domenica 2 luglio 2017

La Lettura del Corriere 2.7.17
Il califfo Adamo nel paradiso dei jihadisti con i crociati
di Amedeo Feniello

Jihad e califfato. Temi da trattare con prudenza. Cercando di evitare pregiudizi e isterismi. Seguendo l’unica strada che impedisca che l’indagine deragli: ricorrere al metodo storico. Alla serietà e al rigore scientifico. Cominciamo dal jihad: la confusione, nei commenti, spesso regna sovrana. Bisogna chiarirsi, suggerisce Malcolm Lambert nel suo Crociata e Jihad , che sta per uscire da Bollati Boringhieri. Sicuramente il termine è assai fluido e si evolve nel tempo: ad esempio, delle 39 occorrenze del termine nel Corano, solo dieci si riferiscono alla guerra. Nella maggior parte dei casi, «esercitare lo sforzo», ossia il jihad «sul cammino di Dio», va compiuto in maniera pacifica; e il Corano invita i musulmani a condurre il «grande jihad» con la preghiera e un percorso interiore. D’altra parte, il Corano presenta forme di ambivalenza verso la guerra. Alcuni passaggi esortano i musulmani a diffondere la fede attraverso mezzi pacifici. Mentre altri autorizzano la guerra difensiva quando gli islamici si trovano sotto attacco e altri ancora la incoraggiano per sottomettere i nemici infedeli al potere musulmano. Inoltre non bisogna dimenticare che il profeta Maometto andò alla guerra: lo fece sia nel conflitto contro i Qurays della Mecca (630), sia con scorrerie e incursioni ai confini meridionali dell’impero bizantino.
L’idea di jihad muta dopo la morte del profeta, con la generazione protagonista delle conquiste islamiche, come anche di grandi dissidi teologici con ebrei e cristiani. E tanto la sua teoria quanto la pratica cambiarono, riflettendo le preoccupazioni e le necessità della comunità musulmana, così da assumere una dimensione totalmente differente durante la grande conquista, diventando un appello a sottomettere l’intera terra sotto il dominio della religione di Dio. Ma il jihad veniva richiamato anche in maniera difensiva, quando si trattava di proteggere la comunità dei credenti contro le incursioni dei nemici, fossero essi cristiani bizantini, cristiani latini, turchi non islamizzati o esponenti di correnti eterodosse all’interno dello stesso islam.
Così vengono percepite da un certo momento in poi dall’ambiente musulmano le Crociate, in un gioco di specchi col contesto cristiano che ha del sorprendente. Con quell’appello alle armi, chiaro e ineludibile, che parte da Papa Urbano II a Clermont-Ferrand nel 1095 e attraverso il quale si afferma come sia possibile conciliare la propria salvezza con l’esercizio della guerra, se essa viene rivolta contro gli infedeli. Per essere più chiari: viene sancita in ambito cristiano la liceità del massacro per la difesa della fede. La sua legittimazione. La violenza come mezzo per conseguire il Paradiso. Un nodo che diventa l’elemento di conciliazione tra due opposte visioni del mondo: della conquista e dello spirito. E, come ha scritto lo storico Salvatore Tramontana, con la «concessione di indulgenze e remissioni di colpe a quanti andavano a combattere contro i musulmani in Terra Santa, si legittimavano — anzi si suggerivano — le azioni guerriere». Fino all’idea, pericolosissima e anticipatrice di tante sciagure, dello «stato d’eccezione», emanato per la prima volta dalla cancelleria di Papa Onorio III nel corso della V Crociata (1217-1221), col quale si giustificava la deroga a ogni norma comune con provvedimenti di carattere straordinario, se il fine ultimo della riconquista di Gerusalemme fosse stato raggiunto.
Una lucida follia, avrebbe detto Voltaire, animava le azioni di entrambi i contendenti, musulmani e cristiani. Con episodi chiave, come la battaglia dei Corni di Hattin del 1187, di cui il 4 luglio ricorre l’anniversario. Con da una parte l’enorme esercito musulmano guidato dal carisma di Saladino e dalla forte e violenta idea del jihad. Dall’altra un fronte composito, disaggregato, condotto da una serie di capi latini temerari, ma arroganti e poco accorti, molti dei quali concepivano il rapporto con l’altro solo nei termini di una sua totale liquidazione. Episodio che si chiude col massacro dell’esercito cristiano e il ritorno di Gerusalemme nelle mani dei musulmani.
Lo studioso italiano Marco Di Branco, con il suo Il califfo di Dio (Viella), offre invece uno sguardo inedito sul tema di scottante attualità del califfato. Di cui Franco Cardini, nell’introduzione, sottolinea la viscosità, nel confronto con le categorie semplificatorie che vengono spesso usate: «Del califfato e dei califfi si sono dette molte cose, spesso con imprecisioni molto forti quando non addirittura con equivoci ed errori. Anche per questo è utile, anzi necessario e benemerito, questo libro che però — e ciò va sottolineato con forza — non è soltanto, anzi non è semplicemente, una storia dell’istituzione califfale». Il libro ci proietta in un lungo percorso che parte dall’oggi e corre indietro nel tempo, alle radici del califfato. Su traiettorie smisurate, dall’Arabia alla Siria, dall’Iraq alla Penisola iberica. Con una argomentazione che non si limita al mondo arabo, ma risulta intimamente connessa a un cosmo di tradizioni senza confini. Con un modello, quello del califfo, che rinvia all’idea della monarchia sacra, che ha tanti precedenti antichi e diffusi su uno spazio di apporti smisurato: egizio, assiro-babilonese-indo-iranico, latino-ellenistico, ebraico, bizantino. Senza dimenticare gli influssi etiopi, che tanto hanno influenzato la prima fase della civiltà musulmana.
Non poteva essere diversamente. Perché la sintesi califfale muove i suoi primi passi e si afferma partendo da un baricentro culturale solido, posto all’intersezione tra il mondo iranico e il mondo ellenistico. Un mondo tardo-antico capace di cristallizzare tutto un «repertorio di norme politico-culturali» che furono ampiamente riprodotte in ambito islamico, condivise, riadattate e, alla fine, «considerate come l’ordine ecumenico naturale delle cose». Così il paradigma teocratico islamico da dove scaturisce? Dall’influenza di Costantinopoli, dove costituisce uno degli elementi della costruzione statale bizantina. E il modello musulmano di regalità? Dalla tradizione veterotestamentaria, con Adamo che incarna, in alcune tradizioni, il primo imam , guida politica e religiosa a un tempo. Dopo Adamo, per averne un altro bisognò aspettare un po’ di tempo, fino a Maometto, il fondatore della comunità islamica basata sulla legge di Dio.
Di Branco, insomma, dice con chiarezza: attenzione alle facili schematizzazioni, evitate comode, ma scorrette scorciatoie. E il califfato non va considerato come qualcosa di immutabile e omogeneo, ma ebbe una sua evidente natura magmatica, originariamente non «il prodotto di uno sviluppo dottrinario o di un dibattito teorico, bensì il risultato di uno scontro politico concreto che aveva come posta in palio la successione al Profeta. (…) Proprio per questo, esso non ebbe affatto una natura univoca, e anzi fu in continua evoluzione, mutando con il mutare della società islamica». Una istituzione che ebbe diversi volti (dall’Oriente alla Spagna di al-Andalus), la cui sfera di influenza diminuì sensibilmente abbastanza presto, sin dall’età Abbaside (i nostri secoli IX-X). Con il restringersi della propria effettiva autorità, ponendola di fatto sotto la tutela militare delle varie dinastie di emiri e di sultani. Ma il fascino del califfato permane, fino al presente. Con una riflessione finale che colpisce circa l’immaginario dell’Isis: esso non fa breccia nelle masse musulmane, ma la sua propaganda ha «un enorme effetto in Occidente, dove trova una rispondenza tanto singolare quanto inquietante con gli stereotipi qui coltivati sull’islam dall’epoca medievale fino ad oggi».
Jihad e califfato: non ci facciamo prendere all’amo da facili propagandismi. Invece è urgente «dotarsi di un solido bagaglio di conoscenze di base sulla storia e sulla religione islamica». La migliore bussola per orientarsi nell’intrico di falsità, errori e fraintendimenti che caratterizza la rappresentazione della realtà musulmana in relazione al nostro mondo.