martedì 20 giugno 2017

La Stampa 20.6.17
Dimentica la moglie per strada
e se ne accorge dopo 40 chilometri
di Antonella Torra


nella miscellanea qui
 http://spogli.blogspot.com/2017/06/la-stampa-20.html

«Ero disperato, pensavo fosse caduta, poi è arrivata quella telefonata da un numero che non conoscevo: era lei, ed era furiosa. L’avevo dimenticata per strada». È il racconto, incredibile, di Valter Gallo, 55 anni, di Bardassano che ha percorso 40 chilometri in moto senza accorgersi che la moglie non era sul sellino dietro di lui. Sembra la scena del film «Pane e tulipani» quando la protagonista viene lasciata in una stazione dell’autogrill. Questa volta la malcapitata, Raffaella 58 anni, di Bardassano, è rimasta a Moncalvo (Asti) dove con il marito aveva pranzato alla sagra «Cucine in piazza». E da dove appunto Valter, impiegato delle poste, è ripartito in moto senza di lei.
Arrivato a Chieri, Valter si è finalmente accorto dell’assenza della donna. «Non l’avevo sentita parlare, per nulla. Mi sono insospettito e mi sono fermato». Era arrivato in piazza Europa a Chieri. «Ho temuto il peggio - racconta -, ho pensato fosse caduta dal sellino e fosse in ospedale. Ho chiamato il 112, ero disperato». Una pattuglia dei carabinieri di Chieri lo raggiunge in pochi minuti. Una storia incredibile quella che ascoltano i militari, ma l’uomo è sconvolto, piange. I carabinieri gli credono, lo tranquillizzano e cercano di ricostruire il percorso fatto per organizzare immediatamente le ricerche della donna. «Ero davanti ai carabinieri che cercavo di capire che cosa era successo, quando mi arriva una telefonata, un numero che non conoscevo». È Raffaella che chiama da un telefono prestato da un passante. Già perché il suo era nel bauletto della moto. La donna è infuriata. «Non ho fatto in tempo a chiederle come stava, dov’era - racconta Valter -. Urlava che era a Moncalvo, che l’avevo lasciata lì. Che ero un disgraziato, come avevo potuto farlo. Sono risalito in moto e sono tornato a prenderla».
L’arrabbiatura non è passata molto in fretta. «È ancora furiosa - dice Valter -. Continua a chiedermi come può essere successo. E io non so spiegare». I due erano arrivati a Moncalvo per la sagra verso le 11. Sono appassionati di moto, con la bella stagione fanno frequenti gite fuori porta. «Io amo le due ruote da quando sono un ragazzo - ammette Valter -. Raffaella mi segue volentieri». Fino a domenica, quando è avvenuto il «fattaccio». «Abbiamo pranzato - continua Valter -, passeggiato un po’ tra le bancarelle, poi abbiamo deciso di tornare a Bardassano. Insieme siamo andati verso la moto». E insieme si sono vestiti: giubbotto di pelle, casco, pronti per partire. «Io poi sono montato in sella, ho sentito lei che armeggiava con il bauletto, a un certo punto, non so come e perché, mi sono convinto che fosse salita. E sono partito». Valter è convinto di aver avuto un’amnesia, un momento di incoscienza: «Quella cosa terribile che succede alle mamme che dimenticano i bambini in auto» dice. Lei, Raffaella, non sente ragioni e in moto con lui non salirà più.

Corriere 20.6.17
Il Vaticano: «Il caso per noi è chiuso» Ma gli Orlandi: «Fonti attendibili»
«Nel dossier documenti segreti fino al 1997»
di Fiorenza Sarzanini

ROMA La risposta arriva ancora prima che l’istanza venga depositata presso la segreteria di Stato. Mentre l’avvocato della famiglia di Emanuela Orlandi avvia la procedura per «chiedere la consegna del dossier custodito in Vaticano sulla scomparsa della ragazza», il sostituto per gli affari generali della segreteria monsignor Angelo Becciu è categorico: «Per noi il caso è chiuso». Una posizione che però non scoraggia il fratello della giovane sparita il 22 giugno del 1983 a quindici anni. E soprattutto i suoi avvocati Annamaria Bernardini De Pace e Laura Sgrò.
L’iscrizione all’anagrafe
Nella memoria Sgrò sollecita la visione dei documenti e si rivolge direttamente a «sua Eminenza Pietro Parolin chiedendo di essere ricevuta per illustrare ulteriori aspetti di questa triste vicenda». Di più non specifica, ma il colloquio dovrebbe riguardare le «fonti» che hanno riferito dell’esistenza di questi documenti inediti «con dettagli anche di natura amministrativa dell’attività svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento».
Anche tenendo conto che Emanuela Orlandi è figlia del messo pontificio ed è dunque iscritta all’anagrafe della Città del Vaticano, dunque la decisione di negare ai legali della sua famiglia «l’accesso agli atti» potrebbe aprire una questione di diritto internazionale che le gerarchie ecclesiastiche hanno finora sempre cercato di evitare.
Il «no» del prelato
Sono le 11 di ieri quando il legale deposita l’istanza presso la Segreteria. Alla stessa ora monsignor Becciu partecipa alla presentazione di un libro su papa Francesco e quando gli viene chiesto un commento sulla vicenda, dichiara: «Abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Non possiamo fare altro che condividere e prendere a cuore la sofferenza dei familiari. Non so se la magistratura italiana ha nuovi elementi, da parte nostra non c’è nulla da dire in più rispetto a quanto detto».
Una posizione che lascia stupefatti i legali e soprattutto Pietro Orlandi determinato a scoprire, come ha scritto in una lettera indirizzata al Pontefice nel marzo scorso, l’identità di «chi in Vaticano sa e da tanti anni tace, diventando complice di quanti hanno avuto responsabilità in questa vicenda».
Soprattutto perché respinge, ancora prima di esaminare quella che è una vera e propria supplica, ogni possibilità di aprire il dialogo evidenziando «una totale mancanza di collaborazione».
Le «fonti» riservate
Eppure sono diverse le «fonti» che hanno confermato l’esistenza di un carteggio segreto. Le loro testimonianze sono emerse nel corso delle indagini sul caso Vatileaks sui dossier riservati che nel 2012 e poi nel 2014 sono stati portati fuori dalla Santa Sede e in parte consegnati ai giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. In quel fascicolo sarebbero finiti documenti diversi, compresi alcuni «atti amministrativi». Le indiscrezioni parlano di un arco temporale che arriva fino al 1997, ma su questo non ci sono dati certi ed è proprio uno degli argomenti che gli avvocati della famiglia Orlandi vorrebbero affrontare con il cardinale Parolin.
Becciu non nega esplicitamente l’esistenza del dossier, si limita a sottolineare di aver già «fornito tutti i chiarimenti richiesti». Un riferimento evidente alle risposte date alle rogatorie presentate nel corso di questi trentaquattro anni dalla magistratura italiana. Nell’istanza se ne parla in maniera approfondita, ma si sottolinea come gli elementi forniti dalla Santa Sede non siano riusciti in realtà a chiarire tutti i misteri che ancora segnano la sparizione della quindicenne, nonostante gli accertamenti dei pubblici ministeri abbiano fatto emergere il ruolo di diversi prelati.

Corriere 20.6.17
Il cardinale Re: «La sparizione? Messaggi degli 007 ad Agca»
Il porporato 83enne all’epoca dei fatti era alla Segreteria di Stato: non avevamo nulla da nascondere
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO «Guardi, le posso assicurare che la Segreteria di Stato non aveva proprio niente da nascondere. Anzi, avrebbe desiderato rendere pubblico qualsiasi elemento, solo che non avevamo nulla di concreto». Il cardinale Giovanni Battista Re, 83 anni, appena nominato da Francesco vicedecano del collegio cardinalizio, ai tempi della scomparsa di Emanuela Orlandi era assessore agli affari generali e quindi «numero tre» della Terza loggia.
Sono passati 34 anni, molte delle personalità vaticane di allora sono morte e Re, come diceva padre Lombardi, è oggi «il principale e più autorevole testimone di quel tempo». Un’idea il cardinale se l’è fatta: «Non sono mai riuscito ad avere in mano nessun riscontro, è solo una mia intuizione. Però, ripensando a quei giorni, mi sono convinto che dietro la scomparsa ci fosse un servizio segreto interessato a mandare messaggi ad Ali Agca, perché non dicesse la verità. Aveva cominciato a parlare e poi ha ritirato tutto».
Ma questo è stato dopo, «allora si era cercato di seguire gli sviluppi, ma senza trovare elementi». Del resto le parole del Sostituto Angelo Becciu, «abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci hanno chiesto», non fanno che riflettere la ricostruzione minuziosa di padre Federico Lombardi all’inizio del primo caso VatiLeaks, il 14 aprile 2012. Anche allora si parlò di un «appunto» che ricostruiva la vicenda Orlandi tra le carte trafugate. E di segreti. «A volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e alla frustrazione di non riuscire a trovare la verità», considerava l’allora portavoce della Santa Sede.
Padre Lombardi ricordava gli otto appelli pubblici di Wojtyla, elencava «le notizie trasmesse a suo tempo al pm Sica», le «tre rogatorie degli inquirenti italiani, una nel ’94 e due nel ‘95» che «trovarono risposta» anche nella «seconda fase dell’inchiesta», le deposizioni dei testimoni, compreso Re. E riassumeva: «Non risulta sia stato nascosto nulla, né che vi siano in Vaticano “segreti” da rivelare sul tema. Continuare ad affermarlo è del tutto ingiustificato, anche perché tutto il materiale pervenuto in Vaticano è stato consegnato al pm e alle autorità di polizia; inoltre, il Sisde, la Questura di Roma e i carabinieri ebbero accesso diretto alla famiglia Orlandi e alla documentazione utile».
Lombardi invitava a «non scaricare sul Vaticano colpe che non ha». Allora si condivideva l’«opinione prevalente» che il sequestro fosse legato ad Agca. Ma «la sostanza è che purtroppo non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del caso da fornire agli inquirenti».

Corriere 20.6.17
Le ricette antiche di Corbyn e la sinistra senza progetto
di Paolo Franchi

Forse è il caso di non archiviare tanto in fretta il caso Corbyn, e di guardarci ancora un po’ dentro. Dice bene Giuliano Amato al Corriere, riconoscendo apertamente “il fallimento storico della Terza Via” clintoniana e blairista (ma per l’Italia sarebbe il caso di aggiungere: dalemiana) degli anni Novanta. Il “bizzarro” Jeremy Corbyn, che sembrava “il candidato al massacro”, non ha perso “perché è rimasto vicino a quelli cui gli altri non erano neanche in grado di rivolgere la parola”. Neanche lui, però, aveva delle vere risposte. Proponeva, per esempio, “l’università … gratis”: ma “la parola gratis non funziona mai”, perché “nulla è mai gratis, c’è sempre qualcuno che paga”. Tutto vero, tutto giusto. O quasi: le cose sono nello stesso tempo più semplici e più complicate.
Lasciamo perdere, per carità di patria nei confronti della vasta comunità politica e giornalistica di cui, ci piaccia o no, facciamo parte, la storia di Corbyn “candidato al massacro”, e veniamo alla sostanza. A non potersi nemmeno rivolgere al quaranta per cento degli elettori che hanno votato per il “bizzarro” segretario laburista sono stati i conservatori della signora May, certo, ma pure i liberaldemocratici, nonostante contro la Brexit si fossero battuti ben più convintamente di Corbyn; e con ogni probabilità anche un ipotetico candidato espresso da quel nutrito gruppo di parlamentari laburisti ai quali il radicalismo corbyniano sembra (sembrava?) fuori dal tempo e dalla realtà avrebbe faticato assai a trovare le parole adatte. Corbyn le ha trovate attingendo a piene mani dai valori e dalla storia di un partito, il Labour o, se preferite, l’Old Labour, difficile da etichettare, anche perché largamente eccentrica rispetto a quella del movimento socialista internazionale: già sul finire dell’Ottocento, per dire, gli operai britannici se ne infischiavano del socialismo, e chiedevano “pane, bistecca e birra”, come ha ricordato Danilo Di Matteo, nel suo blog sull’Unità online.
Il programma di Corbyn non sarà paragonabile a quello che portò al trionfo (contro Winston Churchill, non contro Theresa May) Clement Attlee nel 1945, ma di sicuro gli elettori britannici lo hanno trovato migliore di quello che portò alla disfatta il povero Michael Foot contro Margaret Thatcher nel 1983. Non era molto dissimile, è vero. Il fatto è che in 34 anni sono successe parecchie cose, che hanno re so quei concetti e quelle proposte più appetibili e, se è lecito, più moderni. A cominciare ovviamente dalla globalizzazione che, come giustamente sostiene Amato, in Cina o In dia ha “cetomedizzato” i proletari, ma in Gran Bretagna, come in tutto l’Occidente, ha impoverito, oltre che i proletari già mazzolati dalle politiche neoliberiste, gli stessi ceti medi. Contribuendo in misura determinante al rovesciamento del paradigma dei decenni precedenti: al progressivo ridursi delle distanze economiche e sociali tra le classi è subentrata una crescita inaudita della sperequazione sociale, di qua i ricchi, non pochi, sempre più ricchi, di là i poveri, sempre di più, e sempre più poveri.
Il fallimento (non solo in Gran Bretagna) della Terza Via, di cui parla Amato, sta largamente qui, nell’essersi affidati, come capita ai vinti che non hanno nemmeno la forza di difendere i propri meriti storici e le proprie ragioni, ai nemici di ieri, la finanza e il mercato, nella convinzione che lì soffiasse il vento della storia. Esagerava un po’, il compianto Luciano Gallino, quando sosteneva che negli ultimi decenni c’è stata una gigantesca lotta di classe all’incontrario. Ma almeno aveva il merito di chiamare le cose con il loro nome. Come ha scritto il saggio Emanuele Macaluso, un novantatreenne che non è certo un estremista, ma come il sessantottenne Corbyn sa parlare ai giovani anche perché non disconosce il suo passato: “La lotta di classe non va mitizzata, ma nemmeno sottovalutata. È la vita che ce lo suggerisce”. Aggiungendo che negli ultimi tempi l’hanno stravinta, senza incontrare resistenze, “i signori che hanno in mano le leve del potere”.
Il linguaggio è antico, ma una sua forza la ha, forse maggiore di tanti più recenti balbettii. Così almeno devono aver pensato tanti elettori britannici, gli operai e i disoccupati, certo, ma pure i giovani, che hanno votato a stragrande maggioranza per i laburisti, e se è per questo persino molti abitanti dei quartieri alti londinesi, evidentemente poco convinti dalle teorie del conservatorismo compassionevole. È vero quel che dice Amato, niente è gratis, nemmeno gli studi universitari, e Corbyn idee precise su come finanziare le sue riforme sociali non le ha. Ma il populismo non c’entra. L’aumento della tassazione che propone per le imprese e i più ricchi (il cinque per cento della popolazione), discutibile e comunque insufficiente, sta nella tradizione socialdemocratica, per la quale la leva fiscale è lo strumento principale per redistribuire reddito e potere. Può darsi che si tratti di un mantra ormai inutilizzabile, e che il problema sia, al contrario, quello di abbassare per tutti il carico fiscale. Anche in questo caso, però, alla sinistra (compresa, se c’è, quella italiana) spetterebbe il compito di provarsi a individuare un progetto più moderno, realistico e incisivo, e comunque un po’ più decente della politica dei bonus per risarcire qualcosina della loro emarginazione ai giovani e ai meno abbienti. Sempre che, con Corbyn, condivida almeno lo slogan elettorale: “Vogliamo una società più giusta non per pochi, ma per tanti”.

il manifesto 20.6.17
Note alla fine del secolo
Saggi. Tra pubblico e privato. «Diari 1988-1994» di Bruno Trentin per le Edizioni Ediesse
«Run Beyond», installazione di Angelo Bonello
di Aldo Garzia

Non dev’essere stato facile per Marcelle Marie Padovani, storica corrispondente del Nouvel Observateur, decidere di dare via libera alla pubblicazione dei diari di suo marito Bruno Trentin (Pavie 1926-Roma 2007). La scrittura diaristica è infatti per definizione intimista, una sorta di dialogo solitario con se stessi quasi psicanalitico. In più, può svelare tratti dell’autore che stridono con il suo personaggio pubblico, nel caso di Trentin una figura di assoluto prestigio del sindacalismo e della politica europei: giovanissimo partigiano, deputato comunista già nel 1963, poi segretario della Fiom, poi ancora segretario negli anni cruciali 1988-1994 della Cgil e infine per una legislatura parlamentare europeo. Il nome di Trentin è dunque stato legato per decenni alle vicende della Cgil, dove lo aveva chiamato Vittorio Foa all’Ufficio studi nel 1950, animandone l’azione e l’elaborazione.
Proprio la forma diaristica dei testi contenuti in Diari 1988-1994 (a cura di Iginio Ariemma, pp. 510, euro 22, edizioni Ediesse) può farli apparire crudi nella forma e nei giudizi che contengono su protagonisti e passaggi della storia della sinistra. Valutazioni lapidarie e più o meno critiche sono riservate a tanti protagonisti di quegli anni, tra cui Pierre Carniti, Luciano Lama, Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti (a dividerlo verso quest’ultimo ci sono oltre ai rilevanti dissensi politici e di pratica sindacale le diversità di temperamento e di comportamento che lo irritano particolarmente).
ANCHE CON IL MANIFESTO Trentin non è tenero. Scrive per esempio il 24 dicembre 1990: «Mi sono indignato per i commenti (fra il delirio estremista, il gioco mondano e la lirica dannunziana) di quasi tutti i redattori del Manifesto. Non capisco neanch’io il perché. Dovrei averci fatto il callo». Qualcuno dei destinatari delle frecciate corrosive se ne rammaricherà, ai lettori viene data però l’opportunità di conoscere con questi diari anche «l’altro» Trentin: l’uomo con i suoi umori più privati, gli assilli esistenziali, le depressioni, le letture a tutto campo, le linee di ricerca più recondite, l’instancabile impegno politico e culturale condito anche da solitudine. Il che rende il ritratto di Trentin, a dieci anni dalla morte, grazie proprio alla pubblicazione di questi diari, più completo e meno scontato.
A colpire fin dalle prime pagine è il cruccio principale di Trentin. Lui è consapevole della crisi che vive alla fine degli anni ottanta la modalità di azione e organizzazione del sindacato in quanto tale, non solo della Cgil. Superamento del taylorismo e avvio dei processi di globalizzazione mettono infatti a dura prova il sindacato. A fine agosto 1988, mentre si stanno concludendo le vacanze tra le amate montagne di San Candido, scrive: «Volontà di interrompere una parentesi, di riaffrontare il toro per le corna (la crisi della Cgil)… Sono assillato dall’idea di formulare correttamente i fini storici di un sindacato di classe (solidaristico)». Subito dopo annota con amarezza i pericoli di burocratizzazione del sindacato e di perdita di senso della sua rappresentanza.
La responsabilità che gli è capitata addosso, dopo la rapida fine della segreteria di Antonio Pizzinato, è particolarmente gravosa. Lui prova a rispondere in modo non burocratico al dilemma sul destino del sindacato, parlando di programmi, dimensione europea dell’azione interrogando l’organizzazione sulle sue funzioni, accentuando la lotta politica contro la corrente di «Essere sindacato» capeggiata da Fausto Bertinotti verso cui non sarà mai indulgente ma pure nei confronti di quella socialista di Ottaviano Del Turco.
NEGLI ANNI DELLA SUA SEGRETERIA IN CGIL, Trentin cercherà in tutti i modi di avviare l’autoriforma del sindacato ridisegnandone la natura come «sindacato dei diritti» e non solo del lavoro, proponendo conferenze programmatiche (se ne farà una a Chianciano che però lo deluderà per gli esiti molto modesti) che servissero a fare i conti con le nuove problematiche dell’iniziativa sindacale su scala europea.
L’anno più terribile  per Trentin è quello che va dal luglio 1992 al luglio 1993, quando deve fare i conti con il governo Amato e le emergenze della situazione economica. Si piega con molta inquietudine a firmare l’accordo tra sindacati e governo del 31 luglio 1992 che abolisce la scala mobile e sterilizza la contrattazione a favore di una impopolare politica dei redditi di cui non è per niente convinto. Perché lo fa? Scrive Trentin: «Mi sono trovato assediato… La divisione dei sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico». Il senso di responsabilità e il timore della fine di ogni unità sindacale lo spinge a siglare l’accordo lasciando però liberi gli organismi direttivi della Cgil di convalidare o meno l’intesa. Trentin si dimetterà da segretario lo stesso 31 luglio, poi a settembre le sue dimissioni verranno respinte dal Direttivo Cgil, provocando – scrive lui stesso – «un inferno dentro di me».
LA PERIODIZZAZIONE 1988-1994 di questi diari fa rivivere la drammaticità dei fatti epocali che si susseguono in quella fase: sconfitta del tentativo riformista di Mikhail Gorbaciov a Mosca, crollo del Muro di Berlino, crisi irreversibile del «socialismo reale», avvio della trasformazione del Pci fino all’attuale Pd, guerra del Golfo, rivoluzione tecnologica, ulteriore perdita di ruolo e rappresentanza del sindacato, vittoria elettorale della destra berlusconiana. Quelle di Trentin sono di conseguenza pagine dense, piene di spunti e amare riflessioni. Aiuta nella lettura la suddivisione in capitoli insieme alla guida che ci propone il curatore Ariemma con le sue introduzioni ragionate.
Com’era sua abitudine, le note di Trentin uniscono giudizi sui fatti che scorrono a pensieri più lunghi e profondi. Sul destino del «socialismo reale» non ha dubbi fin dai fatti di piazza Tienanmen a Pechino del 1989: «Si è privilegiata, in modo astratto e senza considerarne i limiti, le lotta per l’equità non quella per la libertà e contro l’oppressione… il comunismo da movimento reale di trasformazione della società è diventato orizzonte ultimo e fine della storia». Sulla vittoria di Silvio Berlusconi scrive: «Il berlusconismo mette in luce la drammatica scissione tra l’autonomia del politico praticata da una sinistra balbettante e il contenuto concreto e le forme specifiche che assumono i conflitti di interesse e di potere nella società civile».
Quando le vicende internazionali si riflettono in Italia con la «svolta» proposta da Occhetto, non ha alcuna tentazione a far parte del fronte del no che ha i propri battistrada in Pietro Ingrao, Lucio Magri, Sergio Garavini, Aldo Tortorella e Armando Cossutta. Pur segnalando la povertà politico/culturale che accompagna la proposta di Occhetto e non diventandone un protagonista per la sua collocazione in Cgil, la battaglia contro il cambiamento di nome e simbolo gli appare anch’essa non dimensionata alla portata degli eventi. In alcune riunioni proporrà – inascoltato, come gli capiterà spesso – di chiamare ciò che nascerà dalle ceneri del Pci «partito del lavoro» o «partito dei lavoratori». Quando si libererà dagli impegni in Cgil e lascerà la segreteria a Sergio Cofferati, farà parte – insieme a Giorgio Ruffolo, Alfredo Reichlin e altri – del gruppo che deve stendere la carta di intenti, il «programma fondamentale» del nuovo partito. Per Trentin, sarà l’ennesima delusione.
IL CABOTAGGIO DELLA POLITICA QUOTIDIANA appare ai nuovi gruppi dirigenti più rilevante rispetto alla necessità di occuparsi dei «fondamentali». Trentin, lo si apprende dagli appunti sulle sue molteplici letture filosofiche e letterarie di quel periodo, va in direzione opposta. La sua elezione al Parlamento europeo dal 1999 al 2004, dove tornerà a occuparsi di lavoro e di contrattazione, equivale infine a un esilio che forse stempera le delusioni dell’uomo e del politico Trentin che torneranno a dominarlo negli ultimi anni di vita fino all’incidente a San Candido nel 2006, che ne causò la morte l’anno dopo.
Dalla lettura dei diari emerge la traiettoria originale di Trentin che negli ultimi anni sembra tornare alle origini della sua cultura azionista come riposta alla crisi del comunismo (il padre Silvio Trentin era stato tra i fondatori del Partito d’azione e lui stesso ne aveva fatto parte). Le sue teorizzazioni dell’ultimo periodo sul «sindacato dei diritti» e sul socialismo moderno mettono in primo piano libertà ed eguaglianza delle opportunità in una concezione libertaria della politica e della società. Il pensiero e l’azione di Trentin diventano così la felice sintesi dell’incontro tra il meglio della cultura marxista italiana e del liberalismo atipico con Antonio Gramsci e Piero Gobetti punti di riferimento. Bisogna ripartire da lì, sembra dirci Trentin con i suoi diari.

Il manifesto 20.6.17
Il singolo trascinato nel vortice del comunitarismo
Saggi. «La società orizzontale. Liberi senza padri» di Marco Marzano e Nadia Urbinati per Feltrinelli
La polemica con Massimo Recalcati
di Francesco Antonelli

L’attenzione pubblica è oggi concentrata sulla diffusione della così detta cultura populista. Tuttavia, vi è una tendenza meno immediatamente leggibile ma certamente di più lungo corso, di radicare anche in Italia una cultura liberale, sia nella sua versione di sinistra o liberal sia in quella di destra o neo-liberista. Fenomeno animato soprattutto da intellettuali (alcuni dei quali con un passato da neo-marxisti) e fatto proprio, senza riconoscerne molto spesso la paternità e non senza rilevanti deformazioni, da una parte significativa della classe politica italiana. Il libro di Marco Marzano e Nadia Urbinati La società orizzontale. Liberi senza padri (Feltrinelli, pp. 112, euro 16) si colloca proprio in questa tendenza.
IL LIBRO SI MUOVE tutto attorno ad un’opposizione di sapore popperiano tra «società patriarcale» (dunque chiusa) e «società orizzontale» (dunque aperta), in dialogo polemico, tra gli altri, con Massimo Recalcati e con tutti quelli che vedono nel declino dell’autorevolezza e nella necessità di ricostruirla nelle istituzioni e nella società una sfida ineludibile.
LA SOCIETÀ PATRIARCALE sarebbe quella che ha dominato la storia dell’Italia repubblicana, tutta incentrata su istituzioni (in primo luogo politiche) organizzate come chiese, gerarchiche e fortemente clientelari-paternalistiche. Non a caso il cattolicesimo viene indicato in questa ricostruzione come una delle principali origini dei mali italici passati e presenti, anche quando si presenta con il volto benevolo di Papa Francesco. A questo modello socioculturale che continua a sopravvivere con forza nei meandri della società italiana e che si manifesterebbe su un piano più generale, europeo e mondiale, come il ritorno dell’idea di una società chiusa, neo-comunitaria, populista, si contrapporrebbe una positiva società orizzontale in fase di costruzione e consolidamento: questa società è centrata sull’individuo autonomo e responsabile, quello teorizzato dall’Illuminismo, e che lotta per una società più aperta e libera.
È NEI TRE ORIZZONTI classici del paternalismo e, oggi, del neo-populismo, che emergerebbe la lotta fatale tra queste due società: Dio, Patria, Famiglia, corrispondenti a sfera religiosa, politica e familiare. Dal punto di vista religioso in Italia staremmo assistendo al radicarsi di una religiosità simile a quella del protestantesimo tradizionale, centrata cioè sull’autonomia morale e spirituale degli individui. Sul piano politico al posto dei vecchi partiti starebbero consolidandosi reti di individui attivi politicamente (anche grazie alle tecnologie digitali). Su quello familiare, infine, starebbero diffondendosi rapporti centrati su condivisione, responsabilità e parità tra generi (in realtà, tema poco trattato dal libro) e generazioni.
Insomma, il termine chiave della nuova società orizzontale sarebbe responsabilizzazione delle persone e quadratura del cerchio tra quella uguaglianza e quella libertà che Alexis de Tocqueville, osservando gli Stati Uniti del XIX secolo, indicava come in continuo conflitto in una società democratica poiché l’amore per l’uguaglianza rischiava continuamente di sopprimere la libertà e l’autonomia individuale. Per Marzano e Urbinati staremmo dunque diventando inesorabilmente più anglosassoni e quindi più adulti.
DUE SONO I GRANDI PROBLEMI di questo libro, che neanche conclusioni più equilibrate dell’argomentazione sviluppata nel testo, riesce a risolvere: il primo è un’eccessiva linearità dell’analisi che sfocia nell’ideologia. Tutti i mali del presente sarebbero semplicemente riconducibili alla sopravvivenza di una società patriarcale (che in Italia vuol dire per i due autori quasi esclusivamente presenza della Chiesa cattolica) mentre non si riconoscono a sufficienza quelle storture come precarietà, sterilizzazione della democrazia, declino della solidarietà sociale, aumento delle disuguaglianze, prodotte proprio dall’ascesa di una società di soli individui.
Il secondo problema da risolvere è che, ai tempi della crisi, questo testo nasce inesorabilmente come datato, persino superato da molte riflessioni prodotte, ad esempio, da Ulrick Beck e Zygmunt Bauman sui rischi dell’individualismo già all’inizio del 2000: la sfida oggi è quella di sottrarre ai populisti l’importante tema della ricostruzione del sociale, invocato da gran parte dei ceti popolari e medi, in modo da realizzare una società includente e democratica. Un’alternativa sia al modello neo-comunitario e xenofobo incarnato da Trump o da Salvini sia a quello neo-liberale globale esaltato, ormai fuori tempo massimo, proprio da Marzano e Urbinati.

il manifesto 20.6.17
D’Alema: «A sinistra è vietata la rottura, per tutti noi è l’ultima chiamata»
Il colloquio. L'ex premier: un fischio non mi spaventa, ma insieme a tanto impegno al Brancaccio c’era dell’estremismo. La sfida di governo è doverosa. I civici facciano una svolta, servono tutte le forze. Con Pisapia ingenerosi, ho detto a Vendola: non è una creatura del renzismo
di Daniela Preziosi

ROMA Per dirla come la direbbe un comunista italiano, non si può dire che Massimo D’Alema sia stato convinto dalla riunione dei ’civici’ di domenica scorsa al Brancaccio.
«Da vecchio militante ho una certa esperienza di assemblee, in questa c’era un po’ di estremismo. A partire dall’introduzione di Tomaso Montanari», spiega a chi gli chiede  un giudizio.
C’è dell’ironia. Ma la questione è  seria.
D’Alema era in prima fila, a un passo dal palco, quando il combattivo giovane studioso ha elencato le colpe del vecchio centrosinistra. E, nel lungo elenco, ha scandito  «la guerra illegale in Kosovo». D’Alema, che era il presidente del consiglio in quel marzo ’99, non ha mosso ciglio.
Ma ora replica: «Vorrei spiegare a Montanari che di questo fui accusato da un gruppo di giuristi. Poi la Cassazione emise una sentenza che archiviò tutto riconoscendo la piena legittimità del mio agire». Perché, spiega, l’art.11 della Costituzione dice che «l’Italia ripudia la guerra» eccetera, «ma poi anche che consente alle limitazioni di sovranità necessarie agli obblighi derivanti dai trattati internazionali». La conclusione è tagliente: «L’accusa è decaduta, se lui la rilancia è una calunnia».
Non che intenda passare alle carte bollate, l’ex presidente del consiglio. Ma «il mondo è complesso, prima di parlare meglio informarsi, non ci si aspetta da un illustre storico dell’arte una sortita inutile e dannosa. Non si fanno battute a caso, tanto più se si lavora ad unire la sinistra».
Segue racconto dei suoi ritorni in Serbia, dei giovani che lo hanno ringraziato perché quella guerra fu l’inizio «del ritorno alla libertà». Ma questa sarebbe un’altra storia.
FATTA QUESTA PREMESSA – come dire, patti chiari per un’amicizia lunga – torniamo all’assemblea del Brancaccio. Che D’Alema ha seguito dall’inizio alla fine, cinque ore incollato alla poltrona («sono un professionale, se partecipo a un’assemblea non ’passo’ per fare finta, e poi avevo un’autentica curiosità»), incastrato fra Luciana Castellina e Nichi Vendola.
LA PRIMA IMPRESSIONE «è che ci fosse un certo furore iconoclasta, non contro Renzi ma contro tutti». Soprattutto contro l’ex sindaco di Milano, bersaglio di salve di fischi per interposto senatore Gotor, che ha parlato dal palco resistendo alle interruzioni.
«Il becerare contro Pisapia e i fischi a Gotor non portano lontano. Gli organizzatori dovevano fermarli, sono inutili anche alla causa che cercano di sostenere. Altro segno di estremismo e settarismo, l’avversione verso il più vicino: quello più lontano è un avversario, quello più vicino è il traditore».
SEMBRANO PREMESSE POCO incoraggianti per chi si è assunto la fatica erculea di unire la sinistra, una sinistra così. E invece il senso del ragionamento di D’Alema è un altro. Opposto. A dispetto delle premesse.
Ed è un appello, un’ultima chiamata. «La situazione del paese è grave, persiste la difficoltà italiana di agganciare la ripresa, persistono le gravissime diseguaglianze, c’è un enorme problema disoccupazione giovanile, e l’attuale guida del governo, che pure ha fatto delle cose sui diritti civili, non appare in grado di imprimere la svolta necessaria al paese», dice.
«Il paese va verso elezioni in cui le alleanze saranno due: quella del Pd con Forza italia da una parte, quella di Grillo con Salvini dall’altra. Un’alternativa diabolica, nessuna in grado di portare il paese fuori dal disastro».
Dunque non c’è scelta, «dobbiamo raccogliere tutte le forze e mettere in campo un’altra possibilità. Nell’assemblea, fra qualche eccesso estremistico di cui dicevo, si è espressa però anche una ricchezza di risorse, di militanza e impegno civile, quello che i partiti – che non sono autosufficienti – debbono ascoltare. Ma quello che non ho avvertito è l’urgenza e la responsabilità di una sfida di governo. E invece dobbiamo offrire al paese una chance. Anzi, è il nostro dovere».
SENZA SCADERE nelle accuse di minoritarismo, nei fatti quella del governo non è stata la preoccupazione principale degli interventi. Neanche in quelli «di linea» dell’avvocata Falcone e del prof Montanari.
«Ecco. In un altro contesto potremmo intrattenerci con l’idea di lungo periodo di ricostruire la sinistra. Oggi però chi lo pensa manca di senso di responsabilità, di senso della gravità della situazione», di analisi insomma, «e non possiamo permettercelo».
DI QUI ARRIVA AL CUORE del ragionamento: «La rottura» è quello «che non possiamo permetterci», e il problema non sono i fischi, «non ci spaventano», il punto è che «spetta a chi ha voluto l’iniziativa del Brancaccio promuovere una svolta rispetto a quell’atteggiamento contraddittorio».
Nel vicolo stretto dell’unità siamo già arrivati al crocevia «svolta o rottura», eterna pietra d’inciampo del centrosinistra.
Ma i fischi, è l’obiezione, non sono un segno di primitivismo, insomma quanti fischi – da quelli contro Berlinguer dei socialisti di Craxi – hanno significato serissimi contrasti politici, ancorché sonanti e sibilanti?
La proposta di primarie con il Pd, la scelta di Pisapia: l’assemblea ha detto il suo no a questo. Fischiando, facendo un po’ di chiasso.
«GUARDI, ERO VICINO a Vendola, gli ho ricordato che Pisapia non è una perfida creatura del renzismo. E comunque quest’atteggiamento è ingeneroso. Io lavoro all’idea di una lista aperta alla società civile, che non sia un cartello di partiti» tipo lo sfortunato Arcobaleno di Bertinotti, «che incalzi il Pd sui contenuti, con l’idea che in questo paese l’alternativa alla destra si può fare solo con un centrosinistra marcato da una discontinuità. Sa cos’è?», no, «sono le parole di Pisapia a Milano, all’iniziativa di Art.1, e le condivido».
«Falcone e Montanari capiranno che non c’è apertura se ci si prende a pernacchie. Dicono ’passiamo ai contenuti’: bene, al Brancaccio in mezzo a qualche follia ho sentito cose interessanti, si possono sviluppare. Ma è strumentale dire che non sappiamo cosa pensa Pisapia dei voucher: ha espresso solidarietà alla Cgil».
RESTA QUELLA PROPOSTA indecente di primarie con il Pd, quella relazione pericolosa con Renzi. Che anche D’Alema notoriamente non condivide.
«Consideriamolo un eccesso di generosità destinato a fallire, anzi già fallito visto che Renzi – ma che disinvoltura è quella di chi passa in un’ora dall’alleanza con Berlusconi a quella con Pisapia? – gli ha proposto un pugno di posti. Ci fa piacere pensare che era una proposta così implausibile da essere stata fatta apposta per essere rifiutata».
IN OGNI CASO PER D’ALEMA questa proposta non c’è più, respinta dallo stesso Renzi. Quindi, i ’civici’ sono a un bivio: «Abbiamo un disperato bisogno di lavorare su quello che ci unisce, e non lasciarci affliggere dalla malattia mortale della sinistra ovvero l’entusiasmo per ciò che divide. Dobbiamo sentirne il dovere».
TUTTO MOLTO BELLO, ma qualcosa non torna. Per il Fatto lei ha detto che Pisapia è un «cog..one».
«Non è vero, non l’ho mai detto. Non mi dilungo perché la mia saggistica sul giornalismo italiano è già vasta». E poi, «sono diventato buono, so che i giornalisti hanno nostalgia del D’Alema cattivo ma invece, vede, ho ascoltato quelle calunnie sul Kosovo e sono rimasto seduto. In altri tempi mi sarei alzato e me ne sarei andato. A proposito, andrò a piazza Santi Apostoli il primo luglio, lo considero un mio dovere di militante».

Il Fatto 20.6.17
“Subito un leader? Niente primarie in stile talk-show”
di Fd’E

Professore, Paolo Mieli scrive che ci sono varie cose che non quadrano a sinistra. Soprattutto due: leadership e alleanze.
Non mi stupisce. Mieli è un osservatore autorevole ma smaliziato e gli è difficile guardare con occhiali inconsueti quello che è successo domenica al Brancaccio di Roma.
Però di fronte alle divisioni, le primarie sono una risoluzione oggettiva.
Qui non si tratta di federare correnti e di legittimare una classe dirigente. Le primarie del Pd sono una messinscena. Qui il problema è diverso.
Questione di occhiali, appunto.
In tutti questi anni quando si è voluto costruire la sinistra dal tetto poi è sempre crollata. Noi vogliamo andare in direzione opposta.
Dal basso verso l’alto.
Guardi che io non voglio rifare la Sinistra Arcobaleno o la lista Ingroia…
C’era anche lui domenica. Gotor, guardandolo, ha detto: “Ingroia 2, la vendetta”.
Non esageriamo, già non l’abbiamo fatto parlare, non buttiamogli tutte le croci addosso.
Rimettiamo gli occhiali inconsueti.
Al Brancaccio ci sono stati tantissimi interventi. Dico: ma a Giuseppe De Marzo di Libera o Andrea Costa di Baobab che gliene frega della leadership e delle alleanze. Per questo ribalto lo schema di Mieli.
Ribalti.
Non voglio essere cattivo ma Mieli sa quanti leggono il Corriere della Sera? Magari sono lettori che stanno economicamente bene e possono leggere i giornali.
Un altro mondo.
Ecco, noi siamo fuori da quel quadro che ha tratteggiato Mieli. Un quadro che si nutre di giochi politici e di talk-show.
Niente primarie, allora.
Il punto vero è che non stiamo cercando un leader ma un popolo che è disorganizzato.
Lei si è forgiato nella battaglia referendaria.
Una parte grande di quei 20 milioni di No è di sinistra. Noi andiamo in cerca di quel 50 per cento che non vota. È questa la novità.
Il problema Pisapia però rimane.
Il primo luglio andrò a sentirlo.
Ah, lei va in piazza Santi Apostoli.
Certo, ma dubito che mi facciano parlare (ride Montanari, ndr).
E poi?
Mi rifaccio a quello che ho detto domenica: noi vogliamo rompere con le stagioni dell’Ulivo che hanno smontato lo Stato e precarizzato il lavoro. Ho citato Prodi, quando nel suo libro ammette: “Ci siamo dimenticati l’uguaglianza”.
D’Alema sbuffava.
Chiariamoci una volta per tutte: nessuno ha detto a D’Alema “vai fuori”. L’importante è sapere dove si va. Basta con i disastri di quel centrosinistra.
E i grillini? Sono potenziali alleati, secondo le aspettative del vostro popolo. Più loro del Pd.
Ho guardato con grande speranza al M5s, ma la scelta di affidarsi al figlio del fondatore è da antico regime. E oggi i grillini usano la paura come la Lega di Salvini.
In ogni caso bisognerà arrivare alle elezioni.
Tra poco faremo una piattaforma di dieci punti per costruire le assemblee sul territorio. Il successo della nostra lista civica a Padova è un modello.
Ma una direzione dal centro ci vuole. Almeno il minimo sindacale.
Faremo un gruppo informale, con partiti e società civile.
Lei e Anna Falcone siete una garanzia per molti.
Io non voglio diventare un professionista della politica. Mi sono deciso solo perché invidio i miei amici spagnoli che votano Podemos.
Lei fa una Podemos antirenziana.
Sì, se per antirenzismo intendiamo le politiche del Pd che hanno radicalizzato le diseguaglianze.

il manifesto 20.6.17
La tentazione che frena la sinistra
di Norma Rangeri

Non è che l’inizio, l’inizio di una perigliosa navigazione però. L’affollata assemblea di domenica al teatro Brancaccio ha riunito le isole dell’arcipelago della sinistra, quelle che nel referendum del 4 dicembre hanno vissuto e condiviso la felice battaglia per la Costituzione. Accanto a una straripante partecipazione, molto importante per l’avvio dell’impegnativo cammino, sono emersi tuttavia forti accenti identitari, una scarsa propensione all’unità. Anzi, di più: l’impressione netta è che per il momento i carri della carovana della sinistra in costruzione siano due. Orientati verso direzioni diverse e distinte.
Forse potrebbero incontrarsi per strada, ogni tanto, per convergere su alcune battaglie politiche e sociali comuni. Ma se si votasse domani la spinta prevalente sarebbe a favore di due liste separate, il contrario di quel che i due promotori, Anna Falcone e Tomaso Montanari, intendono perseguire con la loro coraggiosa iniziativa. Sarebbe un esito molto negativo. Naturalmente non per chi pensa che venti deputati e un bottino elettorale del 3% siano l’obiettivo da raggiungere, ma sicuramente per chi ancora spera in un’aggregazione larga, con l’ambizione di oltrepassare i confini fin qui tracciati dagli attori rimasti in campo negli ultimi, drammatici anni della crisi.
L’elenco dei presenti all’incontro fa capire che le «isole» sono tantissime.
I promotori Montanari e Falcone di Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, Sinistra Italiana, i Rifondaroli, i fuorusciti dal Pd e ora Art.1- Mdp (pochissimi), e D’Alema, Castellina, Civati, Ingroia, de Magistris (Claudio). Storie e vite politiche molto diverse tra di loro, ma non per questo meno animate da una viva e giusta convinzione: che c’è un mondo – piccolo, medio o grande che sia – oltre il Partito democratico. Però quello che si notava di più era proprio l’assenza dei tanti che in questa lunga traversata nel deserto della crisi, hanno voltato le spalle alla sinistra decidendo di non votare. Anche se c’erano esempi, esperienze portate al microfono da nuove generazioni, ragazze e ragazzi dei movimenti sociali.
E però nel rosso teatro viveva un terzo elemento, che si è mostrato ai presenti platealmente. La contestazione. Il rifiuto. Tangibile quando ha parlato il senatore Miguel Gotor, uscito dal Pd con Bersani: le sue parole sono state coperte dalla sala rumoreggiante, contenuta a fatica dagli organizzatori. L’episodio ha messo in rilievo il sentimento prevalente della riunione: mai un centrosinistra con Renzi, tenere alla larga quelli del Pd perché hanno contratto un «virus». Ma se un ex, un fuoriuscito dal Pd viene a dire che si riconosce nei valori e nei contenuti dell’assemblea, non dovrebbe essere considerato come un nemico del popolo. Quindi un ostacolo in più. Bensì il segno tangibile di un meritato consenso.
L’immagine offerta al Brancaccio dalla platea e dagli intervenuti al dibattito, fa dunque risaltare, insieme alla vivacità e ai colori di una radicata presenza nella società, insieme all’orgoglio di una militanza tanto preziosa, i punti più deboli di una «alternativa» (non di governo) di sinistra: la mancanza di una reale unità; lo scarso interesse verso chi negli ultimi anni ha deciso di non impegnarsi, perché disilluso e poco attratto dalle «minestre riscaldate»; la prevalenza di quelli convinti di avere la «giusta» linea. E quindi come uscirne?
Non avendo la bacchetta magica possiamo solo avanzare qualche suggerimento, sul filo dei discorsi fatti in passato sostenendo che «c’è vita a sinistra». Innanzitutto non dovrebbero prevalere atteggiamenti divisori, perché se è corretto sostenere che con Renzi non c’è futuro a sinistra, è sbagliato invece porre paletti o veti nei confronti di chi ha rotto, con dolore e con fatica, con il proprio passato (penso a Bersani e ai bersaniani). Poi ognuno dei «costruttori per l’alternativa», dovrebbe essere in grado di dire, innanzitutto a se stesso, che non esistono questioni politiche irrinunciabili (tranne quelle legate ai valori e ai principi) e anche a questo serve una piattaforma programmatica.
Terzo punto, di conseguenza, bisognerebbe elaborare un programma politico economico e sociale per il Paese, sia sul breve che sul lungo periodo. E, infine, last but not least, identificare una leadership, un punto di riferimento, preferibilmente femminile, capace di unire, mettere insieme, essere protagonista. La presenza dei leader è servita alla sinistra inglese e americana per riunire le forze sparse alternative, di sinistra, democratiche, riformiste. Va preso atto che oggi la politica, in Italia e nel mondo, si fonda anche sul leaderismo. Che non significa avere una persona sola al comando, come Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini.
La fantasia al potere è uno slogan che l’anno prossimo compie cinquant’anni, quanti ne sono passati dal 1968. Di quella fantasia ne abbiamo ancora un discreto bisogno, anche sul terreno della leadership che deve rappresentare un contenuto altrettanto forte e radicale.
Alla fine dell’estate questa perigliosa navigazione dovrebbe trovare l’approdo in una Costituente, come suggeriva su queste pagine Alberto Asor Rosa. Ovvero il risultato, l’approdo di un processo largo e democratico che discute le forme, il nome, il simbolo di una forza, di una Nuova Sinistra. Una prospettiva per la quale lavoreremo per aiutare un esito felice di questo processo.

il manifesto 20.6.17
«Partiamo, assemblea in autunno, Pisapia ci dica il programma»
Le reazioni al Brancaccio. In 1400 domenica riuniti dall’Alleanza popolare Ma è la contestazione a Gotor (Mdp) a tenere banco
di Daniela Preziosi

«Entro l’inizio dell’autunno faremo un’assemblea più grande. Ma partiamo subito, prima dell’estate. Aspettiamo il 24 la decisione dei comitati del No». Il giorno dopo l’avvocata Anna Falcone è ancora sull’onda dell’entusiasmo per l’affollatissima assemblea del Brancaccio – 1400 schede di partecipazione distribute – in cui è stata lanciata l’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza – nome provvisorio –. Cinque ore di dibattito, decine di interventi. Ci sono «i compagni», c’è Luciana Castellima, Vendola, Fassina, Ingroia, Cesare Salvi. Sono i fischi verso l’assente Giuliano Pisapia però a tenere banco. «Episodio non centrale», per gli organizzatori. Non per il fischiato e i suoi. Il Pd se la spassa: «Neanche nati sono già divisi», c’è chi spiega.
Gli ex Pd fanno capire che anche dopo l’assemblea non hanno cambiato idea: «Vogliamo costruire un campo largo, non settario, non identitario dove tutti sono felici perché sono d’accordo. Per questo per noi è fondamentale la presenza di Pisapia» dice Roberto Speranza a Omnibus, su La7. Non c’è stata nessuna rottura, spiega Falcone, «il primo luglio, all’assemblea di Pisapia e Bersani, se ci faranno intervenire, porremo domande sul programma».
Per ora porta a casa una domenica intensa, quella dei ’civici’ chiamati a raccolta da lei e dal professore Tomaso Montanari. «Non siamo qui per rifare una lista arcobaleno, ma una grande coalizione civica di sinistra per l’attuazione della Costituzione», apre. «Il nostro obiettivo è la costruzione di una sola lista a sinistra», spiega Montanari. Una sola lista, rigorosamente alternativa al Pd: «Pensiamo che il Pd sia ormai un pezzo della destra».
Nessuna tenerezza verso M5S, «prigioniero di una oligarchia imperscrutabile, sempre più spostato a destra». Montanari tiene i partiti a distanza, ma ringrazia Possibile e Sinistra italiana, i primi a rispondere all’appello, e poi Prc, Altra Europa, Pci, Dema e Art. 1. L’elenco delle sigle è lungo. Ma il grande applauso arriva quando apre le danze contro l’assente Pisapia. «Lo abbiamo invitato. Ci ha risposto ‘non ci sono le condizioni perché io venga’. Non ci è sembrato un buon inizio». Viene giù il teatro quando il professore fa l’elenco degli errori del qui non rimpianto centrosinistra: legge Turco-Napolitano, le privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro, la guerra illegittima in Kosovo». D’Alema in prima fila si irrigidisce, ma resta fino alla fine.
La ‘Ditta’ Bersani&Pisapia è un oggetto di polemica della giornata: li si accusa di poca chiarezza e di tollerare le manovre di riavvicinamento al Pd dell’ex sindaco. In sala ci sono Laforgia, Scotto, D’Attorre, Rossi, Speranza. Dal palco parla il senatore Miguel Gotor. Fra le contestazioni: un sindacalista triestino parte dal fondo della sala per chiedere conto del voto contrario sui voucher (il gruppo di Mdp al senato è uscito dall’aula per non votare contro la fiducia al governo Gentiloni, di cui fa parte). Poi è la volta di una donna del centro sociale napoletano Je so’ pazzo che sale sul palco e denuncia la censura degli organizzatori. A Gotor risponde Nicola Fratoianni (Si): «L’unità è importante, ma al primo posto c’è la credibilità». Infiamma i presenti Maurizio Acerbo, segretario del Prc: «Non ci presteremo al restyling di quelli che hanno perso il congresso Pd», e finisce salutando a pugno chiuso la platea.
Ma il vero protagonista è il presepe di interventi dei ’civici’, da quelli del comitato del No ad Andrea Costa, attivista romano del Centro Boaobab Experience, «torniamo a una sinistra che sappia fare disobbedienza civile». Arriva il saluto e l’incoraggiamento di Francesca Koch, presidente della Casa internazionale delle donne, le parole degli ex magistrati Livio Pepino e Paolo Maddalena, di Francesca Redavid della Fiom, di Giuseppe De Marzo di Libera. Altri si aggiungeranno, è l’auspicio, strada facendo.
E invece per Mdp le prossime ore saranno quelle dei chiarimenti. Scomoda la posizione dei bersaniani: contrari all’alleanza con il Pd offerta da Pisapia a Renzi, maaltrettanto al rischio di finire in un front de gauche. E tuttavia molti dirigenti di Si scommettono che, nonostante i fischi, ora la lista unica della sinistra è più vicina: «Chi non ci sta, finirà nelle liste del Pd», è la certezza. O l’auspicio.

Repubblica 20.6.17
Il mosaico di Pisapia tra annessione e coalizione
I troppi partitini portano acqua a Renzi
di Stefano Folli

IL FIORIRE DI SIGLE alla sinistra del Pd serve a portare acqua a un solo mulino, quello di Matteo Renzi. Più si moltiplicano i partiti, partitini o gruppi figli della diaspora anti-renziana più il segretario ha buoni argomenti per difendere il suo punto di vista, secondo cui non c’è coalizione possibile fra il Pd e questa ragnatela incapace di trovare un terreno d’intesa.
Del resto, la diaspora porta alla radicalizzazione. E la radicalizzazione dei piccoli gruppi, spesso in lite fra loro, taglia le gambe ai tessitori. A quanti, come Pisapia e non solo lui, cercano la strada di un compromesso che freni la deriva verso il centrodestra del partito renziano. Così, quando Renzi dice o fa dire ai suoi «o me o D’Alema», le carte sono sul tavolo. Il sottinteso non va spiegato. È come se qualcuno mormorasse all’orecchio dell’elettore: non ci sono posizioni intermedie.
Ed è quasi un mantra: o con me o contro di me. Infatti l’offerta che da Largo del Nazareno viene avanzata a Pisapia è sempre la stessa: abbandona i tuoi compagni di viaggio che non ti amano o addirittura ti combattono in quanto “neo centrista”.
Abbandonali al loro destino e vieni a fare l’ala sinistra di un cartello elettorale che non sarà una coalizione bensì un Pd allargato. O meglio, un “grande Pd” i cui confini saranno decisi dagli elettori.
Le garanzie che dovrebbero arricchire questa offerta, affinché non si parli di mera annessione di Pisapia e di qualche suo seguace, saranno di tipo programmatico: l’impegno a fare nuovi passi avanti nella prossima legislatura nel campo dei diritti. Ma spesso le promesse relative al programma sono molto fragili, quando non sono sostenute da un’adeguata forza politica. Se Pisapia ottiene di essere partner del Pd, all’interno di una coalizione o meglio in un patto a due, forse il suo programma stile “sinistra dei diritti” ha qualche possibilità di essere attuato. Se viceversa finisce per accettare un ingresso individuale o quasi nel Pd, c’è da dubitare che le promesse elettorali saranno mantenute. Perché nessuno sarà in grado di controllare - nel caso anche ricattando il partner maggiore - che l’accordo sia rispettato.
Ecco perché il tema della coalizione, con tutto ciò che ne seguirebbe, assume un significato così rilevante in vista delle elezioni politiche. Ed ecco perché Pisapia non può cedere sul punto. Né lui né Prodi. Certo, è logico che l’ex presidente del Consiglio non abbia alcuna voglia di candidarsi a Palazzo Chigi come ventuno anni fa. Una simile ipotesi ha il sapore di una “falsa bandiera”, messa in giro da chi teme l’attività di tessitore o mediatore esercitata da Prodi. Peraltro, siamo in una fase in cui le mediazioni hanno poche probabilità di successo. Il dilemma “coalizione/annessione” non sarà sciolto a breve. Come potrebbe essere altrimenti, nel pieno di un confronto radicalizzato, in mezzo al proliferare delle sigle e con la tendenza al “tutti contro tutti”? Il laboratorio a sinistra dovrà in primo luogo decidere cosa vuole essere o diventare. E non basterà, a questo fine, richiamarsi alla lezione di Corbyn. Anche perché Renzi fa già intendere di volersi ispirare a Macron (il quale però ha vinto le elezioni nel segno dell’europeismo).
Pisapia, molto più di Prodi, avrà quindi il compito non facile di mettere insieme i pezzi del mosaico. Decidendo chi potrà offrire un contributo alla causa comune e chi invece potrebbe solo nuocere e quindi andrà lasciato fuori. Non è detto che il tempo giochi a favore dell’accordo. Il rischio è che aumenti invece il tasso di litigiosità, incoraggiato dalla mancanza di un obiettivo strategico condiviso. Con Renzi o senza Renzi? Il dilemma è sempre lo stesso.
Molto dipenderà dall’esito delle elezioni amministrative di domenica. E senza dubbio un’indicazione verrà dalla manifestazione del “Campo progressista” il primo luglio. È evidente peraltro che se l’ex sindaco di Milano non rimette ordine nell’arcipelago anti-renziano, tutti i suoi progetti e le sue ambizioni sono destinati ad avvizzire prima ancora di cominciare.

La Stampa 20.6.17
Lo schema Prodi seduce Matteo ma l’ostacolo
è sempre D’Alema
di Marcello Sorgi

Sarà perché nel centrodestra, dopo il buon risultato del primo turno delle amministrative, c’è una forte spinta alla riunificazione (e Berlusconi prepara per domani il suo ritorno a “Porta a porta”), ma anche nel centrosinistra afflitto dalle scissioni post referendarie qualcosa si muove. Si discute di “colla”, “collanti”, “Vinavil” (copyright Prodi) e insomma di tutto ciò che può servire per rimettere insieme i cocci e arrivare preparati a elezioni che, se la crisi dei 5 stelle dovesse consolidarsi, potrebbero, tendenzialmente essere più bi che tripolari. Le proposte in campo sono tre.
Una è quella avanzata da Tomaso Montanari e Anna Falcone al cinema Brancaccio di Roma domenica. In sintesi: tutto fuorché Renzi. E a giudicare dai fischi per Gotor, è difficile che i confini di questa nuova lista possano essere più larghi della “Sinistra arcobaleno” che nel 2008 provò, senza riuscirci, a superare lo sbarramento del 3 per cento.
La seconda è la proposta Prodi, che punta a far alleare Renzi e Pisapia, su un programma che il Prof ha scritto e messo a disposizione - e con l’impegno che mai e poi mai sarebbero disponibili ad allearsi con Berlusconi - se possibile anche con una lista unica (come prevede il moncherino del Consultellum lasciato in vita dalla Corte costituzionale) alla Camera, sebbene l’ex-sindaco di Milano, non veda di buon occhio l’idea del listone. Ma anche la proposta Prodi ha un sottinteso: tutto fuorché D’Alema, dato che vent’anni non sono bastati a ricomporre la frattura nata dalla non proprio concordata staffetta a Palazzo Chigi tra il Prof e l’allora segretario del Pds nel ’98. Per ragioni diverse (il Prof non l’ha mai perdonata al “leader Maximo”, Renzi mai e poi mai si accorderebbe con gli scissionisti ex-Pd), sta nascendo così un problema Mdp-Articolo 1: se non con il gruppo del Brancaccio, e neppure con il Pd, con chi andrebbero i bersanian-dalemiani? Va detto che la soluzione del problema, stavolta, non potrebbe essere quello di una conferma della rottamazione dei rottamati della prima ora: perché mentre Bersani parla ormai come un padre nobile della nuova formazione, D’Alema ha già fatto sapere che se i pugliesi glielo chiedono (e c’è da giurare che glielo chiederanno), lui si candiderà. Immaginarselo capolista del listone Renzi-Pisapia alla Camera è davvero difficile. Ma si sa: in politica, mai dire mai.
Infine la terza proposta - un Pd più spostato al centro e competitivo sul terreno delle riforme - era quella di Renzi. Era, appunto.


La Stampa 20.6.17
Il caso Consip, mina in Senato per il cerchio magico renziano
Chiesto a Padoan soccorso in aula
Il ministro notificherà le dimissioni del cda per frenare una discussione a tutto campo. Ma resta l’incognita numeri
di Fabio Martini

Il fantasma della Consip è tornato ad aleggiare sui palazzi della politica romana, dopo che il governo ha silenziosamente accompagnato verso la porta di uscita Luigi Marroni, amministratore delegato della Centrale acquisti della Pa, nonché “accusatore” (davanti ai magistrati) del ministro Luca Lotti, da 11 anni braccio destro di Matteo Renzi. La recrudescenza della vicenda Consip ha avuto un effetto paradossale: ieri sera i principali protagonisti politici della storia sono andati a dormire senza sapere cosa esattamente potrà accadere questa mattina nell’aula del Senato, chiamata a discutere della vicenda. Per un progressivo sfilacciamento delle leadership politiche, tra le 12 e le 14, a palazzo Madama si reciterà a soggetto: in ballo c’è la teorica possibilità che, sia pure con uno strumento non vincolante come una mozione, i senatori approvino una censura nei confronti del ministro dello Sport Luca Lotti, indagato per presunto favoreggiamento e rivelazione di segreto nella vicenda Consip.
Una censura parlamentare che, senza far cadere il governo, equivarrebbe ad una bruciante “cicatrice” politica per Matteo Renzi e infatti il leader del Pd ha cercato per tutta la giornata di ieri di sventare questo scenario: cambiando tre volte in 48 ore la tattica parlamentare, alla fine il segretario del Pd ha trovato la “carta” che potrebbe rendere meno cruenta la gestione parlamentare della vicenda. Visto che il presidente del Senato Pietro Grasso si rifiutava di disinnescare la discussione delle mozioni, da tempo presentate da tutti i gruppi, anche perché le dimissioni del Cda Consip non sono state ancora formalizzate, il Pd ha spinto perché il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan (azionista della Centrale acquisti) inviasse una lettera alla presidenza del Senato con la quale si dava conto delle dimissioni del consiglio di amministrazione. Della lettera verrà data lettura questa mattina nell’aula del Senato e il Pd auspica che questo consentirà di spegnere il dibattito, mentre le opposizioni daranno battaglia perché la discussione prosegua e perché vengano votate anche le mozioni. Davanti ad una questione così opinabile, il presidente del Senato probabilmente chiederà di pronunciarsi all’aula. Con un primo step dall’esito assai incerto: i senatori voteranno per “insabbiare” la discussione? O voteranno per un libero dibattito, come ieri sera continuava a chiedere l’ex ministro Gaetano Quagliariello, il principale artefice di un aperto dibattito parlamentare su un caso a lungo rimbalzato sulle colonne dei giornali?
Una vicenda sulla quale Matteo Renzi, di solito loquacissimo, in queste ore ha mantenuto il riserbo, preferendo l’azione dietro le quinte. Una recrudescenza della vicenda Consip, che Renzi avrebbe preferito evitarsi, soprattutto dopo che l’attenzione dei media si era focalizzata sulle sconcertanti manovre per manipolare le prove a carico del padre dell’ex premier che ancora ieri facevano dire a Matteo Orfini, presidente del Pd: «C’è un’indagine in corso che sta rivelando meccanismi quasi eversivi». Ma negli ultimi giorni è riemerso l’altro filone dell’inchiesta della magistratura: quella della fuga di notizie. A dicembre Luigi Marroni rivelò che Luca Lotti e non solo lui, gli avevano parlato di un’indagine in corso su Consip della quale nulla si sapeva. Proprio quel filone di indagine ha ispirato diverse mozioni parlamentari che oggi potrebbero essere votate in Senato. Con esito incerto. Il Pd ha presentato una mozione con la quale si chiede al governo di procedere al cambio dei vertici della Consip, ma che sulla carta non conta sulla maggioranza. Ma a preoccupare il Pd non sono tanto le mozioni delle opposizioni, ma quella dei bersaniani di Mdp: è l’unica che chiede esplicitamente l’autosospensione di Lotti dal governo e potenzialmente può raccogliere tutti i voti dell’opposizione e di parte della maggioranza. In linea teorica 150, superando quelli del Pd.

Repubblica 20.6.17
Ricci (PD)
“Nessuna alleanza con chi pensa che siamo il male da abbattere”

ROMA. Matteo Ricci, il Pd rinuncerà a un centrosinistra unito?
«Il Pd è il centrosinistra, senza il Pd non c’è centrosinistra».
E le altre forze di sinistra?
«Noi dem vogliamo allargare il fronte riformista ma va fatto con coloro che riconoscono la centralità del Pd, non certo con chi ritiene il Pd il nemico da abbattere come abbiamo sentito domenica all’assemblea di Montanari e Falcone. Domenica prossima si vota alle amministra e quasi ovunque siamo uniti in coalizioni ma con un programma chiaro».
Dalle amministrative potete prendere spunto?
«Sicuramente. Il fronte riformista va da Pisapia a Tosi e siamo interessati a sviluppare il dialogo sia a sinistra che al centro. Il tema del lavoro sarà al centro del programma per il paese .
Un listone però no?
«Ci si presenta alle elezioni in base alla legge elettorale. In quella attuale è previsto il premio alla lista e la possibilità di coalizione al Senato. Per stare insieme il fronte deve essere pro Pd. No a formule tattiche né all’ astio personale».
Escludete i fuoriusciti di Mdp?
«Quale è la loro linea politica? Se è quella di smontare il Pd e la leadership di Renzi è difficile un lavoro costruttivo. Pisapia non usa mai argomenti anti Renzi e anti Pd».
Sindaco di Pesaro nella segreteria dem

Repubblica 20.6.17
Stefano (Pisapia)
“Non si può costruire una coalizione senza i dem”

ROMA. Dario Stefàno, ma Campo progressista di Pisapia si è messo in testa di dare le carte nella sinistra?
«Campo progressista era nato con l’idea di unire il campo del centrosinistra. Non deve e non può trasformarsi in un luogo in cui si decide chi debba esserci e chi no».
Possibile l’alleanza della sinistra?
«Le alleanze sono possibili quando si supera la cronicità storica della sinistra e cioè che c’è sempre qualcuno che si sente più a sinistra dell’altro».
Perché nessuno di Campo progressista è andato all’assemblea di domenica scorsa organizzata da Falcone e Montanari?
«La mia idea era che domenica fosse più che altro un appuntamento in cui si consumava una sorta di competizione interna all’area del centrosinistra, con il paradosso che chi era andato per salutare e ascoltare, si è ritrovato dentro a una contestazione plateale a Miguel Gotor ma non solo a lui. Si è fatto il tifo tra chi considera Pisapia e chi no. Si è smesso di guardare al progetto per concentrarsi sempre su chi è più leader».
Starete insieme al Pd o no?
«Il centrosinistra è uno e il Pd alberga in quel campo. Come le esperienze locali mostrano, quando il centrosinistra è unito è in grado di risolvere i problemi ».
Senatore, ideatore di Campo progressista

Repubblica 20.6.17
Laforgia (Mdp)
“Unità possibile solo ammettendo tutti gli errori di Renzi”

ROMA. Francesco Laforgia, la sinistra è divisa e procede in ordine sparso?
«L’unità non è un atto della volontà, ma una condivisione. Qualcuno definisce i mille giorni del governo Renzi una fase di riforme mirabolanti, io penso invece che lì si siano consumati dei veri e propri divorzi con pezzi della società italiana, dal lavoro alla scuola. Quindi l’unità si può costruire ma a partire da un giudizio su quella stagione».
Differenze che rendono impossibile listoni o allenze?
«Le differenze non sono mai insormontabili ma ci deve essere la condivisione di un orizzonte. C’è chi pensa che la faglia che distingueva destra e sinistra sia stata sostituita da nuovi crinali e interpreta tutto questo come il via libera per un centrismo alla Macron. Ritengo invece che le ragioni della sinistra siano ancora tutte lì, dalla lotta alla disuguaglianza all’idea di un mondo che rispetta l’ambiente».
Poi però domenica a un’assemblea della sinistra siete stati fischiati.
«Alcuni fischi sono il segno di un settarismo che ancora c’è. Con Pisapia noi di Mdp pensiamo di dare una casa a milioni di elettori del centrosinistra rimasti senza».
E con il Pd?
«Oggi non vedo le ragioni per una coalizione che sarebbe solo un cartello elettorale».
Capogruppo dei deputati di Mdp

Repubblica 20.6.17
Fratoianni (Si)
“Mai con il Pd né con Gentiloni Troppi partiti? Falso problema”ROMA.
Nicola Fratoianni, ciascuno per sé a sinistra?

«Per me il tema della moltiplicazione delle sigle non esiste. Pongo invece la domanda: su cosa vogliamo costruire una proposta politica?».
Un listone è possibile?
«Non mi convince per niente. È incomprensibile la discussione sull’unità della sinistra che parte da tutto tranne che dai programmi».
Perché Sinistra Italiana, il partito di cui lei è segretario, non è confluita in Mdp, come molti ex Sel?
«Tanto per cominciare perché i demoprogressisti sostengono il governo Gentiloni. Non credo che Mdp sia il nucleo di nulla. Ognuno ha un suo progetto ».
Quale è il vostro obiettivo?
«Costruire una proposta politica per la sinistra di questa paese.
Con chi?
«Con quelli che saranno disponibili alla discontinuità radicale con le politiche di questi anni, su Jobs Act, investimenti pubblici, ambiente, scuola, sicurezza e centri sociali».
Con il Pd mai?
«La nostra proposta è alternativa al Pd»
Sinistra Italiana va il primo luglio alla convention “Insieme” di Pisapia?
«Io vado se qualcuno mi invita a parlare. Se devo fare lo spettatore non credo di andare».
Segretario di Sinistra Italiana

Corriere 20.6.17
Calenda avvisa il leader del Pd
Il ministro Calenda non è interessato al listone renziano. Lo si è capito dal suo discorso di ieri: una sequenza di obiezioni e critiche a Matteo Renzi.
di Francesco Verderami

ROMA Calenda non aspetta di entrare nel listone renziano, aspetta piuttosto che il premier formalizzi la richiesta di fiducia sul ddl Concorrenza. La considera «la cartina di tornasole», un passaggio dirimente per il governo: sarebbe in effetti sorprendente se al suo provvedimento non venisse concesso ciò che è stato concesso alla riforma del Processo penale e che potrebbe essere concesso anche allo Ius soli. E non c’è dubbio che in quel caso il titolare dello Sviluppo economico reagirebbe, non solo perché «sono tre anni che non riusciamo a fare la legge», ma anche (e soprattutto) perché sarebbe evidente un cambio di linea politica di Palazzo Chigi.
Attendendo con fiducia la fiducia di Gentiloni, a Calenda è ben chiaro da dove finora siano arrivate le resistenze all’approvazione definitiva della Concorrenza, se è vero che nei giorni scorsi il presidente della commissione Affari costituzionali, Mazziotti, aveva invitato i gruppi della maggioranza a ritirare gli emendamenti presentati, così da varare il testo già licenziato dal Senato: Ap ha accolto la richiesta, il Pd (per ora) no. Fra una settimana il disegno di legge dovrebbe approdare nell’Aula di Montecitorio e il ministro non considera la legge merce di scambio con patti politici.
Lo si è capito dal discorso pronunciato ieri dal palco di Confesercenti, dalla sequenza di obiezioni e critiche che avevano un unico bersaglio: Renzi. Era al leader del Pd che si riferiva quando ha sostenuto che nella prossima finanziaria sarà «prioritaria la riduzione delle tasse sulle imprese e non dell’Irpef». Quando ha evocato la strategia dei bonus che «non rilanciano i consumi, come abbiamo già visto». Quando ha avvertito che «la crescita non è sufficiente né per sostenere lo sviluppo né per ridurre il debito». Quando ha sottolineato che «questo Paese non può essere governato senza corpi intermedi». E soprattutto quando ha ribadito che la data delle elezioni non può essere come «il gioco del lotto, dove prendi la ruota di settembre o ottobre e magari poi si arriva a gennaio o febbraio».
Calenda aspetta Gentiloni, non è interessato al fantomatico listone, che viene presentato come l’offerta di un viaggio in limousine e invece somiglia a un passaggio su un bus affollato da viaggiatori con destinazioni diverse in testa. Peraltro le lusinghe che gli arrivano attraverso i media dal Nazareno non gli hanno fatto dimenticare la «stagione della caccia» aperta qualche mese fa dai vertici del Pd contro i ministri «tecnici», considerati allora una sorta di male assoluto della politica, il vero ostacolo alla realizzazione del progetto renziano. Giusto per essere conciliante, il segretario dem in quei giorni disse che «se Calenda vuole, un posto in lista c’è».
Né lista né listone, con il discorso di ieri il titolare dello Sviluppo economico ha marcato un posizionamento politico personale dentro il governo, non certo in linea con quello del Pd. Ciò non vuol dire che si prepari a «scendere in campo», nonostante i ripetuti richiami di Alfano all’«agenda Calenda»: ad oggi non ha cambiato idea, considererà conclusa questa esperienza quando si chiuderà la legislatura. È vero però che un pezzo di mondo produttivo fa affidamento su di lui. Al punto che, nei giorni dell’accordo sulla legge elettorale, quando il Palazzo si preparava al voto anticipato, da quel mondo gli giunsero pressioni insistenti perché si candidasse, con motivazioni difficilmente confutabili. Al «gioco del lotto» la ruota di settembre non è però uscita e Calenda conta che fra una settimana la Concorrenza diventi legge. Altrimenti qualcuno dovrà assumersene la responsabilità.

il manifesto 20.6.17
Ius soli, la chiesa: «È un diritto»
Diritti. Monsignor Becciu, segreteria della Santa Sede. Migrantes: «Chi nasce in Italia è italiano»
C. L.

ROMA Si fa sempre più concreta la possibilità di un ricorso al voto di fiducia per approvare lo ius soli. Fino a domenica prossima, quando si terranno i ballottaggi, Lega e Movimento 5 stelle continueranno ad alzare i toni della polemica nel tentativo di convincere gli elettori, ma una volta chiuse le urne, quando il testo riprenderà il suo iter nell’aula del Senato, verrà subito blindato dal governo che in questo modo cancellerà anche i 48 mila emendamenti presentati dal Carroccio. Gli unici che potrebbero far saltare tutto, a questo punto, sono gli alfaniani di Alternativa popolare. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri ha chiesto di rinviare la legge in autunno poi, ieri, è tornato sull’argomento non escludendo la possibilità di proporre dei «correttivi» al testo, cosa che rimanderebbe la legge alla Camera affondandola di fatto. A Palazzo Madama però, più di un senatore è pronto a giurare che anche le dichiarazioni di Alfano altro non sono che mosse in vista dell’appuntamento di domenica ma che alla fine, se il governo metterà davvero la fiducia, non ci saranno sorprese. «Si è visto la settimana scorsa durante la rissa che c’è stata in aula: Forza Italia ha attaccato pesantemente gli alfaniani perché hanno votato l’inversione dell’ordine del giorno privilegiando lo ius soli sul decreto vaccini. Eppure non hanno ceduto», confida in serata una senatrice.
Va detto che nel frattempo lo ius soli un piccolo risultato lo ha già ottenuto: far parlare tra loro Pd, Mdp e Sinistra italiana dopo mesi di litigi, e visti i tempi è quasi un piccolo miracolo. E a rafforzare il fronte pro-legge è sempre più schierata la chiesa. Dopo che domenica il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, ha accusato chi si oppone al ius soli di voler fare «solo suoi interessi», ieri a intervenire è stato monsignor Angelo Becciu, Sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede: «Il Vaticano non si è ancora espresso, aspettiamo la decisione del parlamento – ha detto – ma è chiaro che vorremmo che si riconoscesse la dignità delle persone che arrivano nel nostro Paese». E il direttore della Fondazione Migrantes, monsignor Guerino Di Tora, ha aggiunto: i bambini e le bambine che nascono in Italia e quelli che hanno frequentato almeno cinque anni di scuola – ha detto riassumendo di cardini della legge – «hanno il diritto di sentirsi cittadini italiani».
Si moltiplicano intanto anche i tentativi di fermare la legge. Maurizio Sacconi (Epi) ha chiesto di riassegnare il testo alla commissione Affari costituzionali dove è rimasta impantanata un anno e sette mesi, mentre il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani ha proposto che sia l’Europa a occuparsi di cittadinanza. Proposta subito fatta propria anche del grillino Luigi Di Maio. E in serata è intervenuto anche Silvio Berlusconi: «Diventare italiani non può essere un riconoscimento automatico, bisogna meritarselo», dice al Tg5 il leader di Fi.
A chi, come il centrodestra, chiede di riflettere ancora prima di arrivare all’approvazione della riforma, risponde il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova, ricordando come della necessità di mettere mano alle attuali norme si cominciò a parlare «dieci anni fa, in un parlamento a maggioranza di centrodestra. L’integrazione aiuta la sicurezza, l’esclusione no, genera risentimento e ostilità». Mentre a Emma Bonino spetta esplicitare un pensiero comune a molti: «Siano uno dei pochi Paesi europei ad avere ancora lo ius sanguinis – dice la l’esponente radicale -. In questo Paese la strumentalizzazione politica ormai non ha limiti di temi e di espressioni».

il manifesto 20.6.17
Afghanistan, «Signorsì» agli Usa: altri 100 soldati italiani a Herat
Afghanistan. Il «sì» italiano seguirebbe quello di altri paesi che, come Regno unito e Danimarca, hanno già promesso alla Nato il loro appoggio al surge americano, anche quello per ora affidato solo a indiscrezioni di stampa, salvo il fatto che Trump ha dato l’autorità al capo del pentagono James Mattis di decidere come e quanti soldati americani andranno a ingrossare le fila degli 8.400 militari stellestrisce che già operano in Afghanistan
Giuliano Battiston, Emanuele Giordana

Sull’Afghanistan, la politica abdica. E i militari decidono. Vale per gli Stati uniti, dove il presidente Donald Trump ha delegato al segretario alla Difesa James Mattis la decisione sul numero di soldati da inviare nel Paese centro-asiatico. E vale per l’Italia, dove il Parlamento diventa un ufficio che certifica decisioni già prese: carta, timbro, protocollo archiviato.
Con un articolo su Repubblica di sabato 17 giugno, veniamo a sapere che «il vertice delle forze armate ha preparato un piano per incrementare il contingente afghano con altri cento soldati, che si aggiungeranno ai 950 già schierati nella base di Herat».
La decisione sarà poi «valutata dal ministro Pinotti e dal premier Paolo Gentiloni che, in caso di approvazione, dovranno comunicarlo alle Camere. Non è escluso il coinvolgimento delle commissioni parlamentari…».
La piramide è rovesciata. Non è la politica – come frutto di una consultazione collettiva – a indicare il «che fare» alle forze armate, ma sono le forze armate a segnare la rotta. Sempre più inerziale. L’aumento dei soldati italiani impegnati in Afghanistan riflette la tradizionale subalternità atlantica: se gli Usa chiamano, l’Italia risponde sull’attenti, rivendicando semmai un posto al sole («l’Italia aspira a occupare alcune poltrone chiave» della Nato, leggiamo).
E rimanda al riequilibrio tra i poteri istituzionali, con la politica estera schiacciata sulla «difesa» e lo svuotamento del Parlamento come luogo di conflitto politico e, poi, deliberazione.
Ma la guerra in Afghanistan è una guerra innanzitutto politica. Talmente politica che ministri e primi ministri ne stanno alla larga. Sanno che è persa, ma non hanno il coraggio di ammetterlo.
La soluzione, allora, è semplice: discuterne il meno possibile, lasciando carta bianca – e responsabilità – ai militari. Abituati a dire sì.
Il «sì» italiano seguirebbe quello di altri paesi che, come Regno unito e Danimarca, hanno già promesso alla Nato il loro appoggio al surge americano, anche quello per ora affidato solo a indiscrezioni di stampa, salvo il fatto che Trump ha dato l’autorità al capo del pentagono James Mattis di decidere come e quanti soldati americani andranno a ingrossare le fila degli 8.400 militari stellestrisce che già operano in Afghanistan.
Stando a Mattis i dettagli saranno chiariti definitamente a metà luglio. Il dibattito intanto infuria. E mentre sui giornali ci si chiede a cosa serve il nuovo surge americano in un paese dove la missione militare non sta ottenendo risultati, il massimo teorico del surge, il generale in pensione David Petraeus, non solo ha dato il suo appoggio all’invio di nuovi soldati ma ha chiarito, in un’intervista, alcuni dei dettagli che probabilmente Mattis si prepara e mettere nero su bianco: non solo, dice l’ex teorico del surge in Iraq e Afghanistan, 3 o 5mila soldati sono un numero «sostenibile», ma gli Stati uniti devono «sciogliere le restrizioni ancora in piedi nell’uso della forza aerea in sostegno ai nostri partner locali».
Più bombe dunque e non solo più soldati e senza i laccioli che adesso, almeno teoricamente, impongono all’Air Force di avvisare e concordare con Kabul i suoi raid che hanno comunque già conosciuto un surge da due anni a questa parte come si evince dall’aumento delle vittime civili dovute ad azioni dal cielo.
Il Pentagono avrebbe finalmente mano libera e non dovrebbe più aspettare ordini dal presidente per azioni che normalmente richiedono l’approvazione della Casa bianca. Se infine non dovesse render più conto nemmeno a Kabul, quello militare diventerebbe uno strapotere che ha già comunque dato un segno nell’aprile scorso col lancio della cosiddetta «Madre di tutte le bombe», un ordigno da 11 tonnellate di esplosivo sganciato nella zona di confine col Pakistan.

il manifesto 20.6.17
Libia, la trappola infernale
Immigrazione. In un video drammatico girato da un giornalista somalo le torture che i migranti africani sono costretti a subire nei campi nel sud del paese dilaniato dai conflitti. Sono testimonianze agghiaccianti che testimoniano quello che accade da anni nel paese con cui l'Italia sta trattando per rispedire i profughi che tentano di scappare da fame e guerre
di Luca Fazio

MILANO Nessuno potrà dire che non sapevamo. La Libia è una trappola infernale per centinaia di migliaia di persone, ed è proprio in quel paese dilaniato dai conflitti che l’Europa e il governo italiano hanno deciso di internare i migranti che provano a scappare dall’Africa. Ci sono le puntuali testimonianze di chi arriva sulle nostre coste, i resoconti delle associazioni non governative e adesso anche le immagini drammatiche girate da un giornalista somalo che vive in Turchia.
Salman Jamal Said ha registrato una video chiamata-appello di mezz’ora contattando un gruppo di persone tenute prigioniere dai passeurs nel sud della Libia. Lo ha raccontato piangendo alla redazione di Jeune Afrique: “Sono stato contattato da un migrante del campo, un somalo, che mi ha permesso di avere questa conversazione video e, con il loro permesso, ho registrato tutto per poter mostrare il loro calvario”. Secondo il giornalista ci sarebbero prigionieri che da anni stanno aspettando dai parenti una somma di denaro sufficiente per ottenere la libertà (tra 8 e 10 mila dollari a testa).
Sono testimonianze agghiaccianti. Ossa spezzate, denti strappati, umiliazioni e torture. “Sono qui da un anno – racconta un somalo – e mi picchiano tutti i giorni. Vi giuro che non mangio niente, il mio corpo è coperto di ferite”. Nel video si vede un ragazzo sdraiato sulla pancia con una grossa pietra sulla schiena, “mi hanno spaccato un dente e una mano e tre giorni fa mi hanno messo questa pietra, mi fa malissimo”. E’ prigioniero da 11 mesi insieme ad altre 270 persone e spiega di non poter procurarsi 8 mila dollari. Molti ragazzi si alternano alla telecamera per mostrare il corpo piagato dalle ferite e i denti che mancano.
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha visto il filmato e sta cercando di localizzare il campo di concentramento per tentare di salvare i prigionieri, “ma non è affatto semplice perché la Libia è un paese estremamente pericoloso” – spiega il portavoce Leonard Doyle. Per Carlotta Sami (Unhcr) “questo episodio rivela una realtà che esiste ormai da anni in Libia, non c’è migrante che non sia passato da questo paese e non lo abbia descritto come un inferno”. La situazione è “estremamente preoccupante” anche nei campi di detenzione ufficiali, dove negli ultimi 15 mesi l’Alto commissariato Onu è riuscito a far liberare più di 800 persone.
La conferma di questo orrore è cronaca quotidiana anche sulle nostre coste. Sono le testimonianze di chi crede di avercela fatta e ancora non sa che un giorno potrebbe essere rispedito proprio in Libia. Gabriele Eminente, responsabile di Medici senza frontiere Italia, è in servizio su una nave che ieri è approdata a Reggio Calabria con a bordo 28 ragazze incinte. “Spesso non si tratta di gravidanze cercate, sono frutto di violenza – spiega – una di queste ragazze si è resa conto di essere incinta durante la visita medica a bordo. E ci ha raccontato che aveva subìto violenza durante l’attesa in Libia”.
Eminente ha sotto gli occhi i segni delle torture inflitte anche agli ultimi migranti salvati in mare, novecento solo l’altra notte, “non è la prima volta che lo vediamo”. Sono persone sofferenti anche per non essere stati alimentati a sufficienza, per aver avuto pochissima acqua da bere e per essere stati rinchiusi diversi mesi “in centri del tutto inaccettabili da qualunque punto di vista”.
E allora vengono i brividi quando la Guardia costiera libica di Tripoli, proprio ieri, annuncia di aver salvato 8.094 migranti nelle sue acque territoriali nella prima metà di quest’anno.

Corriere 20.6.17
«Renzi voleva Gentiloni fragile»
di Maria Teresa Meli
Denis Verdini al Corriere : «È stato Renzi a dirmi di non entrare nel governo Gentiloni. Lui voleva un governo fragile».
ROMA Si è stufato di fare sempre la stessa parte. Quello a caccia di poltrone: «È stato Renzi a dirmi di non entrare nel governo Gentiloni. E io l’ho fatto senza problemi. Lui voleva un governo fragile». Denis Verdini, nel suo studio con i più fidati collaboratori, ricorda. Ricorda quando Renzi gli disse: «Mattarella mi dà le elezioni a giugno», ma «era ovvio che non era così». E ricorda anche come è andata e naufragata la storia della riforma elettorale. «Il Rosatellum era perfetto. Ci stava anche Pisapia. Aveva 171 voti di maggioranza al Senato, senza contare Alfano. L’avevo assicurato a Matteo, che era convinto. Poi Angelino ha fatto saltare tutto perché secondo lui non gli conveniva. Renzi a quel punto si è spostato sul tedesco pensando di ottenere le elezioni il 24 settembre».
«Già, le elezioni erano l’unica cosa che gli interessava — ricorda Verdini — mentre a Berlusconi interessava e interessa solo una cosa: non fare la lista con Salvini». Comunque la riforma elettorale sembra giunta a un punto morto: «Matteo mi ha spiegato che per lui è anche meglio così. Leggo che ora vuole fare un listone da Pisapia a Calenda. Ma Calenda non lo vota, manco la madre, perché la Comencini vota a sinistra. Io sono convinto che il maggioritario si possa ancora fare».
Senatore, è sparito dai radar della politica. Sta smobilitando?
«Sciocchezze. Io sono qui, 12 ore al giorno, come sempre. Non ho nessuna intenzione di abbandonare il campo. Se vi interrogaste sul perché non sono al centro della polemica politica, capireste quanto erano strumentali quegli attacchi. Quando eravamo essenziali a Renzi e alle riforme, non c’era giorno che qualche “sinistro” non se la prendesse con noi. Adesso che Renzi non è più a Palazzo Chigi, è venuto meno lo spettro Verdini. Curioso no?».
Quegli attacchi la disturbavano?
«Scherza? Erano medaglie. Tutt’al più mi facevano sorridere. Spesso venivano da chi con me aveva trattato di leggi elettorali e di governi da fare. E poi un po’ di ragione ce l’avevano…».
Perché?
«La nostra azione ha vanificato il ricatto della sinistra pd, quella rimasta con i piedi nel passato e la testa nel trapassato remoto: senza di noi non ci sarebbe stato il tentativo di ammodernamento del Paese con le riforme istituzionali e neanche alcune riforme di civiltà come le unioni civili. Sul piano politico abbiamo disinnescato il potere di interdizione di Bersani & Co. e siamo stati i guardiani del riformismo e del renzismo».
Lei è per il maggioritario ed è contro il tedesco perché la soglia del 5 per cento taglierebbe fuori i partitini come il suo.
«Sbagliato: anche se sostenevo il Rosatellum, ho sempre difeso il 5 per cento. Non mi confonda con Alfano: non ho nulla a che spartire con lui».
Entrambi avete abbandonato Berlusconi per Renzi.
«Alfano ha lasciato Berlusconi nel momento di massima difficoltà per tenersi la cadrega da ministro. Noi lo abbiamo fatto senza avere in cambio poltrone per continuare quello che Berlusconi aveva cominciato: le riforme. E poi il centro di Alfano non è il mio stesso centro».
In che senso scusi?
«Io sono un ex repubblicano, risorgimentalista e spadoliniano. Sono un laico e un liberale. Ho votato le unioni civili e la legge sul fine vita, mentre Alfano faceva l’ostruzionismo, e ha votato una illiberale riforma della giustizia con il “fine prescrizione mai”».
Quindi non nascerà un centro che vi metta insieme.
«Non lo escludo, purché non sia un centro contro qualcuno. Un centro antirenziano o antiberlusconiano a me parrebbe un ossimoro politico... E poi scusi, mi consenta lo sfogo…».
Dica…
«Io ho inseguito tutti questi protagonisti per due anni; sono stato il primo a “federare” con Zanetti e Scelta civica, ho messo a disposizione di tutti i comitati referendari guidati da Pera e Urbani. Ora non inseguo più nessuno. L’unico modo per quest’area di rimettersi insieme è che tutti i presunti leader, me compreso, si ritirino e si definisca un nuovo soggetto, nel quale sciogliersi».
Lei ormai critica apertamente Renzi, si sente scaricato?
«Per essere scaricati bisogna essere prima stati “caricati”. Cosa che a me non è mai successa. Renzi è ancora l’unica speranza per questo Paese. Bisogna aiutarlo a non rintanarsi nel suo Pd e a sinistra. Per il bene del Paese. A me non ne viene niente. E poi forse andrebbe pure salvato da qualche renziano...».
Intanto Macron ha stravinto anche le legislative…
«Lei mette il coltello nella piaga. Macron doveva essere il “Renzi” francese, invece siamo qui a discutere se Renzi potrà mai essere il “Macron” italiano. Macron a un ex premier di 55 anni come Valls ha rifiutato il posto in lista e gli ha offerto solo un accordo di desistenza nel suo collegio. Renzi a un ex sindaco di 68 anni ha offerto una coalizione nazionale, e quello se la tira pure…».

Il Fatto 20.6.17
Consip, assist di Padoan al Pd: la lettera per fermare il voto
Guerra delle mozioni - Oggi il ministero dell’Economia prova a evitare il responso dell’aula con un documento in cui si sostiene che i vertici della controllata sono decaduti
Consip, assist di Padoan al Pd: la lettera per fermare il voto
di Wanda Marra

Stamattina Pietro Grasso, il Presidente del Senato, prima del voto delle mozioni che chiedono la rimozione dei vertici di Consip, leggerà una lettera del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che dà il parere del Mef: i vertici della società appaltante sarebbero già azzerati, con le dimissioni del presidente Luigi Ferrara e della consigliera, Marialaura Ferrigno, nonostante le mancate dimissioni dell’Ad, Luigi Marroni, teste chiave dell’inchiesta sul maxi appalto da 2,7 miliardi. E nonostante il fatto che lo stesso Marroni abbia appena convocato l’Assemblea per nominare il nuovo Cda, il 27 giugno, e dunque fino allora è di fatto in carica. Per il Tesoro, il voto è superato. Letta la lettera, il presidente del Senato, Pietro Grasso, chiederà se qualcuno vuole esprimersi sull’ordine dei lavori. Dando modo al Pd di chiedere di votare prima il punto successivo alle mozioni. Così l’Aula dovrebbe esprimersi.
È questo l’estremo tentativo del Pd di evitare una conta rischiosissima. In Senato i numeri sono risicatissimi e gli esiti imprevedibili: la maggioranza – se si arrivasse a votare i testi – potrebbe andare sotto, su una mozione riformulata ieri sera, che sposta il dibattito sull’importanza di nominare nuovi vertici di Consip, messa insieme con Area Popolare, per arginare i danni.
Fatto sta che, ancora una volta, dopo tre mesi dalla mozione di sfiducia a Luca Lotti, indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento, a Palazzo Madama torna la questione. Convitato di pietra, Matteo Renzi (Marroni ha parlato di pressioni ricevute per orientare gli esiti di importanti gare d’ appalto, tirando in ballo, tra gli altri, l’imprenditore Carlo Russo che avrebbe parlato a nome di Tiziano Renzi). Per tutta la giornata di ieri, i Dem hanno provato a sostenere la tesi che il voto fosse superato. “Spetta al presidente Grasso decidere ma mi sembra che rispetto alle mozioni il caso sia risolto”, la posizione espressa da Luigi Zanda, il capogruppo. Alla base, l’interpretazione dello Statuto della Consip. Al punto 12.4 si legge: “Se viene meno la maggioranza dei consiglieri, si intende dimissionario l’intero Consiglio e l’assemblea deve essere convocata d’urgenza dagli Amministratori rimasti in carica per la ricostituzione dello stesso”. “Ne parliamo martedì in Aula”, aveva però dichiarato domenica Grasso. Sulle basi del fatto che le mozioni sono calendarizzate e il Cda è pienamente legittimato a lavorare e dunque la questione non è superata. Secondo Grasso, nessuna decisione deve essere presa fuori dall’aula. La lettera di Padoan lo spingerebbe a rimettersi all’aula. E metterebbe pressione a Senato: il governo non ci sta ad essere commissariato. La maggioranza per evitare il voto potrebbe esserci: Ala, Pd, centristi e Svp contano 158 voti. Se questa mossa non dovesse riuscire, la partita è apertissima.
Le mozioni in tutto sono sei. Sul filo dei voti, quella del Pd (riformulata, rispetto alla versione di venerdì), quella di Andrea Augello e Gaetano Quagliariello di Idea (ce n’è un’altra molto simile di Loredana De Petris di Sinistra Italiana), e quella di Mdp, presentata da Miguel Gotor. Nella mozione dem si prende atto delle dimissioni del presidente di Consip e della consigliera e si chiede al governo di “procedere in tempi celeri e solleciti al rinnovo dei vertici”. Maggioranza a rischio. Il Pd ha i voti dei centristi e di Svp (si arriverebbe a 142), ma punta a conquistare quelli di Ala (sarebbero così 158). I verdiniani però non hanno deciso nulla: loro venerdì avevano presentato un testo per difendere Marroni e si sono visti arrivare inaspettatamente la mozione dem. Le mozioni delle opposizioni potrebbero annullarsi a vicenda. Quella di Idea, chiedendo la rimozione dei vertici Consip, sottolinea la posizione di Lotti. Augello, nel frattempo, ha lavorato a due pareri legali che sostengono il fatto che la discussione va fatta.
Quagliariello fa il conto dei numeri: dovrebbe avere anche i voti di Forza Italia e Lega e quelli del M5s. 109 insufficienti. Non la voterà Mdp (16 senatori) che chiede sia il ritiro delle deleghe a Lotti, sia la revoca dell’incarico a Marroni. Potrebbe avere 109 voti più 16. Sempre se tutti, anche Idea decidessero di confluire. Quello di oggi, fino al fallimento dell’accordo sulla legge elettorale, poteva essere l’incidente perfetto. Ora il tentativo di tutti è rafforzare l’esecutivo.

Il Fatto 20.6.17
L’imperatore Macron I e il rischio dell’estate calda
di Leonardo Coen

La rigenerata Assemblea Nazionale francese propone un ricambio folgorante – il 75 per cento dei nuovi deputati è al primo mandato – e un partito egemonico, La République En Marche! con 308 seggi, dunque 19 più della maggioranza assoluta (289). Ma meno dei 400 previsti dai sondaggi. I francesi, pure chi non ha votato, cioè il 57,36% (in democrazia, chi tace acconsente, scrive Libération), accordano fiducia a Macron, con l’avvertenza di non abusarne. Il primo dato politico è che non dovrà essere condizionato da negoziati di circostanza né rendere conto all’imprevedibile alleato François Bayrou, leader del partito centrista MoDem (42 seggi). Il secondo dato riguarda l’opposizione: asfaltata. Davvero è così?
Se all’Assemblea Nazionale è impotente, altrove l’opposizione conta, eccome: il Senato è ancora controllato dai repubblicani (si voterà a settembre, con un’elezione indiretta). A livello locale, le regioni sono in gran parte in mano ai repubblicani, le città hanno sindaci iscritti ai partiti tradizionali. Inoltre, i media sono vigili, credono poco alle favole e alle bacchette magiche. Per esempio, che i nuovi deputati di En Marche! siano tutti “esemplari”, secondo la narrazione macroniana, con le 19 mila candidature degli aspiranti deputati esaminate minuziosamente, le verifiche dei casellari giudiziari… peccato che siano saltate fuori storie poco edificanti riguardo alcuni deputati marcheurs dal sulfureo passato: omofobia, frodi, molestie, sfruttamento del lavoro… inoltre 3 ministri in carica sono suscettibili d’essere indagati dalla magistratura: Richard Ferrand (Coesione del Territorio), è oggetto di un’inchiesta preliminare del tribunale di Brest su possibili conflitti di interessi che lo riguardano; François Bayrou (Guardasigilli) e Marielle de Sarnez (Affari europei) sono nei guai per lo scandalo dei falsi assistenti parlamentari che sta travolgendo il loro partito MoDem.
Approfittando delle elezioni, Macron ha imposto una prima scrematura del governo, e un regola chiara: tutti i ministri sotto inchiesta devono dimettersi. Non solo. Ha chiesto che i ministri riducano drasticamente organici e bilanci dei loro gabinetti. Meno spese e sprechi, in sintonia con la legge di moralizzazione della vita politica.
Perché Macron sa che i francesi non gli hanno affidato un assegno in bianco. Alle promesse devono seguire i fatti. Purtroppo, Macron dovrà scontare la cambiale dei compromessi. Che sono già in agguato: i pieni poteri consentono al capo dello Stato di avviare le riforme annunciate, tuttavia la prima, quella sul Codice del Lavoro, rischia di trasformarsi in un cantiere esplosivo, polemico e conflittuale. Basterà la legittimità del voto, malgrado l’astensione record, a garantire il progetto di Macron?
Lo attende al varco Marine Le Pen. Il Fronte Nazionale, umiliato dal voto, dispone di appena 8 deputati: per fare gruppo in Parlamento dovrà trovare alleati (ci sono 6 cani sciolti della destra e uno di “estrema destra”). E anche Jean-Luc Mélenchon (17 deputati) scatenerà una fronda senza requie.
Il leader di France Insoumise nega a Macron legittimità, per la massiccia astensione: però nella sua circoscrizione è stata del 60%. Quanto ai Repubblicani, vantano 113 seggi, ma offrono litigi, divisioni interne, probabili scissioni. E pure i socialisti (decimati nell’esatto senso aritmetico: sono 29, un decimo rispetto al vecchio Parlamento) sono alla resa dei conti. Infatti ha pagato pegno Manuel Valls, l’ex premier, rieletto per il rotto della cuffia, 139 voti in più dell’avversaria Farida Amrani (Insoumise) che ha contestato il risultato e reclama il riconteggio.
di Leonardo Coen

Corriere 20.6.17
«Violata la libertà di procreazione» Prima condanna
Il Tribunale civile ha riconosciuto il «danno non patrimoniale» a una donna rimasta incinta nonostante credesse di aver subìto in ospedale il concordato intervento di sterilizzazione, e decisasi allora a interrompere la gravidanza indesiderata
di Luigi Ferrarella

Il Tribunale civile ha riconosciuto il «danno non patrimoniale» a una donna rimasta incinta nonostante credesse di aver subìto in ospedale il concordato intervento di sterilizzazione, e decisasi allora a interrompere la gravidanza indesiderata. Il giudice ha ravvisato la violazione della libertà di procreazione.
A una donna rimasta incinta nonostante credesse di aver subìto in ospedale il concordato intervento di sterilizzazione, e decisasi allora a interrompere la gravidanza indesiderata in Sardegna, per la prima volta un Tribunale civile ha riconosciuto il «danno non patrimoniale» conseguente alla violazione, da parte dell’ospedale inadempiente, «del principio di autodeterminazione della propria esistenza e della completa libertà nella determinazione delle scelte in merito alla procreazione cosciente e responsabile».
Sinora, in tema di «danno da nascita indesiderata», in giurisprudenza esistevano casi (peraltro pochi) non sovrapponibili a questo: erano cioè nascite contro o al di là della volontà della donna, magari foriere di danni fisici o mentali ai neonati, ma tutte occasionate da falliti aborti, o da errate sterilizzazioni, o ancora da improprie somministrazioni di contraccettivo. In questa causa civile, invece, decisa ora dal Tribunale di Cagliari, l’Azienda ospedaliera è stata condannata a risarcire la violazione delle scelte di procreazione della donna, orientatasi ad abortire dopo l’indesiderata gravidanza frutto appunto della inadempienza dell’ospedale.
Una dozzina d’anni fa la signora, quando era andata nell’ospedale di un paese di una provincia della Sardegna che qui (al pari della data) non si preciserà per non consentire l’identificazione della donna e della sua famiglia, aveva scelto di partorire il proprio secondo figlio con il taglio cesareo, e nel contempo di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica.
Il taglio cesareo era andato bene, la signora era ritornata a casa con il secondo bambino, e, confidando nella chiusura delle tube che riteneva le fosse stata praticata dall’ospedale in ottemperanza al consenso informato che aveva sottoscritto, aveva poi ripreso la propria vita sessuale con il marito senza ricorso a contraccettivi. Scoprendosi invece incinta, con sua grande sorpresa, un anno dopo. E decidendo di abortire per non avere quel terzo figlio.
Una volta superata dall’istruttoria la tesi difensiva dell’ospedale, secondo il quale era stata la donna a manifestare incertezza rispetto all’operazione, nella causa la signora chiedeva al Tribunale di Cagliari il risarcimento non solo delle spese pratiche (liquidate dal giudice in 1.200 euro) e del danno biologico (cioè quello non patrimoniale da lesione all’integrità psicofisica, fissato dalla sentenza in 4.100 euro), ma anche del danno alla salute, e del danno alla libertà di autodeterminazione.
Il danno alla salute è stato escluso dal Tribunale, in virtù di una perizia che nella donna non ha ravvisato patologie psichiche conseguenti all’aborto.
Il giudice Giorgio Latti ha invece riconosciuto «il danno non patrimoniale» per «anche la sola violazione del diritto all’autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione: infatti — scrive — il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è certamente un diritto, normativamente riconosciuto, che trova riscontri costituzionali sia nell’art. 2 sia nell’art. 13 della Costituzione». In assenza di parametri, il giudice è ricorso a una valutazione «in via equitativa» del danno alla «delicata sfera della persona pregiudicata dall’illecito», condannando l’Azienda ospedaliera a pagare alla signora, assistita dall’avvocato Mauro Intagliata, un risarcimento di 20.000 euro.

Corriere 20.6.17
Saba , un Ulisse incompreso a Trieste
Si rifugiava nel mito e nella psicoanalisi, entrò nel canone e ne scivolò fuori: tempo di rivalutazione
di Paolo Di Stefano
A sessant’anni dalla morte, Umberto Saba rimane un poeta per tanti aspetti misterioso e incompreso, per non dire sottovalutato. Come se il suo progetto di una «poesia onesta», piana, autobiografica e domestica, per di più proveniente da una zona di frontiera («arretrata») com’è Trieste, lo avesse penalizzato. Tanto più rimane in ombra il suo valore di scrittore in prosa, nelle forme variegate del saggista, del narratore autocritico, dello scrittore d’invenzione o sapienziale. Ora, la nuova monografia su Umberto Saba, scritta da Stefano Carrai ( Saba , Salerno Editrice ), studioso di letteratura medievale e rinascimentale oltre che di Novecento (Montale, Sereni, Fortini, Raboni…), si sofferma su diversi luoghi ancora oscuri della sua biografia, della sua opera e della relazione tra la «calda vita» con i suoi traumi, il contesto storico e l’opera. Su questa via, Carrai si avvale delle acquisizioni filologiche, dei materiali epistolari, di puntuali analisi metrico-stilistiche.
«L’infanzia per i poeti — dice Carrai — è quasi sempre un affioramento che provoca dolore, ma nel caso di Saba equivale a una serie di nodi irrisolti che diventano un vero e proprio groviglio esistenziale. I contrasti in mezzo ai quali la sua infanzia e la sua adolescenza si dipanarono rimasero fino all’ultimo vivi e cocenti anche nell’adulto, come traumi e ferite insanabili. Il ragazzo infatti apparteneva a una famiglia dimidiata perché il padre l’aveva abbandonata ancor prima che lui nascesse. L’acrimonia e le recriminazioni della madre nei confronti dell’assente furono una costante angosciosa. Inoltre Umberto si sentiva estraneo alla cultura chiusa e ottusa del ghetto ebraico in cui crebbe. Questi elementi di disagio sarebbero bastati a far maturare in lui la sensazione di essere un diverso e un originale».
E poi si aggiunge il complicato rapporto con l’amata Peppa, la contadina slovena che gli fece da nutrice e che scatenò la gelosia della madre…
«La presenza della balia ha contribuito a complicare ulteriormente il quadro psicologico: un rapporto in parte letteraturizzato per l’influenza di una poesia dedicata alla nutrice da d’Annunzio, ma fondato su un affetto vero e profondo, perdurato fino all’età matura, in contrapposizione alla anaffettività della madre naturale. E naturalmente va messa in conto anche la scoperta del sesso, l’esperienza dell’omosessualità o della bisessualità descritta in Ernesto , che sottintende una incertezza nella definizione della propria identità anche sessuale appunto. Sono tutti temi che tornano, spesso come sofferenza, in ogni stagione della poesia di Saba».
In che forma si presenta l’«ulissismo» di Saba?
«Ulisse è un eroe molto caro all’inquietudine novecentesca. Nella poetica di Saba il suo mito serve a trasfigurare la sensazione di non essere di casa in nessun luogo, con l’eccezione certo dell’amata Trieste, che ha costituito sempre un rifugio, specie dopo l’acquisizione della sua libreria antiquaria. Però anche qui l’umoralità e la suscettibilità esasperate di Saba facevano sì che fosse spesso ferito e urtato dagli altri, persino dai suoi amici più cari, come se anche negli affetti fosse costretto ad una peregrinazione continua. Dai circoli letterari fiorentini e romani nei quali ambiva a essere accolto, poi, non si è mai sentito accettato. Ecco, anche questo è stato vissuto da Saba come una sindrome di Ulisse».
Si ha continuamente l’impressione di un pendolarismo intimo tra marginalità (Trieste) e centro (il rapporto difficile con Firenze, e poi Milano, Parigi). Saba sembra un uomo profondamente solo ma circondato da tantissimi amici sempre pronti ad aiutarlo (non soltanto Montale).
«Sì, anche per il suo narcisismo estremo Saba ha sofferto di non essere adeguatamente considerato e riconosciuto come poeta, specie agli inizi, quando Slataper, con un vero e proprio equivoco critico, pensò di fare di lui un semplice emulo di Gozzano. Poi con gli anni Venti, grazie soprattutto a Debenedetti, Solmi, Montale, le cose cambiarono e tra le due guerre la sua fama si consolidò. Certo però rimaneva sempre un poeta appartato nella sua Trieste, dove era al centro di un cenacolo artistico numeroso e dove molti giovani andavano per conoscerlo, ma pur sempre un poeta che solo ogni tanto si faceva vedere negli ambienti che contavano. Tuttavia quanto fosse stimato e amato si vide dopo le leggi razziali e soprattutto dopo l’otto settembre del ’43, quando sarebbe certo finito in una camera a gas se non avesse potuto contare sull’aiuto di amici come Montale, Vittorini e altri».
Nonostante la depressione che lo coglie in tarda età, e nonostante i messaggi ultimativi (minacce di suicidio e minaccia di smettere precocemente di scrivere), Saba lavora fino all’ultimo o quasi. Da cosa nasce l’idea di tornare sul «Canzoniere» e di commentarlo?
«Storia e cronistoria del Canzoniere è uno straordinario esempio di autocommento, nato dalla convinzione di essere incompreso dalla critica del Dopoguerra e dagli alfieri dell’ermetismo. Si potrebbe perfino dire che un’opera straordinaria come questa, che più che spiegare il senso delle poesie costruisce un autoritratto dell’autore fra versi e prosa, sia nata inizialmente per impulso del complesso di persecuzione di Saba. E poi fino all’ultimo Saba ha scritto anche poesie: da “Mediterranee” a “ Sei poesie della vecchiaia” le appendici al Canzoniere vero e proprio regalano al lettore gli estremi gioielli della poetica sabiana».
L’opera di scarnificazione e di semplificazione è solo reazione alla retorica fascista?
«L’avversione al fascismo (dopo un’iniziale, momentanea simpatia) fu costante in Saba, anche se nel 1938 fu costretto al gesto umiliante di supplicare Mussolini perché risparmiasse lui e la sua famiglia, per meriti poetici, dall’applicazione delle leggi razziali. Una vera ossessione, da comunicare solo agli amici più stretti, fu la roboante propaganda del regime, odiatissima per l’invadenza ma anche per la tronfia retorica. E penso di sì, che non sia un caso se proprio negli anni Trenta la sua poesia prende la strada di una concisione linguistica, che tuttavia risentiva dichiaratamente del fascino esercitato da modelli come Ungaretti e Montale, in parte anche il giovane Penna».
Saba fu il primo poeta a confrontarsi con l’inconscio: quali conseguenze ebbe la «scoperta» della psicoanalisi?
«La psicoanalisi fu per Saba una scoperta totalizzante, cui si abbandonò con un’adesione quasi fideistica, al punto da interpretare ogni fatto della vita alla luce delle teorie di Freud. Dopo la cura intrapresa, tra il ’29 e il ’30, con lo psicanalista triestino Edoardo Weiss, che era stato allievo di Freud a Vienna, Saba accordò ancor più importanza ai traumi infantili che fin dalla prima giovinezza aveva ritenuto responsabili della propria inguaribile infelicità. Le poesie dei primi anni Trenta, raccolte nella sezione “Il piccolo Berto” del Canzoniere , sono incentrate proprio sulla scoperta dell’inconscio e del ritorno del rimosso, perciò pongono al centro la drammatica rappresentazione di uno strappo: la madre naturale che per gelosia lo sottrae con violenza, all’età di tre anni, all’amore di una madre più vera, cioè della balia, che il ragazzo tornerà a cercare nell’adolescenza. Ecco, la psicoanalisi ebbe, in fondo, l’effetto di convincerlo definitivamente che a causa delle ferite subite nella prima infanzia era destinato a scontare un’infelicità senza rimedio».
Come mai il romanzo, quel tipo di romanzo che è «Ernesto», arriva solo alla fine?
« Ernesto non è soltanto la struggente confessione di una iniziazione sessuale anomala, ma è anche la rievocazione di una stagione della vita e di un’epoca tramontata, inimitabile, all’alba del Novecento. Saba non poteva arrivare a scriverlo che con la libertà e col disincanto della senilità: è un piccolo capolavoro e c’è da rammaricarsi del fatto che oltre che anziano egli fosse allora troppo provato dalla malattia nervosa e minato nel fisico dall’eccesso di farmaci per riuscire a condurlo a termine».
Come si colloca la «funzione Saba» all’interno della poesia novecentesca? E con quali peculiarità?
«È vero, c’è nella poesia del Novecento una funzione Saba che si tende forse a sottovalutare. Un certo sabismo è evidente in poeti come Penna, Caproni, Bertolucci, Giudici, ma anche in Sereni è forte. Direi che se mettiamo insieme cantabilità del verso e fuga dall’enfasi del poetichese abbiamo già una tonalità in qualche misura sabiana».
Quando si pensa al meglio della poesia novecentesca, purtroppo pochi pensano a Saba. Nonostante la sua «leggibilità» e il notevole successo critico, qualcosa gli ha impedito (e ancora gli impedisce) di ottenere quel che meriterebbe. Come si spiega?
«Questa è la domanda più difficile di tutte. D’istinto direi che Saba non è mai stato, a differenza di altri poeti, un buon manager di se stesso. Una vera consacrazione l’ha ottenuta solo col premio Viareggio nel 1946 (peraltro ex aequo con un narratore viareggino come Silvio Micheli che oggi nessuno ricorda più), cioè quando aveva già sessantatré anni. Gli undici anni che gli restavano da vivere furono segnati dalla dipendenza dalla morfina e dai ripetuti ricoveri per crisi depressive. Quando ero ragazzo Saba era considerato uno dei classici della poesia del Novecento al pari di Ungaretti e Montale. Poi, è vero, la sua fortuna editoriale è un po’ calata, la sua fortuna critica è scesa ancora di più. Spero che il mio libro contribuisca a rendere giustizia a uno tra i massimi poeti italiani della modernità».

La Stampa 20.6.17
Scoperti altri 219 pianeti, 10 abitabili come Terra

Scoperti 219 nuovi possibili pianeti esterni al Sistema solare, 10 dei quali grandi quanto la Terra e posti nella fascia abitabile, cioè alla giusta distanza dalla propria stella per poter avere acqua liquida in superficie. Lo annuncia la Nasa presentando gli ultimi risultati del telescopio spaziale Kepler. Con questo ottavo catalogo della sua missione, il numero di potenziali mondi alieni sale a 4.034: di questi 2.335 sono stati verificati come pianeti, e più di 30 sono grandi quanto la Terra in fascia abitabile.
«Questo catalogo frutto di misure estremamente accurate è la base di partenza per rispondere ad una delle domande più interessanti dell’astronomia: quanti sono i pianeti simili alla Terra nella nostra galassia?», spiega Susan Thompson, coordinatrice del catalogo presso il Seti Institute di Mountain View, in California.
Grazie ai dati di Kepler, un secondo gruppo di ricerca è riuscito anche a misurare con precisione migliaia di pianeti, rivelando due tipologie principali tra quelli più piccoli: quelli rocciosi grandi quanto la Terra e quelli gassosi più piccoli di Nettuno. «Ci piace pensare a questo studio di classificazione dei pianeti come quello con cui i biologi identificano nuove specie animali», spiega il coordinatore Benjamin Fulton, dell’Università delle Hawaii a Manoa. «Trovare due gruppi distinti di esopianeti è come scoprire che mammiferi e lucertole formano due rami distinti dell’albero evolutivo».
La scoperta di queste due tipologie è importante per la ricerca di vita, perché indica che circa la metà dei pianeti conosciuti nella galassia non hanno superficie oppure la nascondono dietro una spessa e schiacciante atmosfera, dunque offrono un ambiente poco ospitale.

La Stampa 20.6.17
L’imperialismo culturale di Pechino
Massimiliano Panarari

Può non piacere, ma c’è sempre e inevitabilmente una dimensione muscolare nei rapporti tra gli Imperi. Specie se assumono i tratti dello «scontro di civiltà» e di culture.
Un’idea che circolava molto nel dibattito degli anni a cavallo della Prima guerra mondiale, con l’inevitabile sensazione della fine di un mondo e del declino dell’Occidente, mentre venivano pubblicati i libri di Oswald Spengler e quelli di Arnold Toynbee con i loro mega-affreschi comparativi delle civilizzazioni in conflitto.
Una visione che è tornata di attualità di recente, allorché nelle relazioni internazionali si è reimposto prepotentemente lo stato di natura hobbesiano, tra il Califfato dell’Isis, le fibrillazioni continue tra le potenze regionali del Medio Oriente e l’esibizionismo atomico della Corea del Nord.
E lo scontro tra civiltà è oggi anche una battaglia di soft power, la categoria coniata dal politologo Joseph Nye per indicare la necessità che gli Stati Uniti, in un contesto planetario sempre più interdipendente, utilizzassero il «potere dolce» del loro modello culturale e stile di vita per radicare la leadership in maniera maggiormente consensuale.
E, in effetti, nel Villaggio globale la cultura mainstream che va per la maggiore vede proprio l’immaginario pop Usa quale ingrediente fondamentale che si contamina con le specificità culturali di altre nazioni, e genera prodotti immateriali di grande diffusione (dalla Corea del Sud al Messico, dal Qatar al Brasile).
Con una sola grande eccezione, la Cina, che al soft power dedica da qualche tempo sempre maggiore attenzione e crescenti investimenti, ma in una logica che appunto non è di ibridazione, bensì di dialogo «a senso unico» e di sfida per una sorta di egemonia culturale.
E, dunque, intensificazione delle relazioni commerciali ed economiche, ma all’insegna di una totale impermeabilità dal punto di vista del paradigma politico e di quello culturale: e l’ultimo strumento è One Belt One Road, la «Nuova via della seta». Perché il gigante asiatico, come ha scritto Henry Kissinger nel suo «Ordine mondiale» (Mondadori, 2015), si è affacciato sul proscenio globalizzato come aspirante superpotenza contemporanea sul modello del sistema vestfaliano, ma anche quale custode di una civiltà e di una cultura millenarie, che rivendica orgogliosamente (quelle dell’Impero di mezzo).
La Cina odierna è il risultato di un impressionante esperimento di modernizzazione tecnocratica e, al tempo stesso, «reazionaria», che si fonda sull’autarchia culturale e sul proporsi quale alternativa ai sistemi di pensiero occidentali. Come predica il «comunismo confuciano» (o «maoconfucianesimo»), nel quale l’offensiva culturale assimilazionista gioca una funzione centrale, almeno a partire dall’ottobre del 2007, quando l’allora presidente e segretario generale Hu Jintao, nel rapporto indirizzato ai membri del diciassettesimo congresso del Partito comunista, nominò esplicitamente il soft power quale mezzo necessario per il perseguimento dell’obiettivo di uno «sviluppo armonioso».
Di qui, il dilagare e la proliferazione degli Istituti Confucio per promuovere la lingua e la cultura (specie in Africa e America Latina), l’impegno per migliorare il ranking internazionale delle università più importanti, la promozione all’estero di grandi mostre archeologiche, il canale di news in inglese dell’agenzia Xinhua che affianca le programmazioni per l’Europa e gli Usa della televisione di Stato Cctv, i social media chiusi e made in China. E l’acquisto di squadre di calcio europee e di quote degli studios hollywoodiani, con il moltiplicarsi di coproduzioni con ambientazioni e protagonisti cinesi.
Insomma, dopo quello economico di «Cinafrica», è scoccata l’ora di un neo-imperialismo di tipo culturale.

La Stampa 20.6.17
Tako-tsubo
Se il cuore si spezza per davvero
di Ester Armanino

Tako-tsubo è il termine giapponese per indicare la trappola - una sorta di anfora legata a una corda - con cui nel Paese del Sol levante si pescano i polpi. Ma stando a quanto emerso dalle ultime ricerche in campo medico-scientifico, tako-tsubo potrebbe anche indicare la forma di ogni cuore che si è «spezzato».
Il cuore di Didone quando Enea l’ha lasciata. Quello della madre di Romeo Montecchi o di Re Lear con in braccio il corpo morto della figlia Cordelia. E forse persino il cuore di qualche lettore, e anche il mio: a causa di un lutto o della fine di una relazione i nostri cuori potrebbero avere assunto la forma di un vaso (tsubo) da polpo (tako). Chissà.
Parlando più seriamente, quella di Tako-tsubo o «del cuore infranto» è una sindrome che si manifesta in modo simile all’infarto e fa sì che il ventricolo sinistro subisca una deformazione in seguito alla fatica di sopportare un evento emotivamente troppo stressante. Se fino a qualche anno fa questa malattia era considerata temporanea, un recentissimo studio dell’Università di Aberdeen dimostrerebbe invece che i danni possono essere anche permanenti. Al crepacuore si sopravvive, ma le cicatrici indicano che il completo recupero può richiedere molto tempo, o che forse non potrà mai verificarsi.
I cuori «spezzati» adesso sono quindi anatomicamente reali, cuori che portano l’handicap provocato dalle emozioni troppo forti, non più un modo di dire un po’ sentimentale. Sembra quasi una rivincita per conto della parola «depressione», usata talmente a sproposito da farci dimenticare di cosa si tratti realmente; la vendetta del cuore contro la superficialità con cui troppo spesso la sfera emotiva viene liquidata.
Ma a cosa serve sapere che per troppo amore il nostro cuore potrebbe ridursi a un tako-tsubo? Sapere che quando ci abbandoniamo a una relazione corriamo il rischio di crepacuore perché da un momento all’altro potrebbe finire?
C’è un magnifico romanzo di Maylis de Kerangal che ha per protagonista proprio un cuore, quello del giovane Simon Limbres, il cuore di cui già nell’incipit nessuno potrà mai conoscere «cosa l’abbia fatto balzare, vomitare, crescere, cosa l’abbia stordito, cosa l’abbia fatto struggere». Il titolo di questo romanzo è «Riparare i viventi», una frase che l’autrice ha preso in prestito da Cechov forse per dirci che se anche non possiamo conoscere davvero che cosa sia un cuore umano, almeno possiamo provare a ripararlo.
Gli effetti tangibili che le emozioni possono avere su di noi dimostrano che la vita nella maggior parte dei casi è un sussulto, una deformazione, uno strappo che va ricucito perché si possa guarire dalla vita stessa. Probabile che Enea non lo sapesse quando ha lasciato Didone innamorata, ma del resto aveva il più grande alibi della storia: fondare Roma.
Emily Dickinson però ha scritto: «Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi non avrò vissuto invano». Esortazione a non vivere in modo superficiale e cura per ogni cuore che ha finito con l’assomigliare a una trappola per polpi.

La Stampa 20.7.16
“Algerino e ateo: la mia sfida al fondamentalismo islamico”
Parla lo scrittore Rachid Boudjedra, che ha scelto di combattere gli integralisti restando in patria: “Laico progressista, denuncio le tare delle società arabe”
di Karima Moual

Lo scrittore algerino Rachid Boudjedra è autore del romanzo Il ripudio (uscito nel 1969, tradotto per le Edizioni Lavoro). Da sempre forte oppositore dell’integralismo islamista, ha deciso di affrontarlo dall’interno dell’Algeria e non da esiliato. In questi giorni la sua immagine è su numerosi quotidiani. Cento intellettuali sono scesi a manifestare in sua difesa contro la tv privata EnnaharTv che ha realizzato una candid camera con un finto attentato per obbligarle lo scrittore a invocare «Allah Akbar» per salvare la sua vita e quella della moglie.
Lei è uno scrittore di fama internazionale e dichiaratamente ateo. Come si vive da ateo in un paese musulmano?
«Che io sia ateo o meno è una questione privata. Sono un laico progressista e anti-integralista. Nei miei romanzi denuncio le tare delle società arabe ancora molto arcaiche, che coltivano l’ipocrisia sociale e l’odio verso la donna. Con i miei amici viviamo nel nostro Paese e resistiamo per una società progressista e laica».
In seguito all’attacco che ha subito da parte di EnnaharTv, lei ha definito la società algerina come imbevuta di islamismo, nonostante abbia combattuto l’islamismo armato. Perché?
«L’integralismo islamico è stato battuto militarmente e politicamente nel 1999 dall’Algeria, che l’ha sconfitto da sola. L’Occidente ha tollerato questi fanatici troppo a lungo. E sono stati finanziati dai Paesi del Golfo, che hanno partecipato al tentativo di stabilire uno Stato islamico in Algeria. La prova è che molti capi del Gia (Gruppo islamico armato) hanno trovato rifugio, sin dal 1993, in Europa, tra gli altri in Italia, e negli Stati Uniti che hanno concesso il diritto d’asilo a Heddam, uno dei grandi capi del Gia».
L’islamismo non riguarda solo l’Algeria, è un’ideologia che si è insinuata in più società. Come contrastarla e quali tempi, oltre che strumenti, abbiamo per vincerla?
«Una volta che in Algeria è stato sconfitto, l’islamismo terrorista si è trasformato in islamismo “pacifista” infiltrandosi profondamente nella società. Ciò è accaduto in tutti i Paesi musulmani, senza eccezioni. Oggi è arrivato in un’Europa che assiste, stupita, a quest’ondata di attentati barbari, mentre c’è stato un momento in cui tutto il mondo occidentale è stato complice di questa ideologia fascista che è il wahabismo. Hanno consapevolmente distrutto i Paesi laici del Medio Oriente (Iraq e Siria) e infine la Libia, creando il caos, per ragioni d’interesse materiale, come il petrolio. Bisogna riconoscere che l’Europa del Sud - Italia, Spagna, Grecia e Portogallo - non ha partecipato a queste guerre ingiuste. L’islamismo si combatte avendo una visione chiara e onesta di ciò che è, di coloro che l’hanno fondato, organizzato e finanziato per distruggere gli Stati nazione del Medio Oriente».
In questi giorni assistiamo alla crisi del Golfo. Quanto c’è di vero in questo scontro e che relazione ha sulla crescita dell’islamismo?
«È un conflitto sopravvalutato. Porsi la domanda di chi finanzia il terrorismo significa essere complici del wahabismo retrogrado e terrorista. Tutti sanno chi è chi e chi fa cosa. Il resto è ipocrisia politica».
Lei ha dichiarato che l’islamismo è ricco e questo è un problema. Ce lo spiega?
«L’islamismo è molto ricco perché viene finanziato dalle monarchie del Golfo. Ma adesso le cose cominciano a cambiare, perché questi Paesi sono a loro volta invasi da quell’islamismo che hanno creato. È la teoria del boomerang».
Come vede i giovani di oggi rispetto al rapporto che hanno con la cultura e la religione?
«Riflettono la realtà generale del loro Paese. Anche se nei paesi musulmani sono in molti a essere attratti dall’islamismo, in alcune realtà, come l’Algeria, c’è chi se ne allontana - lo straordinario supporto che ho ricevuto dalla società civile prova che i giovani algerini stanno dalla mia parte. Ciò non accade in Europa dove le periferie sono diventate bombe a orologeria».