mercoledì 21 giugno 2017

SULLA STAMPA  DI MERCOLEDI 21 GIUGNO

NELLA MISCELLANEA QUI
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il manifesto 21.6.17
Note alla fine del secolo
Saggi. Tra pubblico e privato. «Diari 1988-1994» di Bruno Trentin per le Edizioni Ediesse
Aldo Garzia

Non dev’essere stato facile per Marcelle Marie Padovani, storica corrispondente del Nouvel Observateur, decidere di dare via libera alla pubblicazione dei diari di suo marito Bruno Trentin (Pavie 1926-Roma 2007). La scrittura diaristica è infatti per definizione intimista, una sorta di dialogo solitario con se stessi quasi psicanalitico. In più, può svelare tratti dell’autore che stridono con il suo personaggio pubblico, nel caso di Trentin una figura di assoluto prestigio del sindacalismo e della politica europei: giovanissimo partigiano, deputato comunista già nel 1963, poi segretario della Fiom, poi ancora segretario negli anni cruciali 1988-1994 della Cgil e infine per una legislatura parlamentare europeo. Il nome di Trentin è dunque stato legato per decenni alle vicende della Cgil, dove lo aveva chiamato Vittorio Foa all’Ufficio studi nel 1950, animandone l’azione e l’elaborazione.
Proprio la forma diaristica dei testi contenuti in Diari 1988-1994 (a cura di Iginio Ariemma, pp. 510, euro 22, edizioni Ediesse) può farli apparire crudi nella forma e nei giudizi che contengono su protagonisti e passaggi della storia della sinistra. Valutazioni lapidarie e più o meno critiche sono riservate a tanti protagonisti di quegli anni, tra cui Pierre Carniti, Luciano Lama, Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti (a dividerlo verso quest’ultimo ci sono oltre ai rilevanti dissensi politici e di pratica sindacale le diversità di temperamento e di comportamento che lo irritano particolarmente).
ANCHE CON IL MANIFESTO Trentin non è tenero. Scrive per esempio il 24 dicembre 1990: «Mi sono indignato per i commenti (fra il delirio estremista, il gioco mondano e la lirica dannunziana) di quasi tutti i redattori del Manifesto. Non capisco neanch’io il perché. Dovrei averci fatto il callo». Qualcuno dei destinatari delle frecciate corrosive se ne rammaricherà, ai lettori viene data però l’opportunità di conoscere con questi diari anche «l’altro» Trentin: l’uomo con i suoi umori più privati, gli assilli esistenziali, le depressioni, le letture a tutto campo, le linee di ricerca più recondite, l’instancabile impegno politico e culturale condito anche da solitudine. Il che rende il ritratto di Trentin, a dieci anni dalla morte, grazie proprio alla pubblicazione di questi diari, più completo e meno scontato.
A colpire fin dalle prime pagine è il cruccio principale di Trentin. Lui è consapevole della crisi che vive alla fine degli anni ottanta la modalità di azione e organizzazione del sindacato in quanto tale, non solo della Cgil. Superamento del taylorismo e avvio dei processi di globalizzazione mettono infatti a dura prova il sindacato. A fine agosto 1988, mentre si stanno concludendo le vacanze tra le amate montagne di San Candido, scrive: «Volontà di interrompere una parentesi, di riaffrontare il toro per le corna (la crisi della Cgil)… Sono assillato dall’idea di formulare correttamente i fini storici di un sindacato di classe (solidaristico)». Subito dopo annota con amarezza i pericoli di burocratizzazione del sindacato e di perdita di senso della sua rappresentanza.
La responsabilità che gli è capitata addosso, dopo la rapida fine della segreteria di Antonio Pizzinato, è particolarmente gravosa. Lui prova a rispondere in modo non burocratico al dilemma sul destino del sindacato, parlando di programmi, dimensione europea dell’azione interrogando l’organizzazione sulle sue funzioni, accentuando la lotta politica contro la corrente di «Essere sindacato» capeggiata da Fausto Bertinotti verso cui non sarà mai indulgente ma pure nei confronti di quella socialista di Ottaviano Del Turco.
NEGLI ANNI DELLA SUA SEGRETERIA IN CGIL, Trentin cercherà in tutti i modi di avviare l’autoriforma del sindacato ridisegnandone la natura come «sindacato dei diritti» e non solo del lavoro, proponendo conferenze programmatiche (se ne farà una a Chianciano che però lo deluderà per gli esiti molto modesti) che servissero a fare i conti con le nuove problematiche dell’iniziativa sindacale su scala europea.
L’anno più terribile  per Trentin è quello che va dal luglio 1992 al luglio 1993, quando deve fare i conti con il governo Amato e le emergenze della situazione economica. Si piega con molta inquietudine a firmare l’accordo tra sindacati e governo del 31 luglio 1992 che abolisce la scala mobile e sterilizza la contrattazione a favore di una impopolare politica dei redditi di cui non è per niente convinto. Perché lo fa? Scrive Trentin: «Mi sono trovato assediato… La divisione dei sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico». Il senso di responsabilità e il timore della fine di ogni unità sindacale lo spinge a siglare l’accordo lasciando però liberi gli organismi direttivi della Cgil di convalidare o meno l’intesa. Trentin si dimetterà da segretario lo stesso 31 luglio, poi a settembre le sue dimissioni verranno respinte dal Direttivo Cgil, provocando – scrive lui stesso – «un inferno dentro di me».
LA PERIODIZZAZIONE 1988-1994 di questi diari fa rivivere la drammaticità dei fatti epocali che si susseguono in quella fase: sconfitta del tentativo riformista di Mikhail Gorbaciov a Mosca, crollo del Muro di Berlino, crisi irreversibile del «socialismo reale», avvio della trasformazione del Pci fino all’attuale Pd, guerra del Golfo, rivoluzione tecnologica, ulteriore perdita di ruolo e rappresentanza del sindacato, vittoria elettorale della destra berlusconiana. Quelle di Trentin sono di conseguenza pagine dense, piene di spunti e amare riflessioni. Aiuta nella lettura la suddivisione in capitoli insieme alla guida che ci propone il curatore Ariemma con le sue introduzioni ragionate.
Com’era sua abitudine, le note di Trentin uniscono giudizi sui fatti che scorrono a pensieri più lunghi e profondi. Sul destino del «socialismo reale» non ha dubbi fin dai fatti di piazza Tienanmen a Pechino del 1989: «Si è privilegiata, in modo astratto e senza considerarne i limiti, le lotta per l’equità non quella per la libertà e contro l’oppressione… il comunismo da movimento reale di trasformazione della società è diventato orizzonte ultimo e fine della storia». Sulla vittoria di Silvio Berlusconi scrive: «Il berlusconismo mette in luce la drammatica scissione tra l’autonomia del politico praticata da una sinistra balbettante e il contenuto concreto e le forme specifiche che assumono i conflitti di interesse e di potere nella società civile».
Quando le vicende internazionali si riflettono in Italia con la «svolta» proposta da Occhetto, non ha alcuna tentazione a far parte del fronte del no che ha i propri battistrada in Pietro Ingrao, Lucio Magri, Sergio Garavini, Aldo Tortorella e Armando Cossutta. Pur segnalando la povertà politico/culturale che accompagna la proposta di Occhetto e non diventandone un protagonista per la sua collocazione in Cgil, la battaglia contro il cambiamento di nome e simbolo gli appare anch’essa non dimensionata alla portata degli eventi. In alcune riunioni proporrà – inascoltato, come gli capiterà spesso – di chiamare ciò che nascerà dalle ceneri del Pci «partito del lavoro» o «partito dei lavoratori». Quando si libererà dagli impegni in Cgil e lascerà la segreteria a Sergio Cofferati, farà parte – insieme a Giorgio Ruffolo, Alfredo Reichlin e altri – del gruppo che deve stendere la carta di intenti, il «programma fondamentale» del nuovo partito. Per Trentin, sarà l’ennesima delusione.
IL CABOTAGGIO DELLA POLITICA QUOTIDIANA appare ai nuovi gruppi dirigenti più rilevante rispetto alla necessità di occuparsi dei «fondamentali». Trentin, lo si apprende dagli appunti sulle sue molteplici letture filosofiche e letterarie di quel periodo, va in direzione opposta. La sua elezione al Parlamento europeo dal 1999 al 2004, dove tornerà a occuparsi di lavoro e di contrattazione, equivale infine a un esilio che forse stempera le delusioni dell’uomo e del politico Trentin che torneranno a dominarlo negli ultimi anni di vita fino all’incidente a San Candido nel 2006, che ne causò la morte l’anno dopo.
Dalla lettura dei diari emerge la traiettoria originale di Trentin che negli ultimi anni sembra tornare alle origini della sua cultura azionista come riposta alla crisi del comunismo (il padre Silvio Trentin era stato tra i fondatori del Partito d’azione e lui stesso ne aveva fatto parte). Le sue teorizzazioni dell’ultimo periodo sul «sindacato dei diritti» e sul socialismo moderno mettono in primo piano libertà ed eguaglianza delle opportunità in una concezione libertaria della politica e della società. Il pensiero e l’azione di Trentin diventano così la felice sintesi dell’incontro tra il meglio della cultura marxista italiana e del liberalismo atipico con Antonio Gramsci e Piero Gobetti punti di riferimento. Bisogna ripartire da lì, sembra dirci Trentin con i suoi diari.

il manifesto 21.6.17
La tentazione che frena la sinistra
Norma Rangeri

Non è che l’inizio, l’inizio di una perigliosa navigazione, però l’affollata assemblea di domenica al teatro Brancaccio ha riunito le isole dell’arcipelago della sinistra, quelle che nel referendum del 4 dicembre hanno vissuto e condiviso la felice battaglia per la Costituzione.
Accanto a una straripante partecipazione, molto importante per l’avvio dell’impegnativo cammino, sono emersi tuttavia forti accenti identitari, una scarsa propensione all’unità.
Anzi, di più: l’impressione netta è che per il momento i carri della carovana della sinistra in costruzione siano due. Orientati verso direzioni diverse e distinte.
Forse potrebbero incontrarsi per strada, ogni tanto, per convergere su alcune battaglie politiche e sociali comuni.
Ma se si votasse domani la spinta prevalente sarebbe a favore di due liste separate, il contrario di quel che i due promotori, Anna Falcone e Tomaso Montanari, intendono perseguire con la loro coraggiosa iniziativa.
Sarebbe un esito molto negativo.
Naturalmente non per chi pensa che venti deputati e un bottino elettorale del 3% siano l’obiettivo da raggiungere, ma sicuramente per chi ancora spera in un’aggregazione larga, con l’ambizione di oltrepassare i confini fin qui tracciati dagli attori rimasti in campo negli ultimi, drammatici anni della crisi.
L’elenco dei presenti all’incontro fa capire che le «isole» sono tantissime.
I promotori Montanari e Falcone di Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, Sinistra Italiana, i Rifondaroli, i fuorusciti dal Pd e ora Art.1- Mdp (pochissimi), e D’Alema, Castellina, Civati, Ingroia, de Magistris (Claudio). Storie e vite politiche molto diverse tra di loro, ma non per questo meno animate da una viva e giusta convinzione: che c’è un mondo – piccolo, medio o grande che sia – oltre il Partito democratico.
Però quello che si notava di più era proprio l’assenza dei tanti che in questa lunga traversata nel deserto della crisi, hanno voltato le spalle alla sinistra decidendo di non votare. Anche se c’erano esempi, esperienze portate al microfono da nuove generazioni, ragazze e ragazzi dei movimenti sociali.
E però nel rosso teatro viveva un terzo elemento, che si è mostrato ai presenti platealmente. La contestazione. Il rifiuto.
Tangibile quando ha parlato il senatore Miguel Gotor, uscito dal Pd con Bersani: le sue parole sono state coperte dalla sala rumoreggiante, contenuta a fatica dagli organizzatori. L’episodio ha messo in rilievo il sentimento prevalente della riunione: mai un centrosinistra con Renzi, tenere alla larga quelli del Pd perché hanno contratto un «virus».
Ma se un ex, un fuoriuscito dal Pd viene a dire che si riconosce nei valori e nei contenuti dell’assemblea, non dovrebbe essere considerato come un nemico del popolo. Quindi un ostacolo in più. Bensì il segno tangibile di un meritato consenso.
L’immagine offerta al Brancaccio dalla platea e dagli intervenuti al dibattito, fa dunque risaltare, insieme alla vivacità e ai colori di una radicata presenza nella società, insieme all’orgoglio di una militanza tanto preziosa, i punti più deboli di una «alternativa» (non di governo) di sinistra: la mancanza di una reale unità; lo scarso interesse verso chi negli ultimi anni ha deciso di non impegnarsi, perché disilluso e poco attratto dalle «minestre riscaldate»; la prevalenza di quelli convinti di avere la «giusta» linea.
E quindi come uscirne? Non avendo la bacchetta magica possiamo solo avanzare qualche suggerimento, sul filo dei discorsi fatti in passato sostenendo che «c’è vita a sinistra».
Innanzitutto non dovrebbero prevalere atteggiamenti divisori, perché se è corretto sostenere che con Renzi non c’è futuro a sinistra, è sbagliato invece porre paletti o veti nei confronti di chi ha rotto, con dolore e con fatica, con il proprio passato (penso a Bersani e ai bersaniani).
Poi ognuno dei «costruttori per l’alternativa», dovrebbe essere in grado di dire, innanzitutto a se stesso, che non esistono questioni politiche irrinunciabili (tranne quelle legate ai valori e ai principi) e anche a questo serve una piattaforma programmatica.
Terzo punto, di conseguenza, bisognerebbe elaborare un programma politico economico e sociale per il Paese, sia sul breve che sul lungo periodo.
E, infine, last but not least, identificare una leadership, un punto di riferimento, preferibilmente femminile, capace di unire, mettere insieme, essere protagonista. La presenza dei leader è servita alla sinistra inglese e americana per riunire le forze sparse alternative, di sinistra, democratiche, riformiste. Va preso atto che oggi la politica, in Italia e nel mondo, si fonda anche sul leaderismo. Che non significa avere una persona sola al comando, come Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini.
La fantasia al potere è uno slogan che l’anno prossimo compie cinquant’anni, quanti ne sono passati dal 1968. Di quella fantasia ne abbiamo ancora un discreto bisogno, anche sul terreno della leadership che deve rappresentare un contenuto altrettanto forte e radicale.
Alla fine dell’estate questa perigliosa navigazione dovrebbe trovare l’approdo in una Costituente, come suggeriva su queste pagine Alberto Asor Rosa.
Ovvero il risultato, l’approdo di un processo largo e democratico che discute le forme, il nome, il simbolo di una forza, di una Nuova Sinistra. Una prospettiva per la quale lavoreremo per aiutare un esito felice di questo processo.

Il Fatto 21.6.17
Ho seguito la convention al teatro Brancaccio, io che di convention della sinistra ne ho viste tante, a partire dalla fondazione del Movimento per la Rifondazione comunista e ne ho ricavato la convinzione che i giudizi possono essere espressi da due punti di vista.
Da quello degli organizzatori della convention, il bilancio è senz’altro positivo. Le varie anime della sinistra si sono presentate all’appuntamento, compreso Massimo D’Alema. Certo, sul piano meramente organizzativo, quando si smetterà di pensare solo alla sequenza orizzontale di interventi per lo più identici e si cercherà di costruire appuntamenti tematici e/o di svisceramento di alcuni temi cruciali – al tempo dei Social forum si discuteva ore prima di definire le modalità di un meeting pubblico – sarà sempre troppo tardi. Così come quando si recupererà un di più di trasparenza, magari illustrando a inizio riunione l’elenco di chi dovrà intervenire spiegandone chiaramente i criteri di selezione.
La riunione è riuscita soprattutto per un motivo tutto politico: ha collocato l’iniziativa di una sinistra alternativa al Pd al centro dello schiacchiere, ha costretto le altre propensioni a uscire maggiormente allo scoperto e ha dinamizzato la discussione. Tanto che osservatori speciali, come Paolo Mieli sul Corriere della Sera, hanno subito avvertito dei rischi di una sinistra troppo “estremista” e incapace di pensare alle dovute alleanze. Critiche che il Corsera muove a qualunque cosa si muova a sinistra dall’inizio degli anni 90.
E’ stato un successo, invece, rimettere intorno al tavolo tutti, da Sinistra italiana a Rifondazione comunista, dal Mdp di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema a Possibile di Pippo Civati passando per la sempre esaltata “sinistra sociale”, Fiom in testa. L’operazione, allo stesso tempo, ma sempre restando all’interno delle motivazioni e delle attese di chi l’ha promossa, sconta un limite evidente: l’elettoralismo. Tutta l’assemblea è stata pervasa da questo unico aspetto: mettersi insieme in vista delle elezioni, costruire una lista competitiva, “a due cifre se no non serve”, come improvvidamente annunciato da Tomaso Montanari, promotore, insieme ad Anna Falcone, dell’incontro. Visti i tempi, si può legittimamente sperare in una chance elettorale alternativa al Pd e non lasciare una parte del campo politico scoperta. E da questo punto di vista, non fa nessuno scandalo che si mettano insieme tutti quelli che ci stanno e che condividono un programma comune, anche se si chiamano Massimo D’Alema. Vedano loro se riusciranno a costruire un programma coerente e convincente, se il progetto sarà davvero alternativo al Pd, e se sarà dotato di appeal elettorale. In fondo, è legittimo tentare, come ha tentato, con qualche successo e qualche ammacco, Jean Luc Melenchon in Francia.
Il problema, ecco l’altro punto di vista, è se davvero ci salveranno le scommesse elettorali. Sul piano della stretta emergenza sembra di sì: il razzismo di Salvini, la demagogia di Renzi e anche l’involuzione del M5S chiedono questa risposta. Ma servirà? Anche se si dovesse affermare una forza a due cifre, il 10%, a sinistra del Pd, al di là della naturale soddisfazione per una sinistra che riequilibra i rapporti di forza parlamentari, che impatto strutturale potrebbe avere questo dal punto di vista sociale? In oltre venti anni di fortune alterne sul piano elettorale – chi scrive ha vissuto anche la fase del Prc all’8% quando alla sua destra c’erano i Ds e non il Pd di Renzi – la società italiana si è sgretolata sul piano dei vincoli di solidarietà e sul piano della coscienza civile. Pensare che il voto del 4 dicembre sul referendum costituzionale abbia invertito questa tendenza è una illusione pericolosa che contribuirà a commettere nuovi e più gravi errori.
Più legittimo ipotizzare che un buon risultato, a cui per forza di cose fare da contraltare un cattivo risultato del Pd, servirebbe a mettere definitivamente in crisi Matteo Renzi, scalzandolo dalla segreteria Pd, per riaprire, così, i confini delle alleanze politiche. Del resto, non governano insieme al Pd in molte città anche quelle forze di sinistra-sinistra che sul piano nazionale dicono “mai con il Pd”? Lo scopo di fondo sembra oggi essere questo e la vicenda di Giuliano Pisapia lo dimostra. Anche per questo, al momento, sembra più probabile che si allestiscano due liste di sinistra, una alleata al Pd e l’altra no, a meno che non sia Renzi a risolvere il problema chiudendo le porte a ogni dialogo con Pisapia e compagni.
Anche per questo la sfida per qualsiasi sinistra si pone direttamente sul terreno della ricostruzione sociale del proprio agire e della riedificazione culturale della prospettiva – si veda il lamento di Bruno Trentin raccolto nei suoi diari per capire quanto tempo è stato perduto. Sociale, per capirci, significa quanta società si struttura attorno a valori di solidarietà e mutualismo, quanti legami si tengono vivi, nelle lotte, nelle vertenze, ma anche nella vita quotidiana, quanto riparo riesce a essere edificato contro l’austerità e la crisi incessante dell’economia globale. “Se otteniamo un buon risultato elettorale, poi ci occuperemo meglio anche di questo” propongono in tanti. La storia passata non conferma questa ambizione.
Sul terreno sociale, infatti, a parte esperienze generose di sindacalismo conflittuale e ampie aree di solidarismo cattolico o comitati locali ed esperienze, ancora solo esemplari, di mutualismo economico e civile, non lavora e non si interroga nessun frammento della sinistra frammentata. Recentemente Sinistra Italiana è parsa scoprire il problema ma solo istituendo un fondo di sostegno (peraltro finanziato con soli 100.000 euro) senza andare oltre. Se n’era parlato all’interno della Coalizione sociale promossa dalla Fiom di Landini, ma è stato solo un dibattito finito troppo presto.
Se davvero si vuole risalire la china, dal punto di vista storico, sociale e culturale, la questione è posta da tempo e i protagonisti principali del dibattito di quel che resta a sinistra ne sono anche consapevoli. Salvo, però, dedicare tutte le proprie energie alla scommessa elettorale, magari fine a sé stessa e senza prospettive. Qui sta il limite del Brancaccio e delle iniziative analoghe. Qui, il nodo dei compagni di strada che si scelgono, funzionali alle strade che si vogliono intraprendere. Se l’orizzonte è tutto elettorale, allora è chiaro che la sinistra può riunirsi anche con D’Alema e compagni; se la prospettiva fosse quella della ricostruzione del tessuto sociale e delle idee necessarie a consolidarlo, la compagnia sarebbe tutt’altra. E forse non si porrebbe nemmeno il problema delle elezioni.

il manifesto 21.6.17
Gotor: «Non siamo zerbini del governo. Renzi arrabbiato? Gli passerà»
Intervista al senatore di Mdp. Fra noi dobbiamo isolare le posizioni settarie, puriste, frontiste, quelle dell’autosufficienza. Ci sarà una lista alla nostra sinistra? Saranno i trozkisti dell’Illinois. «Ora proveremo a unire Pisapia con il Brancaccio. In parte è possibile. È anche utile che sia una parte»
Daniela Preziosi

ROMA Senatore Miguel Gotor, avete votato per la vostra mozione contro il ministro Lotti. Se votavate quella della destra il governo rischiava di andare giù.
La nostra mozione era l’unica a descrivere la relazione stretta che c’è tra la vicenda Marroni e la vicenda Lotti. Le altre erano insufficienti o maramaldeggianti: se la prendevano con il vaso di coccio Marroni e lasciavano in pace i vasi di ferro.
In aula ha fatto un discorso duro contro Renzi e contro un ministro del vostro governo.
Ho usato parole vere. La vicenda Consip è una spia in grado di rivelare la gestione del potere a km zero, le caratteristiche del sistema renziano nel suo momento culminante, quello di identità fra segretario Pd e premier.
Gentiloni e Renzi si sarebbero molto arrabbiati.
Non si preoccupi, passerà.
La settimana scorsa Mpd non ha votato la fiducia. Alla camera non avete votato la legge sui parchi. Quello Gentiloni è ancora il vostro governo?
Far parte di una maggioranza non significa essere degli zerbini. Abbiamo sempre posto il problema della discontinuità. Stiamo in maggioranza finché ci sarà lo spazio di dire quello che pensiamo. Non ci faremo tappare la bocca.
Il senatore Marcucci, del Pd, chiede una verifica di governo.
Su legalità e questione morale siamo pronti a ogni verifica.
Cosa potrebbe essere in concreto una verifica di governo?
Lo chieda a lui. Marcucci era deputato liberale nel 1992, è un archeologo di questo parlamento. E ’verifica’ è un termine tipico della Prima repubblica.
Gotor, è il suo momento combat. Anche al Brancaccio le è toccato fare un intervento difficile. La vostra maggioranza non vi tollera, i vostri futuri alleati vi fischiano.
Siamo consapevoli che in questa fase facciamo politica su una faglia, ma ne siamo convinti. Sull’assemblea del Brancaccio per amore di verità voglio dire che ci sono stati fischi, ma anche tanti consensi. Io sono rimasto lì per quattro ore. Erano in tanti in quella platea a rendersi conto che bisogna fuggire dal settarismo, dal minoritarismo e dal purismo.
Loro però vogliono fuggire soprattutto da Giuliano Pisapia.
È importante non partire dai nomi, che diventano simboli impropri, ma dai programmi delle cose da fare come sinistra di governo. Bisogna stare con la testa e il cuore largo. Poi, creda, sono il primo a sapere che una lista alla nostra sinistra ci sarà. Ma preferisco che sia quella dei trozkisti dell’Illinois e non quella di un mondo, quello del Brancaccio, che in parte è anche la nostra casa.
Quindi nessuna rottura?
Bisogna fare il possibile per evitarla e aprire contraddizioni. Bisogna tessere, nella chiarezza s’intende. Unità sì, ma non a tutti i costi. Il primo luglio noi, Mdp e Bersani, faremo un’iniziativa con Campo Progressista e Pisapia. La faremo «insieme», parola chiave di questa fase politica. E non possiamo che essere accoglienti. Nella chiarezza, ripeto.
A proposito di chiarezza. La prima contestazione al Brancaccioè stata quella di un sindacalista Cgil sul vostro mancato no ai voucher al senato.
Era un sindacalista? Mi dispiace. Ci si è disabituati al ragionamento. Si preferisce urlare. Al senato su fiducia e provvedimento si fa un voto unico. Se questo il sindacalista non lo sapeva, è grave. Se lo sapeva, è un provocatore.
Perché un provocatore? Magari semplicemente vi chiedeva di far cadere il governo.
Non abbiamo votato la fiducia al governo di cui siamo parte su una questione centrale, quella dei voucher. È un gesto forte. Quel sindacalista dovrebbe sapere che se avessimo votato contro la manovra avremmo votato, ad esempio, contro i finanziamenti alle regioni terremotate. Ci saremmo comportati da irresponsabili.
Quelli di Sinistra italiana, vostri possibili alleati, hanno votato no. Sono irresponsabili?
Sinistra italiana fa le sue scelte.
Se fosse stato un voto solo sui voucher avreste davvero mandato sotto il governo?
Sì. E infatti per questo hanno fatto un decreto omnibus.
Prima il Brancaccio, poi al senato. Per Mdp è Gotor l’uomo delle missioni delicate?
Sono una persona chiara e netta. Al Brancaccio ero tranquillo. È chiaro che c’è chi vuole strumentalizzare le nostre divisioni: ci sono molteplici interessi che vogliono rendere difficile il nostro percorso unitario. E sono interessi del campo renziano. Dobbiamo evitare una spaccatura a sinistra per non rafforzare le destre, il M5S e Renzi.
Crede davvero che sia possibile tenere uniti Pisapia e l’assemblea del Brancaccio?
Dobbiamo provarci. Credo che in parte sia possibile e utile. Ed è anche utile che sia una parte. Dobbiamo isolare le posizioni settarie, puriste, frontiste, che puntano all’autosufficienza della sinistra.
La relazione introduttiva del prof Montanari era molto tranchant. Le è piaciuta?
Mi è piaciuta la parte programmatica, meno quella politica: c’era qualche ingenuità. Ma ci lavoriamo: lunedì sera ero con lui a Firenze a parlare di Consip. Ed eravamo in perfetta sintonia.

il manifesto 21.6.17
Portare in parlamento il mondo della sinistra e di chi non vota più
Sinistra. Costruire nuova rappresentanza fuori dai giochi autoreferenziali della politica
Tomaso Montanari

C’è una spaccatura profonda, a sinistra. Ma non è quella tra le sigle, i nomi, i cartelli: è quella tra chi è dentro il gioco autoreferenziale della «politica» praticata e chi ne è fuori. Una spaccatura che contribuisce in modo decisivo ad allargarne una ancora più profonda: quella tra chi vota e chi non vota più.
Per questo gli interventi centrali dell’assemblea di domenica al Brancaccio sono stati, per me, quelli di Andrea Costa (Baobab) e Giuseppe De Marzo (Rete dei numeri pari, Libera).
Hanno fatto capire come non esista più nessun rapporto tra il loro lavoro quotidiano (politico, se ce n’è uno) e l’idea stessa di rappresentanza parlamentare. Detto in altri termini: chi ogni giorno davvero cambia lo stato delle cose a favore degli ultimi, cioè chi riduce concretamente le diseguaglianze, ha ormai messo la croce sull’idea stessa di incidere sul processo democratico.
La proposta che Anna Falcone ed io abbiamo fatto è quella di portare quel mondo in Parlamento. Di riannodare i fili tra questa sinistra delle cose e i partiti (come Sinistra Italiana e Possibile) che combattono la stessa battaglia, ma che da soli non bastano.
La partecipazione e la rappresentanza come strumenti per costruire eguaglianza.
Non per caso queste due cose sono intrecciate nell’articolo 3 della Costituzione, che abbiamo eletto a bussola di questo processo. E invece sono anni che giochiamo al bricolage dello Stato avendo rinunciato allo Stato, che è il bene comune da cui dipendono tutti gli altri beni comuni.
I giornali ne parleranno solo quando questo processo sarà diventato inarrestabile: ed è a questo che stiamo lavorando.
Per ora di cosa parlano, i giornali? Del risiko di cui sopra. Le cui coordinate fondamentali, se ho ben capito, sono le seguenti: per una parte del gruppo dirigente fuoriuscito dal Pd è difficile tornare sotto l’ombrello di Matteo Renzi. Ma (come avverte Michele Serra) bisogna che questa «sinistra» stia con Renzi, perché sennò non va al governo.
Quale la via d’uscita? Eccola: Giuliano Pisapia otterrà «discontinuità». Una volta ottenuta, si tornerà al centro-sinistra unito, dove il centro è il Pd di Renzi.
Lo schema è ancora Bertinotti-che-condiziona-a-sinistra-Prodi: ma con Pisapia e Renzi. Cioè tutto uguale, anzi tutto incredibilmente spostato a destra. Se il finale sarà questo vedremo un’astensione record e un Movimento 5 Stelle di nuovo al comando.
Noi diciamo: un’altra strada è possibile.
Abbiamo detto con forza che l’obiettivo dovrebbe essere costruire rappresentanza. E abbiamo provato a spiegare perché non ci convince più la retorica della governabilità, della sinistra maggioritaria, della sinistra di governo.
Intendiamoci: la sinistra (intesa come coloro che hanno interesse a redistribuire la ricchezza) è maggioritaria nelle cose perché, come dicevano a Zuccotti Park, «siamo il 99%». Ma la realtà è che in questi ultimi vent’anni la sinistra italiana ha scambiato i fini con i mezzi: il governo è diventato un fine, e ci siamo dimenticati a cosa serviva, governare. «Ci siamo dimenticati dell’uguaglianza», ha scritto Romano Prodi nel suo ultimo libro.
Domenica ho fatto una lista (parziale) di ciò che dobbiamo al centro-sinistra: riscritture della Carta votate a maggioranza; chiusura sull’immigrazione; precarizzazione del lavoro; privatizzazioni, liberalizzazioni, alienazioni di patrimonio pubblico; deliberata assenza di una legge sul conflitto di interessi; smantellamento finale della progressività fiscale; federalizzazione dei diritti; e, sì, anche una guerra costituzionalmente illegittima (non ho detto illegale) che rappresenta il contributo dell’Italia alla stagione delle «operazioni di polizia internazionale».
Per essere chiari: tutto questo precede Renzi. E serve a dire che il problema sarebbe stato immenso anche se fossimo ancora al governo Letta.
Renzi ha rappresentato un salto di quantità mostruoso, ma non una discontinuità di politiche. Si può dire che le sue scelte – continuate, salvo dettagli, da Gentiloni – radicalizzano un processo ventennale che ha fatto dell’Italia il paese europeo in cui la diseguaglianza è maggiormente cresciuta. Che è esattamente il processo per cui la Sinistra si è ridotta al nulla, e metà del Paese, quella sommersa, non vota più.
Ecco: deve essere chiaro che la rotta è invertita. Che la rotta è diametralmente opposta a tutto questo.
Al netto di qualche fischio, il messaggio dell’assemblea di domenica è che l’unico modo per fare davvero unità a sinistra è proprio invertire la rotta, e puntare ad un orizzonte diverso. Per farlo ci vuole un processo aperto a tutti coloro che vogliono condividere una nuova rotta: quella (per esempio) dell’articolo 18, di una vera progressività fiscale, di una seria tassa patrimoniale, di una strutturata politica di accoglienza dei migranti, di un consumo di suolo zero, di una scuola pubblica e un’università non aziendali, di una tutela pubblica del patrimonio culturale.
Spero che saremo in tanti: perché se l’obiettivo è costruire (come dice Corbyn) «a country for the many, not the few», allora ci vuole una sinistra di tutte e di tutti.

il manifesto 21.6.17
Dal Brancaccio inizia un nuovo percorso, non ancora un partito
Sinistra. Mai col Pd? Su questo ho un dubbio, in quel corpo storico c’è una memoria che coinvolge ancora molti giovani, protagonisti anche all’assemblea della nuova Alleanza
Luciana Castellina

Se ci fosse stato ancora bisogno di dimostrare che i grandi giornali hanno smesso di raccontare quello che succede per dar spazio solo ai dettagli che servono a corroborare la loro linea politica, l’assemblea del Brancaccio rappresenterebbe la migliore prova. Qualche migliaio di persone, protagonisti molti giovani (di per sé una notizia), 40.000 che seguono in streaming, decine di interventi che raccontano l’Italia invisibile alla vecchia politica ufficiale ma che esiste ed è ricca.
La vera salvezza di una democrazia altrimenti ridotta a povera cosa: comitati di base che si occupano di ambiente, migranti, scuola, solidarietà, lavoro, guerre. Questo è stato soprattutto l’assemblea di domenica, e di questo non una parola è comparsa sui quotidiani. Chi ha accennato all’evento è stato solo per misurare la distanza fra il teatro Brancaccio e Pisapia, che – diciamo la verità – non è “odiato” perché vuole unire, ma perché nessuno sa ancora chi rappres+enta e cosa vuole. (Non basta aver fatto bene il sindaco di Milano per proporsi come leader di una nuova sinistra).
NON È UNA LAMENTELA, è l’ennesima drammatica prova che in Italia chi gestisce il potere, istituzionale e mediatico, non ha capito che qualcosa di grave è accaduto in questi ultimi decenni: la perdita di credibilità dei partiti e dei tradizionali corpi intermedi, ormai largamente incapaci di rappresentanza sociale e privi del loro tradizionale ruolo di organizzatori della partecipazione, ha prodotto una disaffezione per la democrazia gravida di possibili nefaste conseguenze.
La prima delle quali è il deliberato tentativo di sostituirla con l’accentramento del potere decisionale nelle mani di una governance che si vorrebbe neutrale (questa era la sostanza della posta in gioco del referendum costituzionale, e questa la principale ragione dell’opposizione al Pd di Renzi). Ebbene l’iniziativa di Falcone e Montanari prende le mosse da questa realtà per cercare di rigenerare la politica, e dunque la democrazia, ripartendo da quanto c’è di vivo: quelle forme di “cittadinanza attiva” che hanno dato vita ai tanti comitati di lotta sul territorio e, ultimamente, a coalizioni che le hanno raccolte a livello cittadino per tentare un nuovo tipo di presenza nelle istituzioni.
RAPPRESENTANO di per sé una compiuta alternativa di governo? Certo che no, ma indicano che ci sono forze che stanno costruendo le condizioni per ricostruire una rappresentanza democratica e così ridare legittimità alle istituzioni. Il dialogo con le aggregazioni che sono nate dallo sfaldamento del Pd si fa su questo, evitando le scorciatoie del leaderismo (un “grimaldello” cui abbocca anche qualche pezzo della sinistra); così come la sacralizzazione di una società civile buona e innocente e la demonizzazione dei partiti.
Su questi punti Montanari è stato chiarissimo: senza i partiti non c’è democrazia, la nostra Costituzione resterebbe monca. E chiarissima è stata Marta Nalin, la rappresentante della coalizione civica di Padova (23 % alle ultime comunali): «Reinventare i corpi intermedi, senza demonizzare i partiti e senza santificare la società civile».
FALCONE E MONTANARI HANNO indicato un percorso, non ancora la fondazione di un nuovo partito: questa è stata la loro sfida coraggiosa e intelligente. Fra i partiti esistenti ha raccolto l’adesione impegnata di Sinistra Italiana, ma, nonostante le sue consuete recriminazioni e diffidenze, anche di Rifondazione. E ha ricevuto attenzione anche da Articolo 1, sia pure, come è ovvio, ancora titubante. Perché, sia pure in modi diversi, tutti si rendono conto che siamo in una fase di trasformazione epocale e lontani ancora dall’aver raggiunto la maturità politica e culturale per indicare una compiuta strategia all’altezza dei problemi posti dal nuovo mondo.
Il Brancaccio registra la consapevolezza di questa insufficienza, salva i partiti esistenti come essenziali laboratori politici per forze che hanno già riscontrato una propria omogeneità di ispirazione e che però, per ora, si propongono di lanciare la sola sfida possibile in questa fase di transizione: quella di una risposta unitaria nelle prossime scadenze di lotta e istituzionali, una «Alleanza – come è stato detto – per l’uguaglianza e la democrazia».
Grazie dunque alla buona volontà di Anna e Tomaso, come sono stati ormai amichevolmente chiamati da tutti. Hanno avuto il merito di non farsi risucchiare, come purtroppo ancora tanti, dal «non c’è niente da fare», come se stando a casa, ognuno per conto proprio, se ne potesse poi uscire con una soluzione. Già declinare il “noi” e riprendere a riflettere assieme è una conquista.
NON POCHI DEGLI ABITUALI pessimisti (gli anziani, i giovani per fortuna non sono reduci di tante sconfitte) hanno osservato che di belle assemblee unitarie come questa del Brancaccio ce ne sono state tante negli ultimi 20 anni. E’ vero. Ma c’è un dato fondamentale che i promotori dell’iniziativa hanno capito: che il tempo attuale è molto diverso. Più pericoloso ma anche più consapevole dell’urgenza di una svolta rispetto a quanto è stato fatto in questi anni da chi ha governato e da chi è stato all’opposizione. Questa è la ragione per cui oggi si può ricominciare a proporsi un’alternativa.
I FISCHI (NON POI TANTISSIMI, anche se deprecabili) a Gotor sono un segno delle diffidenze che questi difficili decenni che ci stanno alle spalle hanno creato. Non ci si può illudere che settarismi e estremismi, di cui anche il Brancaccio ha dato prova, potranno esser superati facilmente. Tocca a tutti ripensare se stessi e la propria parabola di questi anni: l’unità non si fa a partire da quel che siamo, ma da quello che ci si propone di diventare, ed è su questo che ci si confronta, se necessario anche duramente.
Mai col Pd, come ha detto Montanari? Ecco, su questo, solo su questo, un dubbio, ma forse siamo in realtà d’accordo: per quanto esangue, io credo ci sia ancora un corpo storico che viene dall’ormai dimenticato Pci, non solo vecchi ma anche una memoria, certo un po’ sbiadita, che coinvolge anche più giovani. Io credo che non dobbiamo ignorarli.
ULTIMO PROBLEMA: COME SI prosegue ora? Spero che nessuno si immagini che ci sarà un fantastico centro promotore di organizzazione dalle Alpi alla Sicilia. Bisognerà cercare di crearlo, ma questa nostra nuova sinistra deve soprattutto imparare a “fare da se”: ad ogni singolo militante in ogni singolo territorio l’onere e l’onore di promuovere l'”Alleanza”, e ogni altra forma di partecipazione che consenta a chi se la sente di costruirla. Reimparando a confrontarci, passo per passo, con gli altri compagni dell’avventura collettiva che abbiamo deciso di correre. Ripartire dai territori non vuol dire tornare all’Italia dei Comuni, ma all’Europa.

Il Fatto 21.6.17
Sinistra al Brancaccio, dieci considerazioni sulla ‘Leopolda dei gufi’
Andrea Scanzi

Domenica c’è stata l’adunanza della sinistra “vera” al Brancaccio di Roma, che qui chiamerò la “Leopolda dei gufi”. Ero stato invitato dagli organizzatori e avrei partecipato volentieri, se non fossi stato la sera prima al Premio Cimitile e la sera stessa al Trentino Book Festival. Avrei partecipato per curiosità e perché ho profonda stima di Tomaso Montanari, una delle persone più argute e garbate che conosca. Non conosco invece personalmente Anna Falcone, ma quello che propone è sempre lucido e apprezzabile. Avendo comunque seguito la giornata al Brancaccio, provo a buttare giù qualche riflessione.
1. Condivido l’intervento di Tomaso, compresa la parte in cui ha demolito il comportamento pavido e spesso colpevole del centrosinistra italiano con Berlusconi. Tenendo conto che D’Alema era in prima fila, per dire queste cose servono le palle. E lui le ha. Altri, no.
2. D’Alema non ha parlato e per qualcuno non doveva neanche esserci. Ci sta. Ma in quel teatro c’erano figuri “de sinistra” non meno discutibili, anche se cari a certi ambienti antagonisti. Per dirne due: Vendola e Casarini. Non li trovo meno colpevoli di D’Alema. Ah: vale anche per Bertinotti e il bertinottismo, che ha fatto più danni della grandine. Nasci gramsciano e finisci ciellino: una prece.
3. Falcone e Montanari hanno detto che non vogliono rifare un Ulivo 2 (e ci credo), ma una sinistra nuova. Intento nobile: auguri. E’ stata proprio la “sinistra” a deludere di più negli ultimi anni, comprese (salvo rari casi) le esperienze tipo Lista Ingroia o Tsipras. Chi ci riproverà dovrà sconfiggere la naturale diffidenza che, a prescindere dalla bontà dei promotori, suscitano ormai tali iniziative.
4. Lo spirito (?) di Pisapia aleggiava sul Brancaccio. Giustamente Montanari ha detto che, il prossimo Primo Luglio, Pisapia dovrà dire una volta per tutte quello che desidera fare da grande (ovviamente non lo dirà). Su Pisapia ci sono due cose da dire. La prima è che il suo peso elettorale è oltremodo amplificato, per esempio da Repubblica: voi conoscete qualcuno su scala nazionale che voterebbe Pisapia, a parte Lerner o Vecchioni? Io no. La seconda è che Pisapia piace a Repubblica – e quindi al Pd renziano – in funzione di “accalappiatore”. Va cioè usato per abbindolare gli elettori di sinistra che non amano Renzi, ma che tramite Pisapia verrebbero portati a Renzi. In questo senso, Pisapia può essere un’immane iattura politica. Spetta solo a lui non esserlo. Nel frattempo, può smettere di porre veti su chi può stare e chi no nel progetto. Pisapia che fa veti è come Sturaro che va da Ventura e gli dice “Se convochi Bernardeschi io sto a casa”. Ecco, appunto: stai a casa.

il manifesto 21.6.17
C’è aria «nazarena» in Senato. Su Lotti il soccorso azzurro
Aspettando Gotor. Il governo supera in scioltezza le mozioni su Consip con l’apporto dei centristi e di Fi. Scontro Pd-Mdp. I renziani: serve una verifica. Prove di larghe intese. E i contatti tra dem e Arcore sulla legge elettorale non sono mai cessati
Andrea Colombo

Troppo rumore per nulla? Stando ai voti si direbbe di sì. Quando il Senato viene chiamato a votare sulle mozioni che chiedevano l’azzeramento dei vertici Consip e indirettamente bersagliavano il ministro dello Sport Luca Lotti, uomo di fiducia di Renzi, il governo scivola sul velluto. Passa la mozione di maggioranza, che chiede solo di rinnovare rapidamente il cda decaduto, e non ce ne sarebbe bisogno: l’assemblea dei soci è già convocata per il 27 giugno. Passa anche quella di Idea, sino a ieri la più temuta ma adottata nel frattempo, in due punti su tre, anche dal governo, previa riformulazione. Su quella la maggioranza diventa addirittura schiacciante, dato che oltre a Idea si accoda anche Forza Italia: 244 sì contro 17 no e 11 astenuti. Falcidiate le altre: quelle di Sinistra italiana e della Lega e soprattutto quella dell’Mdp che anzi, in quanto «forza di maggioranza» fellona e traditrice, finisce nel mirino dei renziani, capitanati dal megafono del capo a palazzo Madama, Andrea Marcucci.
L’esito del voto non sorprende nessuno. Il clima della giornata non era di quelli che preludono a incidenti. Il dibattito era stato depotenziato in partenza dall’assenza di colli da tagliare. A eliminare il cda Consip ci avevano pensato il Pd e il governo, anticipando di un soffio il dibattito. Lo scudo per Lotti, il vero pesce grosso, lo aveva fornito il presidente Grasso, dichiarando inammissibile il primo punto della mozione Mdp, quello che chiedeva il ritiro delle deleghe del ministro. Improponibile, avendo l’aula già votato e respinto in marzo la mozione di sfiducia contro Lotti. Se anche le mozioni d’opposizione fossero passate, il governo non avrebbe battuto ciglio: «Quando mai si è visto un governo cadere per una mozione?», dissertava prima che il dibattito iniziasse il solito Marcucci. Come se non bastasse, al momento della dichiarazione di voto la capogruppo Mdp Guerra annuncia che il suo gruppo voterà solo la propria mozione, chiudendo ogni spiraglio alla suspence residua.
Ma come si spiega allora la tensione di questi giorni, proseguita anche ieri? Perché il governo e il Nazareno, rischiando una figuraccia gratuita, hanno tentato sino all’ultimo di evitare il dibattito, adoperando una risibile lettera del ministro dell’Economia con la quale Padoan informava l’aula di quel che anche i sassi sapevano, le avvenute dimissioni di due consiglieri e la conseguente decadenza del cda Consip? Proprio sulla base di quella letterina il capogruppo Pd Zanda ha chiesto, per la verità con scarsa convinzione e inutilmente, di rinviare un dibattito già in area di parcheggio da oltre tre mesi. Quasi nello stesso momento, Ermini, altro senatore di provatissima fede renziana segnalava quanto difficile potrebbe rivelarsi, in queste condizioni, l’iter della legge di bilancio.
Il bello è arrivato però qualche ora più tardi, dopo il durissimo intervento di Miguel Gotor, Mdp. Marcucci non si è lasciato sfuggire l’occasione: «Credo che il presidente del consiglio si farà carico di una verifica. Ce n’è bisogno. Le parole di Gotor sono insostenibili in termini politici per una forza di maggioranza». Per i governi la parola «verifica» è in assoluto la più jettatoria che esista, e il particolare certo non sfuggiva all’uomo di Renzi. Bersani ha risposto a botta calda: «La legislatura deve continuare, ma senza pretendere di chiuderci la bocca».
Una reazione simile da parte della guardia d’onore di Renzi, tanto da pronunciare addirittura la paroletta che di solito equivale a sentenza capitale per il governo di turno, è poco spiegabile alla luce della sostanziale tranquillità di cui godevano ieri il governo in generale e Lotti in particolare. Però, mettendo insieme l’affondo contro Mdp con l’offerta di pace avanzata dal viceministro Morando nella replica finale del governo e subito accolta dal primo firmatario della mozione di Idea Augello, grazie alla quale si è realizzata una spettacolare convergenza tra Pd, centristi interni ed esterni alla maggioranza e Fi, il quadro diventa forse meno inspiegabile. I contatti tra Nazareno e Fi, in attesa della ripresa dei lavori della commissione Affari costituzionali di Montecitorio sulla legge elettorale, non sono mai cessati.
L’ipotesi di un’intesa tra Arcore e Nazareno, con o senza legge elettorale, in vista di un difficile day after le elezioni politiche non è mai tramontata. Forse la giornata di ieri illustra meglio di ogni battuta televisiva cosa abbia in mente per il futuro il segretario del Pd.

Repubblica 21.6.17
L’intervista. Miguel Gotor, senatore mdp
“Un caso di arroganza e massoneria il premier tolga il Cipe al ministro”
Concetto Vecchio

ROMA. «Caro compagno Gotor», lo apostrofa velenoso il pd Franco Mirabelli. «Magari puoi provare la candidatura nel M5S», twitta l’ultrà renziano Andrea Marcucci. Il senatore Mdp Miguel Gotor, il padre della mozione anti Lotti, alle sette di sera infila il corridoio al primo piano di palazzo Madama e in fondo trova proprio Marcucci, che gli dà ostentatamente le spalle.
Gotor, il vostro matrimonio con il Pd è in crisi nera. Perché state ancora insieme?
«Si può stare insieme in tanti modi diversi, non c’è solo il matrimonio ».
Quelli del Pd le danno del grillino. Dov’è finita la solidarietà di maggioranza?
«Ma non siamo in una caserma. Capisco che renziani vecchi e nuovi si stupiscano abituati come sono al servilismo e al conformismo ».
Marcucci ha chiesto una verifica. Non ha ragione?
«Marcucci è in Parlamento dal ‘92 e usa termini da Prima Repubblica. Ma su legalità e questione morale che verifica vuoi fare? Stia sereno».
Dice che lei è pieno di livore contro Renzi.
«Ragionano con psicologismi per nascondere le critiche politiche al loro operato».
La maggioranza che vita può avere?
«Ricordo a Marcucci che il capogruppo fino a prova contraria è Luigi Zanda, di cui apprezzo i toni quando riesco a percepirli. E Zanda ha escluso una verifica».
Perché Grasso non ha ammesso la mozione anti Lotti?
«Non ho nulla da rimproverare al presidente Grasso, il diritto parlamentare è estremamente discrezionale. A noi interessava mantenere vivo il nodo politico».
Qual è il nodo politico nell’affaire Consip?
«I casi Marroni e Lotti sono indissolubilmente legati. Uno dei due mente. Il fatto che siano ancora al loro posto è un segno di arroganza».
Ora che armi avete?
«Chiediamo a Gentiloni di togliere a Lotti la delega al Cipe. C’è un evidente conflitto d’interessi. In un Paese normale non sarebbe possibile, una democrazia non tollera gli intoccabili».
Gotor, voi sembrate un partito d’opposizione e Forza Italia un partito di maggioranza.È normale?
«Si stupisce? La vicenda Consip è una spia del potere degli ultimi anni, nel triangolo Fivizzano, Laterina, Pontassieve, in cui si ha l’impressione che il perimetro del potere sia troppo spesso stato tracciato con la squadra e il compasso toscani. Il centrodestra alza la voce, ma poi si acconcia».
Resta la contraddizione.
«Non c’è contraddizione. Il nostro obiettivo è rendere Gentiloni più solido. Ma serve una discontinuità politica col renzismo».
Il premier toglierà davvero la delega a Lotti?
«Continueremo a chiederlo. Il centrosinistra è nato con alle spalle le battaglie etico civili di Nino Andreatta sul Banco Ambrosiano, Sindona e la P2. Il padre della Boschi ha incontrato il faccendiere Flavio Carboni nell’indifferenza generale: il problema politico è qui».

Repubblica 21.6.17
Impossibile allearsi con il pd fa politiche di destra
Tomaso Montanari

MICHELE Serra scrive che dovremo comunque votare per Renzi, se non vogliamo la destra al governo. Non ho ancora capito se anche Pisapia la pensi così, ma domenica scorsa abbiamo provato a dire che questo antico autoricatto morale ha generato una sinistra che fa cose di destra. Una situazione, sul lungo periodo, insostenibile. È un dato di fatto che, dopo vent’anni in cui il centro-sinistra ha governato più del centro-destra, l’Italia è il paese europeo in cui la diseguaglianza è cresciuta di più. Si può fare un lungo elenco delle leggi e delle riforme del centro-sinistra che hanno smontato lo Stato progettato dalla Costituzione, e con esso l’eguaglianza e l’inclusione. Renzi ha chiuso in bellezza, come un fuoco d’artificio finale.
Risultato: metà del Paese non vota più. Ed è proprio la metà del paese più povera, esclusa, sommersa. E questa situazione è stata provocata anche da un ceto politico autoreferenziale, da una politica ridotta a un improbabile kamasutra di formule. E allora, che fare?
In molte città d’Italia questo stato delle cose è stato cambiato da cittadini che hanno iniziato a prendersi cura in prima persona della cosa pubblica: alleandosi con alcuni partiti di sinistra, e provando a costruire un’alternativa basata su un concreto programma di inclusione ed eguaglianza. È possibile provarci anche a livello nazionale, attraverso un processo di partecipazione dal basso? È possibile ricordare che non si elegge il governo, ma il parlamento, e che se riusciamo a portare in parlamento il bisogno di giustizia sociale e anche l’intelligenza, che oggi se ne tengono lontanissimi, forse finalmente riusciremo a costruire il progetto di un’Italia diversa, invece di una formuletta per fare l’ennesimo governo fotocopia?
Uno come me, che non vuole candidarsi a nulla né fare il leader di nulla (mi viene da ridere solo a pensarci), sarebbe invece felice di lavorare, con tantissimi altri, ad un progetto del genere. Domenica abbiamo iniziato a ragionarci: pensando che la politica dei progetti sia molto più entusiasmante della politica dei ricatti.

Repubblica 21.6.17
Il punto è dove trovare i voti per contare qualcosa
Michele Serra

CARO Tomaso Montanari, io non ho affatto scritto che «dovremo comunque votare per Renzi se non vogliamo la destra al governo». Ho scritto praticamente il contrario: ho scritto che chi NON intende votare per Renzi non ha la minima intenzione di regalare il suo voto alla solita minoranza virtuosa che sa quali sono le cose giuste, ma non ha nessuna idea di come realizzarle. Essendo Renzi segretario del Pd a furor di primarie (io, tanto per chiarire che il nostro è un dibattito tra piccoletti, ho votato per Orlando), posso assicurarti che qualunque progetto di una maggioranza di centrosinistra è costretto, ripeto costretto a tenerne conto. Anche per la considerazione che si deve ai milioni di elettori di Renzi, che non credo amino sentirsi attribuire in blocco “alla destra” come tu hai fatto, secondo me, senza avere il tempo di rifletterci meglio.
Non sto a tirarla in lungo con la Cirinnà e lo Ius soli, mosse politiche che da sole dovrebbero sconsigliare di regalare il Partito democratico alla destra. La destra, vorrei ricordarti, è Salvini e Berlusconi. E a meno di voler considerare Grillo un interlocutore (chiedi a Bersani come andò a finire), non riesco a capire, da quell’uomo semplice che sono, dove diavolo volete trovare i voti per contare qualcosa. Voglio aggiungere solo questo: sono troppo vecchio, ormai, per non sapere come andrà a finire il vostro tentativo di fare a meno del Pd. Andrà a finire con l’ennesimo flop, perché la politica non è campo per i virtuosi. È campo per gli sgobboni, che cercano il difficile punto di equilibrio tra la virtù e la realtà, dando il dovuto rilievo all’una e all’altra. Ripeto: all’una e all’altra.

Repubblica 21.6.17
Il retroscena.
Il capo del governo “sconcertato” dagli attacchi dei bersaniani soprattutto in vista della Finanziaria. Tra gli uomini di Renzi la convinzione che i fuoriusciti li vogliano costringere alle larghe intese: “Separiamoli da Pisapia”
L’ira di Gentiloni e il sospetto dem “Vogliono consegnarci a Silvio”
Goffredo De Marchis

ROMA. Paolo Gentiloni è «irritato » e «sconcertato» per l’attacco violento di Mdp, il movimento dei bersaniani contro Luca Lotti e quindi contro il suo governo. Non sfugge neanche al premier la dose di «ambiguità» di una forza politica che dice di voler sostenere l’esecutivo a tutti i costi ma si smarca ogni volta che può. In questo caso quello che brucia sono i toni e le parole usati da Miguel Gotor, che hanno indotto il renziano Andrea Marcucci a chiedere una verifica politica a Palazzo Chigi. In sostanza, a constatare se una maggioranza c’è ancora. Richiesta smorzata da Largo del Nazareno e dallo stesso Matteo Renzi ma che apre alcuni scenari per il futuro.
Il premier ha dimostrato di avere una sua forza e di essere un valido incassatore. Ma intravede i pericoli all’orizzonte, soprattutto sulla scadenza più importante dell’anno: la legge di bilancio. Il voto su quel provvedimento incrocerà la chiusura definitiva di qualsiasi finestra per le elezioni anticipate. L’esame infatti comincerà a fine ottobre, al Senato, dove i numeri del governo sono fragili. Come si comporterà a quel punto Articolo 1? A Palazzo Chigi non escludono affatto una mossa del cavallo: sfilarsi ufficialmente dalla maggioranza e costringere il governo a votare la manovra insieme con Forza Italia, «per il bene del Paese». In fondo, è quello che è plasticamente visto a Palazzo Madama sulle mozioni della vicenda Consip. «Un’ipotesi che sta in piedi, la verificheremo a tempo debito », dicono gli uomini del premier, come al solito prudenti e attenti ai dossier più immediati, a partire dal salvataggio delle banche. «Un’ipotesi che il Pd non potrà mai accettare - mette le mani avanti Marcucci -. Mai. Ci vogliono costringere alla larghe intese prima del voto. Non succederà».
Effettivamente, la grande ossessione di Pier Luigi Bersani, dai tempi delle elezioni non vinte nel 2013, è la Grande coalizione. L’ex segretario confessò che il brutto risultato del Pd in quelle elezioni fu dovuto al governo Monti, appoggiato con Forza Italia (che si sfilò per prima) e i centristi. Oggi quindi non è fantascienza immaginare che il sogno della sinistra-sinistra sia rovesciare la frittata all’ultimo e scaricare su Renzi il peso di un’alleanza controproducente.
Per questo i renziani, senza insistere, considerano una mossa del premier, adesso, quasi necessaria, una garanzia per il futuro, un modo per fare chiarezza oggi per domani. L’appello alla verifica, smorzato in serata, ha questo significato. Gentiloni però propende per l’attesa, pur non nascondendosi che il momento della verità arriverà. Alla fine di ottobre il governo sarà chiamato a condurre in porto la Finanziaria con voti di chi ci sta per evitare l’esercizio provvisorio. E senza alternative. Ma il partito di Renzi, principale sostenitore dell’esecutivo, deve evitare la gabbia di un patto con Berlusconi, in vista del voto nel 2018.
L’evocazione della verifica serve anche ad allargare le distanze già enormi tra il Pd e i bersaniani. Come dire: l’alleanza elettorale di centrosinistra, se mai si realizzerà, non potrà essere con Gotor, Bersani, D’Alema e con l’associazione di Tomaso Montanari. Il ministro dello Sport Luca Lotti è furibondo e amareggiato per gli attacchi di ieri. Ma l’esito del voto lo soddisfa e non vede scossoni per l’esecutivo. I renziani invece attaccano: «Quello che valeva per Errani, non vale per Lotti - dicono riferendosi a uno dei bersaniani più in vista coinvolto in una vecchia inchiesta -. Sono imbarazzanti e ridicoli».
Bisogna dunque battere sul ferro caldo dell’inaffidabilità a sinistra. E separare Giuliano Pisapia e il suo progetto dall’abbraccio con gli scissionisti. Secondo i renziani è anche l’unico modo per evitare pasticci sulla legge di bilancio, alleanze spurie e perdenti in termini elettorali. Perchè i giochi sono ancora tutti da fare. Non è detto che tutta la sinistra accetterà di buon grado uno strappo con il Pd e con Gentiloni sulla legge fondamentale dello Stato. E non è detto che lo faccia l’ex sindaco di Milano. Questo pensano al Pd. E anche a Palazzo Chigi.

Corriere  21,6-17
Il nodo dei tempi Può finire davanti ai giudici in campagna elettorale
La strada per «salvarsi» su Romeo
di Fiorenza Sarzanini

ROMA Aveva raccontato di aver «deciso da sola» di promuovere Renato Marra a responsabile del Turismo, premiandolo evidentemente per i suoi meriti. E invece i magistrati si sono convinti che fosse una bugia. Del resto sono state le sue conversazioni via chat con Raffaele Marra a dimostrarlo. E quella memoria difensiva, che secondo il suo legale doveva servire a scagionarla, non è mai stata consegnata al procuratore aggiunto Paolo Ielo e al sostituto Francesco Dall’Olio. La possibilità che Virginia Raggi sia processata per falso appare dunque quasi scontata.
Processo a fine anno
L’ipotesi più probabile è che il dibattimento sia in pieno svolgimento durante la campagna per le elezioni Politiche del 2018. Da domani scattano infatti i 20 giorni a disposizione della difesa per farsi interrogare o depositare nuovi documenti. Tenendo conto della pausa feriale la richiesta di rinvio a giudizio potrebbe essere depositata agli inizi dell’autunno e la decisione del giudice entro la fine dell’anno. Rimane qualche chance di uscire indenne dall’accusa di abuso d’ufficio per la promozione di Salvatore Romeo. Ma in questo caso la sindaca dovrà convincere i magistrati di non avere alcuna consapevolezza che quella scelta avrebbe portato a una triplicazione dello stipendio e soprattutto che la decisione di modificare il contratto avrebbe provocato «ingiusto vantaggio» a quel funzionario che le era talmente legato da decidere di intestarle ben tre polizze vita.
Il doppio rischio
L’eventualità che ci fosse una richiesta di archiviazione per tutte le contestazioni non è mai stata concreta. Perché la decisione di assegnare un incarico strategico a Renato Marra, fratello del suo capo del Personale, era stata ritenuta dall’autorità Anticorruzione, guidata da Raffaele Cantone, una scelta effettuata «in conflitto di interessi». E dunque Raggi si era trovata di fronte a un bivio: ammettere di aver scelto quel nome con Raffaele Marra e dunque di aver compiuto un abuso oppure continuare a sostenere — come aveva fatto nella relazione alla responsabile anticorruzione del Campidoglio Mariarosa Turchi — : «Sono stata io a sceglierlo, ho fatto tutto da sola».
Non poteva prevedere l’arresto di Raffaele Marra per corruzione nel dicembre scorso e che le chat contenute nel suo cellulare sarebbero finite agli atti dell’inchiesta. E dunque che tutte le conversazioni tra loro, ma anche quelle con Salvatore Romeo e l’allora vicesindaco Daniele Frongia, e quelle tra i due fratelli sarebbero state svelate. E invece è stato proprio questo a fornire ai pubblici ministeri la prova a suo carico di aver mentito.
Le accuse nelle chat
In una conversazione via Telegram con Raffaele Marra, Raggi lo accusa di non averla informata che grazie alla promozione, Renato Marra avrebbe ottenuto un aumento del compenso:«Raffaele, questa cosa dello stipendio mi mette in difficoltà, me lo dovevi dire». Dunque i due ne avevano discusso e poi avevano stabilito insieme di procedere.
Ma ad aggravare la posizione della sindaca è anche un colloquio tra i due fratelli avvenuto a ottobre quando Raffaele avvisa Renato: «Si è liberato il posto di responsabile del Turismo, fai la domanda». E il 9 novembre Renato si aggiudica proprio quella poltrona anche grazie ai documenti che Raffaele fa avere a Raggi illustrando le procedure da seguire.
Romeo e la segreteria
La bugia appare dunque scontata, difficile riuscire a dimostrare il contrario. Non è invece scontato che rimanga in piedi l’abuso d’ufficio per la scelta di promuovere Romeo.
La sindaca assicura di poter dimostrare che non sapeva di procuragli un vantaggio e in questo caso potrebbe ottenere l’archiviazione così come già accaduto per le altre nomine dopo l’ingresso in Campidoglio. Ma per riuscirci dovrà portare atti davvero determinanti oppure farsi nuovamente interrogare.

il manifesto 21.6.17
Il singolo trascinato nel vortice del comunitarismo
Saggi. «La società orizzontale. Liberi senza padri» di Marco Marzano e Nadia Urbinati per Feltrinelli
Francesco Antonelli

L’attenzione pubblica è oggi concentrata sulla diffusione della così detta cultura populista. Tuttavia, vi è una tendenza meno immediatamente leggibile ma certamente di più lungo corso, di radicare anche in Italia una cultura liberale, sia nella sua versione di sinistra o liberal sia in quella di destra o neo-liberista. Fenomeno animato soprattutto da intellettuali (alcuni dei quali con un passato da neo-marxisti) e fatto proprio, senza riconoscerne molto spesso la paternità e non senza rilevanti deformazioni, da una parte significativa della classe politica italiana. Il libro di Marco Marzano e Nadia Urbinati La società orizzontale. Liberi senza padri (Feltrinelli, pp. 112, euro 16) si colloca proprio in questa tendenza.
IL LIBRO SI MUOVE tutto attorno ad un’opposizione di sapore popperiano tra «società patriarcale» (dunque chiusa) e «società orizzontale» (dunque aperta), in dialogo polemico, tra gli altri, con Massimo Recalcati e con tutti quelli che vedono nel declino dell’autorevolezza e nella necessità di ricostruirla nelle istituzioni e nella società una sfida ineludibile.
LA SOCIETÀ PATRIARCALE sarebbe quella che ha dominato la storia dell’Italia repubblicana, tutta incentrata su istituzioni (in primo luogo politiche) organizzate come chiese, gerarchiche e fortemente clientelari-paternalistiche. Non a caso il cattolicesimo viene indicato in questa ricostruzione come una delle principali origini dei mali italici passati e presenti, anche quando si presenta con il volto benevolo di Papa Francesco. A questo modello socioculturale che continua a sopravvivere con forza nei meandri della società italiana e che si manifesterebbe su un piano più generale, europeo e mondiale, come il ritorno dell’idea di una società chiusa, neo-comunitaria, populista, si contrapporrebbe una positiva società orizzontale in fase di costruzione e consolidamento: questa società è centrata sull’individuo autonomo e responsabile, quello teorizzato dall’Illuminismo, e che lotta per una società più aperta e libera.
È NEI TRE ORIZZONTI classici del paternalismo e, oggi, del neo-populismo, che emergerebbe la lotta fatale tra queste due società: Dio, Patria, Famiglia, corrispondenti a sfera religiosa, politica e familiare. Dal punto di vista religioso in Italia staremmo assistendo al radicarsi di una religiosità simile a quella del protestantesimo tradizionale, centrata cioè sull’autonomia morale e spirituale degli individui. Sul piano politico al posto dei vecchi partiti starebbero consolidandosi reti di individui attivi politicamente (anche grazie alle tecnologie digitali). Su quello familiare, infine, starebbero diffondendosi rapporti centrati su condivisione, responsabilità e parità tra generi (in realtà, tema poco trattato dal libro) e generazioni.
Insomma, il termine chiave della nuova società orizzontale sarebbe responsabilizzazione delle persone e quadratura del cerchio tra quella uguaglianza e quella libertà che Alexis de Tocqueville, osservando gli Stati Uniti del XIX secolo, indicava come in continuo conflitto in una società democratica poiché l’amore per l’uguaglianza rischiava continuamente di sopprimere la libertà e l’autonomia individuale. Per Marzano e Urbinati staremmo dunque diventando inesorabilmente più anglosassoni e quindi più adulti.
DUE SONO I GRANDI PROBLEMI di questo libro, che neanche conclusioni più equilibrate dell’argomentazione sviluppata nel testo, riesce a risolvere: il primo è un’eccessiva linearità dell’analisi che sfocia nell’ideologia. Tutti i mali del presente sarebbero semplicemente riconducibili alla sopravvivenza di una società patriarcale (che in Italia vuol dire per i due autori quasi esclusivamente presenza della Chiesa cattolica) mentre non si riconoscono a sufficienza quelle storture come precarietà, sterilizzazione della democrazia, declino della solidarietà sociale, aumento delle disuguaglianze, prodotte proprio dall’ascesa di una società di soli individui.
Il secondo problema da risolvere è che, ai tempi della crisi, questo testo nasce inesorabilmente come datato, persino superato da molte riflessioni prodotte, ad esempio, da Ulrick Beck e Zygmunt Bauman sui rischi dell’individualismo già all’inizio del 2000: la sfida oggi è quella di sottrarre ai populisti l’importante tema della ricostruzione del sociale, invocato da gran parte dei ceti popolari e medi, in modo da realizzare una società includente e democratica. Un’alternativa sia al modello neo-comunitario e xenofobo incarnato da Trump o da Salvini sia a quello neo-liberale globale esaltato, ormai fuori tempo massimo, proprio da Marzano e Urbinati.

il manifesto 21.6.17
Il doloroso desiderio di nulla
La prima traduzione italiana del volume «Noia», di Otto Fenichel, protagonista della sinistra freudiana
Louise Richardson
Gianpaolo Cherchi

Ingannare il tempo. È quello che cerchiamo di fare quando ci coglie la noia, quando scrolliamo senza interesse la home di Facebook, o quando fumiamo una sigaretta senza in realtà averne alcuna voglia e giusto per non star lì, fermi, in attesa di non si sa bene cosa.
Ci annoiamo, e perciò inganniamo il tempo, in un percorso laterale di costante desiderio e di altrettanto costante insoddisfazione. Percorso che viene affrontato nel bel volume della giovane casa editrice Grenelle, che inaugura la sua collana «Sproni» con la pubblicazione di uno scritto finora inedito in italiano di Otto Fenichel, psicoanalista fra i più autorevoli della «sinistra freudiana», il cui saggio si intitola, appunto, Noia (pp. 184 p., euro 15), e attorno al quale si inseriscono gli interventi dello psicoanalista Sergio Benvenuto, del filosofo Bruno Moroncini e dell’antropologo Giorgio Pizza, creando un dialogo a più voci in cui convergono differenti punti di vista e piani di analisi, diverse prospettive di studio.
PUR MUOVENDOSI in piena aderenza alle linee classiche della psicoanalisi freudiana, il saggio di Fenichel è in grado di far emergere molteplici configurzioni della noia, che si spingono ben al di là della sua considerazione esclusivamente psicologica: scopriamo così che la noia possiede anche una dimensione politica, per esempio, così come una estetica, o ancora economica.
Perché la noia «abbraccia stati della mente e atteggiamenti psicologici assai differenti»: nella sua struttura psicologica essenziale, può essere definita come un «ingorgo della libido», come un insieme di pulsioni che non riescono a trovare soddisfazione. La frustrazione che ne deriva, questa «esperienza amara della delusione che investe il soggetto», può sfociare nella totale apatia, nell’oblomovismo e persino nella depressione; oppure può essere disciplinata socialmente, facendo in modo che il piacere sia correlato all’assolvimento di un dovere particolare. È qui, per esempio, che la noia assume una dimensione economica: vi è infatti una connessione strettissima fra stimoli monotoni e libido, tale che si possono produrre stati di eccitamento e talvolta persino di estasi. Un po’ come succedeva al Lulù interpretato da Gian Maria Volonté ne La classe operaia va in paradiso, che per non annoiarsi e anzi per battere continuamente i tempi di produzione, pensava a far l’amore con la sua collega.
AD ASSUMERE un’importanza centrale è il meccanismo della «diversione»: quando esiste una tensione pulsionale, essa viene percepita anche quando la sua meta è assente, ed è in questo momento che subentra la diversione, come nevrosi, come dipendenza o come semplice «comportamento impulsivo»: mangiare, bere, fumare, sono le più comuni attività di diversione, quasi che si chieda al mondo esterno di intervenire e darci quel qualcosa che cerchiamo, e che tuttavia non riusciamo a trovare.
Come la coscienza, anche la pulsione è sempre intenzionale: è sempre pulsione di qualcosa, «tranne che nella noia, doloroso desiderio di nulla». Nella noia è l’esistenza stessa dell’oggetto che viene a mancare, la sua posizione in un mondo che si restringe e si riduce a «reale puro», «a qualcosa che non interessa». Ecco allora che il tempo si presenta come una cosa corpulenta, come scriveva Gramsci nelle sue lettere dal carcere.
AL TEMPO LUNGO della noia, materializzatosi in corpo, in un orologio che si guarda in continuazione, si accompagna lo «scacciatempo, il cui compito è quello di spronare il tempo affinché passi il più in fretta possibile e cessi di annoiarci».
Ma se il mondo non ci interessa, è perché «ciò che si desidera è altra cosa da quello che il mondo può offrire». La noia rimanda sempre a un contrasto, a una dimensione conflittuale, politica.
WALTER BENJAMIN si chiedeva quale fosse il correlato dialettico della noia, il suo contrario. E lo rintracciava nel sogno: la noia favorisce la fantasia. Non si tratta allora di ingannare il tempo nel disperato tentativo di farlo trascorrere, quanto piuttosto di indurlo ad arrestarsi, incamerando la sua energia: solo in questo modo la noia può deflagrare e aprire al sogno, decisamente qualcosa d’altro dalla banale realtà quotidiana.

Opg, svelato l’imbroglio, la lotta continua
Fuoriluogo. La rubrica settimanale a cura di Fuoriluogo
Stefano Cecconi

Non siamo riusciti a cancellare quel comma maligno (art. 1 comma 16 lettera d), che rischia di riportare in vigore le norme dei vecchi Opg, contenuto nella Legge «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario» approvata alla Camera la settimana scorsa. Infatti, ponendo la questione di fiducia, il Governo ha impedito l’approvazione degli emendamenti che diversi deputati, della maggioranza e dell’opposizione, avevano presentato, accogliendo l’invito di StopOpg e di tutti coloro (più di duecento persone in 49 giorni) che hanno partecipato alla staffetta «Io Ddigiuno perché non devono tornare gli Opg».
Ma la discussione alla Camera, anche nelle posizioni espresse dal relatore, l’on. Ferranti e dal sottosegretario Ferri per il Governo, ha segnalato che la nostra mobilitazione ha colpito nel segno. Entrambi hanno ammesso che quella norma va in qualche mondo «disinnescata».
Ne sono una prova tangibile gli otto (ben otto) Ordini del Giorno approvati per condizionare l’attuazione della norma – ricordiamo che si tratta di una legge delega per la cui attuazione sono previsti decreti legislativi del Governo – sui quali abbiamo espresso un chiaro apprezzamento, e un ringraziamento alle/ai deputate/i che li hanno proposti.
Tra questi segnaliamo l’Ordine del Giorno presentato dal Presidente della Commissione Affari Sociali Marazziti, insieme al Presidente della Commissione Ambiente Realacci, che afferma testualmente: «limitare per casi eccezionali e transitori» il ricovero in Rems sia dei detenuti (con sopraggiunta malattia mentale o in osservazione) che delle persone con misure di sicurezza provvisoria. Questo è davvero importante: infatti quasi la metà delle presenze in queste strutture è con misura provvisoria, segnale (come ricorda l’ex Commissario Corleone) di un uso improprio e abnorme delle Rems, al punto che si è creata una lista d’attesa. Invece queste strutture dovrebbero essere «extrema ratio», come dichiara senza mezzi termini anche una recente delibera del Consiglio Superiore della Magistratura.
L’Odg, come auspicavamo, afferma che il diritto alla salute e alle cure dei detenuti va garantito con un adeguato potenziamento delle sezioni di cura nelle carceri e attraverso misure alternative alla detenzione, e sempre con la presa in carico da parte dei servizi di salute mentale delle Asl. Gli Ordini del Giorno, pur vincolanti e chiari, sono soggetti alla lealtà del Governo, e per questo abbiamo voluto incontrare il Presidente Marazziti per aprire un confronto con il Ministro. Chiederemo ai deputati e ai senatori che si sono impegnati, durante il dibattito in parlamento in difesa della riforma, di vigilare.
Questa vicenda ci conferma che per far vivere la grande conquista ottenuta con la chiusura dei vecchi manicomi giudiziari, è necessario mantenere alta l’attenzione sul processo di superamento della logica manicomiale, sulle criticità aperte, sull’esperienza delle Rems e sullo sviluppo delle pratiche di cura e riabilitazione che consentono l’adozione delle misure alternative alla detenzione, nello spirito della legge di Riforma 81/2014 e della stessa Legge 180. Per questo noi continueremo il Viaggio nelle Rems. E per questo chiediamo sia riconvocato l’Organismo nazionale di monitoraggio (composto da rappresentanti dei Ministeri Salute e Giustizia, di Regioni e Magistratura e che va aperto alla partecipazione delle associazioni impegnate sul tema e al neonato coordinamento delle Rems) e che venga istituita una cabina di regia nazionale e in ciascuna regione. Il Governo deve mantenere l’impegno a presentare subito la Relazione al Parlamento. La mobilitazione di stopOPG non si ferma.

Repubblica 21.6.17
L’appello di Hawking: date fiducia alla scienza
Jaime D’Alessandro

TRONDHEIM (NORVEGIA). «La Terra è troppo piccola. Dobbiamo puntare allo spazio e per farlo abbiamo bisogno di resuscitare lo spirito che portò l’umanità sulla Luna», così l’astrofisico inglese Stephen Hawking, intervenendo alla quarta edizione di Starmus. Strano festival a metà fra astronomia e musica, ospitato dalla Università norvegese della scienza e della tecnologia (Ntnu), dove il ritorno al passato per avere un futuro diverso si è fatto mantra. Fondato dal chitarrista Brian May dei Queen, che ha un passato da scienziato e curato dal suo amico astronomo Garik Israelian, quest’anno ospita undici premi Nobel. E gli interventi hanno virato spesso verso la politica, l’educazione, l’Europa e la necessità di tornare a credere in progetti a lungo termine. Lo sottolinea con forza il Commissario europeo per la ricerca e l’innovazione, il portoghese Carlos Moedas. «Il tasso di diffidenza nei confronti della scienza non è mai stato così alto in Europa», racconta facendo riferimento alle campagne anti vaccini che si sono propagate in maniera violenta in Paesi come la Francia e l’Italia. «Bisogna ricostruire il processo di fiducia nella scienza, soprattutto quella europea che è ad altissimi livelli, stabilendo dei grandi obbiettivi come si fece in America proprio negli anni Sessanta: eliminare il cancro e l’hiv ad esempio. E bisogna stabilire anche dei nuovi standard nell’educazione, che è un elemento chiave, prendendo come modello quel che si fa nelle scuole finlandesi dove alla divisione in materie si preferisce un approccio molto più contemporaneo e un approccio multidisciplinare per risolvere i problemi».
Peccato che l’Europa sia in realtà molto divisa. La contraddizione la coglie George Smoot, cosmologo statunitense e Nobel nel 2006 per la fisica che con le sue scoperte ha confermato il Big bang. Da stella della scienza, dirige tre laboratori fra Usa, Francia e Hong Kong e l’Italia la conosce bene. «Molti di voi europei non capiscono che divisi finireste a competere con sud e centro America. La Germania si troverebbe in corsa con il Messico». E l’Italia? «Ho avuto quattro brillanti collaboratori italiani e solo uno di loro è riuscito a rientrare per breve tempo perché non siete in grado di dargli un impiego. Convertire la scienza in nuovi prodotti è la chiave. Lo sanno bene in Africa, Cina e Paesi del Golfo. La Francia si è salvata: Macron è una rivoluzione, ma è una rivoluzione di centro, positiva, e non estremista come la Brexit e il vostro Movimento 5 stelle. Non voglio essere frainteso: adoro l’Italia, ci venni la prima volta nel ‘77, ma oggi da voi comprerei un bell’uliveto in Sicilia». Di aprire un laboratorio non se ne parla.