mercoledì 7 giugno 2017

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Repubblica 7.6.17
La talpa cieca della sinistra
Ezio Mauro


AVEVAMO avvertito che dietro il tavolo della legge elettorale c’è il tavolo già imbandito del governissimo, e per l’aperitivo è pronto un accordo di scambio e garanzia tra Pd e Forza Italia sulla Rai, eterna prova del nove di qualsiasi intesa di basso potere. Adesso che ai due commensali si sono aggiunti anche Grillo e Salvini, applaudendo al ritorno al proporzionale per far saltare qualsiasi ipotesi di coalizione e ogni distinzione tra destra e sinistra — in cambio del voto anticipato —, quel tavolo ha un nome: «patto extra-costituzionale».
La formula è di Giorgio Napolitano, che dal Quirinale si è speso con forza per far sì che il Paese avesse una legge elettorale. Ma quella di oggi, secondo l’ex Capo dello Stato, rende più difficile la governabilità e basandosi su un calcolo di pura «convenienza di quattro leader» elude gli impegni europei, e viola addirittura la Costituzione fissando abusivamente la data del voto a settembre.
SEGUE A PAGINA 29
OLTRE a far decadere leggi in attesa che come ricorda ogni giorno Repubblica rappresentano l’unica traccia riformista di una mediocre legislatura.
Ce n’è abbastanza per fermarsi e riflettere sul peso delle contraddizioni che stanno per diventare legge. Le più gravi, avviluppano il Pd fino a strangolarlo. Perché ovviamente è giusto cercare la più larga intesa di compromesso sulla regola elettorale, e poi conformarsi al voto per governare. Ma oggi la questione è diversa, rovesciata: la legge elettorale è costruita apposta per portare ad un governo tra Renzi e Berlusconi, ammesso che i due partiti abbiano i voti e vincano la sfida con Grillo e Salvini, cancellando ogni schema maggioritario e ogni alleanza pre-elettorale.
Ora, quando mai il Pd ha discusso di questo esito programmato e pilotato della sua storia? È nato per questa ragione e con questa ambizione? Non è un problema di linea, come si diceva una volta, ma di natura e di ragion d’essere. Tanto che praticamente tutti i padri fondatori del partito — Prodi e Veltroni in testa — sono contro uno schema che rinchiude il Pd in un patto abusivo e suicida, cancellando l’ipotesi e la nozione stessa di centrosinistra, dopo che già era stato abbondantemente picconato il concetto di sinistra.
Gli unici ospiti del negoziato che hanno qualcosa da guadagnare — oltre a Berlusconi resuscitato dai minimi termini grazie ai suoi avversari — sono da un lato Salvini che può correre da solo senza genuflettersi ad Arcore, e Grillo che può tentare la spallata del primo partito, visto che ognuno gioca per sé e non ci sono le coalizioni che lo sfavorirebbero in partenza: tanto in caso di sconfitta potrebbe tornare comodamente in piazza, a gridare contro l’inciucio che porta anche la sua firma di leader extracostituzionale.
Una volta davanti a tanto spettacolo politico si diceva: ben scavato, vecchia talpa. Oggi si vede ad occhio nudo che la talpa della sinistra è davvero cieca, e in via di estinzione.

Repubblica 7.6.17
L’età dell’indifferenza
Nadia Urbinati


L’ETÀ dell’indifferenza: questo il titolo che possiamo dare alle ricerche demoscopiche più recenti sullo stato della coscienza politica dei cittadini italiani. Indifferenza, soprattutto nel caso dei giovani tra i 18 e i 34 anni, per le tradizionali divisioni tra destra e sinistra. Lo conferma il Rapporto Giovani 2017 dell’Istituto Toniolo, realizzato in collaborazione con Fim Cisl. I giovani non sono indifferenti alle questioni di giustizia (e di ingiustizia) sociale — alla crescita della diseguaglianza, al declino delle eguali opportunità, al valore tradito del merito personale: insomma agli ideali che dal Settecento in poi sono stati rubricati sotto le bandiere delle varie sinistre. E dunque, in questo senso, non vi è indifferenza per quella divisione antica.
L’indifferenza (comprensibile) è verso i partiti che si sono fin qui incaricati di rappresentare quelle idee di giustizia, e che oggi sono giudicati (giustamente) come misere macchine elettorali, finalizzati a favorire coloro (i pochi) che più sono attratti dall’esercizio del potere e dai privilegi ad esso associati. Sono le élite politiche, il cosiddetto establishment, a generare la “politica politicata” e, insieme, ad affossare i valori della politica, le ragioni delle politiche di giustizia. Questo è il senso dell’analisi dell’Istituto Toniolo e delle impressioni che ciascuno di noi si fa navigando online o praticando la quotidiana comunicazione casuale e non premeditata. Osserva Alessandro Rosina, a commento del Rapporto Giovani, come quello dei ragazzi sia «l’elettorato più difficile da intercettare » perché critico della retorica politica e, aggiungiamo, del monopolio del potere della voce che chi è dentro le istituzioni ha e difende.
L’esclusione dalla partecipazione alla formazione delle opinioni, non solo alle decisioni, ha effetti devastanti, perché dimostra come ad essere irrilevante non è solo il voto ma anche la voce dei cittadini. Avere un blog, postare messaggi, commentare su Twitter: tutto questo partecipare è poco soddisfacente perché non produce effetti. Anche partecipare con le sole opinioni si rivela dispendioso perché senza un ritorno. Che il web serva a darci democrazia diretta è un’illusione. Senza partiti le voci del web restano inefficaci.
E i cittadini lo capiscono. Soprattutto i giovani, abituati ad avere “ritorni” immediati alle loro esternazioni sul web. E invece la politica resta un muro di gomma, nonostante la facilità delle comunicazioni. Inarrivabile. Anzi, si potrebbe pensare che fino a quando l’arma della partecipazione erano i rapporti faccia a faccia, anche la parola aveva più forza. Oggi, che siamo tutti connessi e illusi di avere radar tentacolari e altoparlanti potenti, abbiamo l’impressione, fondata, di essere inascoltati — il rumore resta un brusio indecifrabile. È questa impotenza a generare demoralizzazione, un malanno grave nella democrazia che è per antonomasia un fenomeno di fiducia nel potere della volontà politica, individuale e associata.
Eugenio Scalfari suggerisce spesso nei suoi editoriali di rileggere Alexis de Tocqueville. In effetti, sembra di un’attualità disarmante: la società come una grande audience, interpellata ad ogni soffio di vento per assicurasi consenso, eppure senza effetti visibili, testabili. Una grande melassa nella quale la politica — che è invece distinzione di posizioni, partigianeria e schieramento, anche a costo di essere (o sembrare) perdenti — si scioglie in chiacchiericcio poco credibile. È questa l’indifferenza di cui si parla oggi, tra i giovani soprattutto: prevedibilmente, poiché se non c’è più spazio per il bricolage dei collettivi, allora ci si scaglia contro chi sta dentro le istituzioni. I giovani (e meno giovani) scrive Rosina, «si chiudono» alle grandi idee propositive e «si avvicinano ai partiti anti-sistema come M5S e Lega, che sono quelli che urlano di più». Nella politica audience-melassa è l’urlo che fora il muro di niente. Non crea, ma si fa sentire.
L’anti-establishment, che l’indifferenza per i partiti e i loro leader hanno partorito e alimentano nel corso degli ultimi anni, è la porta spalancata a quel che con un termine poco preciso viene chiamato populismo, e che sarebbe meglio chiamare anti-partitismo, uomoqualunquismo arrabbiato. A chi vuole arrivare in fretta al potere, questi sondaggi indicano che per cavalcare l’indifferenza occorre imitare la retorica demagogica e qualunquista. A chi vuole riannodare i fili di un desiderio della politica degli ideali, questi sondaggi possono indicare una strada, forse più impervia ma che potrebbe pagare domani: ricomporre un collettivo di persone unite da idee, partigiani coraggiosi che non solo denuncino ma propongano. La lotta per qualcosa che vada oltre la propria persona ha una bellezza alla quale né i giovani né i meno giovani sono insensibili.

Corriere 7.6.17
Un buon sistema elettorale deve favorire convergenze
di Valerio Onida


Caro direttore, nel dibattito in corso sulla nuova legge elettorale prevalgono le analisi e i ragionamenti sul cui prodest?, cioè sui possibili vantaggi e svantaggi che ciascuna forza politica in campo si attende da ciascuno dei vari sistemi proposti, e quindi sulle prognosi circa le posizioni che esse potranno verosimilmente adottare in Parlamento per avere i vantaggi o per evitare gli svantaggi; oppure le prese di posizione motivate dagli effetti (di stabilità o di instabilità) e dai rischi (di prevalenza di questa o di quella forza politica) che ogni sistema si pensa possa presentare.
Vorrei provare per una volta a tracciare un’analisi diversa, che prenda le mosse dalla considerazione dei caratteri dell’attuale sistema politico italiano e dalle prospettive della sua evoluzione, tenendo conto dei dati prognostici ricavati dagli assidui sondaggi di opinione, ma anche dei possibili e desiderabili mutamenti negli schieramenti politici e nelle conseguenti scelte degli elettori.
Premesso che, come ha detto anche la Corte costituzionale, un «buon» sistema elettorale deve assicurare la rappresentatività delle assemblee e favorire o comunque non ostacolare la formazione in esse di maggioranze (la cosiddetta «governabilità»), la prima constatazione è che l’attuale sistema politico non è così definito e consolidato da escludere, pure a breve termine, che esso possa evolversi anche in modo significativo. E possiamo domandarci quali cambiamenti rispondano, più e prima che all’interesse di questa o di quella parte politica, a una esigenza di maggiore chiarezza e quindi anche, potenzialmente, di maggiore efficienza del sistema. Naturalmente ognuno legittimamente pensa che giovi al Paese soprattutto o solo la crescita o la vittoria della forza che predilige. Ma forse è necessario anche rappresentarsi quali cambiamenti relativamente alle altre forze politiche, concorrenti o avversarie, siano suscettibili di giovare a rendere il quadro politico più chiaro, e le scelte degli elettori più consapevoli ed efficaci.
Si dice che siamo in un sistema politico ormai caratterizzato da tre «poli» di peso quasi equivalente (Pd, centrodestra e Movimento 5 Stelle). Ma forse c’è qualcosa in più che si sta manifestando o potrebbe manifestarsi a proposito di ognuno di questi tre «poli».
In concreto: il Pd ha difficoltà a rapportarsi con forze alla propria sinistra, e con alcune sembra escludere a priori — ricambiato — di potersi mai unire in una maggioranza. Gli elementi che lo dividono dai potenziali alleati di sinistra attengono non tanto alla posizione sui temi europei quanto alle politiche fiscali e del lavoro, e soprattutto fanno capo a «storici» contrasti o dissapori nell’ambito del centrosinistra. Il centrodestra è ormai manifestamente e nettamente diviso in due schieramenti di peso oggi pressoché equivalente, quello che fa capo alle posizioni «lepeniste» e xenofobe della Lega di Salvini e quello di una destra «moderata» che esclude defezioni dell’Italia dal contesto dell’integrazione europea, e che, in prospettiva, potrebbe anche essere suscettibile di saldarsi con la galassia «centrista» ora polverizzata. Il Movimento 5 Stelle appare per più versi ambiguo nei contenuti, anche sul tema europeo (emblematico l’acrobatico tentativo, nel Parlamento europeo, di passare da un gruppo fra i più antieuropeisti al gruppo schiettamente europeista dei liberali), e rifiuta a priori la prospettiva di alleanze.
Possiamo allora domandarci: alla chiarezza politica e agli interessi generali del Paese giova più una evoluzione che scavi un solco definitivo fra il Pd e le altre forze di sinistra (almeno quelle «europee»), o una che favorisca la formazione di una eventuale alleanza di centrosinistra, sia pure caratterizzata da pluralismo di posizioni su alcuni temi? Giova più una evoluzione in cui le due aree del centrodestra siano indotte a restare comunque unite, o una in cui si realizzi definitivamente il distacco della destra «lepenista» dalla destra moderata, con cui potrebbe convergere anche la galassia centrista? Giova più una prospettiva che consolidi l’atteggiamento «esclusivista» dei 5 Stelle («o con noi o contro di noi») o una che favorisca magari la disponibilità del Movimento, in futuro, a discutere, alla pari e senza troppe pregiudiziali, di possibili programmi di governo, sciogliendo almeno in parte le attuali ambiguità?
Non avrei dubbi a rispondere, a ognuno di questi dilemmi, che la seconda è la prospettiva migliore per il futuro del Paese. Se è così, dovremmo auspicare che il sistema elettorale sia tale da favorire, in ognuno dei «campi», l’evoluzione più favorevole. E dunque: un sistema elettorale che non induca il Pd a isolarsi dalla sinistra ma lasci aperta la porta a convergenze programmatiche (anche post-elettorali, alla luce degli effettivi rapporti di forza) con altre forze o future forze di sinistra «europea»; un sistema che non induca la destra moderata a confondersi con quella lepenista ma faccia emergere chiaramente le due diverse prospettive programmatiche; un sistema che in prospettiva favorisca un atteggiamento meno «solipsista» e più collaborativo del Movimento 5 Stelle. Sono tre prospettive rispetto alle quali le possibili scelte del sistema elettorale non solo non sono divaricate, ma convergono.
Un sistema «ipermaggioritario» (come era quello dell’Italicum), o anche di collegi uninominali, ma strettamente legati a una scelta «secca» di lista, senza voto disgiunto, rischierebbe di andare in senso contrario: favorendo l’isolamento del Pd; inducendo l’alleanza coatta fra le due parti del centrodestra, sterilizzando inoltre l’apporto della «galassia» centrista; esaltando l’«autosufficienza» del Movimento 5 Stelle. Un sistema invece che consenta e faciliti l’espressione chiara delle diverse posizioni programmatiche, e convergenze programmatiche reali (anche post elettorali) fra le forze più affini; che consenta di misurare le reali distanze fra le varie forze e l’effettiva consistenza di quelle che rifiutano la prospettiva europea, e scoraggi, attraverso ragionevoli soglie di sbarramento, l’eccesso di frammentazione, potrebbe facilitare anche la formazione di maggioranze coerenti nell’ambito di un Parlamento adeguatamente rappresentativo. Poi, quello che decide è comunque il voto, a seguito del quale soltanto potranno definirsi i rapporti fra le diverse aree, senza poter naturalmente escludere che risultino necessarie anche convergenze più ampie a cavallo delle stesse o di alcune di esse: che, se realizzate su programmi espliciti e contrattati, non necessariamente si dovrebbero tradurre in convivenze rissose in cui sia impedita ogni decisione. In ogni caso, si favorirebbe l’evoluzione di questo sistema politico verso prospettive più chiare che non quelle di una permanente guerra senza quartiere di tutti contro tutti, combattuta cercando di raccogliere con ogni mezzo e a ogni costo un voto in più, per poi spenderlo nella continuazione della stessa guerra.

Il Fatto 7.6.17
Venghino signori: comincia lo show del compagno Renzi
di Alessandro Robecchi

La parrucca canuta e la barba finta sono già state consegnate a Rignano sull’Arno, pronte per l’uso. Nel caso clamoroso che Jeremy Corbyn riesca nell’impresa di vincere le elezioni inglesi, Matteo Renzi è pronto a trasformarsi nel Corbyn italiano, dopo essere stato il Valls italiano, l’Obama italiano, il Macron italiano e altro ancora. Già si affacciano timidamente su Twitter i primi segnali della nuova trasformazione, per ora soltanto sottoforma di esternazioni “simpatiche” di portavoce ed esperti di comunicazione (!).
Non che stupisca la coerenza ad assetto variabile: sono passati solo due anni (elezioni inglesi del 2015) da quando gli stessi strateghi renzisti spiegavano la sconfitta del timidissimo e conservatorissimo candidato Labour Miliband con un esilarante: “ha perso perché troppo di sinistra”. Ora che Corbyn (che è di sinistra davvero) rischia di vincere, o comunque di prendere più voti del suo predecessore, ecco in rampa di lancio il nuovo travestimento. Il vocabolario politico andrebbe aggiornato: più che trasformismo, qui si tratta di applicare la dottrina Fregoli: più cambi d’abito in pochi minuti.
Dai vapori delle strategie elettorali che scaldano i motori comincia a distinguersi un vecchio, caro ritornello, una cosa che si è conficcata nelle orecchie degli italiani come quelle canzoncine pop che ci allietano l’estate e che fischiettiamo anche se ci sembra di non averle mai ascoltate davvero. Insomma, ecco che s’avanza la solita tiritera del “voto utile”, dove “utile” si può tradurre che bisogna darlo al Pd.
Più la pattuglia alla sinistra di Renzi (non che sia difficile stare alla sinistra di Renzi, eh!) si avvicinerà minacciosa alla soglia del 5 per cento, più i toni si faranno suadenti, disponibili, accomodanti. In pratica, se il Pd renzizzato si renderà conto che può avere un’emorragia di voti a sinistra, più il blogger di Rignano dovrà organizzare uno dei suoi travestimenti più arditi: fingersi di sinistra pure lui, addirittura lui. Non so se TicketOne vende già i biglietti, ma ne voglio un paio di prima fila, perché lo spettacolo sarà imperdibile.
Finora la strategia semantica della cordata che ha conquistato il Pd è stata abbastanza semplice: vendere come “di sinistra” provvedimenti ultraliberisti e cancellazione di diritti. Un gioco di prestigio che ha funzionato soltanto per qualche mese e poi si è sciolto come un gelato nell’altoforno: prima qualche elettore, poi molti, poi un paio di milioni, si sono accorti che scrivere la legge sul lavoro insieme a Confindustria e andare in giro a dire che si tratta di una legge di sinistra era una discreta presa per il culo. Che abbracciare il “modello Marchionne” non era proprio una cosa geniale.
Che farsi periodicamente salvare da Verdini non era esattamente nel dettato teorico gramsciano. Che cancellare la tassa sulla prima casa anche ai cumenda con villa di diversi ettari non era precisamente una lotta alle diseguaglianze.
Ora si apre un periodo, assai divertente, di bastone e carota. La linea è già tracciata: da un lato screditare l’avversario (definire “sinistra radicale” una formazione che ha come riferimento Pisapia è semplicemente ridicolo), dall’altra gettare brioches al popolo, fingersi dialoganti, archiviare il vecchio arrogantissimo (e scemo) “ciaone” per sfoderare un grottesco “compagni, parliamone”. Insomma, quello che da anni si allea con Berlusconi, che concorda con lui fallimentari riforme, che inventa con lui leggi elettorali incostituzionali, verrà a spiegarci che è colpa della sinistra se alla fine farà un governo con Berlusconi. Per cui consiglio di preparare i fazzoletti: il “Renzi-torna-di-sinistra-show” sarà uno spettacolo circense di grande presa, più dell’uomo cannone, più della donna barbuta, più delle magliette gialle al terremoto. Venghino, venghino, portate i pop-corn.
di Alessandro Robecchi

Il Fatto 7.6.17
Legge elettorale: c’è un grande futuro alle nostre spalle
di Peter Gomez



Dato che in Italia, come ci insegnava Leo Longanesi, la rivoluzione non si può fare perché ci conosciamo tutti, i nostri eroi hanno pensato bene di provarci con la restaurazione. Il sistema elettorale proporzionale di cui tanto si discute in questi giorni è solo il primo atto. Dopo essere rientrati trionfalmente nella Prima Repubblica e aver istituzionalizzato, grazie al 60 per cento di parlamentari nominati, pure la partitocrazia, noi elettori a partire dalla prossima legislatura proveremo più volte il brivido di altre riconquiste. Qualcuna l’abbiamo in parte già assaggiata.
Per esempio il controllo totale da parte del governo sulla Rai che ha riportato la tv di Stato agli anni precedenti alla riforma del 1975, quella che aveva sì introdotto la lottizzazione, ma che almeno aveva garantito un po’ di pluralismo. Non dobbiamo però disperare. Nel quinquennio che verrà faremo meglio. Se, come si prevede, dopo le elezioni Pd e Forza Italia governeranno insieme, l’esecutivo terrà saldamente in mano anche Mediaset, il principale polo televisivo privato. Con evidenti vantaggi per telespettatori ed editori. I palinsesti concordati a monte eviteranno inutili doppioni. I tg non remeranno mai contro e la Santa Alleanza politico-televisiva permetterà pure grosse economie di scala. Perché, ad esempio, svenarsi nell’asta per l’acquisto di un buon film o di una serie mozzafiato quando i due teorici concorrenti si possono invece più comodamente accordare su prezzi e spartizioni durante degli incontri organizzati a margine del Consiglio dei ministri?
Ma non basta. Il congresso di Vienna permanente che verrà istituito nei palazzi del potere porrà pure definitivamente fine a ogni tipo di scontro tra politica a giustizia. Come? Riportando l’orologio della Storia a un’epoca molto antecedente rispetto a Mani Pulite: gli Anni 50, 60 e 70. Un periodo d’oro in cui mai (o quasi) si sentiva un eletto prendersela con un magistrato o con un investigatore. Anche perché di indagini sui potenti se ne facevano davvero poche e quando per caso ne partiva una il risultato era scontato: l’insabbiamento. I presupposti per tornare a quel fausto quarantennio ora ci sono tutti. Nel futuro Parlamento i deputati e i senatori decisi a resistere a ogni inchiesta giudiziaria o giornalistica saranno la stragrande maggioranza. In questo schieramento, che è giusto definire di pacificatori nazionali, militeranno i Dem, i forzisti e pure i leghisti.
Anche i seguaci di Matteo Salvini, come ha avuto modo di spiegare la scorsa settimana il loro leader, in materia di giustizia penale hanno infatti le idee chiare: vogliono che sia la politica a decidere che reati perseguire, sognano giudici e pubblici ministeri eletti dal popolo e in ogni caso pretendono un’assoluta separazione delle carriere. Ovvio, è difficile che norme di questo tipo possano essere fatte proprie dal Partito democratico (Forza Italia invece ci metterebbe la firma), ma l’idea che sia la politica a recuperare il suo primato piace a tutti. E quindi oggi possiamo con tutta serenità affermare che nelle prossime Camere ci saranno i numeri per mettere la mordacchia (si vedrà poi come) a magistrati e giornalisti. Basta attendere fiduciosi. È solo una questione di tempo. Perché il proporzionale dei nominati non è solo perfettamente costituzionale. È pure il sistema ideale per fotografare questa povera Italia in crisi, brava ormai solo a camminare a passi di gambero.

Repubblica 7.6.17
“Goodbye London” Jeremy Corbyn versione Warhol
Battaglia all’ultimo voto ora May teme di perdere
La premier è solo un punto avanti sul Labour “Pronta alla mano durissima contro i terroristi”
E. F.


LONDRA. La campagna elettorale finisce con Theresa May che promette una mano dura, anzi durissima: «Se servirà a fermare il terrorismo, sono pronta a calpestare le leggi in difesa dei diritti umani», afferma la premier. Parla di norme per facilitare la deportazione di estremisti, di sentenze più severe e di restrizioni della libertà di individui sospetti, «in mancanza di prove sufficienti per incriminarli». Ma è anche un’offensiva disperata per riguadagnare terreno nei sondaggi. L’ultimo, diffuso ieri, vede infatti i Tories in testa solo di un punto, 41,5 a 40,4 per cento, quando erano avanti di 20 punti un mese fa. Alla vigilia delle elezioni, il risultato appare dunque più che mai in dubbio. Per questo i conservatori vanno all’attacco di Jeremy Corbyn, protagonista di una rimonta che nessuno prevedeva. «Per 30 anni, Corbyn è stato amico di terroristi ed estremisti », accusa in tivù il ministro degli esteri Boris Johnson, mettendo insieme l’Ira, Hamas, Cuba e ogni gruppo o paese considerato radicale. «Se sarà lui a negoziare sulla Brexit, quelli di Bruxelles lo mangeranno vivo», dice intervenendo su un altro canale. «È debole davanti al terrorismo, non darebbe alla polizia l’ordine di sparare per uccidere», rincara la dose in un’ennesima intervista. Un fiume in piena, tanto che a un certo punto un conduttore della Bbc gli intima: «Per favore, Boris, stia zitto».
Sospinta da tre attentati in tre mesi, la questione della sicurezza domina la campagna elettorale. Chiamata in causa dalle rivelazioni di stampa sulle falle nei controlli cui avrebbero dovuto essere sottoposti i jihadisti che poi hanno realizzato l’attacco a London Bridge, May è costretta a ammettere buchi nell’operato dell’MI5, i servizi d’intelligence. Ribadendo di essere contrario alla politica del grilletto facile, Corbyn loda il comportamento della polizia nel caso dell’attacco sul London Bridge e al Borough Market: «Gli agenti hanno agito per difendere se stessi e la popolazione, hanno fatto bene a sparare». Il sindaco di Londra Sadiq Khan chiede al governo di ritirare l’invito a Donald Trump a visitare la Gran Bretagna, dopo i tweet con cui il presidente ha criticato il multiculturalismo britannico: «Non penso che dovremmo stendere il tappeto rosso ai suoi piedi», dichiara il primo cittadino della capitale (ma Downing Street non cancella la visita).

Repubblica 7.6.17
Il leader laburista “svela” cosa farà il primo giorno al governo in caso di vittoria: “Permesso di residenza agli europei”
L’ottimismo di Jeremy Corbyn “Se vinco, asse con Merkel e Macron”
Enrico Franceschini


LONDRA. «Telefonerò a Trump per rimproverarlo dei suoi tweet. Inviterò Angela Merkel allo stadio. Chiamerò Macron per stabilire un rapporto costruttivo sulla Brexit. E darò unilateralmente il permesso di residenza ai 3 milioni di europei che vivono in questo paese». E questo è solo il programma per la prima giornata da primo ministro di Jeremy Corbyn. Immaginarla non è uno scherzo. Tra 24 ore la Gran Bretagna va alle urne e tra 48 ore il leader laburista potrebbe entrare a Downing Street al posto di Theresa May. Un’ipotesi che sembrava inimmaginabile due anni or sono, quando il deputato più di sinistra del Labour diventò capo del partito vincendo a sorpresa le primarie, ed è sembrata folle fino a due mesi fa, quando la leader conservatrice aveva 20 punti di vantaggio. Ma poi è cominciata la campagna elettorale, Corbyn ha fatto comizi come una trottola, dilaga su Twitter, ottiene parità di spazi in tv, e le distanze si sono ridotte, anche per il confronto con una premier impacciata, fredda, a disagio tra il pubblico. Neanche due attentati terroristici sono serviti a fermare la rimonta, anzi finora l’hanno facilitata: May appare in difficoltà davanti all’accusa di avere messo a repentaglio la sicurezza nazionale, riducendo di 20 mila agenti le forze di polizia quando era ministro degli Interni. Il video di un agente che due anni fa la ammoniva a non farlo, ritrovato dal Labour, è un potente capo d’accusa.
Così non è stravagante che il 68enne leader del Labour anticipi al Guardian cosa farà nel primo giorno da premier. Innanzi tutto, pensa davvero di poterlo diventare? «Sì», risponde sicuro. «La reazione che vediamo in giro è incredibilmente entusiastica. E abbiamo fatto tutto quello che era necessario per vincere». Theresa May lo descrive come non patriottico e debole sul terrorismo. «Parole insensate», replica lui, con la calma abituale (non per nulla si è auto soprannominato “Mister Zen”). Si difende così: «Voglio che il nostro Paese giochi un ruolo costruttivo nel mondo. Voglio una società dignitosa e armoniosa in Gran Bretagna. Questo mi renderebbe non patriottico? È un’accusa ridicola. Anzi, offensiva ». Dunque cosa farà venerdì, se diventerà primo ministro? «Telefonerei a Merkel e Macron per creare un clima costruttivo nella trattativa con la Brexit. Annuncerei che i 3 milioni di europei residenti qui potranno restare per sempre, con la speranza che Merkel faccia lo stesso con i britannici in Germania, ma non è una questione su cui negozierei, sarebbe una decisione unilaterale ». Con la cancelliera tedesca vorrebbe discutere «di football e di Brexit», perciò la inviterebbe allo stadio londinese dell’Arsenal, sua squadra del cuore, per guardare insieme una partita. Chiamerebbe anche Donald Trump, nelle prime 24 ore a Downing Street: innanzitutto per chiedergli di ritrattare i tweet che il presidente americano ha scritto sul sindaco di Londra, Sadiq Khan, attribuendogli l’intenzione di minimizzare la minaccia del terrorismo. E poi per provare a persuaderlo di non ritirarsi dall’accordo sul clima: «La scelta del presidente americano mi rattrista molto. Ma c’è ancora tempo per provare a fargli cambiare idea».
In questo si è dimostrato abile: ha fatto cambiare idea a un sacco di persone, che ora appaiono invece pronte a votarlo. Non ha fatto cambiare idea a Theresa May, naturalmente, ma Corbyn non si arrabbia per il veleno della premier nei suoi confronti. «C’è un sacco di negativismo verso di me. La cosa migliore davanti a chi dice cose negative, è rispondere con la positività». Il che non gli ha impedito di chiedere le dimissioni della premier come responsabile dei tagli alla polizia. «Non ho chiesto le sue dimissioni da primo ministro», precisa il leader laburista. «Dico solo che, se fosse ancora ministro degli Interni, alla luce di quanto sta accadendo, molti chiederebbero di dimettersi ». A farle perdere il posto, spera Jeremy Corbyn, ci penseranno le elezioni di domani. E lui, se fra 48 ore entrerà davvero a Downing Street, promette di restare fedele alla sua regola: «Mai fare attacchi personali, cercare sempre di parlare anche a chi non va d’accordo con te».

Corriere 7.6.17
Hawking, Ken Loach e gli altri fan Ma sono i giovani a spingere Corbyn
di Paola De Carolis


LONDRA «Offriamo la speranza», titolava la settimana scorsa il New Musical Express , la Bibbia della musica, sotto la fotografia, in copertina, di Jeremy Corbyn. Se Theresa May e i suoi conservatori piacciono agli elettori di mezza età, la gioventù è dalla parte del Labour. Ha i dati anagrafici per essere nonno, ma il leader del partito ha fatto suoi i temi e le preoccupazioni della nuova generazione, confermandosi la rivelazione di queste elezioni.
Nei sondaggi il Labour è in vantaggio del 25% tra i votanti sotto i 24 anni e del 12% in quelli sotto i trenta. Se il referendum sulla Brexit è stato, nelle parole dell’ex vice primo ministro Nick Clegg, «un furto generazionale, in cui gli anziani hanno deciso di privare i giovani delle opportunità che loro stessi avevano avuto», il voto di domani potrebbe essere un riscatto.
Più fondi al welfare, l’abolizione delle rette universitarie, l’attenzione al clima, la campagna contro gli sprechi sono politiche che hanno permesso a Corbyn di parlare a una fetta del Paese che ha voglia di ideologie buone e di valori veri. A suo favore si sono schierati lo scienziato Stephen Hawking, il regista Ken Loach, che ha diretto l’ultimo spot del Labour e il celebre autore di graffiti Banksy che si era spinto ad offrire i suoi disegni gratis a chiunque dimostrasse di non aver votato Tory. Un regalo che poi è stato costretto a rimangiarsi per paura di conseguenze legali.
Il problema, stando a Stephem Fischer, esperto di pronostici dell’università d Oxford, è dove si trovano geograficamente i giovani. I seggi in cui gli elettori tra i 18 e i 24 anni sono più numerosi di quelli oltre i 65 sono solo 75, di cui 57 sono già laburisti. L’alto numero di consensi, quindi, potrebbe non tradursi in un risultato concreto, anche se «Theresa May farebbe un errore a sottovalutare l’importanza dei giovani nelle elezioni». Se solo il 50% dei votanti sotto i 30 anni si dice certo di votare domani, stando a un sondaggio del National Centre for Social Research , la rimonta di Corbyn potrebbe essere un elemento importante.
Socialista convinto, 68 anni, il leader laburista ha indubbiamente un appeal tutto suo. «Ha combattuto e vinto due campagne per la leadership in due anni e sembra aver raccolto esperienze utili, nel senso che trasmette l’idea di autenticità, a differenza di Theresa May, che può sembrare robotica», ha spiegato Tim Bale, professore di scienze politiche della Queen Mary University di Londra. Il suo non è stato un inter scontato: nel 2015 sembrava non aver speranze di arrivare alla guida del partito, mentre vinse con una maggioranza notevole. Nel 2016, tre quarti dei suoi deputati si schierarono contro di lui, ma Corbyn la spuntò nuovamente.
La sua non è una politica gridata. È all’antica. Crede nel colloquio diretto con la gente. Forse piace anche per questo. Con il suo orto, la mancanza dell’auto e della televisione, la devozione alla bicicletta e ai concerti rock e la totale difesa della sua vita personale. La terza moglie, la messicana Laura Alvarez, non compare mai al suo fianco. «Sono io che faccio politica non lei».

Corriere 7.6.17
Il Timoniere Xi «pensatore in capo» come Mao e Deng
di Guido Santevecchi
Le teorie del presidente nuovo verbo in Cina


PECHINO C’è stato il Pensiero di Mao Zedong, sacro testo sul marxismo-leninismo adattato alle caratteristiche cinesi; poi la Teoria di Deng Xiaoping sulle aperture all’economia di mercato: il Pensiero rivoluzionario di Mao e la Teoria riformista di Deng sono stati iscritti nella Carta fondamentale del Partito-Stato. Ora Xi Jinping sta cercando di affiancarsi ai due timonieri della Cina moderna come nuovo «pensatore in capo». In autunno Xi si presenterà al 19° Congresso comunista che cade a metà del suo mandato decennale di segretario generale e capo dello Stato e molte voci si rincorrono a Pechino su un suo tentativo di mettere le basi per una proroga del potere assoluto oltre il 2022.
Le parole in politica significano molto, in Cina moltissimo e al leader serve una frase simbolica che dia il titolo ai suoi insegnamenti per il Paese e il mondo. Il telegiornale della sera, voce ufficiale dello Stato che va in onda a reti unificate, ha da poco introdotto la formula «I concetti di governo di Xi Jinping»: potrebbe essere questa l’etichetta che, adottata nella costituzione comunista, segnerebbe l’ascesa del segretario generale nell’empireo dei grandissimi.
È un piano al quale il leader sta dedicando molte energie e risorse: nel 2014 ha fatto pubblicare «Xi Jinping: la governance della Cina», un manuale con 79 suoi discorsi, conversazioni, interviste, lettere e frasi celebri tradotto in diverse lingue, dall’inglese allo spagnolo, dall’urdu al vietnamita e diffuso in 6,2 milioni di copie nel mondo. L’ultima edizione è stata presentata ieri: in lingua del Kazakistan.
Lo scorso ottobre, nell’ultimo Plenum del 18° Congresso, i delegati hanno attribuito al presidente Xi Jinping il rango di «lingdao hexin», che significa più o meno «nucleo centrale e cuore della leadership» del Partito. Prima di lui lo erano stati Mao e Deng. Ma quella definizione di «cuore della dirigenza» è solo onorifica; far includere il proprio pensiero politico nella Carta comunista rappresenterebbe il vero salto di qualità.
Per preparare il terreno è stato mobilitato anche il Quotidiano del Popolo , che ha raccolto 25 frasi pronunciate da Xi, una summa della sua visione. Tra le frasi dello Xi Pensiero si segnalano oltre all’ormai celebre «Sogno Cinese di Rinnovamento della Nazione», i «Cinque concetti di sviluppo», i «Quattro comprensivi», i «Cinque in Uno», gli «Otto preparativi». La Cina ha un culto ossessivo per gli slogan politici con numeri e programmi spesso oscuri per i non addetti ai lavori. I «Quattro comprensivi», per esempio sono una chiamata all’impegno dei quadri per «promuovere il completamento complessivo di una società moderatamente prospera, l’approfondimento della riforma (sempre complessivo, ndr ), la promozione dello stato di diritto (complessivo naturalmente, ndr ) e la gestione rigorosa e complessiva del Partito».
Può voler dire tutto e niente, solo Xi e i colleghi più vicini a lui lo possono sapere. Il segretario generale comunista, nonché presidente della Repubblica e della Commissione militare centrale e di un’altra dozzina di organismi statali e di Partito, ha parlato anche dei «Quattro venti contro»: che debbono soffiare contro il formalismo, la burocrazia, l’edonismo e la stravaganza, ha spiegato il Quotidiano del Popolo .
Riassumendo: il libro sulla governance con 79 discorsi e interventi vari; le 25 frasi chiave: è questo il contenuto del Pensiero di Xi da glorificare nel Congresso per cementare il suo potere e il suo rango di filosofo?
Manca ancora qualche mese e nuove frasi potrebbero aggiungersi ai Concetti. Una è appena stata pronunciata: serve «Lo Spirito del martellare il chiodo», ha detto Xi ai compagni. Un’esortazione ad avere la stessa determinazione necessaria a conficcare un chiodo nel legno battendo con forza e precisione con il martello, hanno spiegato gli esegeti di Pechino.

Il Fatto 7.6.17
La nuova sinistra si ritrova il 18 giugno
di Lorenzo Marsili e Yanis Varoufakis


Le energie liberate dalla vittoria del No al referendum costituzionale del 4 dicembre devono essere la base su cui costruire in Italia quello spazio nuovo che in altri Paesi sta già nascendo, dal popolo di Bernie Sanders negli Stati Uniti a Podemos in Spagna. Per farlo, abbiamo bisogno di un progetto politico lontano tanto dalle élite di governo quanto da chi vorrebbe farci tornare al tempo dei muri e del razzismo. Né grande coalizione fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, né rapporto privilegiato fra Beppe Grillo e Matteo Salvini. Né establishment, né populismo. Abbiamo bisogno di un terzo spazio felice, vincente e partigiano.
Il movimento europeo DiEM25 ha in questi mesi lavorato a fondo per non disperdere quelle possibilità che si sono aperte il 4 dicembre. Siamo quindi contenti che due dei volti dei Comitati del No, Anna Falcone e Tomaso Montanari, abbiano lanciato ieri su queste pagine un appello alla costruzione di un nuovo spazio politico incentrato sulla lotta contro le diseguaglianze. L’appuntamento è per il 18 giugno, noi ci saremo.
Le prossime elezioni italiane rappresentano un passaggio chiave per il futuro dell’Europa. L’Italia non è un Paese periferico ma uno dei paesi fondatori dell’Unione; ispiratore, con Altiero Spinelli, dei suoi più alti ideali, e al tempo stesso il Paese, insieme alla Grecia, in cui maggiormente questi ideali sono stati traditi. L’Italia è la terza economia dell’Eurozona e quella il cui sistema bancario rischia di precipitare una crisi di dimensioni continentali. Non si restituiscono ambizione e giustizia all’Europa senza crearne i presupposti in Italia.
Dopo che per troppi anni il governo italiano ha utilizzato la propria forza esclusivamente per elemosinare scampoli di flessibilità da sprecare in inutili bonus, è arrivata l’ora di uno spazio politico disobbediente e costruttivo capace di agire pienamente nella trasformazione europea che sta per aprirsi. Dopo le elezioni tedesche di fine settembre, infatti, vedremo una forte accelerazione nella riforma di un’Eurozona che ormai tutti reputano disfunzionale. Potrebbe essere l’occasione per introdurre da subito quei profondi cambiamenti che la situazione richiede.
Non possiamo lasciarci trascinare da facili entusiasmi per le credenziali riformiste esibite da Merkel o Macron: della prima non possiamo dimenticare il ruolo giocato a difesa degli interessi delle élite negli ultimi sei anni; del secondo non possiamo non cogliere la volontà di rafforzare proprio quel paradigma neoliberista di cui la crisi ha mostrato l’insostenibilità. Il rischio, reale, è che un giro di vite di una maggiore integrazione imperniata su austerità e disciplina di bilancio, esproprio democratico e centralizzazione dei processi decisionali, non faccia che accelerare la disintegrazione dell’Unione e rinsaldare la stagnazione economica in Paesi come l’Italia.
Anche per questo è necessario costruire una forza politica italiana con una strategia europea chiara e di cambiamento. DiEM25 ha elaborato un programma economico dirompente, lo abbiamo chiamato New Deal per l’Europa e lanciato insieme a Noam Chomsky, Ken Loach, diversi leader di partito e intellettuali da tutto il continente. Lo mettiamo a disposizione.
Creare una forza per il cambiamento in Europa è più che mai necessario: ne va della nostra capacità di esercitare sovranità popolare sulle principali questioni dei nostri tempi. Basti pensare alla sfida dell’accoglienza e delle migrazioni, alla tutela ambientale, alla gestione del debito pubblico, alla necessità di maggiori investimenti e di una vera unione bancaria capace di sanare un sistema finanziario fuori controllo. Basti ricordare lo scandalo dell’elusione fiscale, laddove la mancanza di un’integrazione fiscale si traduce in un sistema in cui alle grandi multinazionali è permesso ritagliarsi un fisco su misura mentre la piccola e media impresa vacilla.
Abbiamo bisogno di un nuovo tipo di forza politica che dai municipi all’Europa, e viceversa, con un biglietto di andata e ritorno, abbia la capacità di rimettere il demos al centro della democrazia nazionale ed europea. Una forza che sia aperta e partecipata e che sia in grado di tornare a dire parole chiare attorno a un programma di rottura con le ricette fallimentari del passato. E che abbia un piano per l’Europa. Siamo pronti a fare la nostra parte, nella convinzione che questo non sia più il tempo delle belle parole e dei buoni propositi, ma che sia il tempo dell’ambizione e del coraggio.
* Co-fondatori DiEM25 di Lorenzo Marsili e Yanis Varoufakis

Repubblica 7.6.17
Cannabis, in Italia si fuma più che in Olanda
Rapporto Ue sulle droghe: 93 milioni di europei hanno provato almeno una volta una sostanza illecita Aumentano i morti per overdose: sono 8.441 ma calano nel nostro Paese. Business da 24 miliardi di euro
Alberto D’Argenio


BRUXELLES. È in costante aumento il numero di decessi da overdose in Europa, ma non in Italia: da noi continua ad andare per la maggiore la cannabis, più che in Olanda. È allarmante il quadro tracciato dall’Osservatorio europeo delle droghe (Emcdda), un mercato che nel Vecchio Continente vale 24 miliardi di euro all’anno. Il tutto mentre sulla piazza arrivano nuove droghe sintetiche, spesso e volentieri prodotte nei laboratori cinesi, i cui effetti possono essere più potenti della stessa eroina.
Partendo dalla fotografia generale della situazione, l’Osservatorio segnala che nel 2015 i morti per overdose in Europa — in questo caso formata dai Ventotto dell’Unione più Norvegia e Turchia — sono aumentati per la terza volta consecutiva, arrivando alla cifra record di 8.441, il 6% in più rispetto al 2014. Decessi legati principalmente a eroina e altri oppioidi. I paesi che hanno registrato un trend in salita sono in particolare Germania, Lituania, Olanda, Svezia, Regno Unito e Turchia. In Danimarca, Irlanda, Francia e Croazia il numero dei decessi correlato al metadone ha superato quelli per eroina. In Italia il numero dei decessi è calato, con 7,8 morti per milione di abitanti contro una media europea di 20,3.
In totale si calcola che oltre 93 milioni di europei — i cittadini dell’Unione sono 500 milioni — hanno provato una droga illecita almeno una volta nella loro vita. Tra questi, 87.7 milioni hanno fatto uso di cannabis, sostanza che viene consumata quotidianamente dall’1% degli adulti europei. E quando si parla di canne, l’Italia è seconda solo alla Francia dove lo spinello copre il 22% del consumo totale di droghe (da noi siamo al 19%). In Italia poi almeno il 31,9% degli adulti di età compresa tra i 15 e i 64 anni ha provato almeno una volta la cannabis, quarti nella speciale classifica europea dopo Francia, Danimarca e Spagna mentre in Olanda dove le droghe leggere sono legali e facilmente reperibili il dato è più basso, sotto la media europea, con il 25,6%. Inoltre con il 5,2% l’Italia è quarta per uso di oppioidi ad alto rischio, mentre è ottava (1,8%) per il consumo di cocaina.
Il rapporto dell’Emcdda disegna una differenza significativa nelle abitudini dei giovani europei rispetto a quelle dei coetanei americani. I nostri studenti tra i 15 e i 16 anni consumano più alcol e tabacco rispetto ai colleghi statunitensi, che invece prediligono la cannabis, con le sigarette ormai registrate come fenomeno quasi marginale. Ad ogni modo, tabagismo ed eccessi di alcol nelle scuole europee sono in leggero calo, mentre è stabile il consumo di cannabis.
Tuttavia allarma il recente fenomeno degli oppioidi sintetici in arrivo in Europa. Dal 2009 ne sono stati trovati 25 nuovi tipi, estremamente potenti imitano gli effetti di eroina e morfina e stanno diventando una minaccia crescente per la salute in quanto lasciano una lunga scia di morti e intossicazioni alle loro spalle. Per produrre molte migliaia di dosi da strada di oppioidi sintetici sono sufficienti piccole quantità, facili da nascondere e trasportare. In particolare, i fentanili, eccezionalmente potenti — varie volte più dell’eroina — hanno pesato per oltre il 60% dei 600 sequestri di nuovi oppioidi sintetici riportati nel 2015. Allarma il commercio di droga online, in aumento soprattutto nel deep web complici le tecnologie che occultano identità di acquirente e venditore e le transazioni con Bitcoin e Litecoin.

Repubblica 7.6.17
Caterina la santa che inventò l’italiano
di Silvia Ronchey


Come svelano nuovi studi, il vero miracolo della mistica di Siena è la sua scrittura innovativa
“Più luce!”, furono le ultime parole di Goethe. “Sangue! Sangue!”, furono le ultime parole di Caterina da Siena, con Dante il primo genio, come scrisse Tommaseo, della lingua italiana. Le sue opere – il “Libro”, in seguito reintitolato “Dialogo della divina provvidenza”, e le trecentottantuno Lettere – furono scritte col sangue, quasi letteralmente. Scrivo “nel prezioso sangue di Cristo”, spiegava di continuo Caterina. Non era solo una metafora. Il più attendibile dei suoi biografi, Tommaso Caffarini, narra di come un giorno, trovando in una stanza della rocca di Tentennano un vasetto
di cinabro di quelli usati dai copisti per vergare i capilettera, lei lo afferrasse insieme al calamo e alla pergamena e prendesse a scrivere rapidamente, “con tratto leggibile e netto”. Caterina, ed era forse questo uno dei suoi molti segreti, scriveva in inchiostro color sangue, e lo faceva di suo pugno, per quanto reticenti o deliberatamente svianti siano in proposito i suoi primi agiografi, attenti a far credere all’autorità ecclesiastica che quelle opere non nascessero dall’audacia di un carisma personale, bensì da miracolosa ispirazione divina; che fossero da lei dettate in stato di trance ai membri maschi della sua laica confraternita. Furono capaci di persuaderne i successivi studiosi, a loro volta inclini a credere all’inevitabile analfabetismo di quella strana figlia della piccola borghesia della buia contrada senese dell’Oca, adolescente anoressica uscita dal mondo per sprofondare nella sua “cella interiore”, fuggita dal corpo per costruirsi un “corpo spirituale” nella perenne astensione dal cibo (un po’ d’acqua e piccoli boli di erbe che subito rimetteva) e dal sonno (su una tavola per terra e “non più di mezz’ora ogni due giorni”), nelle piaghe delle catene e del cilicio, nelle penitenze, nei più implacabili e disciplinati stenti dell’ascesi, nelle devastazioni dell’estasi.
Come scriveva il suo amico William Flete all’indomani della morte, che la prese a trentatré anni, Caterina “abitava nella caverna del costato di Cristo”. Nel Dialogo confessava: “La vita mia non è passata altro che in tenebre; ma io mi nascondarò nelle piaghe di Cristo crocifixo e bagnarommi nel sangue suo”. Vissuta in un tempo in cui l’accesso alla scrittura era nominalmente vietato a qualsiasi donna non fosse regina o principessa, la sua padronanza dello scrivere era nascosta in quella caverna, nota solo a quell’entourage di confessori in realtà segretari, direttori di coscienza in realtà sottoposti, padri spirituali in realtà figli, che costituivano la “bella brigata”, la comunità di cui Caterina, il volto brunito come un capo indiano, indurito “come cuoio” dal sole della Francigena, era l’irrivelabile maestra, “madre” e profetessa. Un libro di André Vauchez ( Caterina da Siena. Una mistica trasgressiva, Laterza) cerca oggi di contestualizzare la sua eversione spirituale e la sua militanza politica nella lotta tra chiesa e impero, regni e stati dello scacchiere trecentesco, ma anche fra ordini rivali e contrapposti papati nel tempo dello scisma avignonese, della Crociata contro l’Anticristo, della plurinvocata riforma della chiesa, al di là della narrazione della propaganda ecclesiastica, che della sua figura di outsider ha fatto prima una paladina del primato della sede papale romana, poi una costruzione patriottica, tanto da trasformarla in antesignana dell’unità d’Italia, e nel 1939, ad opera di Pio XII, in copatrona d’Italia: in un Francesco femmina – per quanto lei si considerasse uomo e per quanto meno scrittore, ancorché sublime, fosse di lei Francesco. Ma accomunava certo entrambi la simulata illetteratezza, la scelta del sermo humilis, l’esoterica semplicità del volgare con cui vollero trasporre nella lingua umana l’ineffabile.
Il Sangue, la passione, la tortura, è la scrittura. Perché “in sul cuore la pietra del diamante, se non si rompe col Sangue, non si può rompere”. La sua anima, come dichiara nel prologo del Dialogo, era “ansietata di grandissimo desiderio”, ed era “abituata e abitata nella cella del cognoscimento di sé”, perché “al cognoscimento seguita l’amore” e “amando cerca di seguitare e vestirsi di verità”. Per Caterina l’opus della scrittura era un corpo a corpo con quell’“ansietato desiderio” di smarrire il proprio io in un amore non di questo mondo. Influenzata dall’agostiniano William Flete, il peccato era per lei solo mancanza d’amore: non realtà ma, scrive, “quella cosa che non c’è”. E “l’attitudine dello scrivere”, come confidò a Raimondo da Capua, era l’unica “con cui sfogare il cuore, perché non scoppiasse”.
Come ha scritto Michel de Certeau, il mistico è la persona che vuole “offrire un corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla verità”. “Affogata e annegata nel sangue” dell’inchiostro, Caterina vi trovava “l’affocata sua verità”. Il discorso, il Logos, si fece carne in quella sofferenza, da Caterina paragonata alla passione di Cristo e assimilata al torchio dionisiaco da cui cola la bevanda redentrice del dio sacrificato e spremuto. Smembrata come Dioniso, le sue reliquie saranno sparse in più templi del mondo cattolico, ma la sua testa mummificata, oltre la grata del tabernacolo gotico, presidia quell’insospettabile tempio pagano che è la basilica senese dell’ordine cui fu più vicina, quello di San Domenico. Se percorsa la navata centrale in direzione della Sagrestia Vecchia, varcata la balaustra di marmo, si accede alla Cappella del Testa, si verrà colpiti anzitutto, ai due lati del sottarco, da due misteriosi personaggi affrescati dal Sodoma, identificati oggi da Gioachino Chiarini ( Il calice e lo specchio, Nerbini) con Platone e Aristotele; ma soprattutto, al centro del pavimento policromo, da una figura tanto anomala quanto inconfondibile, identificata da Bernard Berenson con quella di un classico Orfeo che al posto della cetra regge uno specchio. Nella lettura di Chiarini l’intero programma iconografico della cappella, progettato tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento dai seguaci senesi dei misteri cateriniani, è la coerente illustrazione delle pagine finali del Dialogo e l’Orfeo asessuato della tarsia marmorea è la chiave della teoria cateriniana dell’anima. Una teoria ermetica, dove la passione di Cristo è l’opus cui si rifà l’anima individuale nel laboratorio alchemico della salvazione, attraverso quella sua letterale e fisica imitazione che è l’opus della scrittura, attuata nel bagno vermiglio del sangue. Più ci si addentra nella vicenda intellettuale di Caterina, più si è rapiti dalla sua indecifrabilità. Anche se oggi la riconosciamo certo ben più consapevole di quanto ogni versione ecclesiastica abbia voluto o potuto in origine ammettere, non conosciamo le fonti filosofiche dirette del suo
Dialogo. Qualcuno ha evocato Agostino, qualcun altro lo Pseudo-Dionigi, ma molto era occultato nella composita comunità di cui Caterina era maestra, madre e profetessa. Se le facce di Caterina sono tante quanto le reliquie in cui il suo corpo è oggi smembrato, se le ragioni della sua fortuna sono sotterranee, e anche per questo confondono storici e biografi, se tra i miracoli di Caterina il più grande è quello della scrittura, dietro il segreto della sua scrittura, così ben custodito dai suoi seguaci, ce n’è forse un altro: l’ermetismo, l’alchimia. Un segreto di cui solo i suoi più tardi conoscitori e cultori, in quello spalancarsi del vaso di Pandora del pensiero medievale che fu il Rinascimento, hanno voluto fornirci, con le dovute precauzioni, la chiave.

Repubblica 7.6.17
Le associazioni del teatro rispondono a Luca Barbareschi
“L’Eliseo ha vinto? Ma le regole valgano per tutti”
Anna Bandettini


ROMA A AMMETTE di voler comprare l’edificio del teatro («un investimento privato, con la mia società immobiliare» dice rispondendo alle accuse di usare i soldi pubblici a fini personali); ripete di “aver vinto”, ma nell’intervista rilasciata a ieri a Repubblica, Luca Barbareschi chiama in causa la politica: ministri e deputati con cui avrebbe parlato e preso accordi, come dichiara, prima e dopo quello che ormai tutti definiscono “lo scandalo Teatro Eliseo”: gli 8 milioni di euro in due anni, una cifra “fuori mercato” per un teatro privato, incardinata, con due emendamenti, nella manovrina. «I decisori politici sapevano che serviva un qualche intervento compensativo per la mia avventura nella riapertura del teatro», dichiara l’attore. E più oltre: «Il ministro Franceschini ha cercato di dare una mano».
Eppure, almeno da una parte della “politica”, non viene alcuna conferma a queste dichiarazioni di “complicità”. Se di Padoan già si sapeva la contrarietà, Franceschini non fa dichiarazioni, ma parla una sua lettera, scritta il 1° giugno a polemiche già scoppiate. Rivolgendosi all’Agis per chiedere il ritiro delle dimissioni della Consulta dello Spettacolo, il ministro della Cultura dice con toni chiari: «Desidero ribadire con fermezza che il ministero non ha alcuna responsabilità rispetto all’emendamento approvato della Commissione bilancio della Camera per il quale è stato espresso parere contrario del Governo». E sottolinea: «Il momento cruciale del settore, impegnato a lavorare a un disegno di legge quadro per il riordino della materia», lasciando intendere che non intende derogare alle regole uguali per tutti.
Proprio sul rispetto delle regole tornano anche i teatri attraverso le associazioni che li rappresentano, Agis e Federvivo dove sono raccolti i teatri, le fondazioni liriche, la danza, i circuiti. Carlo Fontana, presidente Agis, parla di «necessità di interventi improntati a scelte equilibrate e trasparenti».
Più netto Filippo Fonsatti, direttore dello Stabile di Torino, ma qui in qualità di presidente di Federvivo: «Quando si profilava un’assegnazione di 2 milioni di euro al Teatro Eliseo, con l’Agis contenemmo le perplessità. Pur nel mancato rispetto delle pari opportunità pareva un intervento una tantum al secondo palcoscenico della Capitale per evitarne la chiusura. Ma i quadruplicati 8 milioni “ad personam” interferiscono con le regole di assegnazione dei contributi. Al cospetto di questa incredibile cifra, suona un po’ stonato anche l’aumento del 10% (38 milioni di euro) del Fus, il finanziamento complessivo allo Spettacolo. Perché non creare un fondo speciale, a cui tutti i teatri di prosa in difficoltà possano attingere? Infine quando Barbareschi parla di “salvezza dell’Eliseo e sconfitta nostra” rispondiamo che continueremo a batterci per leggi che garantiscano a tutti, non solo ad alcuni “privilegiati”, trasparenza e meritocrazia».

Corriere 7.6.17
Teologia e psicoanalisi (lacaniana) Alleanza nel segno dell’umanesimo
di Marco Garzonio


Sono lontani i tempi di anatemi e diffidenze tra Chiesa e psicoanalisi. Oggi l’inconscio può essere ponte, non luogo di scontri. Scrive Pierangelo Sequeri: «Tra istituzione religiosa e istituzione psicoanalitica si è consolidato un assetto di reciproca convivenza, che fa largo spazio ad un atteggiamento di rispettosa distinzione degli ambiti e — persino — di virtuale ammissione di margini di cooperazione, nell’interesse di soggetti con speciali difficoltà proprio nell’articolazione psichica dell’esperienza religiosa». Da agosto Sequeri è preside del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» per gli studi su matrimonio e famiglia. Ce lo ha voluto papa Francesco.
Al culmine d’un percorso quasi ventennale «teoria psicoanalitica» e «ragione teologica» sono spinte «dalla stessa parte», dice ancora Sequeri. All’inizio hanno giocato sensibilità e interessi di docenti della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale. A Milano si sono svolti corsi e ricerche sui rapporti tra esperienza religiosa e psicologia del profondo, con predilezione per Jacques Lacan perché meglio corrisponderebbe alle esigenze della fede, visti i riferimenti lacaniani al «nome del Padre». Un dialogo nei propositi non ristretto alla ricerca scientifica. Dai chiostri della Facoltà s’è prospettato un percorso di cultura e responsabilità civili da assumersi, cattolici e laici, nei confronti di un diffuso disorientamento in fatto di valori alti a livello individuale e sociale. Tanto che si parla oggi di una sorta di alleanza «nella difesa dello spessore ontologico dell’essere simbolico e dell’essere pratico», nel pronunciarsi «sul senso etico della psiche», scrive (ma lo sostiene da anni) Sequeri.
Quando Bergoglio lo chiamò a Roma, Sequeri era preside della Facoltà Teologica che Paolo VI volle a Milano fuori però dalle mura della Cattolica. Una sofferenza per Giuseppe Lazzati, allora rettore, che puntava a rilanciare l’ateneo dopo il Sessantotto attraverso un dialogo tra scienze umane e teologia. Corsi e ricorsi di storia e di fede!
Prodotto recente della scuola teologica milanese è il libro di Rossano Gaboardi « Un Dio a parte» . Che altro? Jacques Lacan e la teologia , pubblicato dalle Edizioni Glossa, l’editrice della Facoltà. È l’esito di una tesi di dottorato: oltre seicento pagine, rassegna densa di autori, testi, riferimenti a Lacan e seguaci e al teologo Hans Urs von Balthasar. Dalla presentazione al volume abbiamo tratto le citazioni di Sequeri intorno alla nuova «frontiera dell’umanesimo», sulla quale sembrano dunque attestate oggi Chiesa e psicoanalisi.
Poste le basi dalla teologia fondamentale, adesso la sfida potrebbe allargarsi e coinvolgere altre branche del sapere teologico, quali ad esempio la teologia pastorale e quella biblica. Si pone per primo infatti un problema di linguaggio, trasmissione, coinvolgimento sulle questioni che una corretta relazione tra fede e psicologia del profondo può generare. Se non diventano parola parlata, spezzata come pane della conoscenza, vissuta, condivisa, le parole dei teologi che studiano la psicoanalisi rimangono per pochi addetti ai lavori, autoreferenziali, lessico per iniziati.
La teologia biblica poi è l’esempio della fecondità di approcci molteplici. Numerosi specialisti già si servono di vari strumenti psicoanalitici per comprendere le Scritture, le componenti umane e storiche dei testi sacri, i pionieri della psicologia del profondo. Questi ultimi sarebbero fuori luogo in soffitta, anche se Lacan li ha criticati con un linguaggio al cui fascino la teologia fondamentale non sembra indifferente.
La rivoluzione di Sigmund Freud, ad esempio, si coglie se si ha il coraggio di affrontare con spirito libero e senza pregiudizi l’essere ebreo del fondatore della psicoanalisi. Un lettore della Bibbia può verificare come Talmud e modi di lettura del testo siano importanti per comprendere L’interpretazione dei sogni . L’ebraicità di Freud è un valore che avvicina in modo significativo il cultore della psiche, che cerca di decifrare i contenuti inconsci attraverso il mondo onirico, e il docente di critica testuale che fa parlare la Parola tramite simboli e immagini.
Discorso simile può essere fatto a proposito di Carl Gustav Jung. Dopo la pubblicazione del Libro Rosso , nel 2010, Jung va riconsiderato, in specie dai teologi: dall’apporto di questi potrebbe venire molto. Un esempio: il «processo di individuazione», cioè la conoscenza e la realizzazione di sé poggiata su riferimenti a Isaia e a Giovanni nel Libro Rosso , è versione moderna e attuale dell’Imitatio Christi , in termini psicologici. Non dimentichiamo che Jung fu psichiatra e in quanto tale ha vissuto in prima persona le sofferenze estreme della psiche che disputa con Dio, come Giobbe, o che del Creato coglie il vuoto, come Qoelet, e rischia di sprofondarci. Sul dolore del singolo e del collettivo fede e psicoanalisi insieme possono chinarsi e farsi prossimo all’uomo.

La Stampa 7.6.17
C’è una grotta in Liguria dove si nasconde la storia dei Neanderthal
Al via uno studio internazionale sul Dna
Paola Scola


È un «libro» dove leggere la storia dell’evoluzione. Dei primitivi che abitavano lì tra i 200 mila e i 40 mila anni fa. Nell’Arma Veirana, una grotta straordinaria nell’entroterra di Albenga, tra la ligure Erli e la cuneese Cerisola (minuscola frazione di Garessio), l’uomo di Neanderthal fece la sua casa. Lasciando il Dna. Finchè arrivarono le creature «anatomicamente moderne». I Sapiens.
Che cosa accadde è ancora da capire. Cioè se si incontrarono, se gli uni cacciarono gli altri o se ci fu una «ibridazione». Domande alle quali vogliono dare una risposta gli studiosi della campagna internazionale delle università di Genova, Montreal, Washington, Denver, Tubinga, Bologna e Ferrara, a cui guarda ora anche il Polo culturale di Garessio. «La caverna è a meno di 3 km da noi - spiega Sebastiano Carrara, responsabile del Polo garessino - e ci sentiamo coinvolti. Sabato incontreremo i referenti per un tavolo di lavoro sulla val Neva».
L’Arma Veirana, triangolo di due falesie appoggiate, custodisce molto materiale e, soprattutto, tracce degli ultimi neanderthaliani, secondo gli esperti. Fabio Negrino, dell’ateneo genovese, ricercatore di Preistoria e Protostoria, uno degli otto professori e titolare della concessione di scavo, spiega : «La grotta racconta del passaggio dal Paleolitico al Neolitico. Di cacciatori e raccoglitori, che si spostarono. Lasciandoci centinaia di frammenti di ossa, grasso cotto, strumenti di pietra». L’uomo di Neanderthal si nutriva di carne, anche cotta, come dimostrano i resti di grasso colato. Quasi fosse una cucina. E le tracce di cervi e cinghiali macellati, catturati con il «corpo a corpo», lance e punte. «Poi ci fu una rivoluzione umana, tecnologica e culturale - rimarca Negrino -. Le frecce, per esempio, scagliate non con un arco, ma con un propulsore».
Un’altra particolarità della caverna è che si trova nell’entroterra e non verso la costa. In Piemonte ce n’è solo un’altra simile: la «Ciota Ciara» sul Monte Fenera, in val Sesia. Ma è nell’Arma Veirana che gli esperti cercano, per ora, di decodificare millenni di storia. E le campagne di studio riprenderanno quest’estate.
I neanderthaliani hanno lasciato il loro Dna. Che potrebbe essere esaminato nell’istituto internazionale «Planck» di Lipsia, specializzato in paleogenetica, cioè l’analisi del materiale genetico proveniente da antichi organismi. Il direttore, Svante Pääbo, per primo ha studiato con la biologia molecolare il Dna di mummie egizie e quello di Otzi (l’uomo preistorico del Tirolo). E ha pure ipotizzato di ricostruire il patrimonio genetico complessivo dell’uomo di Neanderthal. «Ora potrebbe stabilirsi un contatto diretto con l’équipe», ipotizza Negrino. Archeologi e paleontologi hanno rispolverato scovolini, lampade e quanto occorre per «leggere» Arma Veirana. Pronti a tornare al lavoro.