Il Sole Domenica 2.7.17
Comportamento antisociale
Non è tutta colpa del gene
L’assenza di sintesi dell’enzima MAO-A induce all’aggressività.
Ma se l’ambiente è sano non c’è aumento di rischio
di Pietro Pietrini
Il
rinnovato interesse per le basi biologiche del comportamento umano ha
dato vita ad una vera e propria disciplina che prende il nome di
«genetica del comportamento», più nota con la denominazione anglosassone
di Behavioral Genetics. Che il comportamento - come del resto pressoché
ogni altro aspetto della vita dell’individuo, compresa persino la
capacità di percepire le sostanze amare - possa essere influenzato da
fattori intrinseci, certo non sorprende.
Fin dagli anni ’70, gli
studi su gemelli monozigoti e dizigoti e su figli naturali e adottivi
hanno svelato come il rischio di sviluppo di comportamento violento
abbia una componente biologica, essendo maggiore nei figli di genitori
violenti anche quando allevati in famiglie adottive non violente.
Parimenti, il fatto che in questo caso il rischio sia comunque minore di
quello che hanno i figli di genitori violenti, allevati dai propri
genitori biologici, è chiara indicazione che l’ambiente gioca un ruolo
importante.
Nell’ultimo quarto di secolo, il grande sviluppo delle
metodologie di biologia e genetica molecolare ha consentito di arrivare
a sequenziare l’intero genoma umano ed esaminare i singoli geni. Le
sorprese non sono mancate. Abbiamo “solo” circa 22 mila geni, non solo
assai meno di quei 100 mila geni magicamente profetizzati, ma poco più
di una frazione dei ben 106mila geni del grano tenero (Triticum
aestivum). E si metta l’animo in pace chi ancora fosse convinto che ci
sono esseri umani più tali di altri: abbiamo tutti lo stesso genoma.
La
spiegazione del perché nessun individuo è identico ad un altro a meno
che non abbia un gemello omozigote (e anche in questo caso ci sarebbe da
dire qualcosa) sta nel fatto che su questo genoma uguale per tutti
insistono oltre trenta milioni di variazioni. Quella catena di basi
azotate (Adenina, Citosina, Guanina, Timina) che vanno a comporre la
famosa doppia elica del DNA può differire tra un individuo ed un altro
anche per una sola lettera. Queste varianti alleliche, o semplicemente
alleli, rendono conto delle differenze nei tratti somatici, come il
colore dei capelli, degli occhi, della pelle e così via. Non solo.
Alleli diversi influenzano anche il modo in cui rispondiamo a eventi
ambientali, la suscettibilità ad ammalarci, il decorso stesso di una
malattia e la differenza nella risposta ai trattamenti farmacologici.
In
questa diversità genetica, in questa estrema fantasia della natura di
declinare lo stesso genoma in maniera così articolata e casuale, si
racchiude il segreto dell’evoluzione. Non saremmo qui se tutto questo
non fosse avvenuto. La diversità, così spesso nella storia anche recente
pretesto di discriminazione, è la vera risorsa della specie. Essere
tutti diversi significa avere - come specie - maggiori probabilità di
sopravvivenza di fronte ad una qualsiasi noxa patogena o in qualsivoglia
condizione naturale, al Polo Nord come all’equatore.
Ma dunque
che relazione esiste tra geni e comportamento? La ricerca in questo
campo ha ricevuto nuovo vigore da quando nel 1993 Brunner pubblicò uno
studio di una famiglia olandese che aveva una caratteristica: ben otto
maschi in cinque generazioni presentavano lieve ritardo mentale e
spiccato comportamento violento ed aggressivo, con vere e proprie
esplosioni di rabbia in risposta a provocazioni anche di poco conto.
Niente di simile si riscontrava nelle femmine della stessa famiglia né
negli altri maschi, a riprova che suddetto comportamento non poteva
essere frutto esclusivo di fattori ambientali di rilievo.
Brunner
si rese presto conto che i maschi affetti avevano una mutazione sul
cromosoma X, nel gene che codifica l’enzima Monoamino-Ossidasi A
(MAO-A), deputato al metabolismo delle catecolamine cerebrali,
noradrenalina, dopamina e serotonina. Il difetto genetico si traduceva
nella mancata produzione dell’enzima. Poiché i maschi, come noto, hanno
un solo cromosoma X, il difetto, ereditato dalla madre portatrice, si
manifestava senza possibilità di compenso.
Le analisi genetiche e
biochimiche dimostrarono l’inequivocabile associazione tra la mutazione
genetica e il comportamento antisociale. La prova del nove arrivò due
anni più tardi da uno studio pubblicato in Science. Usando sofisticate
tecniche di biologia molecolare che permettono di eliminare un gene dal
corredo genetico di un topolino, Cases e i suoi collaboratori crearono
un modello murino knock-out, vale a dire topolini privi del gene che
codifica l’enzima MAO-A. Ebbene questi topolini, fin dalle prime
settimane di vita, mostravano chiare anomalie comportamentali fino ad
arrivare ad essere insolitamente aggressivi verso i compagni di gabbia.
La mancanza di un gene MAO-A funzionante induceva la comparsa di
comportamento aggressivo anche nei topolini.
Ad ulteriore riprova
del nesso di causa, gli sperimentatori somministrarono un farmaco che
inibisce la sintesi di serotonina, allo scopo di eliminare dal cervello
di questi topolini il neurotrasmettitore in eccesso, visto che non
veniva degradato adeguatamente a causa della mancanza di MAO-A. Ebbene,
questa cura mitigava il comportamento aggressivo dei topolini.
Va
detto che una mutazione così grave come quella descritta nella famiglia
olandese - assenza di sintesi dell’enzima MAO-A - non è mai più stata
trovata in alcun altro individuo. Per contro, i numerosi studi condotti
da gruppi indipendenti hanno portato all’identificazione di alcune
mutazioni che portano ad una sintesi meno efficace dell’enzima MAO-A,
indicate come MAO-A_Low in contrapposizione alla variante normale,
MAO-A_High.
Gli studi in letteratura, iniziati da Caspi e
colleghi, indicano che possedere la variante MAO-A-Low comporta un
rischio tre-cinque volte maggiore di comportamento aggressivo e
antisociale. Nessun determinismo dunque: possedere questa variante
allelica non è condizione sufficiente né necessaria per sviluppare
comportamento aggressivo, ma ne aumenta la probabilità.
Risultati
analoghi sono stati riscontrati per altri geni che hanno a che fare con
il metabolismo dei neurotrasmettitori e con i recettori cerebrali: per
ciascun gene esistono diverse varianti alleliche, alcune delle quali
sono significativamente associate con un rischio statisticamente
maggiore di diventare aggressivi.
Ma questa è solo una parte della
storia. Se si mettono insieme i dati genetici con lo studio dei fattori
ambientali, emerge una relazione tra il possesso di queste varianti
alleliche di rischio e le condizioni dell’ambiente in cui l’individuo è
stato allevato. L’aumento del rischio di comportamento antisociale da
adulto si ha solo nel caso in cui individui con uno o più di questi
alleli siano stati maltrattati, abusati, insomma, siano cresciuti in un
ambiente malsano. Se l’ambiente familiare al contrario è stato un
ambiente sano, non vi è alcun aumento di rischio di comportamento
antisociale.
Al contrario, studi recenti indicano che questi
individui possano essere addirittura più prosociali di coloro che non
hanno queste varianti alleliche. Queste osservazioni hanno portato a
coniare il termine di “alleli di plasticità”, proprio ad indicare che
queste varianti alleliche aumentano la permeabilità dell’individuo
all’ambiente. Dunque se l’ambiente è positivo, avere queste varianti
rappresenta un vantaggio. Ma se è negativo, la resilienza è certamente
diminuita. Alla luce di queste nuove acquisizioni delle neuroscienze del
comportamento, si comprende bene come parlare di genetica e ambiente
come di due entità separate e in contrapposizione sia privo di senso e
antiscientifico.
Quell’eterno dibattito che la giocosità della
lingua inglese chiama nature vs nurture sbiadisce di fronte alle nuove
acquisizioni della scienza, peraltro anticipate dalle geniali intuizioni
dei filosofi antichi, basti pensare alla «prava disposizione del corpo e
per un allevamento senza educazione» che Platone ritiene origine
dell’essere malvagio (Timeo, 86e). E non si è neppure accennato a quel
complesso effetto dell’ambiente sull’espressione dei geni, che prende il
nome di epigenetica. Queste recenti conoscenze sull’intricato rapporto
tra biologia e ambiente pongono inevitabili riflessioni anche per
l’etica e la giurisprudenza.
– Direttore Scuola IMT Alti Studi di Lucca