venerdì 9 giugno 2017

SULLA STAMPA DI VENERDI 9 GIUGNO

http://spogli.blogspot.com/2017/06/sulla-stampa-di-venerdi-9-giugno.html

Repubblica 9.6.17
Il 9 giugno 1937 venivano uccisi dai fascisti in Normandia Carlo e Nello, che influenzarono, non solo in Italia, il pensiero democratico
I fratelli Rosselli
Così la loro eredità politica vive ancora negli ideali di Giustizia e libertà
Eugenio Scalfari


Carlo e Nello Rosselli furono uccisi in Normandia nei pressi della casa di campagna di Carlo che da qualche anno viveva in Francia per sottrarsi alle soperchierie del fascismo imperante. La squadra degli assassini era composta da elementi appartenenti alla Cagoule, una setta spietata e neofascista collegata con i servizi segreti italiani (Ovra) e della Spagna franchista.
Questo terribile fatto di sangue avvenne il 9 giugno del 1937. L’Italia aveva celebrato la fondazione dell’Impero (“Sui Colli fatali di Roma”, come cantavano i giovani fascisti) e il nostro Vittorio Emanuele III aveva ormai il titolo
di Re d’Italia e imperatore d’Etiopia. Ma c’era il Duce che era il vero capo del suddetto Impero. I controlli sugli antifascisti e sui comunisti staliniani erano aumentati. A quelli già emigrati ci pensava il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e infatti all’uccisione dei Rosselli ci pensò lui.
Ma chi erano in realtà questi due fratelli che sono diventati così importanti nella storia dell’antifascismo italiano e nella cultura politica del nostro Paese?
I due fratelli erano molto legati tra loro, entrambi presi dagli studi di storia e filosofia. Nello si occupava del tema della politica soprattutto attraverso la filosofia; dall’Evo medio fino a Machiavelli e Guicciardini. Carlo, anche lui attraverso la storia, si occupava dello spirito della democrazia, del popolo sovrano che era cosa distinta dalle plebi e stimolò in tal modo la cultura attraverso quel tema. Il suo lavoro arrivava fino a Mazzini, Garibaldi, Cavour e la Destra storica.
Aveva anche cominciato, insieme al fratello, a raccogliere dei giovani amici che spesso arrivavano a Parigi in viaggi in parte turistici, ma in parte per conoscere il mondo a cominciare dalla Francia. Alcuni di questi erano di provenienza antifascista e venivano indirizzati a Carlo, il quale aveva coniato il motto che da quel momento in poi cominciò a distinguere il suo pensiero e la sua azione: “Giustizia e Libertà”. Dopo la loro uccisione i parenti li seppellirono al cimitero parigino di Père Lachaise, ma nel 1951 fu deciso il loro trasferimento in una frazione di Firenze, al Cimitero monumentale di Trespiano. La cerimonia avvenne il 9 giugno di quell’anno; le due salme arrivarono a Firenze di buon mattino e sfilarono dalla stazione a Palazzo Vecchio e quindi attraversando il centro di tutta la città. I marciapiedi erano gremiti di folla e la manifestazione si concluse a Palazzo Vecchio, nell’aula magna destinata a questo tipo di conferenze e di celebrazioni. Il discorso lo fece Gaetano Salvemini alla presenza del presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Poi le salme furono portate a Trespiano e lì sepolte. Sulla tomba c’era la scritta “Giustizia e Libertà” e poi la frase coniata da Salvemini: “Per questo morirono / per questo vivono”.
***
A quel corteo dalla stazione di Firenze a Palazzo Vecchio io partecipai. Avevo ventisette anni e vivevo e lavoravo a Milano. Di lì partii per partecipare a questa celebrazione insieme a un gruppo di antifascisti e molto affezionati al pensiero manifestato dalle due parole di Giustizia e Libertà. Io ero insieme a Mario Paggi e a Francesco Cingano. Paggi era notevolmente più avanti negli anni, ne aveva a dir poco una cinquantina, era un avvocato molto noto a Milano ed era anche stato pochi anni prima il capo dei partigiani che operavano nella città. Successivamente aveva fondato e diretto una rivista politica e aveva iniziato una frequente e importante collaborazione con il settimanale
Il Mondo, fondato e diretto da Mario Pannunzio. Cingano lavorava già alla Banca commerciale dove poi fece una splendida carriera e diventò molti anni dopo presidente della suddetta banca e poi presidente di Mediobanca. Siamo stati amici per tutta la vita.
Paggi invece era molto apprezzato professionalmente e politicamente anche perché i suoi articoli sul Mondo circolavano nella élite milanese liberale e aperta al socialismo. Ogni mattina della domenica c’era una riunione nello studio di Paggi dove il meglio dell’intellettualità milanese confluiva. Erano una ventina o anche un po’ più di persone in una grande sala dello studio. Poi andavamo in corteo a prenderci l’aperitivo al Cova che a quell’epoca stava in via Verdi all’angolo con piazza della Scala.
Quanto al cimitero di Trespiano, in esso sono sepolti, oltre ai Rosselli, anche Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Spartaco Lavagnini. Tutti nomi che fanno parte della storia culturale democratica del nostro Paese.
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I Rosselli, la loro storia, i loro studi, le loro idee sono stati e sono tuttora seguiti da quel settore dell’intellettualità italiana che è particolarmente sensibile alla storia della democrazia. Ma è accaduta qualche cosa di più di questo che ci riguarda personalmente. È accaduto che il Partito d’Azione, nato quando i Rosselli erano già morti ma imperniato sulla frase Giustizia e Libertà, abbia avuto una sua storia e mi permetto di dire che questa storia coincide in gran parte con quella del nostro gruppo editoriale e quindi di noi che lo fondammo. Quando parlo del gruppo editoriale metto d’apertura Il Mondo di Mario Pannunzio, poi l’Espresso, che Arrigo Benedetti ed io fondammo nell’ottobre del 1955, e infine la Repubblica, fondata il 14 gennaio del 1976. Non sono questi i soli giornali del nostro gruppo perché ce ne sono alcuni locali ed infine è stato concluso un accordo con Fca/Exor della famiglia Agnelli che ha ceduto al nostro gruppo la società editrice della Stampa di Torino e del Secolo XIX di Genova a fronte di un ingresso nella nostra compagine azionaria. Il gruppo è presieduto da Carlo De Benedetti e dalla Cir, a sua volta presieduta dal figlio Rodolfo; entrambi sono amministrati da Monica Mondardini.
Faccio qui un’affermazione che non teme smentite: noi siamo un gruppo molto democratico e particolarmente vicino al pensiero dei Rosselli e al Partito d’Azione che fu fondato durante la Resistenza fregiandosi del motto di combattimento che fu appunto Giustizia e Libertà.
Purtroppo il Partito d’Azione durò poco: all’assemblea costituente mandò quattro o cinque deputati i quali a lavori finiti sciolsero il partito, alcuni dei loro dirigenti passarono al Partito socialista ed erano Riccardo Lombardi e De Martino. Un altro dei dirigenti, Ugo La Malfa, passò alla guida del Partito repubblicano.
Non ebbe molta fortuna anzi pochissima il Partito d’Azione, ma attraverso di esso le dottrine dei Rosselli transitarono nell’opinione pubblica democratica e assunsero la forma cosiddetta del liberal- socialismo che coniugava le due essenze fondamentali di una democrazia. Del resto i colori della bandiera tricolore, che furono il simbolo della Rivoluzione francese e furono anche adottati con qualche leggero mutamento di colore, dal Regno d’Italia e poi dalla Repubblica che ne è seguita, rappresentano tre valori che sono o dovrebbero essere universali e cioè appunto libertà, giustizia, fraternità. Giustizia nel concreto significa eguaglianza e il liberal- socialismo ha come spirito politico quello della coesistenza di libertà e eguaglianza. Talvolta la prima è la libertà che peraltro non potrebbe sussistere se non fosse moderata dall’eguaglianza e viceversa, l’eguaglianza diventerebbe una caserma per chi l’adotta se non ci fosse costantemente la libertà. Questo è il liberal- socialismo e questo è stato dal Mondo attraverso l’Espresso fino ai nostri quotidiani il centro della nostra educazione politica che ha avuto modo di diffondersi tra milioni di persone.
Qualcuno contesta che il Mondo appartenesse a questo modo di vedere la democrazia italiana, ma sbaglia. Pannunzio era un liberale di sinistra e come tale insieme al suo gruppo composto da Nicolò Carandini, Ennio Flaiano, Enzo Forcella, Storoni, Renato Giordano e soprattutto Ernesto Rossi, condivideva pienamente lo slogan Giustizia e Libertà. Aveva affidato ad Ernesto Rossi (che aveva fatto parte dei dirigenti del Partito d’Azione dopo aver scontato anni ed anni di galera e di confino durante i quali scrisse insieme a Spinelli e Colorni il Manifesto di Ventotene per gli Stati Uniti d’Europa), le materie dell’economia politica e dell’assistenza al sociale. Conobbi bene Ernesto perché fu lui il maestro che mi insegnò a scrivere nei modi dovuti su questi argomenti essenziali. Il tandem Pannunzio-Rossi fu dunque la realizzazione completa del liberal-socialismo al quale diedero un contributo fondamentale sul piano politico Ugo La Malfa ed anche Francesco Compagna. A livello superiore di questo tandem c’erano Benedetto Croce e Gaetano Salvemini.
L’Espresso dal 1955 proseguì su basi editorialmente più ampie questa linea, arrivando nel 1970 a trecentomila copie di vendita, cosa del tutto insolita per un settimanale di qualità. Da lì partì l’idea di avere anche un quotidiano. Ci volle un po’ di tempo per pensarlo e per trovare un editore che lo finanziasse. La soluzione finale fu l’accordo fifty- fifty tra la nostra società editoriale e la Mondadori. Dopo i primi anni abbastanza duri editorialmente, anche Repubblica prese il via arrivando a settecentomila copie di vendita giornaliere e in certe occasioni superandole. Parlo di questa diffusione perché i valori che queste testate hanno diffuso hanno lasciato una traccia notevole nella società italiana che poi sboccò nell’Ulivo di Romano Prodi, nei Ds di D’Alema e Fassino e nei popolari cattolici e laici organizzati da Rutelli. Infine la fusione dei due raggruppamenti portò alla nascita del Partito democratico che ha tuttora la maggioranza parlamentare, nonostante errori e scissioni. Il partito fu fondato da Veltroni e poi proseguì con Enrico Letta e Matteo Renzi.
Non entro nel discorso attuale del quale è mio compito occuparmi la domenica. Quello che però debbo dire per concludere questo discorso, che parte dall’uccisione dei Rosselli esattamente il 9 giugno del ’37, consiste nella maturità politica di chi ha condiviso il loro insegnamento, i loro valori e lo slogan che tutti ci accomuna: ancora una volta Giustizia e Libertà.
Con il Partito d’Azione le dottrine dei due intellettuali arrivarono all’opinione pubblica e assunsero la forma del liberal-socialismo Quella tradizione fu portata avanti dalla rivista “Il Mondo” di Pannunzio e ispirò poi la fondazione dell’“Espresso”
LA FOTO, 1925
I redattori di Non Mollare da sinistra Nello Traquandi, Tommaso Ramorino, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Luigi Emery, Nello Rosselli

Repubblica 9.6.17
Gli studi americani
Quando Michael Walzer li sdoganò negli Stati Uniti
Nadia Urbinati

Il termine “liberal-socialismo” era un ossimoro per gli studiosi americani prima della pubblicazione in inglese, nel 1994, dell’omonimo testo ( Socialismo liberale) di Carlo Rosselli per Princeton University Press. Quando avevo progettato l’edizione inglese, due anni prima, dovevo cercare di convincere l’editore dell’importanza del volume, come documento storico e soprattutto come tentativo teorico coraggioso di coniugare un ideale novecentesco di socialismo con un progetto democratico che solo la fine dei regimi totalitari avrebbe rilanciato. A sostenere la ragione storica furono Sebastian de Grazia e Isaiah Berlin. A Berlin fu richiesto di convincere la casa editrice del valore di Carlo Rosselli e del ruolo che ebbe non solo nell’antifascismo e nel socialismo riformista italiano. Nella sua lettera a Princeton Press, Berlin si disse meravigliato che questo «coraggioso antifascista» non fosse conosciuto, fondatore di un movimento clandestino a Parigi, Giustizia e Libertà, e intelligente elaboratore di un’idea di socialismo che era una risposta allo stalinismo assolutamente originale quando fu pensata, alla fine degli anni Venti.
Berlin aveva ragione di stupirsi dell’ignoranza del pubblico colto americano, perché in effetti Rosselli era conosciuto negli Stati Uniti. Quando venne trucidato insieme al fratello Nello, esistevano nel paese diversi nuclei di Gl tra i fuoriusciti italiani. Inoltre il progetto di Rosselli aveva molti simpatizzanti americani, come Bruce Bliven di The New Republic, Hamilton Fish Amstrong di Foreign Affairs, Frida Kirchway di The Nation; e poi ancora, Roger Baldwin dell’American Civil Liberties Union, il giudice della Corte suprema Felix Frankfurter, e poi Normal Thomson e Lewis Munford, e altri ancora. Un ruolo importante per la conoscenza di Rosselli e delle sue idee politiche nei circoli della sinistra democratica americana fu svolto da Irving Howe, fondatore della rivista Dissent. E fu appunto il direttore di Dissent Michael Walzer che sostenne presso la casa
editrice di Princeton le ragioni della traduzione inglese di Socialismo liberale, e poi scrisse una memorabile recensione del libro su The New Republic.
Nella sua recensione, Walzer scrisse di aver compreso per la prima volta leggendo Rosselli come la Grande depressione avesse “salvato dal declino” il marxismo sovietico, legittimando l’idea che la crisi del capitalismo avesse reso anacronistico le illusioni riformiste. Gli argomenti di Rosselli, osservava Walzer, «hanno senso soprattutto oggi, ma non erano convincenti nei primi anni ’30», quando nullo era lo spazio per un governo liberale e democratico dell’economia capitalistica. Dopo più di vent’anni dalla sua edizione inglese, viene spontaneo chiedersi se quella idea così forte e ragionevole idea abbia davvero conquistato la sinistra o non sia caduta ancora una volta nell’oblio generale, per mano non delle persecuzioni di regimi illiberali ma dell’indifferenza della politica praticata per gli ideali e i programmi di giustizia sociale.

Repubblica 9.6.17
Napolitano: furono i profeti della meglio gioventù del futuro
Giorgio Napolitano


Ci è comune, credo, l’assillo per i limiti e le incertezze che pesano sulle forze riformiste di ispirazione socialista nel nostro Paese. Tra le vie da battere per reagirvi con successo, vediamo quelle suggerite dall’iniziativa di oggi: ripensamento e recupero di filoni vitali, di passaggi cruciali della storia politica e culturale della sinistra italiana, e insieme piena acquisizione dell’orizzonte europeo, compenetrazione senza residui e remore con la realtà del socialismo europeo. La riflessione su Carlo Rosselli ci aiuta nell’un senso e nell’altro.
Ci interessa guardare avanti, al profilo e al ruolo che può assumere nel nostro Paese la sinistra riformista, come espressione rappresentativa del socialismo europeo; ma proprio perché parliamo di una forza che non nasce dal nulla, che non cancella la memoria e l’eredità storica del movimento operaio e della sinistra di matrice socialista, nelle sue luci e nelle sue ombre, nella pluralità e nel drammatico contrasto delle sue componenti, proprio perciò ci guardiamo tanto dal lasciar cadere quel che del passato può rivivere nel presente quanto dall’esser reticenti su quel che ci ha segnato più duramente.
Carlo Rosselli nel 1937 — poco prima di cadere, insieme con Nello, vittima di uno dei più turpi crimini fascisti — lanciò l’appello a socialisti e comunisti per una nuova unità, per una nuova formazione politica, e scrisse: «Pensare meno al 1921, e più al 1937». Potremmo, parafrasando, dire: «Pensare meno agli anni ’30, e anche agli anni ’70-’80, e più ai nostri anni e a quelli che seguiranno». Ma è giusto tornare indietro per un momento, e ricordare come il Rosselli di quell’appello del ’37 è anche quello del richiamo ai socialisti perché capissero che «il partito comunista, cui noi non risparmiamo le critiche, è e resta una realtà con la quale dobbiamo tutti fare i conti».
Nuovi sviluppi dell’elaborazione e della politica delle forze socialiste, e nuovi sviluppi del pensiero liberale, si confrontano ora con un’evoluzione dello scenario europeo e mondiale che ha portato il segno — per abusato che sia il termine — della globalizzazione. Siamo di fronte a istanze di giustizia e ad istanze di libertà che la sinistra europea deve saper riformulare e che dall’Europa debbono abbracciare altre realtà di questo mondo solcato dalle disuguaglianze e interdipendente. Il compito è arduo, non poche le insidie da cui guardarsi, e non poche le novità che stentiamo a cogliere.
Nel sollecitare regole per il mercato, per l’economia globale, nel respingere mistificatorie invocazioni di quel
laissez faire di cui Keynes decretò la fine, non possiamo cedere a tentazioni neovincolistiche e neoprotezionistiche. Diamo la priorità alle esigenze della coesione sociale, della lotta contro l’esclusione; non possiamo trascurare la tematica dei condizionamenti cui è esposta la libertà individuale, in particolare l’istanza emergente della tutela della privacy. Questioni di libertà e di giustizia si intrecciano nell’impegno a vivere il nostro tempo come “età dei diritti”, su scala mondiale, e nel rapporto, all’interno delle nostre società, con l’altro, con lo straniero che è giunto e giungerà in questa epoca di nuove migrazioni.
Sono, tutte, prove importanti iscritte nel futuro della sinistra europea e già presenti nella sua difficile esperienza di governo. Non possiamo reggerle senza una rinnovata apertura dei partiti del socialismo agli apporti delle culture più sensibili ai temi e ai valori di cui la nostra politica deve arricchirsi.
Il testo che qui pubblichiamo è un estratto della relazione di Giorgio Napolitano al convegno intitolato Socialismo e libertà — Ricordando Carlo Rosselli ( Roma, 27 febbraio 1999)

Repubblica 9.6.17
Il protagonista.
Il numero uno del Labour ha sorpreso in campagna e ha fatto breccia tra i ragazzi, concentrandosi su economia e diseguaglianze
Jeremy, colto e stravagante con la sua storia fatta di “no” ha convinto i giovani inglesi
John Lloyd


LONDRA NEI due stati anglosassoni più importanti, Stati Uniti e Regno Unito, di questi tempi prevale un comportamento contrastante. Gli americani — si diceva fiduciosamente — non eleggeranno mai un miliardario senza esperienza di governo, che si fa vanto di maltrattare le donne e sa poco di politica, sia interna che estera. Invece l’hanno fatto. I britannici — questa era la previsione — non voteranno mai a favore della Brexit, perché l’Unione europea è il loro mercato principale e sono felici di esserne semi- distaccati ma di farne pur sempre parte. Invece l’hanno fatto.
Era opinione comune che i britannici non avrebbero votato per Jeremy Corbyn, che ha trascorso la sua intera vita politica all’estrema sinistra: la Gran Bretagna, al pari dell’Italia, è un Paese conservatore per natura. Oltre a ciò, Corbyn ha un aspetto stravagante, è trasandato nel vestire, ha i denti rovinati e non sembra affatto un politico di successo. Ha dato il suo appoggio a organizzazioni terroristiche come Ira, Hamas e Hezbollah. Non ha avuto esperienze di leadership. Ma i britannici alla fine sembrano aver votato per lui! Le prime indicazioni mostrano i conservatori in testa e i laburisti che li incalzano. Perchè Jeremy Corbyn ha vinto?
Theresa May ha indetto le elezioni perché le sembrava ovvio, con i laburisti che stentavano a far breccia nell’opinione pubblica, distanti 20 punti, che la vittoria sarebbe stata semplice. I commentatori le davano ragione. Per questo il Partito Conservatore, il partito di governo che si aspettava una campagna facile e una grande vittoria, ha fatto una pessima campagna elettorale. Con la May che sembrava preoccupata, distante, priva di entusiasmo. Ma siccome la campagna era costruita intorno a lei, e lo slogan era sulla sua «forte e stabile» leadership si è dovuta caricare tutto il peso: mentre le altre figure rilevanti del partito si sono fatte vedere poco.
E forse a ragione. May dovrà ora probabilmente affrontare una sfida alla sua leadership. Il governo andrà avanti, ma ci saranno dei movimenti all’interno del partito, con nuovi personaggi che cercheranno di prenderle il posto.
In questa situazione che possibilità ha Corbyn di diventare premier? Gli Exit Poll danno ai laburisti 48 seggi in meno dei conservatori. Ma se le proiezioni totali sono giuste, i laburisti potrebbero formare una coalizione “anti- Brexit”. Con tutti gli altri partiti – Nazionalisti scozzesi, liberal democratici, nazionalisti gallesi e verdi, potrebbero portare ad una maggioranza sui conservatori. I 18 seggi dell’Irlanda del Nord devono ancora essere contati: ma probabilmente saranno divisi fra gli unionisti pro-Brexit e vicini ai conservatori, e i nazionalisti e liberali, contrari alla Brexit.
Corbyn ha fatto molto meglio di quanto chiunque si aspettasse. Si è preparato bene: come quando durante le interviste gli chiedevano dei suoi contatti con organizzazioni terroriste e lui ha continuato imperterrito a ripetere «cercavo la pace». Ha parlato poco di Brexit, poco di politica estera. Invece si è concentrato sull’economia, sugli effetti dell’austerity sulla vita dei lavoratori, sulle ineguaglianze, sulla paura della disoccupazione futura che ha la gente.
Piace ai giovani, in parte perché il suo partito era contro la Brexit (impopolare fra i ragazzi britannici) e perché è riuscito a far passare l’immagine di uno charme gentile. E ora, se riuscirà a mettere insieme una coalizione, come leader del partito più grande, potrebbe diventare premier. Questo è possibile. Quello che è certo: è il periodo di turbolenta incertezza che affronterà il Regno Unito

Corriere 9.6.17
Intellettuali e classe operaia Londra Nord spinge Corbyn
di Paola De Carolis


Islington, quartiere-base della sinistra
LONDRA Il fattore James Corbyn ha rafforzato il Labour, sebbene la stampa britannica fino all’ultimo non ci abbia creduto. «Non buttate la Gran Bretagna nel Cor-bin», ovvero la pattumiera, titolava appena ieri il Sun : «È un amico dei terroristi, un marxista, il burattino dei sindacati». E ancora: «Votate per May», faceva appello l’ Express ; «Tories in vantaggio», assicurava il Times ; «Il vostro Paese ha bisogno di voi», scriveva il Telegraph citando la premier conservatrice Theresa May.
Neanche i quotidiani filo-laburisti hanno puntato sull’immagine del leader del partito: il Mirror ha attaccato i conservatori accusando May di essere venuta meno a tante promesse, mentre il Guardian ha preferito una prima pagina equilibrata.
Bisognava andare nelle università per avere un’idea dell’indice di gradimento di un politico di 68 anni che ha trovato il modo di parlare ai giovani. Oppure nelle vie alberate di Islington, il suo seggio, per capire come un socialista di sinistra sia riuscito a unire working class e intellettuali, arrivando ad allargare la forza laburista in Parlamento.
Davanti ai seggi di Oxford ieri c’erano file interminabili, mentre a Milner Square, a due passi dal teatro Almeida e dal quartier generale del Labour, sono poche le case senza il cartello «Qui si vota Corbyn».
«Ha capito come comunicare con la gente», spiega Ivana Bartoletti, vicedirettrice del gruppo laburista per l’Europa: la sua lingua è la diversità. Lontano anni luce dai politici attenti all’immagine nello stile di Tony Blair o David Cameron, Corbyn ha trovato un idioma diretto e privo di retorica che a tanti piace. «Devo ammettere che non ero felicissima che Corbyn fosse alla guida del partito, ma mi sono dovuta ricredere. Questa campagna elettorale ha dimostrato che vanno presi sul serio lui e il suo modo di fare politica. C’è qualcosa di importante nel suo messaggio, nel modo in cui è riuscito a mobilitare i giovani e a utilizzare i social media per diffonderlo», senza doversi piegare agli organi d’informazione tradizionali.
«Dopo questo voto, non so sin dove riuscirà ad arrivare — continua Bartoletti —, può darsi che serva solo da apripista per un partito laburista nuovo stile, come Neil Kinnock spianò la strada per Tony Blair. Sembra probabile che questa elezione segni la fine di un’era: la differenza non è più tanto tra working e middle class , bensì tra le campagne e le città, tra i giovani e i vecchi. Sicuramente Corbyn ha portato a casa un risultato inaspettatamente positivo».
Innegabile è che adesso un folto popolo di studenti e giovani professionisti lo riconosce come un uomo di principi concreti, un leader moralmente forte che non ha paura di cambiare idea o di esprimere incertezza quando non è sicuro. Ieri, quando diverse decine di ragazzi alle università di Keele e di Newcastle si sono visti negare la possibilità di votare, hanno espresso la propria rabbia su Twitter — «È un complotto contro i laburisti», ha scritto Andrew — mentre attivisti e supporter hanno fatto un falò con i giornali del giorno.
Così John Niven, scrittore scozzese: «Ho riacceso lo spirito britannico bruciando tutti i tabloid che ho trovato», ha raccontato.
Corbyn ha trascorso la giornata di ieri con la squadra tra Islington e Westminster. Ha votato presto presso la Pakeman Primary School di Holloway e ricordato che esercitare il diritto civico è «un modo per onorare le vittime del terrorismo. La democrazia non sarà sconfitta dalla paura». Può essere soddisfatto: ha fatto tutto quello che poteva.

La Stampa 9.6.17
Il laburista saldo al timone
Adesso potrà spingere la sua agenda massimalista
Alberto Simoni

Jeremy Corbyn aveva salutato davanti al seggio di Pakeman, «è un gran giorno per la democrazia». E per lui lo è stato, perché si può vincere anche senza prevalere nel braccio di ferro. Theresa May paga l’azzardo, Jeremy Corbyn va meglio di Ed Miliband e tiene le mani forti sul partito. Qualcuno aveva parlato di illusione, i comizi gremiti sulle spiagge e nei parchi, la corsa a registrarsi dei giovani o quella che pareva effimera della rimonta nei sondaggi. Non è stata illusione ma realtà.
Il campione della sinistra massimalista del nuovo secolo che viene però dal secolo scorso ha frenato la corsa di Theresa. Pensionati, la classe media, moltissimi operai, quel vecchio blocco laburista che arpionava le miniere, faceva picchetti, scioperava e votava Labour per fede e convenienza, non c’è più. Restano i giovani e l’entusiasmo dei londinesi e degli elettori delle grandi città. Abbastanza per spingere il signore di Islington Nord a quote così alte che il Labour non ricordava da almeno un decennio.
Corbyn si ferma a 266, 34 seggi più di Miliband del 2015. I maligni - o i più smaliziati - dicono che in fondo l’obiettivo di Jez era quello di arrivare a quota 232 seggi, pareggiare il giovane Ed e tenersi stretto il posto di capo del Labour per continuare a spingere la sua agenda massimalista. Missione compiuta alla grande se era quello l’obiettivo intimo del socialista che vuole dialogare con tutti, amici e nemici. Il partito fino all’ultimo ieri si è mosso all’unisono, tutti impegnati a fare porta a porta. Come Chuka Umunna, eterna stella nascente centrista, o l’ideologo della Terza Via blairiana Peter Mandelson, o l’ex ministro Denis MacShane. Qualcuno convinto in fondo che sarebbe stato un tracollo.
David Muir che fu capo della strategia di Gordon Brown era convinto che Jeremy Corbyn sarebbe andato persino meglio di Miliband, altrimenti la sua leadership sarebbe stata da mettere da parte. Invece oggi Corbyn e la sua ricetta di riforme sociali si sveglieranno con il sorriso. Resta lui, con il marxista, sua definizione, John McDonnell l’architetto della politiche dei laburisti. Restano i sindacati con il loro peso a condizionare.
In molti negli ultimi mesi hanno provato a far saltare il banco, Tony Blair aveva evocato la scissione, Peter Mandelson il suo grande stratega, parlava di un movimento neocentrista perché «con Corbyn e la sua agenda non si può vincere nè governare bene». Nei mesi scorsi era spuntato un manifesto con cui 29 personalità e deputati laburisti avevano apertamente sfidato il credo di Corbyn ribadendo la centralità del mercato e i rapporti con l’Europa.
Altri esponenti aveva ridicolizzato, anche ieri dalle colonne dell’Evening Standard, la sua visione monolitica e granitica dell’economia e le titubanze sulla sicurezza. Agli inglesi (più del previsto) va bene anche questa ricetta, se almeno 3 giovani su 4 sono d’accordo con Jez sulla sua politica estera.
Dennis MacShane, ex ministro nei primi Anni Duemila per l’Europa, d’altronde spiega che se non sarà Corbyn il leader, ad oggi quale alternativa? «Non abbiamo un Blair, un Renzi, un Macron o un Trudeau». Il vecchio socialista è quanto di più nuovo evidentemente che la sinistra inglese può mettere in campo.

Corriere 9.6.17
Theresa non è Maggie. E il partito-sistema trema
di Aldo Cazzullo


Theresa May ha perso la sua scommessa. Aveva chiesto un’ampia maggioranza e un mandato pieno per trattare una Brexit dura, a spese dei lavoratori europei del suo Paese; non l’ha avuta. L’esito del referendum sulla Brexit non può cambiare; ma la politica britannica si è messa in moto.
Ci sono Paesi di antica democrazia, che conoscono l’alternanza, ma hanno comunque un partito fondativo: il perno attorno a cui gira il sistema, almeno fino a quando il sistema non entra in crisi. In Israele sono i laburisti; che però hanno perso centralità dai tempi dell’assassinio di Rabin e dal successivo fallimento di Barak. In Francia sono i neogollisti; che però dopo le presidenziali si preparano a perdere pure le legislative, da cui potrebbe venire per Macron un ampio mandato a governare. Il partito-sistema del Regno Unito, i conservatori, ieri ha tenuto, pur indebolendosi. Ma il suo leader ha commesso lo stesso drammatico errore di Chirac, quando nel 1997 dissolse l’Assemblea Nazionale e perse le elezioni.
La May ha mantenuto la maggioranza; solo quella relativa, indicano però gli exit-poll. Il suo predecessore David Cameron si era giocato tutto con lo sciagurato azzardo del referendum sull’Europa; lei ha sciolto il Parlamento con tre anni di anticipo, rischiando in modo scriteriato di consegnarlo a una versione del partito laburista radicalizzata e incompatibile con i tempi. La rimonta di Corbyn si è interrotta, ma questo probabilmente non basterà a salvare la poltrona della May. Quando si conosceranno i reali rapporti di forza, si capirà se si dovranno costruire difficili alleanze, o se si tornerà presto alle urne.
Di sicuro, la May non è la Thatcher; e lo si è visto. Tiepida avversaria della Brexit, si è trasformata al governo nella sua più accanita sostenitrice. Anche il giro di vite contro il terrorismo è suonato come una grida manzoniana — severa ma impotente — più che come una svolta, se invocata dalla donna che è stata per sei anni ministro degli Interni. In campagna elettorale è stata un mezzo disastro: freddina, querula, apodittica nei suoi slogan: «Brexit is Brexit», «enough is enough». Molti inglesi ne avevano davvero abbastanza di lei e di sette anni di governo conservatore; e forse avrebbero anche votato per l’alternativa laburista, se fosse stata credibile. Ma non lo era, almeno per i moderati e i centristi.
Jeremy Corbyn si è battuto meglio del previsto. Ha recuperato rispetto ai sondaggi iniziali. Forse non merita di essere etichettato come uno dei tanti populisti nemici della modernità, della scienza, del libero mercato. Però il suo sogno del ritorno al Labour delle origini, cancellando il decennio blairiano, è apparso impossibile, anche perché troppo costoso per i contribuenti. Le sue istanze di riforma sociale hanno convinto i giovani, gli esclusi, ampie quote dell’elettorato metropolitano. La sua sostanziale ambiguità sulla Brexit gli ha consentito di pescare voti sia tra gli europeisti, sia tra gli euroscettici. Ma alla fine la risalita non è stata sufficiente.
Come spesso accade, le elezioni anticipate non hanno sciolto i nodi. Il terrorismo: gli attacchi mettono in discussione il modello multiculturale, difeso dal sindaco musulmano di Londra, Sadiq Khan, che è apparso a volte il vero capo dell’opposizione, in polemica pure con Trump (che tifava May). L’economia, che si è ripresa prima rispetto al continente, ma a prezzo di disuguaglianze crescenti. L’indipendentismo scozzese. E ovviamente la Brexit. Ormai l’Europa si è rassegnata a perdere Londra: un negoziato bizantino che seminasse incertezze non conviene a nessuno. Meglio separarsi in modo da minimizzare i danni sia per i lavoratori e gli studenti emigrati, sia per il libero commercio e i mercati finanziari. Il voto inglese e francese di questi giorni, unito a quello tedesco di settembre, può imprimere un cambio di passo alla costruzione europea: senza il Regno Unito, da anni preoccupato di frenare se non di boicottare, Parigi e Berlino non hanno più scuse, e possono procedere. Intanto a Roma si calcola ogni giorno al rialzo il prezzo che l’instabilità comporta per i tassi e per la gracile ripresa.

Corriere 9.6.17
Glii errori e la voglia di forzare
di Massimo Franco


Sarebbe da irresponsabili pensare di reagire allo smacco parlamentare di ieri con una forzatura che porti al voto anticipato. Se prima il Quirinale poteva apparire quasi rassegnato a concedere le elezioni in autunno davanti a una riforma del sistema condivisa, ora le sue perplessità sono destinate a riaffiorare, moltiplicate. È in crisi il patto tra i quattro maggiori partiti in Parlamento, che dovevano consegnare una nuova legge chiedendo lo scioglimento delle Camere come una conseguenza quasi automatica. L’accordo si è rotto. Alcune forze sono decise comunque a procedere, come Forza Italia e i centristi. Altre, M5S e Lega in testa, chiedono di votare subito. E nel Pd che definisce «morta» la riforma serpeggia la tentazione di chiedere a Sergio Mattarella le elezioni: sebbene per ora venga repressa.
Almeno fino alle Comunali di domenica, Matteo Renzi ha deciso di non sbilanciarsi. Dopo la riunione della segreteria di ieri, i dem hanno rinviato qualunque decisione alla prossima settimana. La spaccatura, tuttavia, potrebbe presto mettere a nudo il tentativo di usare il sistema elettorale come scorciatoia e pretesto per le urne; e dunque la volontà di insistere per un decreto del governo che porti al voto in autunno usando le sentenze della Consulta come bussola.
Prima l’idea era di votare perché la riforma era fatta; ora, perché risulta impossibile. Eppure, si tratta di uno scenario più azzardato di qualche giorno fa.
Si aprirebbe il capitolo assai delicato dei rapporti tra il partito di maggioranza e il «suo» capo dello Stato. Già nelle settimane passate, Mattarella aveva dovuto ascoltare una trattativa tra le forze politiche che fissava a priori la data del voto: quasi le competenze del presidente della Repubblica potessero essere ignorate o addirittura umiliate. La risposta è stata di aspettare che la riforma prendesse corpo, prima di esprimere la sua opinione e far valere le sue prerogative. Dopo quanto è accaduto, i margini di manovra del capo dello Stato aumentano. Ed è nota la sua determinazione a vedere approvato un sistema elettorale in grado di scongiurare l’ingovernabilità.
Mattarella possibilmente vorrebbe una soluzione in tempi brevi, e ampiamente condivisa: per questo ha seguito con attenzione e speranza l’intesa Pd-M5S-FI-Lega. Ma non vuole lasciare in sospeso la legge di Stabilità: il suo assillo è mettere in sicurezza i conti pubblici. Per questo la preferenza era e rimane per una legislatura fino alla scadenza naturale del 2018.
Da ieri, in teoria, questa prospettiva è meno improbabile. «Senza una legge omogenea per Camera e Senato e adeguata — constata Silvio Berlusconi — le elezioni sono molto difficili». È un invito a Renzi, soprattutto, a mantenere la freddezza, derubricando il «sì» all’emendamento di FI sul Trentino Alto Adige a «incidente».
Opera di persuasione non facile. Dopo avere imposto il ritorno del testo in commissione, il Pd appare incline a un disimpegno risentito. Si ha l’impressione che pensi a un ritiro dalle trattative sulla riforma dopo il voto alla Camera; e che sia tentato di abbattere l’esecutivo di Paolo Gentiloni, con la tesi che questo Parlamento e il governo non sono più in grado di andare avanti: non solo in materia elettorale ma per gli altri provvedimenti in sospeso, nonostante più di un ministro e i vertici istituzionali sottolineino i risultati incoraggianti raggiunti da Palazzo Chigi.
Il paradosso è che, più la cerchia renziana mostra di volere far saltare tutto, più i suoi alleati-coltelli si mostreranno intenzionati a sostenere Gentiloni: con l’aiuto magari di qualche settore dell’opposizione. D’altronde, la vicenda dei «franchi tiratori» non può essere solo condannata: va analizzata per capire i motivi che l’hanno favorita e evitare che si ripeta. Si può anche puntare il dito sull’«irresponsabilità» dei parlamentari di Beppe Grillo e sulla loro «inaffidabilità»: accusa che i Cinque Stelle ribaltano accusando il Partito democratico di avere almeno cento «franchi tiratori». Il fatto è che alla Camera la maggioranza può contare comunque su numeri schiaccianti.
A essere sospettato di agguati è sempre stato semmai il Senato, con le sue percentuali traballanti. Se già a Montecitorio l’accordo a quattro è stato affondato, significa che esistono questioni politiche serie: in primo luogo la sensazione di un asse di governo in incubazione tra il leader del Pd, Matteo Renzi, e quello di FI, Berlusconi, proiettato nel futuro, che Grillo non poteva assecondare senza perdere un pezzo di M5S. In parallelo si conferma un problema di tenuta di gruppi parlamentari che non hanno più molto da perdere. E dunque rifiutano la disciplina di partito: perfino tra i democratici che apparivano granitici dopo la rielezione di Renzi a segretario, mentre non lo sono.
Forse, prendere atto di essere non il primattore ma solo uno dei protagonisti di questa fase, è la condizione per evitare altri schiaffi al Pd, e guai politici e finanziari al Paese. Non andrebbe mai dimenticata la sconfitta al referendum istituzionale del 4 dicembre scorso. È un precedente che pesa e sarà fatto pesare: soprattutto nei passaggi decisivi.

Corriere 9.6.17
Il sorriso dei cecchini
Da Fanfani ai 101 di Prodi Anatomia del cecchino che si esalta demolendo
di Pierluigi Battista


Una giornata come ieri, con la legge elettorale affondata, è il massimo per un cecchino: la goduria del franco tiratore.
Il trionfo del franco tiratore è quando sente che ci sono tanti franchi tiratori insieme a lui: un cecchino, alla fine muore, ma tanti cecchini determinano le sorti di una battaglia. Senza appalesarsi, galvanizzandosi nel segreto, nella manovra nascosta, nelle trame invisibili. Che poi, quando vanno a segno, come è accaduto ieri con la legge elettorale, sono il massimo della soddisfazione: l’immensa goduria del franco tiratore.
La goduria di quell’anonimo poeta che in rima vergò la sua scheda demolitrice contro Amintore Fanfani candidato al Quirinale nel 1971: «Nano maledetto, non sarai mai eletto». E non fu eletto. Uno dei tanti candidati democristiani alla presidenza della Repubblica caduti sotto i colpi micidiali dei franchi tiratori che nelle elezioni a scrutinio segreto si esaltano, si insinuano nel gioco delle correnti con una raffinatezza programmatica che soltanto i più esperti giocatori di biliardo sanno decifrare. Esiste tutta una letteratura sul trionfo del franco tiratore che fa perdere il Quirinale al presunto predestinato. C’è l’elezione del primo presidente della Repubblica che Alcide De Gasperi avrebbe voluto che fosse Carlos Sforza, che però era considerato un massone e un libertino dall’austera sinistra dossettiana e finì straziato dai cecchini: e arrivò Luigi Einaudi. Poi fu il turno dell’impallinamento via franco tiratore di Giovanni Leone nel ’64, che però si rifece nel ’71 battendo il favorito Fanfani, che ci rimase assai male. Poi i fasti e le tragedie del 1992 quando bisognava votare il sostituto di Francesco Cossiga in un clima intossicato tra Tangentopoli che stava inabissando il sistema della Prima Repubblica e l’offensiva stragista della mafia. Per Arnaldo Forlani, massacrato dai franchi tiratori, fu un’agonia politica. Il nome di Giulio Andreotti aleggiava come un falchetto sull’aula dove erano riuniti i grande elettori per il Quirinale ma la strage di Capaci sconvolse tutti i giochi e alla fine il nome prescelto fu quello di Oscar Luigi Scalfaro, malgrado gli sforzi di Giovanni Spadolini.
I franchi tiratori erano l’incubo della Prima Repubblica. O meglio, erano l’incubo di chi ne subiva il cecchinaggio, ma era un grande sfogo per chi nel segreto dell’urna destabilizzava, distruggeva, manovrava, disintegrava sogni e ambizioni. Ma non è che nella Seconda, di Repubblica, i franchi tiratori non abbiano avuto i loro momenti di gloria. Per esempio, nel 2008 quando bisognava eleggere il presidente del Senato dopo la risicatissima ma proprio risicatissima vittoria del centrosinistra di Prodi, sul nome di Franco Marini (per lui non sarà l’ultima volta nel mirino del franco tiratore) si accese una battaglia molto complicata per cui i seguaci di Clemente Mastella nel segreto dell’urna, sotto il catafalco in cui i senatori dovevano apporre il loro voto, decisero di scrivere sulla scheda «Marini Francesco» che era un modo bizantino per annullare e mandare un segnale a chi di dovere. Poi i «Marini Francesco» divennero «Marini Franco» e la manovra del franco tiratore ebbe fine e soddisfazione. Poi venne il giorno, nell’aprile del ’93, del respingimento segreto dell’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, e la sera stessa il popolo dei forcaioli si radunò sotto l’albergo Raphael, quartier generale socialista, per colpire con le monetine chi era stato salvato dal Parlamento. Proprio quel Craxi che aveva combattuto epiche battaglie per riformare i regolamenti parlamentari e ridurre le occasioni del voto segreto, anticamera di accordi consociativi inconfessabili con il Pci. Da allora, da quello scrutinio pro-Craxi, e senza quelle fastidiose lucette verdi e rosse che dicono troppo su chi vota per cosa, i voti per le autorizzazioni all’arresto di parlamentari sono rimasti le occasioni più ghiotte per gli accordi e le manovre invisibili. Ma poco prima, nel primo atto ufficiale del neonato Pds nato sulle ceneri del Pci, alla fine del gennaio 1991 a Rimini il voto segreto dei franchi tiratori colpì con durezza Achille Occhetto che non fu eletto subito segretario del partito. Per poi arrivare, nel 2013, alla grande sagra del franco tiratore che riunito in un esercito di 101 cecchini del Pd, sbarrò la strada del Quirinale a Romano Prodi, dopo aver anche seppellito nei giorni precedenti le ambizioni presidenziali di Franco (con Francesco) Marini. Il franco tiratore si acquatta, scompare ma mai del tutto. Nel segreto dell’urna, del resto, nessuno può vedere. Solo il capocorrente sì.

La Stampa 9.6.17
La libertà del cecchino
di Mattia Feltri


La sarabanda di ieri non contribuirà a migliorare la reputazione dei franchi tiratori. E in effetti l’espressione viene dal gergo militare: il franco tiratore è un cecchino, uno che coglie di sorpresa, e se può spara alle spalle. È curioso quanta distanza ci sia tra l’opinione (diffusa) che si ha del franco tiratore e le (rare) difese che se ne fanno, accademiche e nobili. Ma è che di accademico e di nobile si coglie poco nelle imboscate di ieri, è difficile persino capire chi abbia raggirato chi, è difficile capire se fossero franchi tiratori quelli del Movimento cinque stelle, che credendo in un voto segreto hanno votato quasi tutti contro la legge elettorale appena concordata, o erano franchi tiratori al quadrato i pochi cinque stelle che invece hanno votato a favore, proprio perché erano contrari.
Se il concetto non vi è chiaro, siete in larga compagnia: questa è politica quantistica. Di sicuro c’erano franchi tiratori nel Pd, pure nella Lega e in Forza Italia, franchi tiratori ovunque in una sparatoria da saloon, al termine della quale lo sceriffo li impiccherebbe tutti, e fortuna loro che qui non è ancora Far West. A questo punto viene complicato restituire la dignità alla figura del franco tiratore, che tecnicamente, nella teoria politologica più insigne, sarebbe il parlamentare che approfitta del voto segreto per votare contro le disposizioni (contro il dispotismo) del capo.
Uno come Benedetto Croce, che alla Camera lo avranno letto in trenta, spiegava così: «La segretezza del voto è conseguenza della partitocrazia e del sistema proporzionale e, dopo tutto, in nessun codice è scritto che un uomo debba far risuonare sempre e ad alta voce tutto ciò che pensa o crede». La partitocrazia è autoritarismo, e l’autoritarismo ammazza. Tutti sanno che l’unico ad abolire il voto segreto, in Italia codificato fino dall’Ottocento nello Statuto Albertino, è stato Benito Mussolini. «D’ora in poi si voterà a testa alta», disse, intendendo che si doveva piegarla. Il Duce lo abolì nel 1939. Prima non aveva bisogno. Ma ormai sentiva la dissidenza al collo, e non voleva che emergesse con certificazione dei lavori parlamentari. Bisognerebbe sempre riflettere, quando si chiede l’abolizione del voto segreto, e dunque dei franchi tiratori, in nome della purezza e della trasparenza dell’eletto, sul fatto che il voto segreto non era praticato nella Camera dei fasci e della corporazioni, e nemmeno nella Duma di Stalin e di Breznev. Dopo di che, a quasi tutti i capi a un certo punto il voto segreto comincia a stare sul gozzo. Alla centesima volta che un progetto affonda per l’implacabile mira dei franchi tiratori, il capo perde la testa. «Il voto segreto è indegno di un paese civile», disse Bettino Craxi nel 1988. Riuscì a ridurne l’applicazione, ma non oltre, e per sua parzialissima fortuna visto che nel sanguinolento 1993, quello del Terrore di Mani pulite, fu salvato dal voto segreto contro l’autorizzazione a procedere chiesta dai magistrati di Milano. Anche lì, naturalmente, Craxi fu tardivamente preso alla lettera, perché l’indegnità del voto segreto venne ribadita e rafforzata da tutti i deputati che avrebbero visto volentieri l’avversario spiattellato dalla giustizia, dal momento che, di spiattellarlo, loro non erano stati capaci.
Funziona sempre così. A Silvio Berlusconi è andata pressoché allo stesso modo. Se ne saltò fuori, un giorno, con la teoria dell’inutilità dei parlamentari, bastava votassero i capigruppo. Niente voto segreto, niente voto palese, i seggi usati come i carrarmatini del Risiko da spostare a gusto del generale. Curioso: il Parlamento si chiama così perché la gente deve parlare, e con lo scopo di far cambiare idea a chi ascolta. Purtroppo, dipende dall’idea, e da chi l’ha partorita. Perché quando l’idea è diventata la decadenza del medesimo Berlusconi, condannato in Cassazione per frode fiscale, i ragazzi di Avaaz, un gruppo mai sentito prima e mai più sentito dopo, si sono denudati fuori dal Senato: «La protesta nuda vuole opporsi alla possibilità che si utilizzi il voto segreto». Dunque: «Noi non abbiamo niente da nascondere, e voi?». Ed era la dimostrazione di piazza che nascondere qualcosa talvolta è meglio. Un uomo meno sventato dei tanti nemici del voto segreto, Palmiro Togliatti, infatti si imbatté in una grana durante i lavori dell’Assemblea costituente. Si discuteva del matrimonio, e se si dovesse applicargli l’aggettivo «indissolubile». Alcuni costituenti chiesero il voto segreto, e il presidente comunista Umberto Terracini la definì una procedura ormai in disuso. Altri, specie i democristiani Giovanni Gronchi e Aldo Moro, dissero che era uno strumento per pavidi. Ma Togliatti, che sapeva guardare al di là del suo naso, chiuse la questione: «Noi siamo 104 comunisti, siamo una minoranza. Guai se ammettessimo che si violi il regolamento della Camera. È il presidio della nostra libertà. Per questo, se è stata chiesta la votazione segreta, la votazione segreta si deve fare». Capì che più avanti gli sarebbe servita e, aggiungiamo noi, l’aggettivo «indissolubile» cascò rendendo possibile, molti anni dopo, il referendum sul divorzio. Così si possono ricordare i franchi tiratori che hanno abbattuto Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani, Franco Marini e Romano Prodi alla presidenza della Repubblica. E si deve ricordare che dove ci sono i franchi tiratori c’è libertà, dove ce ne sono troppi c’è arbitrio, ma dove non ce ne sono affatto c’è tirannia.

La Stampa 9.6.17
E Renzi confessa a Berlusconi
“Non controllo nemmeno i miei”
Il leader del Pd sferza i suoi colonnelli e pensa a un decreto I dubbi del Quirinale: per tornare al voto serve una legge
Ugo Magri E Fabio Martini


Alla Camera il patatrac si è consumato da pochi minuti. Matteo Renzi, dal suo ufficio al Nazareno, dà ordine di rompere platealmente con i Cinque Stelle e di attribuire loro tutte le colpe, ma il leader del Pd non è per nulla soddisfatto di come siano andate le cose. Non è sicurissimo che il “racconto” della rottura sia così limpido e favorevole al Pd, come avrebbe voluto. E infatti nel “dopo-partita” Renzi è irritatissimo. Con i suoi nemici di sempre, ma anche con i suoi amici del Pd, con i colonnelli che stanno in prima linea, mentre lui, il “Generale”, è costretto a guidare le truppe dalla sua scrivania.
La confessione
E in una giornata così in chiaroscuro, l’interlocutore col quale Renzi si ritrova a raccontare i suoi piani e le sue frustrazioni è Silvio Berlusconi, l’unico alleato che in queste ore non lo ha lasciato. I due si parlano per telefono nel primo pomeriggio e al leader di Forza Italia che gli domanda il perché di quella rottura così brusca, Renzi spiega: «Se andavamo sotto sulle preferenze e sul voto disgiunto era peggio. Rischiavamo una brutta figura...». E a Berlusconi che insiste a chiedergli come mai il Pd si sia trovato all’angolo, Renzi dà una risposta sorprendente: «Guarda, che nel mio partito in tanti erano contrari a quel tipo di riforma...». E secondo la narrazione del Cav, indica almeno tre nomi: Matteo Orfini, Ettore Rosato, Lorenzo Guerini. Renzi non li considera suoi nemici, ma pensa che nell’iter della riforma i gruppi parlamentari non siano stati compatti.
Un decreto per votare
A Berlusconi che lo consiglia di procedere con cautela, di provare ad insistere sullo stesso schema di riforma, Renzi replica che, a suo avviso, la via maestra sia quella del voto anticipato, da raggiungere con tutti i mezzi possibili: «Bisogna spiegare al Paese che questo Parlamento non è in grado di fare più nulla» e dunque è ora di scioglierlo. E la legge elettorale? Farla con decreto-legge è la suggestione accarezzata per tutto il giorno da Renzi, che ne ha parlato anche col presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Non ancora, pare, con Mattarella.
Il macigno del Colle
Tornare alle urne senza uno straccio di legge degna del nome per Mattarella non è possibile. Se lo fosse, avrebbe già dato via libera al voto in febbraio, o in aprile, oppure a giugno, insomma tutte le numerose volte che Renzi ha accarezzato l’idea. Le ragioni del Presidente sono stranote: abbiamo due diversi sistemi, uno per la Camera e l’altro per il Senato, che fanno a pugni tra loro. E ci sono aspetti che, se non verranno chiariti in anticipo dal Parlamento, scateneranno ricorsi davanti al Tar (ad esempio, sulla preferenze di genere). La scorciatoia del decreto viene seccamente esclusa. Anzitutto perché la decretazione è ammessa solo su aspetti tecnici marginalissimi, non per uniformare un intero sistema di voto. Inoltre mancherebbero le ragioni di necessità e urgenza richieste dalla Costituzione. Secondo i giuristi del Colle, un decreto sarebbe ammissibile solo come ultima spiaggia, alla scadenza naturale della legislatura, quando ogni diversa strada fosse davvero preclusa. Oggi invece ci sarebbe ancora la possibilità di scrivere, se non proprio una legge, perlomeno una leggina che metta in sicurezza il sistema e risparmi all’Italia lo spettacolo di una classe politica incapace di garantire perfino questo minimo sindacale.
Pontieri in campo
Tra parentesi, per votare il 24 settembre le Camere andrebbero sciolte non prima di metà luglio (tra i 45 e i 70 giorni in anticipo). Dunque un altro mese di tempo sulla carta ci sarebbe. Ecco spiegato come mai, nonostante gli «strappi» del segretario Pd , il Quirinale rimanga alla finestra e attenda di vedere che cosa accadrà martedì, in Commissione Affari costituzionali alla Camera. Dove i “pontieri” sono al lavoro per smussare i punti di contrasto e arrotondare gli spigoli. Si parla di abbassare le soglie dal 5 al 4 per cento, in modo da rabbonire i centristi di Alfano. O di lanciare un’estrema offerta ai Cinquestelle, con il voto disgiunto che a loro piace tanto. Particolarmente attivi i berlusconiani, con il capogruppo Brunetta che già lavora a una nuova bozza sulla lunghezza d’onda del Colle.


il manifesto .6.17
Ora Renzi annaspa nella palude
di Norma Rangeri


Sul sistema elettorale in Trentino la strana maggioranza che spinge la corsa della legge elettorale ieri mattina si è dissolta. Alla prima prova di voto segreto (ma palese perché il tabellone si è acceso rivelando i franchi tiratori), è saltato il coperchio. Nel merito di tratta di un emendamento significativo ma di scarso peso (in Trentino cade il Mattarellum e viene applicato anche in quella regione il sistema proporzionale). In realtà un inciampo di assoluto rilievo politico perché si è alzato il velo su un patto di fil di ferro siglato da Renzi, Berlusconi, Salvini e Grillo.
I parlamentari a 5Stelle forse perdono il pelo ma non il vizio. Hanno l’istinto dello scorpione, si fanno traghettare sull’altra sponda dell’accordo e poi infilano il pungiglione nella incredula rana che ieri mattina aveva le sembianze del povero capogruppo del Pd, Rosato, immortalato dai tg dell’ora di pranzo mentre gridava «la vostra parola è nulla, nulla, nulla» rivolto ai deputati pentastellati. Ma i sì all’emendamento presentato da Forza Italia, identico a uno del M5S, sono arrivati anche da un Pd che accusa gli altri di tradimento invece di guardarsi in casa.
Nella farsa di queste ore regnano sovrane le manovre di palazzo, degna premessa di quel che si intravede, un governo di legislatura Pd-Forza Italia con le sembianze sempre più arcigne di una camicia di forza sui disastri del paese. Con i 5Stelle indicati come causa di tutti i mali perché hanno votato un emendamento apertamente condiviso. Ma tanto basta.
Torneremo sulla scommessa che coinvolge, in questo paludoso scenario, la divisa sinistra italiana, ma intanto domenica si aprono i seggi in mille comuni, un voto difficile da decifrare con i partiti mimetizzati nelle liste civiche. Ma sarebbe sbagliato sottovalutarlo perché in ballo ci sono i governi di alcune grandi città (Palermo, Genova, L’Aquila, Padova, Verona). Solo dopo questo test amministrativo capiremo meglio che aria tira e quale legge elettorale ci rifileranno. E comunque la corsa a tutto gas verso il voto si ferma bruscamente e Renzi forse rivede il fantasma del 4 dicembre.

il manifesto 9.6.17
I franchi tiratori impallinano l’intesa. Il «tedesco» non vola
Legge elettorale. Con un voto semi-segreto passa un emendamento e scoppia il caos. Si torna in commissione. Il Pd accusa M5S, ma dalle luci mostrate per un errore dal tabellone si capisce che molti siluri sono dem
di Andrea Fabozzi


Adriano Zaccagnini è un trentenne deputato di Mdp, eletto con Grillo e già passato attraverso altri due gruppi parlamentari. Qualche tempo fa ha messo in imbarazzo i suoi nuovi compagni bersaniani per aver organizzato alla camera un convegno del fronte anti vaccini.
Ieri mattina, durante il dibattito sulla legge elettorale, è stato lui a interrompere la presidente della camera Laura Boldrini chiedendo la parola, mentre stava aprendo la prima votazione segreta della giornata. Si è inserito con un intervento non fondamentale, contro i grillini e la loro intenzione di riprendere con gli smartphone le votazioni segrete. Boldrini lo ha quasi subito fermato: mi faccia concludere. Solo che a quel punto la presidente, che lo aveva già detto, si è dimenticata di ripetere che la votazione sull’emendamento Biancofiore era segreta. Ha aperto il voto e per pochi secondi sul tabellone luminoso della camera è apparso come i deputati stavano effettivamente votando: rosso i contrari, verde i favorevoli. Poi i registi dell’apparato tecnico di Montecitorio sono intervenuti e i pallini sul tabellone sono diventati tutti azzurri, come nel voto segreto.
Ma pochi secondi vuol dire decine di foto e la firma sull’omicidio della legge elettorale è decollata subito in rete. Al Pd non è più riuscito di scaricare la responsabilità dell’assassinio sui grillini.
Perché il tabellone ha mostrato il voto favorevole all’emendamento dei grillini, ma era una non notizia. Si votavano in realtà due emendamenti gemelli, uno dei quali era dei 5 Stelle che erano poco prima intervenuti a favore. Un’altra era l’incoerenza dei grillini, che su quello stesso emendamento avevano sorvolato in commissione per non rompere l’accordo generale sulla legge elettorale del quale erano parte, con Pd, Forza Italia e Lega. Dunque i 5 Stelle votano a favore ma a favore si vedono anche alcuni pallini verdi nella parte dell’emiciclo del Pd. Non tanti, sette-otto, poi l’immagine cambia prima che tutti riescano a votare.
Ma ecco la prova: chi ha contato i pallini rossi e quelli verdi nelle foto scattate durante l’incidente tecnico, ha scoperto che l’emendamento sarebbe stato respinto. Anche con tutti i voti favorevoli dei grillini acquisiti. Quando i pallini sono diventati azzurri e il voto veramente segreto, invece, ecco che la situazione si è rovesciata: 270 favorevoli, 256 contrari, emendamento approvato. E una sessantina di franchi tiratori tra Pd, Fi e Lega. Ragionevolmente quasi tutti del Pd.
L’emendamento che è passato riguarda una piccola regione, il Trentino Alto Adige, ma una grande e antica questione politica. Perché la proposta di legge elettorale cosiddetta italo-tedesca ripeteva il trattamento di favore per la rappresentanza degli altoatesini di lingua tedesca già introdotto dall’Italicum. Confermando il patto Pd-Svp che consente a questi due partiti di dividersi i seggi di quella regione. L’approvazione dell’emendamento estende invece al Trentino le stesse regole del resto d’Italia ma soprattutto mette in crisi il patto Pd-Svp, che in questa legislatura è stato più volte decisivo al senato.
La legge dunque deve tornare in commissione, così non può andare avanti e assai probabilmente non può andare avanti e basta. Però se ne riparlerà la prossima settimana. Perché un’altra spiegazione del rogo di ieri mattina è nella prossima domenica elettorale. Quel patto tra democratici e Movimento 5 Stelle era un pessimo biglietto da visita in vista del voto nelle città, adesso i due partiti si sono regalati un ultimo botto di campagna elettorale. Da martedì si ragiona.
Il ragionamento di Renzi però è sempre lo stesso, mettere in pratica la filastrocca di Salvini: non importa con quale legge elettorale, basta che si vada a votare subito. La legge che c’è sono due leggi, un moncone di Italicum per la camera e lo spezzatino del Porcellum per il senato. Quel che resta dopo due sentenze della Consulta. Per «armonizzarle» in parlamento come chiede il presidente Mattarella non c’è più tempo. Un decreto non si può fare per costituzione e legge ordinaria (sono vietati in materia elettorale). Ma anche a mettere da parte le regole, il decreto andrebbe poi convertito.

il manifesto 9.6.17
Pisapia e il miraggio del vecchio centrosinistra
di Piero Bevilacqua


E’ indubbio che l’idea di Giuliano Pisapia di federare i gruppi frantumati e dispersi della sinistra contiene elementi di dinamismo politico da apprezzare. Soprattutto alla luce dell’inerzia che oggi sembra paralizzare quel campo, incapace peraltro di far leva e valorizzare le forze che si sono aggregate intorno alla campagna referendaria coronata da successo il 4 dicembre. Ma l’apprezzamento si arresta qui. Per il resto la sua iniziativa appare il vecchio tentativo di ricucitura di un ceto politico diviso, in vista della competizione elettorale. Come ricordano Anna Falcone e Tomaso Montanari (il manifesto, 6 giugno).
In tutta la condotta che ha caratterizzato la sua manovra nelle ultime settimane – soprattutto l’ambizione di ricomporre un centro-sinistra con il Pd di Renzi – mostrano una superficialità di lettura della situazione italiana sconcertante e drammatica. Ma come legge Pisapia, se non le tendenze di fondo del capitalismo degli ultimi 30 anni, la storia italiana degli ultimi 3 anni? Davvero Renzi è personaggio da confederare in un nuovo (?) centro-sinistra? E qui non voglio riferirmi alla persona.
Negli ultimi giorni, peraltro, i suoi ex alleati, da Alfano a Cicchitto, hanno aggiunto pennellate shakespeariane al ritratto del leader, campione di tradimenti e menzogne. I cattolici, quando sono inclini al cinismo, per una misteriosa chimica teologica, diventano imbattibili in materia.
Ma è più importante osservare la politica che egli ha condotto con il suo governo negli ultimi 3 anni. I cui risultati fallimentari sono facilmente osservabili nel ristagno sostanziale dell’economia, nella persistenza inscalfita della disoccupazione, nella crescita della povertà assoluta e relativa, nella crescente marginalità del Sud, nella riduzione delle risorse alla ricerca e all’Università.
Quello che stupisce in coloro che si ostinano a voler trascinare Renzi nella famiglia della sinistra è il non riuscire a vedere che dietro la facciata pubblicitaria del giovane condottiero c’è una politica non solo moderata, ma vecchia, la stessa che da anni sta condannando il Paese a una lenta consunzione.
E’ sufficiente esaminare tre iniziative strategiche del suo governo per comprendere che l’allora presidente del consiglio ha condotto delle politiche esattamente inverse alle necessità della fase storica attuale.
L’abolizione dell’Imu sulla prima casa – strizzata d’occhio ai ceti abbienti – ha accentuato la tendenza storica alle disuguaglianze sociali, quella ricostruita su grandi serie da Thomas Piketty, quella denunciata oggi persino dall’Ocse, come una causa rilevante della stagnazione economica internazionale.
Da noi la disuguaglianza ha una connotazione ancora più grave: essa si presenta come emarginazione delle nuove generazioni: disoccupazione, precarietà, lavoro gratuito, alti costi delle rette universitarie, scarse risorse per la ricerca, per il welfare delle giovani coppie (case, asili, scuole materne).Le figure che portano creatività, energia e spirito innovativo in ogni ambito della vita sociale vengono messe ai margini.
Ebbene su questo punto occorre oggi a sinistra una intransigente chiarezza. L’idea di una politica che raccolga i consensi dei ceti moderati è una vecchia pratica che può portare a qualche successo elettorale, ma che non va alla radice dei problemi. Alle famiglie dei ceti moderati occorre dire con coraggio, che senza una importante redistribuzione della ricchezza, senza un loro apporto economico al rilancio del Paese i loro figli e nipoti andranno via, l’esclusione sociale si accrescerà, L’Italia avrà un incerto futuro. E nessuno deve dimenticare che da noi la marginalità sociale si trasforma in humus per la criminalità grande e piccola.
Il secondo punto strategico riguarda il lavoro. Con il Jobs act Renzi ha continuato la vecchia politica di flessibilità del lavoro. E’ la stessa all’origine della crisi mondiale iniziata nel 2008. I bassi salari e la precarietà del lavoro negli Usa, surrogati dall’indebitamento delle famiglie per il sostegno alla domanda, costituiscono il modello di sviluppo che è rovinosamente crollato. E occorrerebbe ricordare che sul piano storico esistono le prove del fatto che la disponibilità di manodopera a buon mercato ritarda gli investimenti in innovazione tecnologica.
Ai primi del ‘900 i trattori hanno rapidamente conquistato le spopolate campagne degli Usa. In Italia la vasta presenza del bracciantato povero ha ritardato a lungo l’ingresso delle macchine in agricoltura.
Infine la Buona scuola. Può sembrare il punto strategicamente meno rilevante. Al contrario, è quello che mostra il provincialismo e l’arretratezza culturale del progetto di Renzi. Mandare i nostri studenti in qualche fabbrica a “fare esperienza”, è una battaglia di retroguardia. Riporta le lancette della storia all’età delle manifatture. Oggi i profitti capitalistici non sono assicurati da una qualche manovalanza ben addestrata, ma dalla creatività, dalla invenzione, dalla capacità di immaginare nuovi prodotti e servizi.
Serve cultura, sapere complesso, non abilità manuale ed esperienza aziendale. Anche sotto il profilo strettamente capitalistico è utile studiare Platone, piuttosto che assistere alla confezione degli hamburger da McDonald.

Corriere 9.6.17
«La sinistra unita è inverosimile E io scrivo, non farei mai il leader»
di Alessandra Arachi


Saviano: con me alla guida è al 16%? Ma commetterei un grave errore
Roberto Saviano, ha sentito di quel sondaggio Ipr? Con Saviano leader, la sinistra unita (alternativa al Pd) potrebbe arrivare al 16% Scenderebbe in campo per salvare la sinistra?
«I sondaggi spesso descrivono il mondo che sogniamo: la sinistra unita è un’ipotesi inverosimile. Sarebbe un contenitore con dentro tutto e il suo contrario. Io faccio altro: scrivo, racconto, creo. La politica è un altro lavoro e non è il mio lavoro».
In questo sondaggio Ipr per il «Fatto Quotidiano» il suo nome svetta nelle preferenze: è al 72% fra i delusi del Pd, staccando di una cinquantina di punti uno come Pippo Civati e di una quarantina Massimo D’Alema...
«Quella percentuale del 72 di delusi dal Pd potrebbe dirci molto: per esempio che sulla questione migranti e sulla sicurezza il Pd non dovrebbe affannarsi a sorpassare a destra Lega e M5S, ma dovrebbe avere una visione che non ha. Bisogna far ragionare ed empatizzare. Ma mi rendo conto che un partito con queste parole d’ordine l’avrebbero potuto creare i fratelli Rosselli o la Kuliscioff, non i dirigenti di oggi».
Nel sondaggio, dopo il suo seguono due nomi nelle preferenze dei leader: Stefano Rodotà e Pierluigi Bersani. Che effetto le fa appartenere a questo «triunvirato» di rinascita della sinistra italiana?
«Sono due personalità di spessore. Rodotà è un uomo di profondo rigore che per questo è stato accantonato dai 5 Stelle, che lo avevano tirato per la giacchetta. Bersani è un uomo per bene, un politico con una disciplina di altri tempi».
Se dovesse scegliere invece lei i compagni di viaggio di un ipotetico «triumvirato» per la guida della sinistra unita?
«Tra i tanti errori che potrei commettere nella mia vita futura uno dei più gravi sarebbe mettermi alla guida della sinistra unita».
Una lista unica della sinistra dei delusi del Pd con chi dovrebbe allearsi secondo lei?
«Pensare alle alleanze di una forza politica che difficilmente vedrà la luce mi sembra prematuro. Nella lista dei nomi che ho visto nel sondaggio vengono ipotizzate alleanze impossibili. Ad esempio: davvero si può credere che De Magistris e Pisapia potrebbero stare insieme?
Nel sondaggio si dice che la prima cosa di cui dovrebbe occuparsi la sinistra unita è il lavoro, poi l’onestà e l’ambiente. La giustizia è soltanto a metà classifica, condivide?
«No, la giustizia dovrebbe essere al primo posto, versa in condizioni disastrate nel nostro Paese, con una lentezza esasperante. Per spiegare com’è la giustizia italiana: immaginiamo un bambino scalmanato che distrugge un prezioso lampadario e la mamma gli da uno schiaffo quando ha vent’anni».
Quale sarebbe il programma di Roberto Saviano candidato premier?
«Posso scherzare (ma non troppo)? Vietare agli scrittori di fare politica».

Il Fatto 9.6.17
Alla fine Renzi s’è incartato: fuoco amico sul tedeschellum
I 5Stelle votano un loro emendamento che estende il sistema elettorale pure al Trentino I “ribelli” Pd danno una mano a farlo passare. Il segretario e i suoi: “Basta, l’intesa è saltata”
Alla fine Renzi s’è incartato: fuoco amico sul tedeschellum
di Wanda Marra


Nessun ritorno al tavolo della trattativa sull’appena defunto “Tedeschellum”, nessuna nuova legge elettorale. Ma la rapida fine della legislatura e poi il voto con i due sistemi usciti dalle sentenze della Consulta. La scusa? Uno dei prossimi voti al Senato, sul quale il governo potrebbe/dovrebbe chiedere la fiducia (come la manovrina e lo ius soli) e andare sotto, per mano di Articolo 1 o degli alfaniani. Matteo Renzi continua a immaginare strategie, a prefigurare tattiche di guerriglia, ma la realtà è che si è incartato. La fine del patto a 4 è un fallimento e ormai c’è il conflitto con il Colle – sulla possibilità di fare un decreto per rendere omogenee le leggi elettorali di Camera e Senato – è aperto.
Breve cronaca di una giornata convulsa, delirante.
Ore 9. Matteo Richetti, facendo la rassegna stampa via Facebook, svela il piano B democratico: “Se un Parlamento, dopo i richiami del capo dello Stato e della Corte costituzionale, non riesce a fare una legge elettorale, ci vuole un bel coraggio a dire che la legislatura deve continuare”. Una dichiarazione che sembra prefigurare quello che succederà subito dopo.
Ore 11.20. È il momento clou della giornata. Primo voto segreto su due emendamenti identici di Michaela Biancofiore (Fi) e Riccardo Fraccaro (M5s), che elimina i collegi maggioritari che la legge elettorale manteneva in Trentino Alto Adige: la Camera approva (270 a favore, tra cui M5s, 256 contro). Il Pd si era fatto garante col partito sudtirolese Svp del mantenimento del Mattarellum nella regione. La maggioranza va sotto e parte la caccia ai franchi tiratori: chi ne conta 60, chi addirittura 130 nei gruppi di maggioranza. Nell’emiciclo Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio sono terrei. Roberto Fico esulta. Twitta Alfredo Bazoli, deputato dem: “La legge è morta”.
Ore 12. Il gruppo del Pd dà visibili segni di spaccatura. “Renzi è bollito, basta”, commentano in molti.
Ore 13. Ettore Rosato, il capogruppo Pd, sonda i Cinque Stelle. Vuole capire se ci sono margini: il Movimento ha già fatto sapere che voterà gli emendamenti per introdurre le preferenze e il voto disgiunto. Intanto, Lorenzo Guerini e Matteo Orfini puntano il dito: “Il M5s ha fatto fallire l’accordo. La legge è finita”. Matteo Renzi, al Nazareno, manda WhatsApp infuocati a tutti, dà la linea: “Non possiamo andare avanti. Che figura ci facciamo se andiamo sotto sulle preferenze?”. Il Pd non può intestarsi la responsabilità di essere l’unico a non volere una legge sulle preferenze. Meglio finirla subito.
Ore 14. Il Transatlantico offre uno spettacolo scomposto. Beppe Fioroni, un democristiano vecchia maniera, riappare dopo mesi di assenza. “Ora a votare ci si andrà il più tardi possibile”, dice a tutti. Soddisfazione. Lui – come un centinaio di altri deputati – era di quelli che alla Camera rischiavano di non tornarci più. Prosegue la “caccia” al franco tiratore del Pd. Dentro e fuori dal gruppo molti puntano il dito sulla corrente “orlandiana”. Due di loro, Daniele Marantelli e Andrea Martella: “Questa legge non ci piaceva. Ma certo adesso non è il caso di correre al voto”. Si vagheggia anche di un “auto-affossamento” dei renziani, che una volta capita la malaparata avrebbero approfittato della prima occasione per mandare tutto all’aria. Tra i voti in difformità appare quello dell’ultrà renziano Michele Anzaldi. “Mi sono sbagliato. E poi, ho spostato il dito e ho votato correttamente”, dice lui.
Ore 15. Rosato chiede il ritorno in Commissione della legge. Accuse: “Abbiamo subito un tradimento e anche tra avversari non ci si tradisce”. Risposta di Toninelli (M5s): “Se in quest’Aula ci sono traditori, dei vigliacchi e degli irresponsabili questi appartengono al Pd”. Intanto Brunetta (Fi) chiede che si vada avanti con la legge. Anticipa le dichiarazioni di Berlusconi: “Una legge è l’unica strada per votare. Pd e M5s siano responsabili”.
Ore 16. Finisce la segreteria del Pd convocata al Nazareno per le 15. Tocca ancora a Matteo Richetti dare la linea: “Ora ci sono le amministrative. Martedì si vedrà”. Si prende tempo.
Ore 17. I centristi di vario genere esultano in Transatlantico, parlano di un accordo che si farà, abbassando la soglia al 4%. Intanto Renzi “sonda” Mattarella sulla possibilità del decreto. Il Colle non è disponibile, almeno fino a dicembre.
Ore 18. Gli umori dei renziani si abbassano. Tra i vicinissimi al Capo c’è chi dice: “Meglio non insistere con il voto anticipato”.
Ore 20. Renzi incontra Gentiloni. Parlano della Rai, ma fanno il punto su tutto. In questi giorni si capirà se il premier è disposto a seguire la strada verso l’uscita da Palazzo Chigi che gli prospetta il segretario Pd. Chi lo conosce assicura che “lui di sicuro non resisterà”. Tradotto: se c’è un motivo potrebbe anche dimettersi. Ma se Mattarella lo rimanda alle Camere è tutto da vedere. Il problema è tra il Colle e il Nazareno. E tra Renzi e il resto del mondo.

La Stampa 9.6.17
D’Alema adesso rischia di perdere
la guida delle fondazioni socialiste
Presidente dal 2010, lo definisce “il mio lavoro”. Riconferma in bilico
di Andrea Carugati


Mentre gli altri leader litigano sulla legge elettorale, Massimo D’Alema è già in piena campagna elettorale. Non si tratta della sua pur probabile corsa alle prossime politiche, e neppure delle imminenti amministrative. D’Alema è in corsa per il rinnovo della presidenza della Feps, Foundation for European Progessive Studies, l’organizzazione che riunisce le fondazioni vicine ai partiti socialisti di tutta Europa. D’Alema è al timone dal 2010, in molte interviste lo definisce «il mio lavoro». Nel giugno 2016 è stato riconfermato alla guida all’unanimità da una platea che comprende i presidenti di tutte le fondazioni più alcuni esponenti del Pse e dei partiti collegati. Il 29 giugno a Bruxelles ci sarà l’assemblea generale che dovrà indicare il nuovo presidente. E per la prima volta da 7 anni la riconferma non è scontata. In cima alla lista delle criticità ci sono gli scontri dell’ultimo anno con il Pd, che è il riferimento italiano ufficiale del Pse: dal No al referendum fino alla scissione, la posizione di D’Alema, raccontano fonti Pd, «si è progressivamente indebolita». Il Pse infatti si era ufficialmente schierato per il Sì, e le scintille non sono mancate: «Il Pse dovrebbe farsi i fatti propri come Merkel e Jp Morgan», spiegò D’Alema lo scorso ottobre. Dopo la scissione il giudizio tranchant del segretario del Pse, il bulgaro Sergei Stanishev: «Totale slealtà, un errore storico». Poi sono seguite le frizioni con i socialisti francesi per un altro colloquio in cui l’ex premier ha lodato la performance di Jean-Luc Melenchon alle presidenziali.
Il presidente di Italianieuropei, una delle fondazioni aderenti alla Feps, in queste settimane è in giro per l’Europa per rinsaldare rapporti e, come spiegano alcuni suoi amici, «fare campagna in vista del voto del 29 giugno». Repubblica Ceca, Grecia, Germania: l’agenda è fitta. Il Pd è rappresentato nella Feps da Eyu, fondazione che fa capo al renzianissimo Francesco Bonifazi, iscritta da alcuni mesi nonostante i dubbi del presidente D’Alema che l’ha bollata come «la fondazione di Renzi». Il gelo del Pd sulla ricandidatura di D’Alema è palpabile, ma nessuno ha preso ufficialmente posizione contro. Il capogruppo socialista all’Europarlamento Gianni Pittella ha confidato di voler restare fuori dalla partita. Neutrale. Altre fonti dem però spiegano che «dopo vari anni è naturale che quella posizioni tocchi a un altro Paese». Forse alla Svezia. Per ora, nomi di potenziali competitor di uguale esperienza non ne sono emersi. E questo è un punto a vantaggio di D’Alema. Ma anche tra i suoi amici il dubbio si è fatto certezza: «Renzi farà di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote».

Repubblica 9.6.17
Adriano La Regina
“Non si può frammentare la gestione”


«Le strutture che governavano l’archeologia romana andavano certo aggiornate, ma si è preferito distruggerle ». Adriano La Regina è drastico nella sua opposizione alla riforma voluta da Dario Franceschini. Dal 1976 al 2004 è stato lui a reggere le sorti di tutto il tessuto antico della capitale. E il suo auspicio è che, dalla sentenza del Tar, se venisse confermata, venga fuori un governo unitario di questo patrimonio. «Ma non si può guardare a Roma isolandola dal contesto ».
In che senso?
«Roma ha subito la stessa sorte di altri luoghi. Si è voluto rompere il rapporto fra soprintendenze e musei, non rispettando una serie di principi sacrosanti. I musei avevano bisogno di maggiore autonomia. Bisognava correggere una serie di imperfezioni, ma la direzione di marcia doveva restare unitaria».
E invece?
«E invece, se parliamo di Roma, si è voluto tornare a una frammentazione contro la quale si era combattuto nell’ultimo quarto del Novecento».
Per lei la soluzione è tornare a una soprintendenza unica come quella che lei ha diretto?
«Non bisogna mai guardare al passato. E non lo farò certo io. Ma è indubbio che solo con una visione unitaria si può governare l’immenso patrimonio archeologico romano, che non è solo il Colosseo o l’area archeologica centrale. Con una visione unitaria e lontana dalle influenze politiche».
Ma lei ritiene ci siano le condizioni per creare una struttura simile?
«Auspico che si arrivi a questo. Ma allo stato mi pare difficile. Vedo soltanto un accanimento per trarre da questo patrimonio quanto più profitto possibile ».
Fr. Erb.

Corriere 9.6.17
Firenze o Siena? E la Crusca infilzò lo storico
di Gian Antonio Stella

E se Alessandro Manzoni avesse risciacquato i cenci nell’Arbia? La domanda, cheal posto dell’Arno («nellecui acque risciacquai i miei cenci») tira in ballo quel torrente senese citato da Dante a proposito della sanguinosa battaglia di Montaperti del 1260 («Lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso») spunta fuori un’altra volta. Semprelì si torna: l’italiano è nato a Firenze o a Siena?
Discussione antica. E riproposta sulla rivista online dell’Accademia della Crusca da Rita Librandi, docente di Storia della lingua italiana e Linguistica italiana all’«Orientale» di Napoli, membro della celeberrima istituzione nata nel 1585 dalla «brigata dei crusconi» e presidente dal gennaio 2012 dell’Associazione per la storia della lingua italiana. La quale, dopo avere speso buone parole per Il Tempo e la Storia , la trasmissione della Rai «per altri versi ben costruita e particolarmente encomiabile per le sue finalità educative», infilza uno dei più noti storici italiani, Lucio Villari. Reo di aver partecipato a una puntata sostenendo la tesi senese.
Autore di molti libri (da Machiavelli. Un italiano del Rinascimento a La roulette del capitalismo , da Bella e perduta ad America amara ), collaboratore di lunga data di molti giornali, noto agli amanti del cinema nelle vesti del padrone di casa ne La terrazza di Ettore Scola, l’ottantatreenne professore già docente a Roma Tre non è neppure nominato nel breve saggio dell’accademica. Rispetto, forse. Il giudizio di Rita Librandi sull’«illustre storico dell’età contemporanea» è però micidiale.
A partire dalle «imprecisioni gravi». Certo, ammette, «sarebbe eccessivo e forse ingiusto soffermarsi dettagliatamente» su quelle imprecisioni: «Non possiamo, però, esimerci dal sottolineare la sicurezza con cui si dava per autentico un luogo comune infondato e da tempo confinato solo alle conversazioni salottiere». Insomma, un conto è discuterne a tavola con gli amici, accusa la linguista, un altro divulgare una tesi in una trasmissione culturale televisiva.
Ecco i passaggi sotto accusa. Conduttrice: «Il fiorentino che usano i letterati, i mercanti, i notai per i loro affari, i commerci, è già il nostro italiano?». Professore: «Beh, diventerà gran parte del nostro italiano, ma anzi si dice non il fiorentino forse il senese è quella dove questa lingua si è un po’ più elaborata, si è un po’ più raffinata, perché il fiorentino in senso stretto, come diceva Carducci, è un po’ sciocco, cioè un po’, diciamo, insipido, sciocco in questo senso…». Conduttrice: «Perché proprio il senese?». Professore: «… un po’ insipido, basta pensare alla poesia Davanti a San Guido , dove dice appunto che è sciocco questo fiorentino. Il senese è una lingua già elaborata che si estende un po’ in Toscana e diventa…» Conduttrice: «Quindi una lingua più raffinata rispetto al fiorentino che si utilizzava all’epoca».
Non l’avessero mai detto! Vabbé la conduttrice, ma il professore! «A parte la citazione palesemente erronea di Carducci, che in Davanti a San Guido contrappone “la favella toscana” che usciva, con accento della Versilia, dalla bocca della nonna Lucia, alla favella “sciocca” di chi si sforzava di imitare, anche senza essere fiorentino o toscano, le scelte linguistiche manzoniane, la conclusione che trasforma il senese in lingua “già elaborata, che si estende un po’ in Toscana” e “più raffinata rispetto al fiorentino che si usava all’epoca” (ma quale epoca?) lascia veramente senza parole».
«Gli storici della lingua, e con loro la gran parte degli studenti che frequenta i corsi di laurea in Lettere», scrive la Librandi affondando il coltello, «sanno bene che la prima codificazione del nostro italiano è da ricondurre alle indicazioni di Pietro Bembo, che nella sua trattazione sulla lingua, pubblicata nel 1525, consigliò con successo agli scrittori italiani di prendere a modello per i propri testi la lingua di Boccaccio per la prosa e di Petrarca per la poesia: da qui muove la nostra prima unificazione linguistica e su quel fiorentino trecentesco, senza alcun intreccio con le vicende del senese, si fonda il nostro italiano».
Letale la chiusa: «È evidente che non tutti gli studiosi sono tenuti a conoscere con precisione tematiche che non rientrano tra i loro oggetti di studio, ma dispiace constatare come passaggi della nostra storia linguistica, che sono anche passaggi essenziali della nostra storia culturale, non siano patrimonio condiviso almeno dagli intellettuali».
Il presidente onorario dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini, lui pure come Lucio Villari a lungo docente a Roma Tre e autore con Vittorio Coletti del celebre Dizionario , è meno tranchan t. Sottolinea ad esempio che l’Università di Siena, fondata nel 1240, è più antica della sorella fiorentina ed «è stata la prima ad avere, nel 1588, una cattedra di italiano. Un titolo forte dei senesi. Però…»
Però il ruolo centrale è di «quel geniaccio di Dante e della vivacità culturale e artistica di Firenze a cavallo tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento. Di più: la lingua ha bisogno di qualcuno che pronunci parole e scriva testi. E lì è stato fondamentale l’Alighieri non solo con la Commedia , ma prima ancora con la consapevolezza della necessità di una lingua valida per gli italiani. Non la chiama “lingua italiana” ma è quella cosa lì. Esprime l’idea già nella Vita Nova, quando dice che non ha ancora una lingua nuova per celebrare Beatrice. Poi nel Convivio e nel De vulgari eloquentia elabora fortemente l’idea di questa lingua letteraria italiana. La Commedia sarà il passo finale».
Del resto gli stessi accademici fondatori della Crusca, spiega Sabatini, «non chiamavano questa lingua né italiana, né toscana, né fiorentina. La chiamavano “la nostra favella”». Quanto al Manzoni e alla lettera alla madre sui panni risciacquati, «scrisse i Promessi sposi lavorando molto sui libri e i vocabolari e fu folgorato, andando in vacanza a Firenze nel 1827 dopo aver già rifinito la seconda stesura del romanzo, a sentire che quella lingua che lui aveva cercato sui testi, i fiorentini la parlavano davvero. E allora risciacqua sul serio, da cima a fondo, il suo capolavoro lì, sull’Arno. Anche perché tra Firenze, Siena e Pisa le differenze erano e sono ancora notevoli». Non a caso, ammicca, «diventò lui pure accademico della Crusca...».

il manifesto 9.6.17
Racconti da salotto sull’Ottobre sovietico
Centenari. Alcune proposte editoriali a cento anni dalla Rivoluzione russa. «La tragedia di un popolo» di Orlando Figes (Mondadori) e «Lenin» di Victor Sebestyen (Rizzoli). Riproposta da Bollati Boringhieri «Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita» di Victor Serge. Ritanna Armeni invece racconta la relazione amorosa di Lenin con Inessa Armand.
di Andrea Colombo


In un Paese come l’Italia, dove il sistema mediatico vive di ricorrenze e celebrazioni e un decennale o un ventennale non si negano mai, è difficile evitare un certo stupore a fronte della sordina con cui i media hanno sin qui affrontato quell’episodio minore del XX Secolo che è stata la Rivoluzione russa. È possibile che qualcosa in più venga offerto in autunno, allo scadere dei cent’anni dall’Ottobre rosso, ma anche in questo caso risulterebbe stridente una periodizzazione storica che identifica la Rivoluzione solo con la presa del potere bolscevica invece di misurarsi con tutto il 1917 e oltre, essendo ormai assodato che la Grande Rivoluzione è stata invece un evento lungo, tanto che nella sua monumentale La tragedia di un popolo (Oscar Mondadori, pp. 1098, euro 20, traduzione di Raffaele Petrillo) lo storico inglese Orlando Figes ne rintraccia l’inizio nel 1891 e la conclusione nel 1924.
SUL FRONTE DELL’EDITORIA l’offerta è solo lievemente meno avara. È stato pubblicato in italiano, a vent’anni tondi dall’edizione originale, il tomo di Figes, che è probabilmente la più rilevante rilettura della Rivoluzione Russa uscita dopo la fine dell’Urss. Odoya ha pubblicato invece, cinquant’anni dopo l’edizione francese, 1917. L’anno della Rivoluzione Russa, di Roland Gaucher. (pp.351, euro 24, traduzione di P. Radius). Nonostante l’autore, al secolo Roland Goguillot, fosse un fascista condannato a cinque anni per collaborazionismo dopo Vichy, la sua è una cronaca brillante, ricchissima di dettagli storici, coinvolgente come un romanzo. Ovviamente il fascistone francese non ha alcuna simpatia per i bolscevichi, tuttavia è impressionante scoprire che la sua narrazione è più onesta e molto meno preconcetta di quelle dei tantissimi liberal che intrecciano ricerca storica e demonizzazione ideologica, sino a rendere difficile distinguere l’una dall’altra.
È IL CASO del principale e più recente volume uscito in Italia sull’onda del centenario: Lenin. La vita e la rivoluzione (Rizzoli, pp. 553, euro 25, traduzione di Chicca Galli e Roberta Zuppet), dell’ungherese Victor Sebestyen che si propone un doppio obiettivo esplicito sin dal titolo originale: Lenin the Dictator. An Intimate Portrait. Mira a intrecciare la biografia pubblica e quella privata del leader bolscevico, privilegiando il secondo aspetto, ma anche a confermare la sua responsabilità assoluta nella degenerazione dell’Urss, dovuta non solo alle scelte politiche ma anche alla personalità autoritaria e al carattere dittatoriale.
È un’impresa che, pagina dopo pagina, si rivela più difficile del previsto, tanto che spesso lo storico deve intervenire con commenti personali per «indirizzare» il giudizio del lettore. Il Lenin che descrive, infatti, è sì estremamente ruvido e violento negli scontri politici, ma è anche l’opposto, cortese e rispettoso, al di fuori della politica. Risulta persino agli occhi ipercritici di Sebastyen assolutamente disinteressato e onesto e la sete di potere che l’autore gli attribuisce non appare mai supportata dai fatti. La dedizione incondizionata e fanatica di Lenin, già nota e sottolineata da suoi contemporanei, è rivolta tutta e solo alla Rivoluzione: una passione tanto pervasiva da non lasciare spazio alcuno neppure all’ambizione personale.
CHE VLADIMIR ILIC ULIANOV avesse un carattere autoritario e poco disposto ad ascoltare le ragioni degli altri è certo. Nella polemica era spietato, ma privo della vendicatività che avrebbe invece segnato Stalin. Dopo che due tra i principali dirigenti bolscevichi, Zinovev e Kamenev, alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre avevano portato la loro opposizione all’insurrezione sino al punto di parlarne apertamente sul giornale, con tutto il rischio che ciò comportava, Lenin, dopo la vittoria, non si sognò neppure di punirli o epurarli. Al contrario.
LO STORICO UNGHERESE si diffonde a lungo sulla relazione con Inessa Armand, nata in Francia, cresciuta in Russia nella migliore borghesia, sposata con un importante industriale e proprietario terriero, che fu il grande amore del dirigente comunista e amica di sua moglie Nadja Krupskaja, in una sorta di bizzarra relazione politico-amorosa a tre. Anche qui, però, l’intento preventivamente polemico gli impedisce di cogliere la realtà emotiva di quella relazione. Sebastyen sa tutto di quella storia, ma lo riduce a una serie di informazioni fredde, che ne tradiscono la verità.
PER SINCERARSENE basta fare un paragone con il bellissimo libro che a Inessa e alla sua relazione con Lenin ha dedicato Ritanna Armeni, Di questo amore non si deve sapere (Ponte alle Grazie, pp. 235 euro 16). La vicenda è la stessa, ma la giornalista e scrittrice italiana ne coglie le implicazioni profonde, la affronta con l’empatia che difetta all’ungherese. Fa emergere la fragilità di Lenin, il suo tradizionalismo, la sua resistenza a una passione che trova minacciosa per il suo lavoro proprio come gli capitava con la musica di Beethoven. Mette in risalto la complessità non solo dell’amore tra il russo e la francese, ma anche del rapporto tra Inessa e Nadja, il loro punto d’incontro intorno al tentativo di imporre una specie di femminismo bolscevico, nel quale la liberazione delle donne e quella dal capitalismo sono inscindibile, che va a sbattere contro il muro della sottovalutazione dei maschi, grande capo incluso.
PER ASSURDO, la figura di Vladimir Ulianov esce più ridimensionata dal lavoro di una scrittrice che non gli è ostile che da quello dello storico che si proponeva di demolirlo. Il mondo degli esiliati rivoluzionari campeggia necessariamente anche nel libro di Sebestyen, avendo Lenin passato in esilio gran parte della vita, ma ridotto spesso a una sfilata di macchiette. Nel libro di Ritanna Armeni, che pure lo tratta molto meno diffusamente, riacquista la sua realtà e la sua vitalità.
Allo stesso modo, il nodo centrale della continuità tra Lenin e lo stalinismo è appena accennato da Sebestyen, perché data per ovvia. È stato Figes a segnalare che non ci sono tracce della disposizione contro le correnti che, decisa da Lenin, diventerà arma micidiale nelle mani di Stalin. Di conseguenza non c’è neppure modo per valutare il modo molto diverso in cui quella disposizione fu tradotta in pratica. Sebestyen ricorda la reazione di Lenin alle manifestazioni di adorazione nei suoi confronti dopo l’attentato contro di lui dell’agosto 1918: «È oltraggioso! Mi chiamano genio, uomo straordinario. C’è del misticismo in tutto questo». Ma aggiunge che Lenin è ugualmente responsabile del culto della personalità, non avendo fatto niente per proibirlo. Riduce la messa in guardia contro Stalin contenuta nel testamento a «diverbio di natura personale». Cita la polemica di Lenin contro la burocratizzazione del partito, ma la derubrica a ipocrisia.
COSÌ, PER INDAGARE le continuità e le discontinuità tra la prima fase della Rivoluzione e quella segnata dal Piano quinquennale e dal Grande Terrore continua a essere molto più utile, a 80 anni dalla sua uscita e nonostante una sguardo troppo poco critico su Ulianov, il Victor Serge di Da Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita (Bollati Boringhieri, pp. 185, euro 15, traduzione di Sirio Di Giuliomaria, Introduzione di David Bidussa).
Le rimozioni sono eloquenti. Il silenzio che i media hanno calato sulla Rivoluzione è un festeggiamento: quello della vittoria non sulla dittaura sovietica ma sulle istanze sociali dell’Ottobre rosso. Ed è anche il riflesso di una paura confessata apertamente da Sebastyen. In fondo, conclude lo storico, le condizioni per l’emergere di un nuovo Lenin e di un nuovo bolscevismo ci sono di nuovo tutte. Anche per questo meno e peggio si parla della Rivoluzione che fece tremare il mondo, meglio è.