La Stampa 2.7.16
Sindaci, jeans e zero bandiere
“No a operazioni nostalgia”
L’ex premier: “Piazza Santi Apostoli non per l’Italia ma contro di noi”
di Alberto Mattioli
La
più decisa e recisa è un’anziana militante che sbotta: «Io sono
iscritta da cinquant’anni e gli scissionisti proprio non li sopporto», e
che nostalgia per il centralismo democratico. Ci voleva una reduce del
vecchio Pci per esprimere quel che tutti pensano ma nessuno dice. Al
secondo giorno del Forum nazionale dei circoli del Pd, a Milano, titolo
«Italia 2020» (pronunciare «venti venti», fa più dem), il convitato di
pietra si chiama Giuliano Pisapia, ironia della sorte ex sindaco proprio
di Milano.
È mattina, si deve parlare di buone idee per il
centrosinistra e per l’Italia, però si pensa a quel che diranno nel
pomeriggio a Roma i transfughi del Pd insieme a quelli della sinistra
senza centro. Però guai a nominarli. Il gran cerimoniere è il ministro
dell’Agricoltura, Maurizio Martina. Ma quando il cronista si avvicina
per chiedergli cosa pensi dell’iniziativa di Pisap... puf!, scompare
alla velocità della luce lasciandosi dietro al nuvoletta come Speedy
Gonzales. Il commento di Matteo Renzi sulla manifestazione romana arriva
in serata. Un uno-due molto secco, quasi pugilistico: «Primo, è stata
una manifestazione contro il Pd, non per l’Italia. Secondo, c’era più
società civile in sala a Milano che in piazza a Roma».
Al Forum,
dei nuovi avversari di Insieme il segretario non parla. Almeno non
esplicitamente. Però è chiaro che quando chiede una politica «che non
sia nostalgia» si riferisce, appunto, alle rimembranze dell’Ulivo o
della sinistra sì bella e perduta (e perdente). Idem quando ricorda che
alle primarie hanno votato in due milioni e le ha vinte lui, quindi il
segretario «risponde agli elettori, non ai capicorrente». E ancora:
«senza il Pd a sinistra non vince nessuno», «il leader lo scelgono i
voti e non i veti» e «il problema non è se io cambio carattere, ma se
noi cambiamo l’Italia», insomma tutti i soliti argomenti made in Renzi
contro la faida perenne nel partito. Il tutto passeggiando sul palco in
jeans e camicia bianca sbottonata e rimboccata, tonico e all’apparenza
per nulla traumatizzato dalla scoppola delle amministrative, del resto
subito derubricata a una serie di casi locali.
E per fortuna che
Matteo c’è. Perché il resto della mattina scorre moscio assai. La sala
del Linear Ciak, teatro tenda già sede degli spettacoli di Grillo, è
troppo grande per i presenti. Benché siano state coperte con teli scuri
le ultime file di poltrone, ne restano vuote troppe. Qui si conferma che
la vera vocazione del Pd non è quella maggioritaria, ma quella
deamicisiana. È tutto un mostrare esempi «buoni» di impegno civile o
lavorativo coronati dal successo. E allora vanti con Lucia Annibali,
simbolo delle donne vittime della violenza maschile che non si
arrendono, forza con il ceramista di Scandiano che ha ripreso insieme
con i colleghi l’azienda fallita e ne ha fatto una cooperativa di
successo, applausi alla figlia dell’immigrato tunisino che fa Scienze
politiche a Bologna e la politica oltre che studiarla vorrebbe pure
farla, ma non può perché non ha la cittadinanza italiana dopo 19 anni
che è in Italia, «e facciamolo lo ius soli». Prima, standing ovation per
l’omelia di don Luigi Ciotti.
Tutta un’abnegazione, tanti buoni
sentimenti. Renzi allora diventa lo scrivano fiorentino, mentre il
segretario metropolitano dem, Pietro Bussolati, è la piccola vedetta
lombarda che avvisa che «il Pd non è nato per unire i malpancisti» (poi
però fa una bella gaffe, «il partito - dice - deve avere meno case
chiuse e più circoli aperti», e in effetti quanto a casini il Pd non se
li è mai fatti mancare). Maria Elena Boschi, compunta il prima fila, è
la maestra dalla penna rossa. E Franti? Sarà Bersani, che nessuno nomina
mai, nemmeno per sbaglio.
Viene ostenso Sergio Giordani,
neosindaco di Padova, miracolo, una città dove si è vinto, anzi miracolo
doppio perché Giordano ci è riuscito dopo un ictus, che ancora si vede
nell’eloquenza impastata di cui, elegantemente, si scusa. Meno male che
c’è Roberto Burioni, il virologo che castiga gli antivaccinisti, uno che
non le manda a dire su Facebook e nemmeno qui. Quelli che non vaccinano
i figli sono «asini», dice, poi puntualizza: «E chiedo scusa agli
asini».
Però la platea, almeno finché non arriva Renzi, è molto
educata, composta, borghese, più raziocinante che pugnace. Prevalgono i
vecchi militanti e le professoresse democratiche, intervallati dalla
magliette gialle (colore itterico che i politica porta sempre male) dei
giovani volontari. Niente bandiere, pochi applausi, l’immagine che si
vuol dare è quella di una comunità che preferisce il ragionamento agli
slogan, e che preferisce i progetti alle polemiche. Basterà?