatrice e di logoramento dell’aggressore lungo gli assi di scorrimento diretti a sud, mentre venivano messe in allarme le forze dislocate in pianura. Tale tradizionale modo di procedere «appare invece mutato dopo la metà del secolo VIII quando Astolfo nel 755 e nel 756 nonché Desiderio nel 773, di fronte agli attacchi dei Franchi, impegnarono tutte le loro forze in corrispondenza delle chiuse alpine con l’evidente intento di bloccare la progressione nemica nella sua fase iniziale»; soltanto dopo l’insuccesso di tale manovra essi «fecero ricorso alla consueta difesa passiva basata sulle città murate che però si rivelò anch’essa perdente, compromettendo così la sorte stessa del regno».
La scena politico-militare cambiò radicalmente nell’arco di tre anni, dal 768 al 771, quelli che intercorsero tra la decisione di Carlo Magno di sposare Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio e la scelta di ripudiarla. Per la storia ufficiale Desiderio provocò la fine del suo regno con la decisione del 772 di attaccare la Roma di Papa Adriano I, il quale si rivolse ai Franchi per essere difeso. E la difesa di Carlo Magno fu a tal punto energica che si concluse con la conquista di Pavia (774), l’imprigionamento di Desiderio e della moglie e la loro deportazione in Gallia, l’ingiunzione a colui che avrebbe dovuto essere l’erede alla guida del regno, Adelchi, di andarsene in esilio a Costantinopoli. Quella débâcle finale non può essere spiegata né con la minore ricchezza dell’aristocrazia longobarda né tanto meno con la «pretesa inferiorità tecnica del suo armamento».
Nel frattempo agli Arabi «che ormai da decenni agivano da conquistatori nel sud della Penisola e insidiavano i suoi mari, si veniva ad aggiungere un nuovo temibile nemico esterno rappresentato dagli scorridori magiari, che fecero la loro prima comparsa in Italia nell’agosto dell’899. La risposta di Berengario I, in quel momento solo sul trono, fu «pienamente conforme alle tradizioni belliche dell’età carolingia»: mediante il consueto invio di messi egli «riuscì a reclutare un cospicuo esercito e mosse con risolutezza contro l’avversario sicuramente inferiore di numero, gli Ungari, respingendo ogni offerta di trattativa, sicuro di poter ottenere una vittoria che gli restituisse un prestigio mortificato da dieci anni di sconfitte e di patteggiamenti con i suoi avversari».
Anche se poi, sulle rive del fiume Brenta, in quello stesso 899 la fortuna gli voltò le spalle. Gli Italici, superiori di numero consideravano gli avversari già battuti, ma vuoi perché divisi da rivalità politiche, vuoi per aver dovuto affrontare inconsuete tecniche di combattimento, furono invece soccombenti. Perché? Gli Ungari — riferisce Liutprando di Cremona — «pongono imboscate in tre punti e attraversando il fiume per la via più breve piombano in mezzo ai nemici, sottraggono loro i cavalli per impedirne la fuga e li sorprendono nel momento critico del pasto colpendoli con tale velocità da inchiodar loro il cibo in gola». Sono le stesse modalità usate proprio dagli Ungari contro i Bavari: la velocità degli aggressori sorprende i nemici nel sonno e quegli stessi nemici vengono trafitti «con dardi ben diretti» nei loro giacigli. Poi gli Ungari fissate le «imboscate in tre punti», «astutamente simulano la fuga». I Bavari ingenuamente li inseguono sinché «quelli che sembravano vinti, schiacciano i vincitori». Capita la lezione, Berengario cercherà un’alleanza con gli Ungari. E la otterrà. «Una solida alleanza», la definisce Liutprando. In questo modo, concludono Settia e Grillo, «come era già successo nel Sud della Penisola con gli scorridori saraceni, anche gli Ungari poterono aggiungere ai proventi delle proprie razzie la pratica del mercenariato al soldo di prìncipi cristiani che disponevano di eserciti inadeguati alle loro ambizioni di potere».
È questo l’affascinante quadro che si ritrova in Guerre ed eserciti nel Medioevo. Un libro che può vantare i propri più illustri precedenti in ciò che hanno scritto, nel Settecento, Ludovico Antonio Muratori, poi nell’Ottocento Ercole Ricotti e infine, nel Novecento, Piero Pieri. Il quale Pieri, nel 1934, denunciava ancora come il «problema militare» fosse stato per secoli «trascurato del tutto in Italia», sia dal punto di vista tecnico, sia «da un punto di vista più ampio e comprensivo», così che per trovare un lavoro che si proponesse di trattare organicamente tale tema era necessario a suo avviso risalire alla Storia delle compagnie di ventura in Italia scritta da Ricotti novant’anni prima (nel 1844). Erano poi venuti importanti saggi di Franco Cardini, Mario Del Treppo. E un rilevante contributo di Simone Collavini, Guerra e potere, nel volume Storia d’Europa e del Mediterraneo, curato da Alessandro Barbero per la Salerno. Ma il numero di studiosi di tali questioni non si era mai ampliato come sarebbe stato opportuno.
Se si guarda allo stato attuale della storiografia militare italiana il quadro, secondo Settia e Grillo, è «ambivalente». Da un lato le iniziative organiche di ricerca sono ancora molto saltuarie e lo stesso si può dire delle «occasioni di riflessione metodologica». Dall’altro lato, però, si riscontra un’attenzione sempre crescente al tema da parte di giovani studiosi, interessati anche ad approfondire nuovi approcci e a confrontarsi con problemi specifici del campo. Qualche nome? Fabio Bargigia, Fabio Romanoni, Laura Bertoni, Antonio Musarra i cui contributi, peraltro compaiono, anzi costituiscono l’ossatura di questo volume.
Alle più tradizionali ricerche sulla cavalleria come espressione di una «superiorità di gruppo», in Italia fortemente influenzate dalla storiografia francese, scrivono i due autori, «si sono più recentemente aggiunti nuovi lavori sulla guerra come fattore di ascesa o di impoverimento per singoli e famiglie e come luogo per la costruzione di nuovi legami politici o clientelari». Tutto ciò «anche a sfidare il consolidato luogo comune che il Medioevo sia stato un periodo di lunga stasi tecnica e culturale, durante il quale l’irrazionalità e la pura spinta delle emozioni dominavano la conduzione della guerra e l’atteggiamento durante gli scontri». Un leggenda che deve essere sfatata.