domenica 2 luglio 2017

il manifesto 2.7.17
«Corbyn deve prepararsi a governare»
Gran Bretagna. Intervista a Paul Mason, economista e attivista pro-Labour: «La middle class globalista ha visto che solo i laburisti discutevano di giustizia sociale e migranti con la classe lavoratrice pro-leave»
di Leonardo Clausi

LONDRA Paul Mason è un economista, giornalista televisivo, attivista e visiting professor all’università di Wolverhampton. Il suo ultimo libro, Postcapitalismo, è uscito per il Saggiatore.
Qual è la geografia sociale di questa straordinaria rinascita elettorale del Labour?
Dobbiamo considerare il cambiamento demografico nella natura del voto al Labour e del Labour stesso come partito. Ora è molto forte nelle grandi e medie città, dove la popolazione è multietnica, e la forza lavoro è un misto di settore pubblico e privato orientato globalmente, in cui i lavoratori comprendono la necessità di una connessione globale. Ha perso terreno nelle piccole città e in comunità omogenee. Io credo che queste possano e debbano essere recuperate, ma attraverso un’offerta economica basata su una robusta redistribuzione come quella annunciata nel manifesto elettorale del partito del giugno 2017.
Ci sono voci nel partito che volevano riconnettersi alla cosiddetta working class bianca con politiche permeabili all’ostilità verso le migrazioni e il globalismo. Ebbene, non credo che si possa procedere su quella base quando alla nostra sinistra ci sono i verdi e i partiti progressisti-nazionalisti in Scozia, Galles e Irlanda del Nord (almeno il Sinn Féin): ciascuno di questi è pronto ad assorbire la nostra base se non comprendiamo che quello che vogliono è un’alternativa progressista al neoliberalismo e il mantenimento di un’economia globalmente connessa.
Corbyn è stato aggredito per non aver sostenuto con convinzione il Remain durante il referendum. O è stata invece una tattica vincente?
Sia io che Corbyn abbiamo fatto campagna per restare nell’Ue, ma quello che vogliamo fare è rimanere per riformarla, per stracciare il trattato di Lisbona. L’essenza della posizione di Corbyn è simile a quella di Podemos in Spagna e di Syriza in Grecia: una forte critica del trattato di Lisbona. Siamo convinti che senza una riforma drastica di quel regime l’Europa crollerà internamente. È questo quello che Corbyn cercava di dire durante la campagna referendaria: il mio unico rimpianto è che non l’abbiamo criticata più duramente ancora. A fallire è stato il tentativo di frodare l’elettorato dicendo che l’Europa fosse perfetta così com’è. C’è poi l’ambiguità della posizione strategica laburista alle elezioni del 2017. Quella ha funzionato in posti come il nord dell’Inghilterra, o sulla costa meridionale come Plymouth dove ho fatto campagna: nei giri di propaganda elettorale porta a porta le persone working class ti ascoltavano solo previa conferma che “la Brexit ci sarà.” Per quello hanno votato, quello vogliono: per questioni di sovranità nazionale, per l’opposizione all’immigrazione e perché si tratta della volontà popolare che va realizzata.
Detto questo, si può aprire la discussione su come realizzarla. Il modo è l’avanzamento di un programma keynesiano di sinistra capace di promuovere la crescita e di mitigare i risvolti negativi della Brexit, e piace a una vasta sezione della classe lavoratrice. Allo stesso tempo temo che i Libdem cresceranno, grazie a una piattaforma apertamente pro-Remain e la promessa di un secondo referendum capace di invertire il processo di uscita, cosa che il Labour non vuole fare. Se non sono affatto decollati alle elezioni è perché molti della middle class che vorrebbero interrompere la Brexit sono scoraggiati di poter convincere i connazionali che sia una buona idea. La cosiddetta middle class globalista ha compreso che solo il Labour stava affrontando la questione porta a porta con la classe lavoratrice pro-leave, e nelle sei settimane di campagna ha imparato a rispettarci vedendo la quantità di insulti, diffidenza e repulsione con cui venivamo accolti. Ma siamo stati capaci di assorbire la punizione e di ricominciare una discussione sulla giustizia sociale e sull’immigrazione proprio con persone vulnerabili alla narrativa xenofoba. Questa è la mia spiegazione di come mai due gruppi sociali così diversi abbiano finito per votare Labour.
Nel 1940, a guerra iniziata, un opuscolo intitolato Guilty Men (I colpevoli), accusò l’élite aristo-Tory di aver lasciato il Paese impreparato e di aver blandito Hitler con l’appeasement. Lo scritto aprì la strada a Churchill, ma soprattutto funse da base per l’epocale vittoria di Attlee a guerra finita. Con il loro mettere le proprie beghe interne davanti all’«interesse nazionale» del Paese i Tories non sembrano i Guilty Men di oggi, dove la Brexit soppianta la guerra?
Sono accadute due cose scioccanti. La prima è che dopo la batosta del referendum e le dimissioni di Cameron, l’aspettativa generale era che la borghesia liberal nazionale avrebbe eletto un’altra leadership del partito conservatore capace di mitigare i rovesci economici impliciti nell’uscita. Invece ne hanno eletta una che sta accelerando e indurendo i termini della rottura. Questo è un avvertimento per tutta l’Europa: quello che abbiamo di fronte sotto forma di Ue è una borghesia che sembra molto liberale e globalista ma appena si trova di fronte a una forza politica nazionalista cambia facilmente casacca e l’accetta. Non sanno di volerla fin quando non emerge. Lo si vede nalla Fdp tedesca e in quella parte della destra francese conservatrice che ha cercato di fare concessioni a Marine Le Pen durante le elezioni francesi.
Quello che ci insegna la metamorfosi dei Tories è che l’élite dominante europea è solo superficialmente globalista e vuole al di sopra di ogni altra cosa restare al potere. Dopo la prima scommessa persa catastroficamente ne hanno fatta un’altra dove hanno ugualmente perso e ora si trovano alleati non solo con la parte xenofoba dell’Ukip – di fatto la loro elezione è stata un’alleanza Tory-Ukip dove quest’ultimo ha perduto una trentina di seggi – ma ora è diventata un’alleanza Tory-Dup: un’alleanza con xenofobi, razzisti settari bigotti dell’Irlanda del Nord. Molti in Uk pensano sia uno scherzo, un mero gesto tattico. Ma come sarà visto fuori del Paese, in nazioni prevalentemente cattoliche? Anziché con i Guilty Men degli anni Quaranta per me l’analogia con la storia recente britannica è con i primi anni Sessanta coi governi di Macmillan e Douglas-Home quando il conservatorismo perse la capacità non solo di esprimere quello che voleva la classe media e lavoratrice britanniche ma anche quello che voleva la borghesia. Basta vedere quello che rappresentano oggi i Tories: l’elite cleptocratica globale: sono molto più lesti ad assecondare l’Arabia Saudita che a varare politiche che salvaguardino l’industria dell’auto nazionale.
Un Corbyn primo ministro entro sei mesi?
Non credo. Anche se c’è il rischio evidente che il governo cada, quello che è più probabile è che si liberino di Theresa May e della crisi di governo in autunno e poi cerchino barcollando di andare avanti un altro paio d’anni con il terzo primo ministro conservatore non eletto, che è quello che accadde nei primi anni Sessanta con i succitati Macmillan e Douglas-Home, due premier dimenticati da tutti tranne che dai disegnatori satirici. Corbyn deve essere tuttavia pronto a formare un governo da un momento all’altro per come funziona il sistema britannico.
Se cade questo governo il Labour potrebbe – e io credo dovrebbe – formare un governo temporaneo pur sulla base della propria esiguità di seggi. Nel frattempo quello che dovremmo fare è offrire un’alternativa a quella parte del nostro elettorato operaio che si è spostata a destra. Ora siamo diventati molto un partito dei salariati e della cultura urbana multietnica ma dobbiamo spiegare molto bene all’ex operaio bianco della provincia del nord che guida un furgone e ha una piccola impresa cosa avrebbe da guadagnare votando per il Labour. È quello su cui non siamo riusciti a convincere e che il partito deve fare ora.
Corbyn ha accettato la fine della libertà di movimento e del mercato unico, la permanenza nel quale ostacolerebbe le nazionalizzazioni da lui promesse. Non è una mossa politicamente ragionevole?
La mia posizione su questo è diversa. Per me il Paese dovrebbe optare per un accordo su modello di quello della Norvegia o della Svizzera, cioè restare nel mercato comune attraverso l’European Free Trade Association (Efta). Allo stesso tempo dovrebbero chiedere una sospensione d’emergenza della libertà di movimento come dall’articolo 112 del trattato di Lisbona. Questo perché il referendum ha espresso il rifiuto per la libertà di movimento. Lo hanno fatto perché funziona in modo da comprimere e ridurre i salari e la possibilità di contrattaccare sul posto di lavoro, perché i lavoratori migranti sono disegnati dal capitale in modo da favorire il datore di lavoro. Noi siamo l’unico paese sviluppato ad aver avuto una continua e pesante stagnazione salariale anche durante il recupero dalla crisi del 2008. La sinistra deve ravvivare il consenso per l’immigrazione. Per farlo dobbiamo controllarla e il libero movimento ce lo impedisce, per questo dobbiamo poterlo sospendere per un periodo consistente. Se l’Ue dice di no a entrambe le richieste, allora il Labour dovrà adattarsi alla cosiddetta Hard Brexit, (fuori del mercato unico e dell’unione doganale, ndr). Il partito laburista non ha la possibilità di fermare la Brexit. Ma una Soft Brexit, dove restiamo parte del mercato unico e possiamo esercitare un controllo sulla libertà di movimento, è ottenibile. Un rifiuto di Bruxelles significherebbe spingere Tories e Labour fuori del mercato unico.
Altri paesi hanno industrie nazionalizzate nel mercato unico e forme assai più ristrette del mercato del lavoro nel mercato unico. La tragedia della Gran Bretagna è che ha un governo che non ha mai agito nell’interesse nazionale e dunque non ha mai verificato la tenuta del mercato unico. Che ha potuto sopportare benissimo che la Germania eliminasse la propria disoccupazione accrescendo esponenzialmente quella di Spagna, Portogallo, Italia e Grecia. Spero che nel vedere l’indebolimento dei Tories e il rafforzamento della socialdemocrazia i partner europei concedano una possibilità di reintegro simile a quella norvegese o svizzera. Altrimenti, assisteremmo alle élite britannica ed europea sabotare i rispettivi interessi nazionali. Non c’è alcuna logica dietro l’emergere di un’autarchia in Gran Bretagna. Credo che un deal da parte dei Tories potrà esserci proprio perché il popolo britannico ha distrutto in un solo giorno la minaccia di una Hard Brexit.
Le analisi liberal del voto si affannano a dipingerlo come la solita faida corporativa vecchi-giovani. Vogliamo demistificare?
Una lettura di classe del voto potrebbe essere questa: nonostante i media abbiano dipinto il partito laburista di Corbyn come una minaccia per la sicurezza nazionale e filoterrorista, abbiamo preso tredici milioni di voti, il più alto numero di sempre. Il cuore di questo consenso è stata la classe lavoratrice socialdemocratica: per quanto si dicesse che avrebbe abbandonato il partito, non è successo. A lasciarlo erano stati un terzo di quelli che avevano votato Ukip, ma sono tornati a bordo con entusiasmo proprio per il radicalismo economico del programma elettorale.
Poi c’è il cosiddetto «salariato» urbano: la vera working class contemporanea, quelli che lavorano nelle aziende globali, nel settore pubblico, nella manodopera qualificata: ad esempio i milioni di lavoratori nella sanità. Poi c’è la piccola borghesia liberal, che ha di solito votato o Tory o Libdem o i partiti nazionalisti. Anche loro hanno votato Labour in quanto unico partito secondo loro capace di impedire un’Hard Brexit. Ora il compito del partito è mantenere quest’alleanza e di aggiungerle quelle sezioni della classe lavoratrice manuale che tuttora si rivolge al toryismo e al nazionalismo xenofobico. Dobbiamo dar loro una ragione per votare Labour e se non abbiamo vinto le elezioni è anche per questo.