Internazionale 30.6.17
Asia e Pacifico
Una mentalità arretrata opprime l’India
La cultura rurale porta con sé un bagaglio di disuguaglianza, oppressione e sessismo. E mette a rischio la battaglia per la modernità nel paese. L'opinione di uno scrittore indiano di Manu Joseph, LiveMint, India
Di questi tempi il fascino per i contadini è molto diffuso tra le persone che non hanno a che fare con loro. Li vedono semplici e genuini, nobili come le verdure biologiche. Ricchi o poveri, maschi o femmine, di casta elevata o dalit, braccianti o latifondisti: sono tutti, indistintamente, contadini. E questa idea si è diffusa anche tra i contadini. A marzo un gruppo di tamil è andato a protestare a New Delhi indossando perizomi e ghirlande di teschi appartenenti, a quanto pare, a coltivatori morti suicidi. Tenevano tra i denti topi vivi e brandelli di serpenti per attirare l’attenzione del primo ministro e ottenere la possibilità di rinegoziare i prestiti. A nessun altro sarebbe stato concesso di presentarsi così, ma loro erano contadini. Se l’intera categoria non fosse identificata con l’immagine del contadino povero, sarebbe chiaro a tutti che i contadini sono i principali nemici della popolazione urbana. Sono gli imprenditori che trattano i loro prodotti con sostanze chimiche per farli sembrare freschi; i più ricchi tra loro non pagano le tasse; sono i più grandi consumatori di acqua potabile, assorbita per l’80 per cento dalla coltivazione di prodotti come il riso, per cui ricevono sussidi; pagano poco o nulla per l’energia che consumano. Ma i contadini sono nemici dei progressisti di città per un altro motivo: abitano nei villaggi. Gli abitanti di un villaggio hanno istinti tribali. Sopravvivono solo come parte di un gregge, per loro l’appartenenza è tutto. Devono difendere la casta, la gerarchia sociale e l’odio religioso, nonché la superiorità dell’uomo sulla donna. Possono anche essere oppressi, ma per chiunque si trovi sotto di loro sono degli oppressori. Considerano ordine sociale la “tradizione” e disordine civile la “libertà”. Per B.R. Ambedkar, intellettuale simbolo nella lotta contro le discriminazioni in India, la liberazione dei dalit implicava la loro emancipazione dal villaggio. Chi emigra in città, oggi come allora, non lo fa solo per motivi economici, ma anche perché cerca l’anonimato, vivendo l’identità come una maledizione. Solo che le città sono diventate le più grandi roccaforti del villaggio feudale. La gente di villaggio affolla il parlamento, le assemblee locali e gli organismi municipali; riempie gli uffici statali, gestisce imprese, vive nei ghetti più ricchi di Mumbai.
La reazione del villaggio
Il villaggio non è un luogo, è una mentalità. Ci sono uomini che studiano nelle migliori università statunitensi ma che, tornati in India, diventano signori feudali. Molti sembrano dei riformatori, e la loro volontà di preservare la cultura e le tradizioni serve solo a nascondere il desiderio di mantenere dei privilegi. Sono turbati dall’urbanizzazione delle campagne e dalle gerarchie sociali labili. Per protestare ammantano il villaggio di romanticismo, come se fosse parte di una realtà da lasciare immutata. Anche la città è una mentalità. È piena di persone che non cercano di trarre vantaggio dalla loro estrazione sociale e che sono riuscite a lasciare il gregge. Chi vive in città è in grado di separare la famiglia dal guscio culturale che la racchiude. Forse all’inizio può approfittare dei privilegi di nascita, ma poi se ne allontana. È una spugna che assorbe gli stimoli delle città più vivaci. Ma neanche la mentalità cittadina è tutta rose e fiori. Imitando le tendenze culturali dominanti, è spesso prigioniera di idee vuote. La battaglia per la modernità si combatte tra queste due mentalità. Chi sta vincendo? Considerato che il mondo è abitato in gran parte da gente di villaggio, tutto sommato la città non se l’è cavata male: ha avuto un’influenza in troppo profonda. Ha concepito il progresso come un passaggio dall’antichità alla modernità, che però non va dato per scontato. Questa tendenza può fermarsi, come in Afghanistan e in Siria, portando la società indietro di decenni o secoli. La gente di villaggio guadagna terreno, soprattutto quella radicata nelle città. Ovunque l’ascesa del conservatorismo è una reazione del villaggio. Le persone temono di perdere ciò che hanno, e per sentirsi al sicuro si aggrappano a quello in cui la gente di villaggio eccelle: fanno gruppo contro chi non è come lei. ugim Manu Josephè un giornalista e scrittore indiano. Il suo ultimo libro è The illicit happiness of other people (2012).