il manifesto 4.6.17
Hitler, discepolo di Platone
Storia
moderna. Contro la tradizione di Humboldt e Schlegel, che situava la
culla della civiltà in oriente, il nazismo ne assegnò la Urheimat al
nord: Johann Chapoutot, «Il nazismo e l’antichità», Einaudi
di Francesco Benigno
Nel
prologo di Olympia, il lungometraggio che Leni Riefenstahl girò sui
giochi olimpici di Berlino, nell’agosto 1936, una fitta bruma lentamente
si dissolve e ne emergono i lineamenti di un tempio greco; poi, a
seguire, le immagini di statue di marmo antico, figure di dei e di eroi.
Lo sguardo scivola sulle superfici bianche e mostra come, pian piano,
la pietra marmorea si animi trasformandosi in carne viva: in
particolare, la figura del discobolo, copia del famoso originale in
bronzo del V secolo a.C. (andato perduto) di Mirone, si trasforma nel
decathleta tedesco Erwin Huber.
La regista non indugia sul
discobolo per caso. Tutti sapevano quanto Hitler fosse affascinato da
quella statua e infatti in quello stesso anno, superata la concorrenza
del Metropolitan Museum di New York, comprò il famoso «discobolo
Lancellotti», straordinaria copia romana di età antonina (II sec. d. C.)
che venne esposta al pubblico alla Glyptothek di Monaco come dono del
Führer al popolo tedesco. Nell’importante discorso di presentazione,
Hitler sostenne che «potremo parlare di progresso solo quando
raggiungeremo tale bellezza e se possibile quando l’avremo superata».
Il
libro del giovane e brillante storico francese Johann Chapoutot, Il
nazismo e l’antichità, appena uscito da Einaudi (traduzione di Valeria
Zini, pp. 526, euro 34,00) si interroga sulle ragioni profonde della
fascinazione nazista per l’antichità classica: molto più significativa
di una semplice predilezione estetica, essa si rivelò, com’è noto, parte
del nocciolo duro dell’ideologia razzista.
L’impostazione di
Chapoutot segna, tuttavia, una svolta culturale: la storiografia
contemporaneistica, infatti, più che indagare l’inclinazione nazista per
la civiltà classica, ha preferito rivolgersi all’attrazione culturale
per il magico e il superomistico che venne alimentata da un Medioevo di
maniera e dai programmi di ricerca archeologica dell’Ahnenerbe, la
società scientifica creata da Himmler per indagare, tra antiche rune e
resti di sacrifici celtici, le radici dell’identità ariana. Hitler,
allievo dei gesuiti e accanito lettore di storia antica, rideva tuttavia
della passione per gli antichi Germani dalle lunghe barbe fluenti,
vestiti di pelli di animali e ricoperti dal tradizionale elmo con le
corna; e non esitava a definire la germanomania di Himmler una
propensione völkisch, popolareggiante, insieme kitsch e
piccolo-borghese: egli «vuol farle proprio vedere queste capanne di
fango e cade in ammirazione davanti a ogni coccio d’argilla e ad ogni
ascia di pietra che gli capita fra i piedi. In tal modo non facciamo che
proclamare a tutto il mondo che, quando la Grecia e Roma avevano ormai
raggiunto un livello culturale elevatissimo noi eravamo bravi soltanto a
lanciare asce di pietra o a starcene accovacciati intorno a fuochi
all’aperto».
Con grande efficacia, Chapoutot mostra come queste
parole fossero rese possibili da un vero e proprio programma di
annessione culturale dell’antichità classica, basato sul mito
dell’appartenenza etnica comune di greci, romani e tedeschi a un’unica
razza ariana. Venuti dal nord, gli ariani avrebbero a più riprese
portato la linfa necessaria alla civiltà classica, e se i dori avevano
rivitalizzato un mondo miceneo, in origine ariano ma poi in decadenza,
anche i romani – sia pure meno perfettamente – sarebbero stati rianimati
dai trasferimenti delle popolazione nordiche, con gli occhi azzurri e i
capelli biondi. Ma era una arianità opportunamente rivisitata: infatti,
mentre la tesi classica, originata dalla scoperta del sanscrito e dei
legami linguistici con le lingue europee, allocava sulle rive del fiume
Indo l’originaria formazione della civiltà detta appunto indo-germanica,
il nazismo, riprendendo alcune tesi nazionaliste tardo-ottocentesche,
aveva elaborato la teoria di una comune derivazione ariana di tutte le
grandi civiltà: discendenti come rami di uno stesso tronco razziale,
cresciuto nel nord europeo e poi propagatosi a sud, sulle rive del
Mediterraneo.
entre tutta la illustre tradizione culturale tedesca
fondata da Humboldt e da Friedrich Schlegel aveva sostenuto che la
culla della civilizzazione era in oriente, ora il nazismo proponeva
l’idea di una razza superiore che aveva la sua Urheimat, o patria
originaria, nell’Europa del Nord, tra la Germania settentrionale e la
Scandinavia, le stesse terre dove si voleva fosse situata la perduta
Atlantide o la mitica Ultima Thule.
Il decisivo apporto ariano,
contributo prometeico all’umanità, non si sarebbe dunque compiuto
mediante il classico tragitto da oriente ad occidente – quello stesso
percorso che Hegel aveva assegnato al Weltgeist, lo spirito del mondo –
ma secondo un movimento da nord a sud: non ex oriente lux bensì ex
septentrione lux. L’invenzione nel 1936 della cerimonia dei 3400
tedofori che in dodici giorni portarono a staffetta la fiamma olimpica
dalle rovine dell’antica città greca al villaggio tedesco frontaliero di
Hellendorf, e poi a Berlino, acquista così il suo vero senso.
La
fiamma della civiltà (in Grecia si usava, partendo per una nuova
colonizzazione, portare con sé la vampa del focolare) ripercorreva ora a
ritroso il sentiero dell’emigrazione ariana fino a toccare finalmente
la sua originaria sorgente settentrionale.
Lo scenario ideologico
in cui tutto ciò si svolgeva era dominato dalla lotta millenaria delle
razze, una costruzione mitica cui l’accademia tedesca, rapidamente
arresasi alle pressioni politico-ideologiche del regime, fu chiamata a
dare legittimazione, convertendo la narrazione favolistica in discorso
pseudo-scientifico: a questa trasmutazione ignobile concorrevano – oltre
alla storia – la biologia e, sia pure con qualche resistenza in più, la
filologia e le scienze dell’antichità. Il tradizionale filo-ellenismo
della cultura tedesca veniva così reinterpretato in chiave razziale
attraverso un gioco di polarizzazioni e di schiacciamenti
spazio-temporali: da una parte Platone, il filosofo elitario
teorizzatore di una repubblica oligarchica di filosofi soldati e di
produttori e dall’altro Socrate riletto come «socialdemocratico
internazionalista»; da una parte Cristo, profeta dell’arianesimo e
dall’altra l’ebreo Paolo, «commissario» bolscevico del Cristianesimo,
sabotatore dell’impero romano in nome dell’uguaglianza degli uomini di
fronte a Dio; su un versante Sparta, modello dello stato razziale e
eugenetico, sull’altro Atene, portatrice dell’infezione democratica; di
qui l’Europa fulcro della grande civiltà della Herrenrasse, la razza
superiore, e di là l’Asia barbara, focolaio della confusione delle
razze, del crogiuolo ellenistico, del mescolamento etnico, della
degenerazione.
La visione del regime, espressa in testi
scientifici, manifesti propagandistici e manuali scolastici, delinea un
cosmo nettamente diviso: da un lato il mondo chiaro apollineo e nordico
della «magnifica bionda bestia avida di preda e di vittoria», dall’altra
l’oscuro e sfrenato universo dionisiaco da cui nasce il complotto
giudeo-cristiano. Passato e presente si fondono confondendosi, e la
storia svela la sua fondamentale funzione performativa: le guerre
puniche combattute da Roma contro la cripto-semitica Cartagine si
reincarnano nelle guerre del III Reich e l’accanita difesa della VI
armata del generale Paulus nella battaglia di Stalingrado è assimilata
all’eroica resistenza di Leonida alle Termopili, in un gioco di specchi
senza fine in cui Hitler è Scipione o Augusto e Stalin Annibale o Serse.
Solo
prendendo sul serio questa visione metastorica è possibile spiegare
l’atteggiamento di Hitler e della classe dirigente nazista nell’ultima
fase della guerra, quando il regime si lanciò prima nella strategia
della terra bruciata, poi in una sorta di cupio dissolvi, tramandataci
da un altro importante storico, Joachim Fest, come pulsione nichilista.
Già
in articolo apparso nel 2007 sulla «Revue Historique» e intitolato
«Comme meurt un empire», e ora in questo suo ultimo libro, Chapoutot
offre una spiegazione più convincente: Hitler credeva di ritrovarsi
protagonista di una lotta millenaria che avrebbe proposto, ciclicamente,
sempre gli stessi protagonisti: così, se non era possibile sterminare
il proprio nemico biologico, bisognava almeno escludere ogni marcia
indietro, ogni ritirata, e acconciarsi a morire come si deve, lasciando
ai posteri la testimonianza di rovine altrettanto grandi e foriere di
insegnamenti come lo erano state quelle greche e romane.
Il
rovinismo è un programma escatologico, equivale al rendersi immortali
attraverso la propria morte. Se la Germania, nuova Roma, non poteva
trionfare doveva bruciare, come la città di Nerone, perché la storia
dello scontro tra le razze sarebbe – secondo l’ideologia nazista non
ancora dovunque tacitata – continuata ancora, mossa da un eterno
ritorno.