il manifesto 2.7.17
Decostruito il mito di Israele
Guerra
dei sei giorni. Sulla base di inedite fonti d’archivio ancora sotto
segreto, Ahron Bregman mostra le tappe successive dell’occupazione, nei
suoi effetti sui popoli dei Territori: «La vittoria maledetta», da
Einaudi
di Massimiliano De Villa
Il
mattino del 14 maggio 1967, il primo ministro israeliano Levi Eshkol sta
osservando, dalla terrazza del suo ufficio, la sfilata del Giorno
dell’Indipendenza quando il generale Yitzhak Rabin gli riporta movimenti
sospetti di reparti egiziani che, attraversato il Canale di Suez, sono
sbarcati nel Sinai. È solo l’inizio: nel giro di tre settimane, l’Egitto
ordina ai caschi blu delle Nazioni Unite di ritirarsi dalla penisola
sinaitica, schiera sette divisioni militari lungo il confine con
Israele, chiude gli stretti di Tiran, importantissimo passaggio per le
navi israeliane, e sigla un accordo di difesa con la Giordania.
Lo
schieramento di forze egiziane turba un equilibrio già assai fragile:
dalla crisi di Suez del 1956, del resto, il presidente egiziano Nasser,
leader popolare di un panarabismo montante, non ha mai smesso di parlare
della distruzione di Israele e, nei mesi precedenti il giugno 1967, la
sua propaganda anti-israeliana si è fatta più virulenta. I nemici
sionisti – va ripetendo Nasser con retorica pettoruta, mentre gli altri
capi di stato arabi gli fanno variamente eco – devono essere cancellati e
ributtati in mare. Per gli israeliani, spaventati dal riproporsi di
recenti spettri, la chiusura degli stretti è il casus belli: di qui
l’attacco, improvviso e rapidissimo.
Nel giro di sei giorni, dal 5
al 10 giugno 1967, le Forze di difesa israeliane sbaragliano tre
fronti, l’egiziano, il giordano e il siriano, irrompendo nei territori
arabi e occupando il deserto del Sinai, la Striscia di Gaza, le alture
del Golan e la Cisgiordania, compresa la parte orientale della città di
Gerusalemme. Per Israele, questa guerra che, con la velocità del
fulmine, ne triplica il territorio è una vittoria straordinaria.
Un’ondata di fervore messianico dilaga nel paese, gli osservanti parlano
di miracolo, i laici non nascondono l’emozione. La terra di Israele è
stata restituita ai suoi antichi abitanti, questa è la voce che corre
dal deserto del Negev al Mare di Galilea, mentre il mondo sbalordisce
alla rapidità e alla potenza dell’apparato militare israeliano.
Le
operazioni belliche si chiudono in pochi giorni e si apre, in
parallelo, la questione, insieme spinosa e delicatissima, dei Territori
occupati e degli insediamenti israeliani. Un’occupazione – dicono gli
osservatori esterni – che durerà poco e che invece, tolto il Sinai e,
solo da qualche anno, la Striscia di Gaza, entra oggi nel suo
cinquantesimo anno.
Sono molti i libri che, negli anni e nei mesi
scorsi, hanno ripercorso, interpretato, indagato la Guerra dei Sei
Giorni nel suo cinquantesimo anniversario. Tra le analisi più acute,
quella di Ahron Bregman, inS La vittoria maledetta Storia di Israele e
dei Territori occupati (Einaudi, traduzione di Maria Lorenza Chiesara,
pp. 340, euro 33,00).
Già il titolo rivela il taglio del saggio:
quella che da Israele era stata vissuta come una benedizione, il
compiersi dell’antica promessa fatta da Dio ai padri e il suggello
trionfale dell’impresa sionista, mostrerà, nel giro di poco, il suo vero
volto, mutando in modo definitivo la fisionomia medio-orientale e
trasformando Israele, agli occhi dell’Occidente, da vittima della storia
a paese occupante.
Il saggio di Bregman, israeliano emigrato a
Londra durante la prima intifada per esplicito dissenso politico e ora
professore di storia militare al King’s College, ha inizio inquadrando
il problema da un punto di vista giuridico: quella di Israele nei
confronti dei territori conquistati nel 1967 è de iure un’occupazione,
condotta in aperta violazione della Convenzione dell’Aja, stipulata a
inizio Novecento, e della più tarda e più famosa Convenzione di Ginevra
del 1949.
Sulla base di inedite fonti d’archivio israeliane, in
parte ancora coperte dal segreto, Bregman dimostra, con coerenza
aristotelica e senza mai rinunciare a una narrazione brillante, le tappe
successive dell’occupazione nei suoi effetti sulla popolazione dei
Territori: la creazione di governi militari israeliani, l’uso
dell’esercito per soggiogare gli occupati, la raffica di decreti
d’urgenza e di ordinanze militari, l’avvio di una vertiginosa macchina
burocratica che disciplinerà, di lì in avanti, ogni centimetro di vita
pubblica, dall’accesso agli impieghi all’accesso alla rete idrica e
all’elettricità, con estenuanti trafile per ottenere, nel migliore dei
casi, un permesso o una licenza. Poi le restrizioni sugli spostamenti, i
lunghissimi controlli alle frontiere, gli espropri coatti, la pulizia
etnica dei territori conquistati, la distruzione di antichissimi
villaggi arabi con i trasferimenti forzati dei loro abitanti in
Giordania o in Siria, la costruzione, sul medesimo terreno, di basi
militari e insediamenti ebraici, e l’invio di coloni israeliani, spesso
ebrei ortodossi, a ripopolarli.
Nella ricostruzione storica, il
resoconto cede spesso il passo alle memorie e alle testimonianze di
prima mano degli occupati, facendo vibrare la corda del vissuto
personale senza inficiare la sobrietà dell’analisi e rivelando anzi
alcuni angoli ciechi sui quali non era stata fatta sufficiente luce.
Saldamente
ancorato a un criterio cronologico, Bregman passa in rassegna le
pratiche e i metodi dell’occupazione israeliana, suddividendo
l’esposizione in tre parti: il primo decennio di occupazione – con una
sezione per ogni territorio occupato a stagliare, di ognuno, la
particolare fisionomia – il secondo decennio che culmina con la prima
intifada e, infine, gli ultimi vent’anni con il procedere a singhiozzo
degli accordi di pace, l’assassinio di Yitzhak Rabin, la passeggiata di
Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee e l’innesco della seconda
intifada fino alla roadmap della pace e al disimpegno israeliano dalla
Striscia di Gaza.
Il fuoco principale della ricostruzione storica,
l’occupazione israeliana dei Territori, non impedisce all’autore di
seguire altri fili, dalla resistenza palestinese alla guerriglia armata,
agli attacchi terroristici contro Israele, dalla leadership di Arafat
ai successi elettorali di Hamas.
Di decennio in decennio, con i
passi accorti e precisi dell’indagine storiografica, Bregman
decostruisce, nelle sue pagine, il mito, diffuso dagli israeliani
all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, dell’occupazione illuminata.
Mai – sostennero infatti fin da subito gli israeliani – un popolo che,
come il loro, aveva vissuto sulla pelle la spaventosa esperienza della
persecuzione avrebbe replicato il trattamento su altri. Eppure – Bregman
lo sottolinea fin dalle prime pagine traendo conclusioni amare –
«un’occupazione illuminata è una contraddizione in termini, come quella
di un triangolo quadrilatero. Nessuna occupazione può essere illuminata.
I
rapporti tra occupante e occupato sono sempre basati su paura e
violenza, umiliazione e dolore, sofferenza e oppressione; in quanto
sistema di padroni e schiavi, l’occupazione non può che essere
un’esperienza negativa per l’occupato. Che Israele – una nazione piena
di vita e istruita, terribilmente consapevole dei mali della storia –
abbia imboccato la strada dell’occupazione militare è di per sé
abbastanza stupefacente».