Il Sole Domenica 2.7.17
Marina Cvetaeva (1892-1941)
Contro i pifferai della rivoluzione
La musica, l’arte più amata dalla poetessa russa fieramente avversa al regime sovietico, si fa strumento di potere
di Serena Vitale
Vedono
la luce in Italia quasi contemporaneamente, a cura della slavista
Caterina Graziadei, due opere di Marina Cvetaeva, definita da Iosif
Brodskij «il più grande poeta del XX secolo»: Il campo dei cigni, un
ciclo di poesie (gennaio 1918 - dicembre 1920; apparse su pubblicazioni
periodiche, furono raccolte per la prima volta in volume nel ’57, a
Monaco) e L’accalappiatopi, 1925 (rispetto alla prima edizione italiana
del 1983, sempre curata con amorevoli premure da Graziadei, quest’ultima
appare notevolmente perfezionata, arricchita anche del testo russo a
fronte).
Le poesie del Campo dei cigni nacquero in anni oscuri,
luttuosi: il caos postrivoluzionario, la guerra civile, la personale
tragedia dell’autrice, che nel febbraio 1920 perse la seconda figlia,
Irina, morta di denutrizione a neanche tre anni. Era rimasta sola,
Marina, priva di tutto, con due bambine da sfamare, incapace di
organizzarsi nella vita quotidiana di un Paese sconvolto, nella casa -
ormai un “tugurio”- dove era vissuta con il giovane marito. Agli inizi
del ’18 l’ufficiale Sergej Efron aveva raggiunto l’armata dei Volontari
che si andava formando nei territori meridionali della Russia e da
allora Marina non aveva più notizie di lui (soltanto nel ’21 avrebbe
saputo che era vivo e lo avrebbe raggiunto nell’emigrazione).
Cieca
alla “politica”, nemica di ideologie, partiti, consorterie di ogni
genere, Marina vide la sua Mosca attraversata dalle «grigie truppe della
rivoluzione», una marmaglia di aggressivi «partigiani del dio Marte»
che la piccola Alja, la figlia maggiore, guardava con una leggera
smorfia. Maledisse Pietro il Grande, «progenitore dei Soviet… di ogni
rovina», carnefice della santa Rus’ (a conferma della sua natura di
diario lirico ogni poesia del Campo dei cigni è datata e, sfida
all’ateismo di Stato, alla data spesso si accompagna l’indicazione della
festa liturgica). Cantò - una volta lo fece anche di fronte a un
uditorio moscovita politicamente ipercorretto - gli ideali cavallereschi
di onore, giustizia e fedeltà, incarnati nei “controrivoluzionari” di
cui presagiva la disfatta. Don (nelle terre bagnate dal fiume al Sud si
svolgeva la mattanza fratricida che sarebbe terminata con la presa della
Crimea da parte dell’Armata Rossa, l’evacuazione forzata dei vinti)
coincideva per lei con Dolg, con il «dovere, lusso regale nei tempi
delle piazze». Ma trovava parole di pietà per tutte le vittime - per i
Bianchi «arrossati dal sangue» come per i Rossi «sbiancati dalla morte»…
In
una lirica del ’18 aveva dichiarato di avere due soli nemici sulla
terra: «la fame degli affamati e la sazietà dei sazi», anticipando
quello che diventerà il leitmotiv dell’Accalappiatopi, il poema - una
delle più alte creazioni cvetaeviane - iniziato in Cecoslovacchia; lì,
nel ’22, la famiglia Efron si era finalmente riunita. A Moravská
T?ebová, dove Alja studiò per qualche tempo nel ginnasio-pensionato
russo, Marina fu colpita dalla somiglianza della cittadina morava con
certi borghi medievali tedeschi. Mente e cuore riandarono alla Germania,
seconda patria del sogno: «Da mia madre ho ereditato la Musica, il
Romanticismo. Cioè la musica. Tutta me stessa». Ma è una Germania quasi
ripugnante quella che fa da sfondo alla rielaborazione del Pifferaio di
Hamelin, l’antica leggenda che ispirò molti scrittori e poeti - da
Goethe a Robert Browning. Nel lindo, pacifico, ricco paese dove gli
abiti hanno tutti la stessa foggia e i sogni sono opachi doppioni della
noiosa vita diurna, l’Anima latita; resta solo la fame - di denaro, di
cibo. Soprattutto di cibo: straripano di viveri magazzini e depositi, e
tutto quel ben di Dio - riso, lardo, farina, granaglie - attira
inevitabilmente torme di topi. A Hammeln (persino il vero nome della
città, Hamelin, è ingrassato di una seconda “m”) arriva un musicista che
attira i topi nel lago dove annegano - lo stesso, dove, ingannato dai
notabili che gli rifiutano la ricompensa promessa, farà affogare tutti i
bambini del borgo, da lui persuasi a seguirlo nel luogo paradisiaco
«dove le perle sono grandi come noci»... Con i topi il Musico aveva
usato argomenti diversi: seguendolo, diceva, sarebbero arrivati
nell’Indostan: il lontano, azzurrissimo paese dove avrebbero potuto
liberare tre miliardi di confratelli roditori ridotti in schiavitù
dall’uomo dando inizio alla rivoluzione mondiale.
I satolli topi
«arrivati da certi paesi russi» si annoiano a Hammeln, soffrono di
ulcera, gastrite, gotta: gli abitanti li hanno contagiati con la loro
opulenta routine filistea. Pigri, flosci, appesantiti dal grasso, hanno
dimenticato come si ruba e si rosicchia, si sono messi a giocare a vint
come certi impiegatucci dei racconti di ?echov, e c’è addirittura chi ha
cominciato ad amare i gatti. È evidente - e non sfuggì ai russi della
diaspora - l’ironica rappresentazione della Russia postrivoluzionaria:
terminato il periodo “romantico” ( «per cosa abbiamo combattuto?»,
«senza lotta non c’è vita», si lamentano i topi ora bramosi di Sturm und
Drang), ha avuto inizio la dittatura burocratica; con la Nep, la Nuova
Politica Economica, sono spuntati fuori gli avidi ceffi di nuove Anime
Morte.
Nell’Accalappiatopi suona alta la condanna di qualsiasi
utopia rivoluzionaria: Marina Cvetaeva non crede alla possibilità di un
vero trionfo del potere popolare, nei fatti che hanno drasticamente
cambiato la storia del suo Paese scorge anche la segreta spinta della
sete di potere, dell’invidia di classe. La Rivoluzione bolscevica, è
convinta, nulla ha a che fare con l’eterna rivolta (slancio sovversivo
contro la vita quotidiana, le sue minuzie e miserie) del poeta. «Cos’è
la musica?», ragionano i consiglieri di Hammeln, «affronto al buon
senso… demonio». E c’è davvero qualcosa di demoniaco nella doppia natura
dell’arte, qui incarnata dalla voce del Flauto. Può salvare ma anche,
come la stichija - l’ “elemento naturale” con cui per Marina Cvetaeva si
identifica la poesia stessa -, portare alla rovina, alla morte.
Marina Cvetaeva, L’accalappiatopi , traduzione di Caterina Graziadei, e/o, Roma, pagg. 336, € 18;
Marina Cvetaeva, Il campo dei cigni ,
a cura di Caterina Graziadei, Nottetempo, Roma, pagg. 70, € 12