domenica 2 luglio 2017

La Stampa 2.7.16
Sindaci, jeans e zero bandiere
“No a operazioni nostalgia”
L’ex premier: “Piazza Santi Apostoli non per l’Italia ma contro di noi”
di Alberto Mattioli

La più decisa e recisa è un’anziana militante che sbotta: «Io sono iscritta da cinquant’anni e gli scissionisti proprio non li sopporto», e che nostalgia per il centralismo democratico. Ci voleva una reduce del vecchio Pci per esprimere quel che tutti pensano ma nessuno dice. Al secondo giorno del Forum nazionale dei circoli del Pd, a Milano, titolo «Italia 2020» (pronunciare «venti venti», fa più dem), il convitato di pietra si chiama Giuliano Pisapia, ironia della sorte ex sindaco proprio di Milano.
È mattina, si deve parlare di buone idee per il centrosinistra e per l’Italia, però si pensa a quel che diranno nel pomeriggio a Roma i transfughi del Pd insieme a quelli della sinistra senza centro. Però guai a nominarli. Il gran cerimoniere è il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina. Ma quando il cronista si avvicina per chiedergli cosa pensi dell’iniziativa di Pisap... puf!, scompare alla velocità della luce lasciandosi dietro al nuvoletta come Speedy Gonzales. Il commento di Matteo Renzi sulla manifestazione romana arriva in serata. Un uno-due molto secco, quasi pugilistico: «Primo, è stata una manifestazione contro il Pd, non per l’Italia. Secondo, c’era più società civile in sala a Milano che in piazza a Roma».
Al Forum, dei nuovi avversari di Insieme il segretario non parla. Almeno non esplicitamente. Però è chiaro che quando chiede una politica «che non sia nostalgia» si riferisce, appunto, alle rimembranze dell’Ulivo o della sinistra sì bella e perduta (e perdente). Idem quando ricorda che alle primarie hanno votato in due milioni e le ha vinte lui, quindi il segretario «risponde agli elettori, non ai capicorrente». E ancora: «senza il Pd a sinistra non vince nessuno», «il leader lo scelgono i voti e non i veti» e «il problema non è se io cambio carattere, ma se noi cambiamo l’Italia», insomma tutti i soliti argomenti made in Renzi contro la faida perenne nel partito. Il tutto passeggiando sul palco in jeans e camicia bianca sbottonata e rimboccata, tonico e all’apparenza per nulla traumatizzato dalla scoppola delle amministrative, del resto subito derubricata a una serie di casi locali.
E per fortuna che Matteo c’è. Perché il resto della mattina scorre moscio assai. La sala del Linear Ciak, teatro tenda già sede degli spettacoli di Grillo, è troppo grande per i presenti. Benché siano state coperte con teli scuri le ultime file di poltrone, ne restano vuote troppe. Qui si conferma che la vera vocazione del Pd non è quella maggioritaria, ma quella deamicisiana. È tutto un mostrare esempi «buoni» di impegno civile o lavorativo coronati dal successo. E allora vanti con Lucia Annibali, simbolo delle donne vittime della violenza maschile che non si arrendono, forza con il ceramista di Scandiano che ha ripreso insieme con i colleghi l’azienda fallita e ne ha fatto una cooperativa di successo, applausi alla figlia dell’immigrato tunisino che fa Scienze politiche a Bologna e la politica oltre che studiarla vorrebbe pure farla, ma non può perché non ha la cittadinanza italiana dopo 19 anni che è in Italia, «e facciamolo lo ius soli». Prima, standing ovation per l’omelia di don Luigi Ciotti.
Tutta un’abnegazione, tanti buoni sentimenti. Renzi allora diventa lo scrivano fiorentino, mentre il segretario metropolitano dem, Pietro Bussolati, è la piccola vedetta lombarda che avvisa che «il Pd non è nato per unire i malpancisti» (poi però fa una bella gaffe, «il partito - dice - deve avere meno case chiuse e più circoli aperti», e in effetti quanto a casini il Pd non se li è mai fatti mancare). Maria Elena Boschi, compunta il prima fila, è la maestra dalla penna rossa. E Franti? Sarà Bersani, che nessuno nomina mai, nemmeno per sbaglio.
Viene ostenso Sergio Giordani, neosindaco di Padova, miracolo, una città dove si è vinto, anzi miracolo doppio perché Giordano ci è riuscito dopo un ictus, che ancora si vede nell’eloquenza impastata di cui, elegantemente, si scusa. Meno male che c’è Roberto Burioni, il virologo che castiga gli antivaccinisti, uno che non le manda a dire su Facebook e nemmeno qui. Quelli che non vaccinano i figli sono «asini», dice, poi puntualizza: «E chiedo scusa agli asini».
Però la platea, almeno finché non arriva Renzi, è molto educata, composta, borghese, più raziocinante che pugnace. Prevalgono i vecchi militanti e le professoresse democratiche, intervallati dalla magliette gialle (colore itterico che i politica porta sempre male) dei giovani volontari. Niente bandiere, pochi applausi, l’immagine che si vuol dare è quella di una comunità che preferisce il ragionamento agli slogan, e che preferisce i progetti alle polemiche. Basterà?