Il Sole Domenica 2.7.17
L’evoluzione del populismo
La rivolta degli inclusi
Marco
Revelli analizza il decorso della malattia della democrazia: ieri lotta
di classe, oggi frustrazione dei vecchi privilegiati
di Remo Bodei
Il
termine «populismo», oggi continuamente evocato per designare fenomeni
diversissimi, è generalmente associato all’idea di una degenerazione
della politica e, in particolare, della democrazia. Rappresenta un
sintomo dello scollamento tra governanti e governati, una ribellione dal
basso da parte di coloro che si sentono traditi ed esclusi da classi
dirigenti incapaci e corrotte. È sufficiente demonizzare, esaltare o
banalizzare tale fenomeno che appare ormai diffuso?
Il libro di
Marco Revelli offre una acuta e documentata analisi di questo termine
passepartout, districandone e chiarendone i vari significati nel
contesto delle democrazie occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna,
Spagna, Francia, Germania e Italia).
Tra i tanti «populismi»
individua, tuttavia, un’aria di famiglia, contraddistinto, da un lato,
dallo stato d’animo, dal mood, di gente «carica di rancore,
frustrazione, intolleranza, radicalità che il declassamento e la
disgregazione comportano»; dall’altro, dall’espressione di una «malattia
senile della democrazia». Il populismo ottocentesco e del primo
Novecento era, infatti, caratterizzato dall’essere una «rivolta degli
esclusi», di quanti, per censo o per classe, non potevano partecipare
alla vita politica (in questo senso, si era allora dinanzi a una
«malattia infantile» del ciclo democratico).
Quello attuale è,
invece, rappresentato da una «rivolta degli inclusi», di quanti sono
stati messi ai margini, dagli esponenti impoveriti «di strati fino a
ieri ascendenti», che assistono con risentimento alla «ascesa
vertiginosa di piccoli gruppi di vecchi e di nuovi privilegiati, segno
inquietante di un’improvvisa inversione di marcia del cosiddetto
“ascensore sociale”».
La lotta di classe “orizzontale” si è, così,
trasformata in contrapposizione “verticale” tra popolo indifferenziato,
buono per definizione, ed élite, tra onesti e corrotti, tra perdenti
«homeless della politica» – in cerca di qualcuno, magari un miliardario,
«purché rozzo», che li rappresenti – e la vincente «congrega dei
privilegiati». I primi, negli Stati Uniti di Trump, non sono sempre
costituiti da poveri che si vendicano dei privilegiati, ma da chi ha
perso qualcosa e che sa, però, «non solo di averlo perduto: di esserne
stato privato. Da altri: le élite, la finanza e le banche, la palude di
Washington, i gay e le lesbiche e i transgender, le star di Hollywood,
famose e dissolute, gli ispanici che mangiano nei loro giardini, i neri
che seminano bottiglie vuote per strada, gli islamici che hanno più fede
di loro, i petrolieri arabi che si comprano le loro città e finanziano i
tagliagole… Un variopinto esercito di traditori del popolo laborioso e
pio, distribuito lungo tutta la scala sociale, dal fondo alla cuspide».
Specie
nell’affrontare il populismo americano, il libro di Revelli mostra
tutta la sua originalità nel ricostruirne la genesi, che risale
addirittura al settimo presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson.
Nell’iniziare l’age of common man, 1830-1840 (quella che Tocqueville
aveva visto sorgere poco prima di scrivere i due volumi de La democrazia
in America), Jackson condusse una vera e propria guerra contro il
potere bancario, convinto che «le banche rendano i ricchi più ricchi e i
potenti più potenti».
Nel 1892 viene poi fondato il National
People’s Party, che ha molte somiglianze con il populismo di Trump e ne
ripercorre in gran parte l’area geografica del consenso. Anche la
situazione economico-sociale del tempo presenta analogie con quella
presente a livello globale: «Gli storici economici calcolano che
nell’ultimo decennio del XIX secolo l’1% più ricco della popolazione
americana possedesse all’incirca il 51% dell’intera ricchezza nazionale,
e che al 44% più povero non ne restasse che l’1,1%! Li chiamavano
irobber barons».
Con il senno di poi, non era difficile capire le
ragioni che avrebbero portato al successo di Trump. Bastava «porre
maggiormente l’orecchio al suolo, dove l’America profonda fa sentire i
propri brontolii. E allo stesso modo capire che un Paese complesso come
quello non ha un solo tempo sincronizzato e uniforme, muove a differenti
velocità, e accanto alla vertigine temporale del word trade e della
società globalizzata ci sono altre temporalità, che resistono e vanno in
direzione contraria. Lunghe durate, che la velocità di superficie può
marginalizzare, ma che sopravvivono e riemergono – carsicamente, appunto
– in comportamenti individuali e collettivi».
Coloro che si
avvertono de-sicronizzati rispetto alla velocità con cui avanzano i ceti
dominanti sono, nella fattispecie (secondo le parole di David Tabor,
direttore editoriale di Hot books) «i veterani scartati dalle guerre
senza fine in Medio Oriente, i colletti blu che mai più guadagneranno i
soldi che hanno fatto quando erano giovani, i residenti dei villaggi
rurali e degli avamposti suburbani che vengono sempre trascurati dai
radar dei media».
Più noto, ma ugualmente utile, è l’esame
dettagliato, compiuto da Revelli, degli attuali populismi europei, in
relazione alla Brexit, alla Germania felix – che ha «le sue zone
d’ombra. E le sue aree sociali malate. Essa è oggi tra i paesi più
disuguali in Europa» – e, soprattutto, all’Italia.
Nel nostro
paese, i populismi hanno in comune alcuni elementi: la
personalizzazione, il rapporto diretto del leader con il suo i suoi
potenziali elettori, il «rifiuto della complessità dei processi
decisionali previsti dalla costituzione», la rottura con il passato, che
assume la forma di una ostentata distanza dalla politica e di una
proclamata volontà di rottura o di «rottamazione» riguardo ai precedenti
governi.
Quello di Berlusconi è un populismo televisivo da «tempi
facili, il populismo dell’edonismo che nasce dal benessere del carpe
diem, occasionalistico e rapinoso». Quello di Grillo è un
«cyberpopulismo», che si avvantaggia del declino della televisione,
specie fra i giovani, e punta su una mini-democrazia diretta. Quello di
Renzi è, infine, un «populismo “ibrido”. Un po’ di lotta, un po’ di
governo». Un populismo «dall’alto».
Si può, in conclusione, curare
questa «malattia senile della democrazia» o saremo condannati a
costatarne, inermi, l’ineluttabile declino? La terapia proposta da
Revelli, in tono dubitativo, è questa: «basterebbero forse dei segnali
chiari […] per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella
post-democrazia incombente: politiche tendenzialmente redistributive,
servizi sociali accessibili, un sistema sanitario non massacrato, una
dinamica salariale meno punitiva, politiche meno chiuse nel dogma
dell’austerità… Quello che un tempo si chiamava “riformismo” e che oggi
appare “rivoluzionario”». Si tratta di una rivoluzione possibile in un
futuro non lontano, quando keynesianamente saremo tutti morti?Marco
Revelli,Populismo 2.0 , Einaudi, Torino, pagg. 156, € 12