SULLA STAMPA DI GIOVEDI 8 GIUGNO
L'egemonia cattolica
La Stampa 8.6.17
Gian Enrico Rusconi
Bergoglio, quel che resta della dottrina
Papa della rivoluzione incompiuta, enigma teologico e culturale
Il libro di un laico che prende sul serio la fede, “per capire criticamente”
di Cesare Martinetti
Un uomo solo nella sua avventura pastorale e dottrinale. Un enigma teologico e culturale. Un Papa che ha avviato una «rivoluzione» tuttora «incompiuta» e che non siamo in grado di dire oggi se mai si compirà. Così appare Jorge Maria Bergoglio a Gian Enrico Rusconi, storico, politologo e germanista, intellettuale appassionato di vita culturale e civile. Arriva oggi in libreria il suo nuovo libro, La teologia narrativa di papa Francesco (Laterza, pp. 153, € 16) che rappresenta uno sforzo originale rispetto alla sterminata pubblicistica dei commentatori «zelanti» o quella - ridotta - dei combattivi avversari. È un laico che prende sul serio credenze religiose e uomini di fede, che analizza il discorso religioso per comprendere il nostro tempo. Il suo libro - avverte - non è per atei militanti né agnostici intransigenti. Lo ha scritto «per capire criticamente quel che accade».
Però, professor Rusconi, quell’aggettivo «narrativa», appiccicato alla teologia di Francesco, sembra già un giudizio: divulgazione da grande comunicatore, ma scarso rigore dottrinale. Voleva dire questo?
«È una teologia ambivalente: è un tentativo di ritornare alle origini di Bibbia e Vangelo, di cui si parla come se raccontassero eventi del quotidiano. Non mira a riformare la dottrina, sta reinventando una teologia, credo non intenzionalmente. La verità è che la Chiesa non è capace di trovare la dimensione dottrinale e culturale di una volta. Ma è un problema generale: anche la filosofia è diventata conversazione. Ecco, con Bergoglio la teologia è diventata conversazione, reinvenzione semantica, espressività emotiva, flessibilità concettuale».
Mi faccia un esempio.
«Lui parla spesso della Genesi, di Adamo ed Eva, ma dal suo racconto quasi scompare la dimensione drammatica del peccato originale e “narra” altri motivi come quello della scoperta della nudità a cui segue un’azione misericordiosa di Dio che dà alla coppia delle tuniche per ripararsi. Dio è buono, è amore, ha avuto compassione di loro. E manderà suo figlio a riparare ogni cosa. Ma se non c’è il peccato originale, se non c’è la collera di Dio, cosa dovrebbe mai riparare Gesù? Per un laico come me, educato nella religione tradizionale, questo è difficile da capire. La misericordia vince un peccato di cui non si parla. Il nesso offesa-punizione-espiazione viene del tutto sdrammatizzato».
Perché lo fa?
«Perché oggi abbiamo tutti la sensazione di avere molto da farci perdonare. Ma penso anche che il destino della religione sia l’abbandono delle forme dogmatiche. Lui sa che siamo a un punto critico per l’istituzione religiosa, non vuole mettere in discussione il sistema dogmatico, solleva i punti critici, li risolve con il ricorso continuo all’infinita misericordia di Dio e cioè con una risposta emotiva, narrativa, senza esprimere mai la presunzione di innovare, ma di rinnovare».
Ci sono stati però momenti che toccano il vivo dell’esperienza di vita che Francesco ha affrontato apertamente. Nel caso della comunione ai divorziati separati o sulla comprensione dell’omosessualità c’è stata vera innovazione. Non crede?
«C’è un adattamento ai tempi. Il matrimonio resta indissolubile, ma lui è comprensivo, capisce che può finire, che l’amore può fallire. Però proprio questo caso mi sembra esemplare dell’impasse dottrinale e pastorale della Chiesa di Bergoglio. In Amoris laetitia si afferma che il divorziato soggettivamente incolpevole può essere considerato “senza colpa” o più perdonabile rispetto a uno “oggettivamente colpevole”. Chi decide? Sempre il confessore, l’accesso all’eucarestia non è un diritto. Gli avversari vedono tutto questo come confusione; i favorevoli come una grande innovazione».
Da molto tempo i sacerdoti si trovano ad affrontare una dimensione quotidiana di società che è difficile far rientrare nei canoni della dottrina. Lei pensa che il Papa arriverà a modifiche importanti e attese, per esempio nel ruolo della donna?
«Non è un Papa che nasconde le profonde incongruenze della dottrina tradizionale, tuttavia non cerca soluzioni, lascia le cose come stanno. Dice che le donne sono le più coraggiose, intelligenti, anzi che la Chiesa è donna. Ma nessuna sacerdotessa e, al momento, nemmeno diaconessa».
Che cosa pensa della sua celebrata battuta «chi sono io per giudicare un omosessuale che cerca Dio»? Ha cambiato l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei gay.
«È un’innovazione, certo, va riconosciuto l’abbandono delle espressioni più brutali, però resta un percorso incompiuto che si scontra con la realtà. Prendiamo per esempio il caso di questi giorni del capo scout di Monfalcone che si è “sposato” civilmente con il suo compagno. Il parroco lo ha condannato e gli ha chiesto di non occuparsi più di bambini; il viceparroco, un prete operaio, ha partecipato alla cerimonia come sacerdote e amico; il vescovo è in imbarazzo. Che dirà il Papa? Ma sono situazioni inevitabili: se si esprime comprensione, c’è chi ne trae le conclusioni. E invece, per le unioni civili, l’atteggiamento resta critico nei confronti di un diritto che lo Stato laico non può disconoscere nella sua legittima sovranità. Come la rivendicazione dell’obiezione di coscienza nei riguardi di leggi sgradite alla Chiesa».
È un punto cruciale: il rapporto con lo Stato laico che dovrebbe decidere «come se Dio non ci fosse» e il capo della Chiesa cattolica che invece in Italia ha sempre enormemente pesato sulle scelte politiche. Molti laici italiani sono entusiasti o addirittura sedotti da Bergoglio e lei sottolinea nel libro la «fragilità» della laicità italiana. Che rapporto ha Bergoglio con loro?
«Francesco ha una grande potenza mediatica e predilige quelli che contano mediaticamente. Però io credo che lui non li capisca e non li ami, pensa che siano un retaggio del vecchio illuminismo, dimenticando che i diritti dell’uomo di cui oggi la Chiesa si fa portavoce per i migranti nascono con gli illuministi. Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer parlava della società secolarizzata come di “età matura dell’uomo”. Bergoglio certamente non la pensa così. La reciprocità cognitiva tra laicità e religione, auspicata anche da Ratzinger in un incontro con filosofo tedesco Habermas, resta per il momento irraggiungibile».
Corriere 8.6.17
I diari di Trentin: le critiche ai leader della sinistra
Il dolore di Bruno Trentin. Nei diari dello storico leader Cgil, scomparso nel 2007, i giudizi aspri sui protagonisti della sua epoca. Con le critiche ai capi della sinistra.
di Marco Cianca
Il dolore di Bruno Trentin. Inaspettato e sconvolgente. «Avverto un’immensa fatica fisica e intellettuale, affettiva, tanto che mi pare a momenti di dovermi gettare ai margini di un sentiero e di morire, così, per esaurimento, per incapacità di esprimermi, per disamore per la vita e la lotta, e semplicemente perché non ho più voglia di battermi e di farmi capire», scrive a metà agosto del 1992. Sono passati quindici giorni da quel venerdì 31 luglio che ha segnato il momento più tribolato della sua vita da sindacalista. La firma di un’intesa nella quale non credeva, spinto dal timore che il fallimento della trattativa con il governo avrebbe avuto «effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese».
Aveva firmato, per «salvare la Cgil», e si era dimesso. «Che cosa sarebbe successo rifiutando l’accordo, con tutte le sue nefandezze? Nel mezzo di una catastrofe finanziaria, a chi sarebbe stata attribuita la svalutazione della lira?», annota. «Un inferno dentro di me», e intorno «tanti opportunismi». «Miseria di Amato», «miseria di Del Turco», «miseria degli altri sindacati», «miseria delle reazioni elettoralistiche di gran parte del Pds».
Pubblico e privato
Senso di solitudine, incomprensione, sofferta alterità ma anche gioia di vivere, voglia di scrivere, di leggere, di andare in montagna: questi sentimenti permeano le cinquecento pagine dei diari, dal 1988 al 1994, che l’Ediesse sta mandando in libreria. Riflessioni culturali e politiche si alternano ai giudizi sulle persone e alle notazioni di vita quotidiana, la coltivazione di fiori ad Amelia, le suggestioni alpine a San Candido, le passeggiate, le scalate, i tanti, tantissimi libri, i viaggi, l’amore per Marcelle Padovani, chiamata affettuosamente Marie. È lei a spiegare che la decisione di pubblicare i diari non è stata facile, «testi nudi e crudi, molto passionali ed unilaterali» ma che servono a «far capire meglio la figura, la personalità e l’importanza di Trentin».
Iginio Ariemma, che da tempo svolge un intenso lavoro di scoperta e divulgazione di testi che riguardano l’ex segretario della Cgil, ha curato questa sorprendente pubblicazione. Sette anni che sconvolsero l’Italia e il mondo (la caduta del muro di Berlino, il disfacimento dei regimi comunisti, il cambio di nome del Pci, Tangentopoli, i bagliori di guerra in Kuwait e Iraq, la caduta di Craxi, l’ascesa di Berlusconi) visti con occhi attenti, impietosi e anche profetici.
Nato in Francia nel 1926, figlio di Silvio, professore universitario che aveva scelto di andare in esilio per non sottostare al fascismo, uno dei fondatori di Giustizia e Libertà, Bruno fu subito ribelle. Il padre organizzava la resistenza ma avrebbe voluto che il figlio continuasse gli studi. Lui s’incise sulla coscia destra una croce di Lorena come omaggio al generale De Gaulle e a France Libre , formò una piccola banda e fu arrestato dalla polizia francese passando in guardina il sedicesimo compleanno così come il diciassettesimo lo trascorse in una cella italiana, dopo il ritorno in Patria con la famiglia nel ’43.
La guerra partigiana, il Partito d’Azione, la laurea, l’ufficio studi della Cgil chiamato da Vittorio Foa, nel ’50 l’iscrizione al Pci, i metalmeccanici, l’autunno caldo, i vertici della confederazione. E poi segretario generale, dall’88 al ’94, appunto. Eccolo Bruno Trentin, crogiuolo d’idee, di rigore, di sensibilità e di esperienze, un eretico della sinistra, un libertario in mezzo a una folla di «ometti».
È indicativa una frase su Robespierre: «Lo sento lontano culturalmente e anche psicologicamente e nello stesso tempo vicino umanamente quando lo riscopro così solo, così tormentato, così coerente (e incerto) nella sua ansia di vivere in accordo con la sua morale e le sue speranze». E Trentin, con una ghigliottina etica, politica e umana taglia tante teste. Giudizi sprezzanti, definizioni impietose, conclamata estraneità. Un elenco che farà sobbalzare. Guido Carli, Ciriaco De Mita, Bettino Craxi, Giuliano Amato, Paolo Cirino Pomicino, Napoleone Colajanni, Gianni De Michelis, Lucio Colletti, i dirigenti della Confindustria, Pierre Carniti, Franco Marini, Sergio D’Antoni, Giuliano Cazzola. Disprezzo per gli «intellettuali a pagamento» e «i vecchi saccenti senza vergogna e senza il minimo residuo di morale politica ed intellettuale». A proposito della Cgil: «Guerra per bande», «basse manovre di Lama e compagni prima dell’ultimo congresso», «tragico tramonto», «metastasi inestricabile», «miserabile scenario». Quando nell’88 parte la contestazione ad Antonio Pizzinato, evidenzia «un attacco torbido e cinico» ma rimarca «una reazione debole, patetica e astiosa» da parte dell’allora segretario. La voglia di fuga: «Ho maturato la mia intenzione di lasciare, non posso assistere a questo scempio e continuare a fare il mediatore e l’anima bella». Ma poi è lui a essere designato e «comincia la nuova storia della mia piccola vita».
Si sente circondato: «tristi figuri», «satrapi», «ceto burocratico di intermediazione», «avventurieri da strapazzo». Riaffiora, carsica, «la voglia tremenda di mollare tutto» e il desiderio di gridare: «Non sono uno di questi». Nel partito vede «anime morte che si incrociano senza comunicare». La decisione annunciata da Occhetto di cambiare il nome del Pci è ammantata di «improvvisazione e povertà culturale». Alle critiche, «il segretario reagisce con la ciclotimia di sempre alternando depressione e psicosi del tradimento con minacce e tentativi di prepotenza». Più avanti gli attribuirà «un affanno camaleontico». D’Alema «appare più lucido ed equilibrato di altri» ma «i progetti non lo interessano se non sono la giustificazione di un agire politico», «ricorda in caricatura il personaggio di Elikon nel Caligola di Camus». Nel ’94, senza accennare al duello tra lo stesso D’Alema e Walter Veltroni, guarda con tormentato distacco «alla penosa vicenda e al modo isterico, personalistico e selvaggio con il quale si è svolto il ricambio nella segreteria, con il patetico ma irresponsabile comportamento di Occhetto».
I rapporti con le sinistre
E l’altra sinistra? «Un’armata Brancaleone piena di cinismo e di vittimismo». A Bertinotti affibbia prima «un movimentismo senza obiettivi, disperatamente parolaio», poi «una meschina ambizione di protagonismo a qualsiasi costo», disceso nel «suo personale inferno di degradazione morale», «triste guitto», «ospite giulivo del Maurizio Costanzo show». A proposito di Rossana Rossanda annota «una risposta delirante e ignorante» e «penosi balbettii indignati». Parole di fuoco contro «i giovani rottami» del manifesto , «estremisti estetizzanti». A tutto questo variegato mondo «tra delirio estremista, gioco mondano e la lirica dannunziana» muove l’accusa di «disonestà intellettuale» e di «narcisismo laido e egocentrismo scatenato».
Doloroso il rapporto con Pietro Ingrao, con «la retorica della pace e del catastrofismo cosmico», con «il suo rifugio in una sorta di profetismo didascalico che lo porta a rimuovere ogni vero confronto con il presente». Un’incomprensione che lo farà piangere.
Nausea e disperazione. Denuncia «il machiavellismo volgare», «le ideologie rinsecchite» che diventano «gli orpelli delle più spregiudicate avventure personali e delle più invereconde forme di lotta politica», «le idee come grimaldelli» per la conquista del potere, «schieramenti senza programma». Malinconia, senso di stanchezza e di precarietà: «È come se gridassi e non uscisse un suono». Ma anche amicizie, affinità elettive e parole di elogio per figure, ad esempio, come Ciampi e Baffi, o per il sindacalista Eraldo Crea. E nel tormento dell’incomunicabilità e della diversità, a prevalere è il desiderio di elaborare un progetto, di indicare una via d’uscita. Superare il determinismo marxista e ripartire dalla rivoluzione francese «che non è ancora conclusa», dalla battaglia per i diritti, dalla società civile, da forme di autogoverno, dalla dignità e creatività del lavoro. Rifiuto di ogni statolatria e di soluzioni calate dall’alto, comprese tutte le strategie redistributive della sinistra che non vanno al nocciolo del problema e diventano l’alibi per governare. Contro la civiltà manageriale bisogna battersi per la socializzazione dei saperi e dei poteri. «Trasformare, qui ed ora, questo mondo nel quale viviamo e combattiamo». L’utopia del quotidiano, la chiama. La matrice è quella azionista ma la dicotomia tra giustizia e libertà, l’ircocervo di Benedetto Croce, Trentin la scioglie senza esitazione: la libertà viene prima. Nei diari c’è in incubazione «La città del lavoro». È morto il 23 agosto 2007. I conti con la sua eredità intellettuale sono ancora tutti da fare .
Corriere 8.6.17
L’Homo Sapiens ha 350 mila anni
di Giovanni Caprara
L’alba dell’ Homo sapiens corre più lontana nel tempo portando un po’ di luce sulle nostre origini. La nuova scena è una dolce collina del Nordafrica, in Marocco, circondata dal vuoto: è il sito di Jebel Irhoud, ben noto per le sue preziose tracce. Qui il ritrovamento di nuovi fossili e l’indagine con strumenti più sofisticati di altri scoperti a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo hanno permesso di stabilire che i primi esemplari di sapiens sono apparsi tra 300 e 350 mila anni fa. Finora la culla dell’uomo moderno era ritenuta l’Africa orientale, l’Etiopia, dove i fossili raccontavano una presenza intorno a 195 mila anni fa. «I resti umani (in Marocco, ndr ) sono i più antichi riferiti all’ Homo sapiens » scrive sulla rivista Nature Jean-Jacques Hublin del Max-Planck Institute tedesco e alla guida del gruppo internazionale di paleontologi protagonista della scoperta.
Dunque siamo nati centomila anni prima e ciò che rimane di almeno cinque ominini (soprattutto parti di teschi, mandibole, denti) analizzato in modi diversi, in particolare con tecniche di luminescenza, ha portato al risultato che di certo riaccenderà le discussioni sulla complicate interpretazioni dei primi rami del nostro albero genealogico. A rafforzare le conclusioni sul balzo indietro nel tempo sono giunte le datazioni di altri materiali trovati intorno, selci lavorate e resti di animali che hanno permesso di ricostruire la dieta del nostro antenato. «Si cibava di diversi tipi di animali di cui andava a caccia — dice Teresa Steele, paleoantropologa dell’università di California, a Davis, anche lei parte del gruppo —. Mangiava carne di gazzella, occasionalmente di gnu, di zebra e stagionalmente pure uova di struzzo. Rompeva le ossa molto lunghe, aprendole per assaporare il midollo. Tutto ci dimostra che il Nordafrica ha avuto un ruolo significativo nell’evoluzione dell’uomo moderno».
In passato le indagini sui fossili di Jebel Irhoud avevano suggerito un’età dell’antenato molto più recente, intorno a 40 mila anni, tanto da considerarlo una forma africana di Neanderthal: ipotesi cancellata da successive analisi che negli ultimi anni hanno portato a considerarli contemporanei agli abitanti dell’Etiopia. Ora i nuovi reperti e le nuove tecnologie hanno condotto a un ulteriore, clamoroso, passo avanti mostrando un’evoluzione più complessa e ponendo delle domande che prima potevano sembrare solo speculazioni teoriche. Ci si chiedeva, infatti, se la biologia dell’uomo moderno fosse emersa rapidamente intorno a 200 mila anni fa o se si fosse sviluppata gradualmente negli ultimi 400 mila anni. Questa seconda ipotesi sembra prevalere grazie alla scoperta in Marocco.
«Ora è chiaro che la storia dell’umanità è più articolata e probabilmente coinvolge l’intero Continente africano», aggiunge un altro ricercatore del team, Rainer Grun direttore dell’Australian Research Centre for Human Evolution dell’Università di Griffith. «I reperti sono molto interessanti — commenta il paleontologo Giorgio Manzi dell’Università La Sapienza di Roma —. Però mi sembrerebbe più corretto parlare di ominidi che rappresentano una transizione tra forme arcaiche e moderne. Cioè sono figure di un trend evolutivo che ancora non ha espresso il vero Homo sapiens . Tra l’altro — sottolinea — ci sono vari fossili appartenenti a queste fasi di passaggio emersi dal Sudafrica alla Tanzania. E sono dei casi che andranno spiegati con una visione più ampia rispetto al passato».
il manifesto 8.6.17
Sul Neolitico, quando gli uomini diventano più furbi
I bambini ci parlano. «Vuol dire Età della pietra nuova. È quando gli uomini primitivi sono cresciuti un po’ e sono diventati un po’ più intelligenti»
Giuseppe Caliceti
Mi dite quello che vi ricordate sulle ultime lezioni di storia? Quelle in cui abbiamo parlato del Neolitico? Ricordate cosa è il Neolitico?
«Il Neolitico vuol dire Età della pietra nuova. È quando gli uomini primitivi sono cresciuti un po’ e sono diventati un po’ più intelligenti».
«Sul libro c’è scritto che il Neolitico c’è stato circa 12.000 anni fa, cioè molto tempo fa. La cosa più importante del Neolitico è che in quell’epoca il clima, che fino ad allora era stato sempre molto freddo, è diventato più caldo. Su tutta la terra. Più mite. Allora sono cresciute più foreste e anche gli uomini hanno cambiato il loro modo di vivere».
«Il mammut e il rinoceronte lanoso, però, si sono estinti. Perché a loro il freddo piaceva. Invece degli altri animali a cui piaceva il freddo sono andati ad abitare più a nord: l’orso, l’alce, la renna. Vicino al Polo Nord. Perché lì fa sempre freddo. Anche adesso».
«Gli uomini invece si trovavano meglio con il clima mite perché mite, poi, vuol dire più caldo, più riscaldato».
Ma come cambia il loro modo di vivere?
«Subito gli uomini primitivi cacciavano gli animali con le lance e con le frecce, oppure facendoli cadere nelle buche. Dopo invece allevano gli animali nei recinti».
«Cambia perché diventano più furbi, più intelligenti. Per esempio inventano l’agricoltura e l’allevamento. L’agricoltura è questo: tu non vai più a cercare i frutti e le bacche in giro come uno zingaro, ma ti fermi in un posto e coltivi la terra. Cioè semini, innaffi, aspetti che cresce il frutto dalla pianta e te lo mangi senza fare troppa fatica a camminare. Però devi avere molta pazienza». «Poi devi anche innaffiarla, però. Altrimenti la pianta non cresce bene e non fa i frutti. Che poi, per me, i frutti, sarebbero come dei suoi figli. Della pianta, voglio dire».
«L’allevamento è quando allevi gli animali, non li cacci».
«Invece l’allevamento… L’allevamento è un po’ come l’agricoltura, solo che invece di far crescere una pianta, tu fai crescere un animale. Anche questa è una cosa da furbi. Perché invece di andare sempre a caccia, che poi degli animali possono essere anche molto feroci e ti ammazzano, perché andare a caccia può essere anche molto pericoloso, soprattutto se non hai inventato ancora il fucile come gli uomini primitivi…. Insomma, tu prendi una capra maschio, poi una capra femmina, li metti vicino, aspetti che nascono le caprette e poi le allevi e te le mangi. Ma non da piccole, solo quando le capre diventano grandi».
Secondo voi come hanno scoperto queste cose?
«Le hanno scoperte perché il loro cervello si è ingrossato e sono diventati più intelligenti, più furbi. Perché allevando e coltivando facevano meno fatica».
«Per me sono state delle donne, credo. Mentre raccoglievano dei frutti selvatici hanno visto che un seme era caduto per terra e dopo un po’ era cresciuto da quel seme una piantina e allora hanno pensato che si poteva coltivare, si poteva fare l’agricoltura».
«Sì, anche secondo me. Allora le donne hanno incominciato a tenere ben stretti i semi. A capire che erano importanti, i semi. Anche se erano piccoli».
«Quando sono diventati agricoltori e allevatori si sono fermati, non erano più nomadi, hanno costruito un villaggio fisso, non dormivano solo nelle tende o nelle caverne». «Per me sono stati i maschi a inventare l’agricoltura! Perché i contadini, poi, sono soprattutto maschi».
«Dopo hanno imparato a preparare il terreno per seminare, perché prima bisogna scavarlo, rivoltare la terra, come abbiamo fatto noi lo scorso anno quando abbiamo piantato i nostri semi nell’orto della scuola».
«Gli uomini, per me, hanno scoperto che oltre ad andare a caccia potevano allevare gli animali, così facevano prima a mangiarli. Allora hanno costruito un recinto e hanno cominciato a dargli da mangiare ogni giorno. Però senza farli scappare».
«Però è brutto uccidere gli animali».
«Hanno scoperto l’allevamento perché gli uomini primitivi si sono evoluti, cioè sono diventati più intelligenti. Perché hanno scoperto che dalle femmine delle pecore nascevano gli agnellini».
«Sì, lo so, ma loro non potevano morire di fame, allora li uccidevano per quello!».
«Però gli animali dovevano anche addomesticarli, non solo allevarli. Addomesticarli vuol dire… Vuol dire che devi trattarli bene. Devi farli diventare meno feroci, più buoni. Amici dell’uomo».
Corriere 8.6.17
Muore a 18 mesi dimenticata nell’auto
Arezzo, la piccola è rimasta 6 ore sotto il sole. Disperata la mamma: «Pensavo di averla lasciata all’asilo»
di Marco Gasperetti
CASTELFRANCO DI SOPRA (Arezzo) Se n’è accorta dopo aver abbassato i finestrini della Y10 rimasta sotto il sole per sei ore. La dottoressa — in paese la chiamano tutti così — ha intravisto qualcosa sul seggiolino della figlioletta: prima una scarpa, poi la gonnellina chiara. Infine la testa della piccola Tamara, abbandonata. Soltanto allora Ilaria, 38 anni, una laurea in legge, ha capito cosa era accaduto e si è messa a gridare. «Ho sentito un urlo straziante mentre stavo lavando i piatti — racconta una testimone — mi sono affacciata e ho visto una donna che tentava di liberare la figlioletta dal seggiolino dell’auto, era disperata, chiamava aiuto, diceva che sua figlia stava morendo».
Era già morta la bambina, 18 mesi, figlia unica e amatissima che una mamma premurosa ogni giorno, prima di andare a lavorare, accompagnava all’asilo nido per poi tornare a riprenderla con puntualità proverbiale. Ma ieri è accaduto qualcosa di inspiegabile a Castelfranco di Sopra, paese di duemila abitanti del Valdarno, tra le province di Arezzo e Firenze. La mente di quella madre, che su Facebook qualche tempo fa aveva pubblicato l’articolo di un quotidiano intitolato «Maternità e lavoro perché le donne non ce la fanno più», forse sotto stress per lavoro e faccende familiari ha avuto un blackout. «Ero convinta di averla lasciata all’asilo nido e invece era lì, soffocata dal caldo» ha raccontato come un automa, ancora sotto choc, ai carabinieri e al sostituto procuratore della Repubblica, Andrea Claudiani. Il marito della donna, Adriano, che lavora per una multinazionale della moda, è stato avvertito dai carabinieri. Non ha avuto la forza di dire una parola.
La piccola è rimasta prigioniera dell’auto dalle 8 alle 14 ma nessuno in Piazza Vittorio Emanuele, pieno centro del paese, si è accorto di niente. C’erano una decina di auto parcheggiate, almeno due accanto alla Y-10 grigia. E in quella piazza, la più frequentata, ci sono ristoranti, bar, una banca, negozi. Eppure nessuno ha puntato lo sguardo dietro i cristalli completamente chiusi dell’auto, nessuno ha visto la bambina che il caldo stava uccidendo.
I soccorsi sono stati rapidissimi. Un defibrillatore è arrivato dopo pochi minuti, così come un medico, i volontari dell’ambulanza. È stato chiamato anche l’elisoccorso del 118. Non è servito a niente. La madre della bambina è stata indagata per omicidio colposo. Un atto dovuto, come spiegano alla Procura di Arezzo. Il caso lo segue direttamente il procuratore Roberto Rossi, lo stesso che conduce tra mille pressioni l’inchiesta su Banca Etruria. «È un fatto che le indagini non possono ancora spiegare — dice il magistrato —, stiamo raccogliendo testimonianze, la madre della piccola è una professionista di valore e ce la descrivono come una mamma attenta e affettuosa». Insomma, non sembra configurarsi la negligenza, indispensabile per un accusa di omicidio colposo.
Corriere 8.6.17
«Non è malattia Può succedere per lo stress»
di Alessandro Fulloni
Ma cosa succede nella testa di una persona che dimentica il figlio di pochi mesi in automobile? Per Bernardo Carpiniello, presidente della Società italiana di psichiatria, ordinario a Cagliari, «è vero che fatti di questa portata possono sembrare straordinari, ma non è detto siano legati a qualcosa di patologico. Semmai incidono lo stress, le preoccupazioni che affliggono ciascuno di noi dal momento in cui cominciamo la giornata e anche le sequenze ripetitive con cui l’affrontiamo». Per esempio? «Banalmente: il tragitto per raggiungere il lavoro, sempre quello, incroci, vie, facce, rumori... Durante il percorso entrano in gioco automatismi che rendono possibile guidare seguendo con il nostro pensiero contenuti mentali, preoccupazioni, fatti avvenuti, facendoci concentrare in noi stessi. Si va in automatico e il fatto di ritrovarsi all’arrivo alla solita ora è una conferma che le cose si sono svolte senza intoppi». E invece? «E invece in una situazione del genere, di apparente normalità, può non emergere una dimenticanza grave come quella di avere lasciato il figlio in auto. Questo perché abbiamo una “memoria delle procedure” altamente automatizzata. Insomma: c’è sempre la possibilità che io, magari altamente impegnato, concentrato su un problema, sia esso di lavoro o relazionale, possa dimenticare il motivo primario per cui sono uscito di casa. Ma appunto: tutto questo può non essere una malattia».
La Stampa 8.6.17
Quella norma salva-bambini mai trasformata in legge
Prevede l’obbligo di un sensore acustico sul seggiolino posteriore
di Carlo Gravina
Più o meno sono passati 32 mesi, quasi mille giorni. Risale all’ottobre del 2014 la proposta di legge, presentata da Sel, in cui si chiedeva di modificare il codice della strada per rendere obbligatoria l’installazione di un sensore acustico in grado di segnalare la presenza di un bambino sul seggiolino posteriore.
Una proposta piuttosto semplice e facilmente realizzabile: esiste almeno un dispositivo, tra l’altro made in Italy e premiato dal Cnr, che costa poche decine di euro ed è di facile applicazione. Da quasi mille giorni, però, questa proposta giace in qualche cassetto del Parlamento. Ogni volta l’approvazione sembra a portata di mano ma alla fine non se ne fa nulla. Se ne riparla quando c’è una nuova disgrazia. Come quella di ieri in provincia di Arezzo, dove una bambina di 18 mesi è morta per arresto cardiaco dopo essere rimasta chiusa in auto sotto il sole per cinque ore. Una fatale dimenticanza della madre che poteva realmente essere evitata con il dispositivo che la proposta di legge vuole rendere obbligatorio. Un sensore, tra l’altro, realizzato dall’Istituto tecnico di Bibbiena, una scuola della provincia di Arezzo che dista poco più di 50 chilometri dal luogo della tragedia.
«Sciatteria». È l’unica spiegazione che Gianni Melilla - deputato di Mdp Articolo 1 e primo firmatario della proposta di legge - si dà sul perché la misura non riesca a essere approvata. «È una vergogna - aggiunge - siamo sempre tutti d’accordo e ogni volta la norma viene accantonata». Un rinvio continuo che, almeno apparentemente, non trova una spiegazione se non quella di un’eccessiva superficialità dell’analisi di un fenomeno che però purtroppo continua ad aumentare (il numero dei casi è cresciuto nel corso degli ultimi anni). «Ho più volte provato a inserire la norma in altri provvedimenti legislativi, anche nella legge di Bilancio - aggiunge Melilla - purtroppo non è mai stata approvata. Mi auguro che dopo questa tragedia governo e maggioranza abbiano consapevolezza di quanto sia immorale perdere altro tempo».
La proposta, ribattezzata “salva-bimbi”, prevede di aggiungere al comma 1 dell’articolo 172 del codice della strada la frase «e dotato di un dispositivo di allarme anti-abbandono». Otto parole che consentirebbero di rendere obbligatoria l’installazione di questo piccolo sensore molto simile a quelli già presenti su tutte le automobili e che segnalano con un allarme acustico il mancato inserimento della cintura di sicurezza. Al di là del brevetto italiano, sul mercato esistono diversi dispositivi. Quello che manca, invece, è una norma che li renda obbligatori. Cosa chiesta anche da Maria Ghirardelli, medico d’urgenza-emergenza di Brescia che attraverso una petizione online su change.org ha raccolto più di 53 mila firme che intende portare al ministro dei Trasporti Graziano Delrio.
il manifesto 8.6.17
La Sanità non è per tutti: 12 milioni rinunciano alle cure
Rapporto Censis-Rbm: le conseguenze dei tagli le pagano i cittadini. Boom della spesa sanitaria privata: 35,2 miliardi di euro nel 2016. 7,8 milioni hanno dovuto utilizzare tutti i propri risparmi o indebitarsi con parenti, amici o con le banche
di Roberto Ciccarelli
Salari e pensioni da fame, precarietà e lavoro povero spingono gli italiani a rinunciare ai controlli sanitari, alle cure o a indebitarsi per affrontare esami e operazioni talvolta vitali. Secondo il rapporto Censis-Rbm Assicurazione Salute, presentato ieri al «Welfare Day 2017», nel 2016 dodici milioni di italiani hanno rinunciato, o rinviato, almeno una prestazione sanitaria per ragioni economiche: 1,2 milioni in più rispetto al 2015. Sono 7,8 milioni i cittadini che hanno usato i risparmi o hanno contratto un debito con le banche o parenti per affrontare una cura non rinviabile. Quasi 2 milioni sono entrati nell’area della povertà.
I TAGLI e le «razionalizzazioni» della spesa sanitaria avvenuti negli ultimi dieci anni, in coincidenza con le politiche di austerità, hanno ridotto la copertura pubblica e aumentato il ricorso alla sanità privata. Questo settore assorbe ormai 35,2 miliardi di euro con un aumento record del 4,2% rispetto al triennio 2013-2016. Per la Corte dei Conti l’Italia ha superato il record europeo di riduzione del valore pro-capite della spesa sanitaria: 1,1% all’anno rispetto al Pil in meno dal 2009 al 2015. In Francia tale spesa è invece aumentata dello 0,8% all’anno, in Germania del 2%. La riduzione della spesa sanitaria fa respirare le casse di tante regioni ed è stata ottenuta a spese dei cittadini. I più danneggiati sono quelli del Sud e in generale coloro che hanno redditi modesti. La spesa sanitaria privata si abbatte maggiormente su chi ha meno, è più debole e vive in territori dove le strutture sono fatiscenti o irraggiungibili.
SOLO IL 20% della popolazione riesce a tutelarsi con una polizza sanitaria integrativa perché è prevista dal contratto di lavoro o da un accordo specifico con la propria azienda. Tutti gli altri devono pagare. Quando hanno i soldi. Questa situazione spinge chi ne ha bisogno a fare ricorso alla sanità privata. I tempi di attesa per le prestazioni si sono allungati a dismisura e si preferisce pagarle a tariffa intera. Per una mammografia si attendono in media 122 giorni, 60 in più rispetto al 2014, a Sud si arriva a 142 giorni. L’attesa media per una colonscopia è di 93 giorni, sei in più rispetto al 2014. Per una risonanza magnetica ci vogliono 80 giorni, a Sud 111. Per una visita ginecologica bisogna attendere 47 giorni, 8 in più rispetto al 2014.
SONO NOVE le cure più difficili da ottenere: tra queste ci sono le visite specialistiche, l’acquisto dei farmaci e il pagamento dei ticket, accertamenti diagnostici, le cure dentistiche, lenti e occhiali da vista, la riabilitazione. A questo si aggiunge il precariato dei medici. Ieri Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine dei medici di Milano ha scritto una lettera all’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, per denunciare una «piaga» che contagia «anche le grandi strutture». «Questi colleghi – scrive Rossi – hanno la prospettiva di trovarsi a una certa età senza nessuna stabilità sociale ed economica, in una condizione potenzialmente incompatibile con il mantenimento di un minimo decoro professionale ed umano». Gallera ha risposto che il precariato medico a Milano è sotto controllo e, rispetto ad altre regioni, è inferiore.
TRA DIECI ANNI, a investimenti invariati e in mancanza di una politica per la sanità pubblica, la situazione sarà senz’altro peggiore. Il rapporto fa una previsione : al servizio sanitario nazionale mancheranno dai 20 ai 30 miliardi di euro per garantire il mantenimento degli attuali standard assistenziali. La soluzione dei promotori del rapporto è la costruzione di un secondo pilastro sanitario basato su polizze sanitarie integrative. Il ragionamento è questo: visto che la sanità pubblica non funziona, l’universalismo delle cure è di facciata e la crisi dei redditi è devastante, non si punta a rifinanziare il sistema e renderlo più giusto, ma a privatizzarlo con strumenti assicurativi.
«UN SOSTEGNO AL REDDITO, come il reddito di cittadinanza \[in realtà un reddito minimo, ndr\] può aiutare a uscire da questa situazione, sostengono i Cinque Stelle. «La politica affronti l’emergenza sociale» sostiene Fratoianni (Sinistra Italiana), «anche con un decreto per recuperare ifondi mancanti» aggiunge Scotto (Mdp). Ma è tardi, ora si aspettano le elezioni e leggi elettorali. Poi si vedrà. Forse.
il manifesto 8.6.17
La Sanità non è per tutti: 12 milioni rinunciano alle cure
Rapporto Censis-Rbm: le conseguenze dei tagli le pagano i cittadini. Boom della spesa sanitaria privata: 35,2 miliardi di euro nel 2016. 7,8 milioni hanno dovuto utilizzare tutti i propri risparmi o indebitarsi con parenti, amici o con le banche
di Roberto Ciccarelli
Salari e pensioni da fame, precarietà e lavoro povero spingono gli italiani a rinunciare ai controlli sanitari, alle cure o a indebitarsi per affrontare esami e operazioni talvolta vitali. Secondo il rapporto Censis-Rbm Assicurazione Salute, presentato ieri al «Welfare Day 2017», nel 2016 dodici milioni di italiani hanno rinunciato, o rinviato, almeno una prestazione sanitaria per ragioni economiche: 1,2 milioni in più rispetto al 2015. Sono 7,8 milioni i cittadini che hanno usato i risparmi o hanno contratto un debito con le banche o parenti per affrontare una cura non rinviabile. Quasi 2 milioni sono entrati nell’area della povertà.
I TAGLI e le «razionalizzazioni» della spesa sanitaria avvenuti negli ultimi dieci anni, in coincidenza con le politiche di austerità, hanno ridotto la copertura pubblica e aumentato il ricorso alla sanità privata. Questo settore assorbe ormai 35,2 miliardi di euro con un aumento record del 4,2% rispetto al triennio 2013-2016. Per la Corte dei Conti l’Italia ha superato il record europeo di riduzione del valore pro-capite della spesa sanitaria: 1,1% all’anno rispetto al Pil in meno dal 2009 al 2015. In Francia tale spesa è invece aumentata dello 0,8% all’anno, in Germania del 2%. La riduzione della spesa sanitaria fa respirare le casse di tante regioni ed è stata ottenuta a spese dei cittadini. I più danneggiati sono quelli del Sud e in generale coloro che hanno redditi modesti. La spesa sanitaria privata si abbatte maggiormente su chi ha meno, è più debole e vive in territori dove le strutture sono fatiscenti o irraggiungibili.
SOLO IL 20% della popolazione riesce a tutelarsi con una polizza sanitaria integrativa perché è prevista dal contratto di lavoro o da un accordo specifico con la propria azienda. Tutti gli altri devono pagare. Quando hanno i soldi. Questa situazione spinge chi ne ha bisogno a fare ricorso alla sanità privata. I tempi di attesa per le prestazioni si sono allungati a dismisura e si preferisce pagarle a tariffa intera. Per una mammografia si attendono in media 122 giorni, 60 in più rispetto al 2014, a Sud si arriva a 142 giorni. L’attesa media per una colonscopia è di 93 giorni, sei in più rispetto al 2014. Per una risonanza magnetica ci vogliono 80 giorni, a Sud 111. Per una visita ginecologica bisogna attendere 47 giorni, 8 in più rispetto al 2014.
SONO NOVE le cure più difficili da ottenere: tra queste ci sono le visite specialistiche, l’acquisto dei farmaci e il pagamento dei ticket, accertamenti diagnostici, le cure dentistiche, lenti e occhiali da vista, la riabilitazione. A questo si aggiunge il precariato dei medici. Ieri Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine dei medici di Milano ha scritto una lettera all’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, per denunciare una «piaga» che contagia «anche le grandi strutture». «Questi colleghi – scrive Rossi – hanno la prospettiva di trovarsi a una certa età senza nessuna stabilità sociale ed economica, in una condizione potenzialmente incompatibile con il mantenimento di un minimo decoro professionale ed umano». Gallera ha risposto che il precariato medico a Milano è sotto controllo e, rispetto ad altre regioni, è inferiore.
TRA DIECI ANNI, a investimenti invariati e in mancanza di una politica per la sanità pubblica, la situazione sarà senz’altro peggiore. Il rapporto fa una previsione : al servizio sanitario nazionale mancheranno dai 20 ai 30 miliardi di euro per garantire il mantenimento degli attuali standard assistenziali. La soluzione dei promotori del rapporto è la costruzione di un secondo pilastro sanitario basato su polizze sanitarie integrative. Il ragionamento è questo: visto che la sanità pubblica non funziona, l’universalismo delle cure è di facciata e la crisi dei redditi è devastante, non si punta a rifinanziare il sistema e renderlo più giusto, ma a privatizzarlo con strumenti assicurativi.
«UN SOSTEGNO AL REDDITO, come il reddito di cittadinanza \[in realtà un reddito minimo, ndr\] può aiutare a uscire da questa situazione, sostengono i Cinque Stelle. «La politica affronti l’emergenza sociale» sostiene Fratoianni (Sinistra Italiana), «anche con un decreto per recuperare ifondi mancanti» aggiunge Scotto (Mdp). Ma è tardi, ora si aspettano le elezioni e leggi elettorali. Poi si vedrà. Forse.
il manifesto 8.6.17
Siamo vittime di un conflitto a bassa intensità
di Marco Revelli
Il surplus – l’eccedenza – di messaggi e di energia negativa dell’evento, e il deficit di pensiero con cui è stato elaborato. L’accaduto è (non riesco a trovare altra parola) “inusitato”: una folla ferma, ordinata, fino ad allora tranquilla d’improvviso impazzisce, senza altra apparente ragione se non la folla stessa. Qui non ci sono hooligans che aggrediscono, come all’Heysell trent’anni fa. E nemmeno un attacco terroristico: di terroristi nemmeno l’ombra, solo molto terrore sottocutaneo che evidentemente attraversava come una corrente elettrica quella massa di corpi assiepati. Per tre giorni si è cercato un episodio,anche minimo, che possa aver scatenato il panico: un petardo, uno spray urticante, delle urla minacciose, un gesto provocatorio. Nulla. Almeno fino ad ora. Tutto sembra parlare di un fenomeno (“inusitato”, appunto) di autocombustione della folla. Di un evento (terribilmente distruttivo) privo di causa efficiente. E di un “autore”.
È questa la cosa – il monstrum, grande come una piazza grande – su cui dovremmo alzare l’allarme e applicare il cervello: questa gigantesca sindrome mentale che ci rende irriconoscibili a noi stessi (e inspiegabili), materializzatasi nel cuore di Torino. E invece è partita subito la banale caccia all’errore da cronaca quotidiana, la più trita polemica politica sulle colpe amministrative e sui loro colpevoli: il prefetto, il questore, il sindaco, il capo dei vigili, che pure qualche errore avranno fatto se alla fine si sono contati oltre 1500 feriti (in gran parte, bisogna dirlo, non gravi). Ma che non possono certo essere indicati all’origine del disastro (a meno di pensare che un’ordinanza, qualche transenna meglio posizionata, un centinaio di vigili o agenti in più avrebbero potuto per miracolo arginare quel fiume di folla impazzita). E la focalizzazione sui quali serve solo a rassicurare e rimuovere il carattere tremendamente perturbante dei fatti.
Invece quel perturbante dobbiamo tenerlo ben fermo davanti agli occhi. Per decodificare ciò di cui ci parla. E la prima cosa che ci dice, attraverso quelle immagini notturne, un po’ gotiche, di quella piazza in preda ai fantasmi, è che siamo cambiati. Nel profondo. La guerra a bassissima intensità che da anni si combatte nel cuore d’Europa (a fronte di quella ad altissima intensità che si consuma oltre i suoi confini), questa guerra le cui armi sono coltelli, martelli, furgoni, Suv Van e Tir, oggetti domestici o quasi, ha avuto in realtà un fortissimo impatto mentale, sulla nostra sfera psichica. Quello stillicidio di attacchi, da Charlie Hebdo a Bataclan a Nizza Berlino Londra Manchester… ha depositato sul nostro sistema nervoso collettivo una pellicola tossica. Ha riconfigurato i nostri neuroni-specchio sui codici del panico. E ha abbassato la soglia di allarme fin quasi a zero, così che il meccanismo della chiusura difensiva verso ogni altro scatta pressoché “per nulla”. Siamo davvero tutti dei “mutanti”, anzi ormai dei mutati.
La seconda cosa che Torino ci dice è che la profezia annunciata dalla signora Thatcher all’inizio degli anni ’80, si è pienamente adempiuta. «La società non esiste, esistono solo gli individui», predicava. E in effetti in quello spazio pubblico per eccellenza che è la piazza centrale della città la Società non c’era. C’erano solo individui. Atomi solitari, ognuno accecato da un «si salvi chi può» esclusivo, arrestato al confine del proprio Io. Ognuno in guerra disperata col proprio vicino in una fuga da non-si-sa-cosa verso non-si-sa-dove… Chi c’era racconta cose che chiede di non ripetere, di nasi fratturati a gomitate, gambe storpiate, bambini calpestati e neppur visti, abiti stracciati nel tentativo di sopravanzare chi era davanti come ostacolo, i più fragili abbattuti dai più muscolosi, i più lenti dai più veloci… È come se lì si fosse materializzata, in forma di girone infernale, l’immagine plastica del paradigma che definiamo “neo-liberista”. La potenza dissolvente del suo negativo, in una rappresentazione drammaturgica del suo individualismo possessivo, anzi predatorio. La sua competitività – il suo mors tua vita mea – eletta a dato strutturale e naturale. La rottura dei legami sociali visti come ostacolo e rallentamento. L’assenza di senso che non sia quello del mero sopravvivere. La dissoluzione di ogni lavoro – anzi “mestiere” – in astratta ed effimera funzione. Non è senza significato che gli unici “eroi” di quella notte, coloro che hanno fatto scudo e salvato Kelvin, il bambino di origine cinese, siano un bodyguard nero e un ex soldato italiano, due che hanno ritrovato nella propria “professione” la risorsa per “restare umani”. E che il giovane che, a braccia larghe, si sforzava di calmare i vicini perché non era “successo niente” – uno dei pochi “spiriti critici” in quella follia – sia stato selezionato come possibile colpevole, fermato e interrogato per ore.
Curare questa doppia sindrome dovrebbe essere compito della politica. Che invece oggi più che mai mostra la propria miseria, miopia e, in qualche caso, vocazione sciacallesca, nel ricercare nel proprio competitor immediato il colpevole di tutti i mali.
Il Sole 8.6.17
L’Isis colpisce a Teheran, 12 morti
Due commando con kamikaze attaccano Parlamento e Mausoleo di Khomeini
di A.N.
La battuta di uno dei terroristi dentro al Parlamento di Teheran è breve ma forse significativa: «Grazie ad Allah per averci aiutato - dice in arabo -. Forse pensavate che ce ne saremmo andati? No! Siamo qui con l’aiuto di Dio». Queste parole, che si possono ascoltare nel video di rivendicazione dell’agenzia Amaq dell’Isis, potrebbero significare che il duplice attentato al Parlamento di Teheran e al Mausoleo dell’imam Khomeini sia stato compiuto da un cellula di esponenti della minoranza araba dell’Iran affiliati al Califfato.
Penetrare in Iran per degli stranieri è assai difficile. In passato gli unici attacchi di questo genere, sono stati portati dal “Mek”, cioè dai Mujaheddin del Popolo, formazione iraniana dissidente e oggi basata a Parigi.
Due commando con kamikaze, armati di bombe e fucili, hanno ucciso almeno 12 persone al Parlamento e al santuario di Khomeini, il primo edificio è nel cuore di Teheran, il secondo a una ventina di chilometri dal centro, sulla strada verso l’aereoporto internazionale. Gli assalitori, vestiti da donna con pesanti chador, hanno colto di sorpresa le guardie del Parlamento ingaggiando una battaglia di cinque ore in cui sarebbero stati uccisi quattro terroristi, 12 tra i presenti in aula e ferite 43 persone. Quasi contemporaneamente un kamikaze si è fatto esplodere al santuario Khomeini dove un secondo terrorista è stato ucciso dalle forze di sicurezza.
«Gli attacchi a Teheran - ha dichiarato il presidente Hassan Rohani - renderanno l’Iran più unito e determinato nella lotta contro il terrorismo».
Già in passato nella regione del Khuzestan, con il Movimento per la liberazione di Awhaz, cellule arabe sunnite avevano compiuto attentati contro la repubblica islamica. Allo stesso tempo non è da escludere la partecipazione di gruppi sunniti radicali del Sistan e del Balucistan come i Jundullah, i soldati Allah, o gli Ansar al Furqan: da questa regione ribollente ai confini con il Pakistan possono partire operazioni di destabilizzazione della repubblica islamica.
Una cosa è certa l’attentato multiplo ha preso in contropiede la sicurezza colpendo i simboli della repubblica islamica. Questi sono i primi attentati dichiaratamente con il marchio dell’Isis nel cuore dell’Iran e della sua capitale. È come se la guerra siriana - dove l’Iran sostiene il regime di Assad e combatte da anni jihadisti sunniti - che finora era stata vissuta come un evento importante ma lontano dai confini del Paese, fosse entrata nelle case dei teheranesi.
Gli attacchi coincidono con la tensione crescente tra Iran e Arabia Saudita mentre i Paesi del Golfo hanno isolato il Qatar accusato, tra l’altro, di avere buoni rapporti con Teheran. Non è un caso che i Pasdaran abbiano accusato l’Arabia Saudita di avere ispirato l’operazione.
Ma lo scenario forse più inquietante viene dagli Usa, pure chiamati in causa dai Pasdaran. Il viaggio del presidente americano Trump in Arabia Saudita e in Israele avrebbe aperto un nuovo capitolo per attuare un cambio di regime in Iran. Indicativa la nomina di Michael D’Andrea, ex capo delle operazioni anti-terrorismo, alla sezione Iran della Cia. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, la Cia ha creato un nuovo centro di monitoraggio dell’Iran destinato a individuare bersagli eccellenti tra i Pasdaran, in particolare il generale Haji Qassim Soleimani, ritenuto lo stratega della guerra in Siria.
L’obiettivo dichiarato comunque dagli Stati Uniti, insieme a inglesi e giordani, è quello di tagliare la via di rifornimento iraniana a Damasco e agli Hezbollah libanesi: questo il motivo per cui due giorni fa gli americani hanno fatto fuori 60 soldati di Assad. La variabile in questo scenario è la Russia: Putin permetterà una sconfitta dell’Iran con cui ha vinto la battaglia di Aleppo e insediato basi militari sulla costa del Mediterraneo? Gli attentati di Teheran apparentemente ci portano lontano, in realtà segnalano che le guerre mediorientali, anche attraverso il terrorismo, colpiscono ovunque e, come abbiamo visto con tragica frequenza, anche in Europa.
Il Sole 8.6.17
Le conseguenze pericolose di un Occidente filo-saudita
di Alberto Negri
Chi non sente i tamburi di guerra in Medio Oriente vuol dire che è diventato sordo: è una battuta attribuita qualche tempo fa all’ex segretario di Stato Henry Kissinger. La rivendicazione dell’Isis degli attentati a Teheran è quasi un marchio di fabbrica, un sanguinoso sigillo a decenni di contrapposizione tra la repubblica islamica e un universo sunnita che ha sempre mal sopportato l’esistenza di una “Mezzaluna sciita”.
L’Iran viene colpito perché è lo stato che da più tempo e con maggiore efficacia combatte contro il jihadismo sunnita: lo fa in Iraq a fianco del governo a maggioranza sciita di Baghdad, lo fa in Siria, con l’aiuto decisivo della Russia, sostenendo il regime alauita di Assad e appoggiando in Libano gli Hezbollah, in lotta con i gruppi radicali sunniti e Israele.
L’Iran è anche un Paese dai confini vulnerabili: a Est fronteggia l’Afghanistan, dove i talebani sono sempre stati nemici della repubblica islamica e in Balucistan, dove è attivo il gruppo terrorista sunnita dei Jundullah, i “soldati di Dio”, che negli ultimi anni ha portato numerosi attacchi. Inoltre le cellule dell’Isis possono contare su una consistente minoranza araba nel Golfo. A Occidente ci sono le frontiere con la Turchia, il Kurdistan e l’Iraq, dove Teheran combatte contro il Califfato e i gruppi affiliati ad Al Qaeda, così come in Yemen.
L’Iran è un’isola persiana nel cuore di un Medio Oriente ostile. È anche il Paese da sempre nel mirino degli Stati del Golfo e dell’Arabia Saudita che non hanno esitato prima a finanziare la guerra di Saddam negli anni Ottanta contro la repubblica islamica e poi i gruppi jihadisti per abbattere il regime siriano. L’Iran in questa regione ha spesso sfruttato gli errori di calcolo degli altri giocatori: sono stati gli americani a far fuori i talebani nel 2001 e Saddam nel 2003, sono stati arabi e turchi a illudersi nel 2011 che Assad era finito.
C’è da chiedersi perché l’Occidente si è sempre schierato contro Teheran e mai contro le monarchie del Golfo, alleati spesso ambigui e inaffidabili. La maggiore colpa dell’Iran, oltre alla rottura con gli Usa nel 1979, è quella di costituire una minaccia alla supremazia di Israele, storico alleato di Washington. Le petro-monarchie vengono preferite a Teheran perché gli Usa sono legati a Riad da un patto di ferro e sono investitori di primo piano a Washington e in Europa. Tutte le maggiori basi americane stanno nel Golfo, dal Barhein, dove è di stanza la Quinta flotta, al Qatar. E chi hanno nel mirino? L’Iran e la Russia.
In poche parole l’Occidente ha fatto una scelta in sintonia con i suoi interessi economici basati sul controllo strategico del Golfo: stiamo dalla parte dei sunniti a scapito degli sciiti, una minoranza del 15% nel mondo musulmano. Una contrapposizione evidenziata da un’accesa competizione tra l’ideologia religiosa wahabita dei Saud, una monarchia assoluta e retrograda che ispira i salafiti e integralisti, e lo sciismo iraniano che con la repubblica islamica, uscita dalla rivoluzione khomeinista, ha comunque consolidato un sistema elettorale di cui l’ultimo esempio sono state le presidenziali del 19 maggio.
Questo sbilanciamento a favore del mondo sunnita, che si trascina enormi contraddizioni, è stato in parte temperato dalla politica di “doppio contenimento”, concretizzata nel 2015 nell’accordo sul nucleare. In realtà le sanzioni all’Iran sono state tolte solo in parte: permangono quelle americane sul credito che di fatto impediscono anche agli altri Paesi occidentali, come l’Italia, la firma di grandi contratti.
Ma c’è dell’altro. La guerra in Siria non si risolverà facilmente: l’Iran con la Russia è riuscito a mantenere Assad in sella ma gli Usa, affiancati da Gran Bretagna e Giordania, stanno tentando di tagliare il corridoio iraniano di rifornimento a Damasco e agli Hezbollah, questo è l’altro vero conflitto in corso oltre a quello contro l’Isis a Raqqa e Mosul.
Cambieranno le cose? Trump ha abbracciato la visione saudita, appoggiata da Israele, di equiparare la lotta al Califfato a quella contro l’Iran. Vedremo, dopo gli attentati a Teheran, le reazioni occidentali: ma è assai difficile uscire da contraddizioni che durano da decenni. Il rullo dei tamburi indica che l’Iran è il prossimo bersaglio della destabilizzazione.
Il Sole 8.6.17
Regno Unito, Francia, Italia
Quei voti cruciali per il futuro dell’Europa
di Adriana Cerretelli
Forse mai come in questi tempi di sorprese e incertezze globali diventa sfacciatamente palese, quasi tangibile, l’interazione tra dinamiche interne e internazionali, il loro straripamento inevitabile dall’alveo naturale: locale, nazionale, regionale. E viceversa. Il fenomeno è più palpabile che altrove in Europa perché ce l’abbiamo davvero in casa: l’Europa siamo noi a qualsiasi livello, nato e cresciuto in decenni di interdipendenza sempre più approfondita.
E così tra oggi e domenica, in un lungo weekend elettorale consumato tra Gran Bretagna, Francia e Italia, si giocherà un bel pezzo del futuro dell’Europa insieme alle sorti del Governo inglese, della presidenza francese, della stabilità politica italiana anche alla luce del test delle amministrative.
Sembrava dovesse riguardarci solo marginalmente la scommessa del voto anticipato lanciata da Theresa May, sicura di stravincere e ottenere la mani libere per negoziare Brexit a modo suo, a muso duro guardando al mondo e non più di tanto alla piccola Unione della porta accanto.
Sbagliato. Per almeno tre ragioni.
Se la vittoria del leader laburista Jeremy Corbyn domani appare improbabile, il trionfo di May lo sembra altrettanto. Il nuovo Governo potrebbe dunque ritrovarsi non più forte ma più debole al tavolo delle trattative con l’Europa. Con esiti tutti da scoprire per entrambi.
Anche perché nel frattempo il silenzio di Donald Trump a Bruxelles sull’art. 5 del Trattato Nato non solo ha reso più fragile l’impegno alla solidarietà atlantica in caso di attacco a uno dei suoi membri ma ha contestualmente allentato il tradizionale rapporto privilegiato anglo-americano. Non basta. A Washington non si plaude più alla Brexit né si parla di accordi di libero scambio bilaterali tanto cari agli inglesi anti-Ue. In breve, lo shock che ha sconvolto Angela Merkel a Berlino ha colpito con violenza perfino maggiore May a Londra.
Il terrorismo è tornato a uccidere con metodo e frequenza incalzanti né promette tregua nel momento in cui l’incomunicabilità tra Europa e Stati Uniti indebolisce la coesione occidentale. Se la Germania della Merkel reagisce invitando l’Europa a tornare padrona del proprio destino, dunque a ritrovare unità, la Gran Bretagna della May scopre che il suo isolamento non sarà splendido. Ripensamenti?
Sarebbero più che logici. Oggi Europa e Gran Bretagna avrebbero più che mai bisogno l’una dell’altra: di sinergie e interdipendenze accresciute. Ma Brexit non è stata una scelta meditata e razionale. Per questo è difficile fare retromarcia.
Però qualche dubbio comincia ad affacciarsi. Un sonoro schiaffo alla May potrebbe aumentarli. E tradursi alla fine in un divorzio amichevole, ridotto al minimo imposto dalle reciproche convenienze.
Anche se ora ha assunto una posizione intransigente, la Germania è sempre stata riluttante alla separazione. Molto dipenderà anche dalla Francia di Emmanuel Macron, che spera nelle legislative (domenica il primo turno) per procurarsi la maggioranza parlamentare che non ha. I pronostici gli sono molto favorevoli. Il suo piano di rilancio dell’Europa passa per una nuova vittoria alle urne che gli dia i margini di manovra indispensabili per fare le riforme nel Paese, passaggio obbligato per la convergenza economica con la Germania, una riforma equilibrata dell’Eurozona insieme alla riscoperta delle affinità elettive con Berlino.
E l’Italia? Mentre la scena politica europea sembra decongestionarsi grazie al contenimento dei partiti nazional-populisti e alla crescita economica che si va ovunque consolidando, il nostro Paese sembra ineluttabilmente scivolare verso una governabilità incerta, spezzettata.
Se non avessimo un debito al 133% del Pil, se il quantitative easing della Bce e i bassi tassi di interesse potessero durare in eterno, la prospettiva non sarebbe preoccupante più di tanto: sono quasi tre mesi che l’Olanda cerca di darsi un nuovo Governo, il Belgio è sopravvissuto senza per oltre un anno e mezzo, la Spagna per più di dieci mesi.
Invece il fardello che ci portiamo dietro combinato con un tasso di crescita (metà della media dell’Eurozona) che alla lunga lo rende insostenibile, le possibili elezioni anticipate con lo spettro dell’instabilità politica all’orizzonte stanno riproponendo la “questione italiana” in Europa. Non a caso, i mercati cominciano a muoversi e si guarda con estrema attenzione al test delle amministrative.
Mentre l’Europa si prepara a riaprire i cantieri per rifarsi un futuro, l’Italia dovrebbe fare di tutto per scongiurare gli attacchi della speculazione e il pericolo di ritrovarsi commissariata e ai margini della nuova storia europea. Il rischio è reale: va evitato a tutti i costi.
Il Sole 8.6.17
Le elezioni nel Regno Unito. Eurofili a caccia di voti per i candidati contrari al distacco
Gb alle urne, ultima chiamata per il fronte degli anti-Brexit
Ma con gli attentati il tema decisivo si è spostato sulla sicurezza
di Leonardo Maisano
LONDRA La speranza che l’elettorato possa percepire le elezioni politiche di oggi in Gran Bretagna come una prova d’appello del referendum che nel giugno scorso sancì la Brexit si è, probabilmente, spenta con gli attentati di Manchester e Londra. Negli ultimi giorni l’attenzione è stata dirottata sul tema della sicurezza, ovvero su chi, fra la premier Theresa May e l’aspirante premier Jeremy Corbyn, possa al meglio proteggere il Paese dalla minaccia del terrore. Un’ex ministra degli Interni che assicura continuità di governo e pugno di ferro, ma porta responsabilità per la fragilità del sistema di protezione svelato dagli attentati? Un socialista radicale con fama di pacifista a oltranza, ma pronto a mettere mano alla spesa pubblica e quindi anche a rinforzare gli apparati di sicurezza? Nelle ceneri di questo dibattito che accompagna milioni di elettori britannici alle urne fra le 7 e le 22 di oggi per rinnovare la Camera dei Comuni rischia di dissolversi il tradizionale approccio liberal inglese. La lotta al terrorismo con ogni mezzo cavalcata dalla signora premier Tory in queste ultime ore, segnala il ritorno di una frattura ideologica con i conservatori che, da destra, invocano leggi speciali contro il terrorismo, mentre Labour e LibDem denunciano i rischi di uno stato di polizia.
Il garantismo, tuttavia, è solo l’ultimo caduto di questa campagna elettorale. La vagheggiata “seconda lettura” al tema Brexit, con il voto tattico propugnato da think tank e intellettuali remainers potrebbe essere spazzata via dalla paura innescata dall’offensiva del terrore. Da settimane le piattaforme eurofile sbocciate dopo il voto invitano ad abbandonare le ideologie e a votare candidati contrari alla Brexit più severa. Un voto mirato in collegi marginali potrebbe in teoria riservare sorprese. Il terrorismo ha cambiato le priorità e per questo la premier ha confermato di essere pronta a mutare le regole condivise sui diritti umani chiedendo deroghe dalle intese internazionali. La replica dell’ex leader LibDem Nick Clegg e del laburista emergente Keir Stamer è stata secca: «Non c’è alcuna relazione fra la carta sui diritti umani e la lotta al terrorismo».
La premier uscente ha cercato di rabberciare un’immagine ammaccata dai tanti tentennamenti mostrati in campagna elettorale accreditandosi come una leader ferma e determinata. Così è andata rastrellando il consenso in rapida fuga dall’Ukip, partito che, fatta la Brexit, ha cessato di aver una ragion d’essere ed è andata a caccia del voto laburista nel nord del Paese dove il sostegno al divorzio da Bruxelles resta molto forte. E per convincere gli indecisi ha riaperto il cassetto delle mille aspettative mancate, annunciando, cioè, piani di rilancio delle infrastrutture con i danari risparmiati dalla partecipazione alla Ue. Furono proprio le promesse fasulle di finanziare il sistema sanitario nazionale con l’assegno che Londra manda a Bruxelles a portare la bilancia di un paese spaccato a metà verso la Brexit. La storia si ripete ? Non in modo tanto macroscopico, ma il messaggio di Theresa May è incalzante: solo io posso guidarvi verso una Brexit che garantisca benessere al Paese.
I sondaggi dicono che i più sarebbero allineati alla volontà della premier, data in vantaggio da tutti gli opinion poll con un margine fra i 6 e gli 11 punti, nonostante un istituto, YouGov, indichi un Parlamento “impiccato”, senza vincitore né vinti. Il Labour s’affida a quest’ultima speranza convinto di potere guidare un fronte variegato d’opposizione. È l’ipotesi che i mercati temono di più: in caso di frammentazione di Westminster la sterlina è data in caduta 1,20 sul dollaro, peggio di un’ipotetica vittoria del Labour che vedrebbe una correzione a 1,25. I mercati favoriscono e hanno già prezzato la vittoria di Theresa May – con il mantenimento del pound sui valori attuali non lontano da 1,30 - nonostante la sua temuta determinazione per una hard Brexit. E il motivo è soprattutto legato ai tempi: la clessidra del divorzio fra Londra e Bruxelles non si ferma, fra venti mesi circa il deal del secolo dovrà essere chiuso, scegliere la continuità è più rassicurante anche in tempi rivoluzionari come quelli che stiamo vivendo.
Corriere 8.6.17
Il «vecchio» Corbyn che piace ai ragazzi
di Luigi Ippolito
LONDRA Quando è uscito il programma elettorale, lo hanno paragonato al «più lungo biglietto di suicidio della storia», quel manifesto estremista del 1983 che consegnò i laburisti a una delle loro peggiori disfatte, prologo della successiva svolta riformista del New Labour e dei trionfi elettorali di Tony Blair.
«Ritorno agli anni Settanta», hanno titolato i giornali. E in effetti il leader Jeremy Corbyn prometteva la nazionalizzazione dei servizi pubblici, l’abolizione delle tasse universitarie, pasti gratis nelle scuole, fine dei tagli alla sanità e all’istruzione. Un Paese di Bengodi finanziato da una pesante stangata fiscale sui redditi medio-alti e sulle imprese. L’esatto contrario del Labour vincente di Blair.
Il partito laburista sembrava quindi spacciato, relegato su posizioni di ultrasinistra, nel ruolo di movimento marginale di protesta schiacciato dai tank conservatori di Theresa May.
Perfino i suoi candidati andavano in giro a dire agli elettori: «Votate tranquillamente per me come persona, tanto non c’è nessun rischio reale che Corbyn vinca e diventi primo ministro...».
Ma poi qualcosa è successo. La macchina di propaganda del governo si è inceppata. I laburisti hanno cominciato a macinare consensi, riducendo i venti punti di distacco iniziali. Con qualche sondaggista che dava addirittura Theresa May senza più maggioranza.
Quel programma apparentemente fuori dal tempo è piaciuto agli impiegati del settore pubblico, ai lavoratori del servizio sanitario, ma soprattutto a un Paese stanco di anni di austerità. Ed è piaciuto ai giovani: sotto i 24 anni, i consensi per Corbyn sono al 70 per cento. Come qualcuno ha scritto, è come se i ragazzi avessero trovato un vecchio disco in vinile e scoperto che suona meglio di tutta la musica ascoltata negli ultimi venti anni.
Corbyn piace perché è umile, finanche dimesso, ma autentico: non è un prodotto del marketing elettorale, non è un candidato finto. Ed è soprattutto coerente: ha le sue idee, giuste o sbagliate che siano, e non le ha cambiate in 40 anni di vita politica. È poco efficace nei dibattiti in Parlamento, ma è nel suo elemento nelle piazze: e i suoi comizi sono un evento.
Certo, fuori da Londra e dalle grandi città, nell’Inghilterra profonda, il suo socialismo metropolitano resta «tossico». E la grande maggioranza del gruppo parlamentare, pieno di blairiani e browniani, lo detesta. D’altra parte, Corbyn ha votato almeno 500 volte contro la linea del suo stesso partito e non veniva espulso solo perché era considerato un eccentrico outsider da tollerare, quasi un bonario mattacchione.
Lui stesso, quando si è fatto avanti per la guida del partito due anni fa, non credeva di vincere: la sua era una candidatura di bandiera. Ma è stato plebiscitato da una base che non ne poteva più di blairismo e post-blairismo, reso impresentabile dalla guerra in Iraq, dalle menzogne e dalle relazioni pericolose con capitalisti e dittatori.
Ma l’improbabile ascesa di Corbyn pone una questione a tutta la sinistra. Perché ricalca il fenomeno di Bernie Sanders in America, il vecchio socialista che ha conteso fino all’ultimo la nomination democratica a Hillary Clinton, e ricorda l’improvviso emergere di Jean-Luc Mélenchon in Francia. Tutti casi in cui, di fronte a un riformismo boccheggiante, si è imposto un populismo di sinistra. Non è detto che sia questa la strada. Ma intanto è qualcosa che fa presa.
Il Sole 8.6.17
La mossa di Grillo e il nervosismo alla vigilia del voto amministrativo
di Lina Palmerini
La mossa di Grillo che ieri ha annunciato una nuova consultazione online sulla legge elettorale è piombata sulla Camera che si apprestava alle prime votazioni. Gli iscritti si pronunceranno sabato e domenica, il voto finale sulla riforma slitta a lunedì con notevoli malumori dentro il Pd. E soprattutto resta la sensazione che il patto a quattro – Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini - cominci a mostrare la corda. Si vedrà se regge nei voti segreti su preferenze e voto disgiunto presentati dai 5 Stelle, che saranno il vero test di resistenza del patto, ma è chiaro che i grillini voteranno a Montecitorio pensando alle comunali di domenica. Si vota in alcune città importanti come Genova e Palermo – e non solo – e il colpo di scena di Grillo sulla consultazione-bis sembra fatta proprio a beneficio delle amministrative.
L’obiettivo sembra quello di ritrovare un rapporto con la base, allontanare l’impressione che il Movimento si sia compromesso con gli altri partiti accettando delle norme – come quelle sui nominati – che fanno a pugni con il loro Dna. E quegli emendamenti sulle preferenze presentati in Aula – dopo aver approvato il testo in Commissione – rispondono a un clima pre-elettorale e anche a un certo nervosismo. Il timore è di non arrivare al ballottaggio nelle città più importanti, uno scacco che si riverserebbe nell'iter della legge.
Insomma, le amministrative diventano la variabile della tenuta dell’accordo a quattro. Anche per Renzi. «Due giorni e hanno cambiato idea», diceva il leader Pd attaccando Grillo ben sapendo come il test comunali stia condizionando l’andamento dei lavori parlamentari sulla legge elettorale. Lui spera di poter vedere un calo dei grillini alle urne di domenica per trovare conferma della sua scommessa sul voto anticipato e se avrà ragione sarà pronto a spingere sempre di più l’acceleratore, costi quel che costi. Forse anche in assenza di una legge elettorale nuova. Ma se ad andare male sarà il Pd? Ecco che l’incrocio con le comunali riscriverà le reali convenienze dei quattro ad andare a elezioni anticipate. Calcoli politici che si faranno lunedì con le urne aperte delle città e il testo finale della riforma da approvare. Lì ci potrebbero essere delle sorprese, se non arriveranno già oggi.
Il rischio, infatti, è che possa tramontare l’accordo se uno degli emendamenti presentati dai 5 Stelle dovesse passare. Già aver accettato le proposte di modifica dei grillini ha fatto saltare i nervi al Pd. Nella riunione del gruppo sono state molte le voci – della minoranza e non solo – che hanno attaccato le scelte dei vertici Pd di consentire ai 5 Stelle sia di posticipare il voto finale che di presentare gli emendamenti. Alcuni hanno parlato di una violazione del patto e alcuni si sono sentiti liberi di presentare i loro emendamenti. Si sentiranno anche liberi di votare contro a scrutinio segreto? I segnali c’erano visto che all’inizio delle votazioni ci sono stati una sessantina di franchi tiratori. Soprattutto nell’area di Orlando, gli attacchi di Giorgio Napolitano e di Romano Prodi hanno dato la stura a tutti i malumori. E chi – trasversalmente – nei partiti non vuole il voto a settembre, avrà l’occasione di farsi sentire nel segreto dell’urna.
Il Sole 8.6.17
Legge elettorale. Nel primo scrutinio segreto mancati 66 voti - Il termine slitta a martedì
Franchi tiratori e voto online M5S minano l’accordo sul «tedesco»
I grillini insistono su voto disgiunto e preferenze. Pesano anche i «no» tra i Dem
di Barbara Fiammeri
Roma Sulla legge elettorale Grillo tentenna. Il M5s ha chiesto di far slittare il voto finale della Camera, che la Capigruppo ha fissato per martedì, per consentire un nuovo referendum tra gli iscritti. Il risultato arriverà in concomitanza con quello del primo turno delle amministrative. Una sovrapposizione che per più di qualcuno non è affatto casuale. Anche nel Pd però la situazione è tutt’altro che tranquilla. Il gruppo apparentemente tiene ma le critiche giunte dai padri fondatori del Pd (Walter Veltroni e Romano Prodi) e dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano pesano non poco. Lo si è visto ieri in occasione dell’assemblea dei deputati dove la minoranza guidata da Andrea Orlando ha annunciato di voler mantenere i propri emendamenti: «Noi ritireremo i nostri se i 5 stelle faranno altrettanto», ha confermato il Guardasigilli.
Renzi sposta sui grillini l’attenzione («Dopo due giorni hanno già cambiato idea»). Ma al di là delle sensazioni sono i primi voti segreti a confermare che l’alleanza traballa. Sulle pregiudiziali di costituzionalità sono venuti a mancare un centinaio di voti, rispetto alla somma dei quattro partiti sottoscrittori dell’intesa sulla legge elettorale. «Vi ricordo cosa accadde quando furono 101», chiosa il capogruppo dem Ettore Rosato con riferimento alla bocciatura di Prodi nella corsa al Quirinale. In realtà a conti fatti i franchi tiratori sono stati 66, visto che una trentina di deputati dei vari gruppi erano in missione. Ma la situazione resta in bilico. Anche perché ci sono un centinaio di voti segreti da superare. Un primo banco di prova c’è già stato ieri. L’emendamento presentato dai bersaniani di Mdp è stato bocciato con 317 voti, nonostante l’assenza dei 5 Stelle che hanno optato per l’astensione. Una scelta, quella dei grillini, che è servita anche a evitare di essere ascritti tra i franchi tiratori nella prima vera prova. Luigi Di Maio e Danilo Toninelli continuano a sostenere che l’accordo tiene. Anzi, agli ambasciatori del Pd, preoccupati per il nuovo referendum annunciato dai pentastellati, hanno spiegato che si tratta di un modo per «ratificare» l’intesa. E il post con cui si indice la consultazione degli iscritti lo conferma: «Cercheremo in tutti i modi di ottenere nuovi miglioramenti. Non sappiamo se ce la faremo perché non dipende solo da noi. Ma abbiamo già ottenuto importanti risultati». Insomma, un modo per dire noi le nostre battaglie - a partire da quella sulle preferenze - le abbiamo portate ma il principale obiettivo, come ha assicurato poco dopo Grillo, per il M5s è «la legge e il voto».
Nel Pd però non ne sono così convinti. Anzi, cresce la convinzione che alla fine Grillo si sfili. In realtà, quello che potrebbe accadere, ancor prima del referendum tra i 5 stelle, è che su un voto segreto salti l’intesa. I grillini hanno già annunciato che voteranno a favore dei loro emendamenti per il voto disgiunto e le preferenze. Il pallottoliere dice che sulla carta il loro voto non è decisivo, che Pd Fi e Lega hanno i numeri per mantenere la maggioranza. Ma come si è già intravisto ieri, il voto segreto potrebbe aiutare quanti, all’interno delle stesse forze politiche, sono critici verso l’accordo. È evidente che in questo caso a pagare il prezzo più alto sarebbe il Pd e non solo perché è il principale gruppo parlamentare (282 deputati) ma perché pubbliche sono state le prese di posizione contro la nuova legge elettorale con tanto di emendamenti depositati. Chissà che non sia proprio questa la strategia di Grillo. In commissione, infatti, i deputati del M5s avevano evitato di votare gli emendamenti. Così invece non avverrà in aula. Oltre a voto disgiunto e preferenze c’è anche un altro punto particolarmente a rischio: l’alternanza di genere. La nuova legge impone che uomini e donne siano rappresentati in modo analogo attraverso l’alternanza nel listino proporzionale e che la percentuale non superiore al 60% nei collegi. Non è da escludere che più di qualcuno tra i parlamentari uomini, che sono la maggioranza, possa segretamente votare per mantenere più alte le percentuali di una sua futura candidatura.
Il Sole 8.6.17
Pd. I dem vedono allontanarsi le elezioni a settembre
Renzi pessimista: il M5s non regge, si vota con il «Consultellum»
di Emilia Patta
«Se alla fine la legge elettorale passerà, avremo fatto il capolavoro di aver unito le maggiori forze politiche del Paese attorno a nuove regole. Se invece come credo salterà tutto, potremo dire di averci provato e la colpa del fallimento ricadrà su altri». Al termine della prima giornata di votazioni a Montecitorio sulla legge elettorale, con il M5S sull’ottovolante del sì e del no all’accordo con Pd-Fi-Lega sul proporzionale alla tedesca, il leader del Pd Matteo Renzi è decisamente pessimista sulla tenuta del patto a quattro. E pessimisti sono anche il capogruppo dem a Montecitorio Ettore Rosato e il coordinatore della segreteria di Renzi Lorenzo Guerini. Che avvertono, in linea con lo stesso Renzi: «Se il M5S si sfila salta tutto e si va a votare con i due sistemi lasciati in piedi dalla Consulta per la Camera e per il Senato». E ancora: «Certo il Pd non va avanti da solo con Fi per farsi accusare di inciucio dai grillini». I detrattori dell’accordo, insomma, dovranno alla fine intestarsi il decreto con cui si sistemerà qualche dettaglio per rendere immediatamente applicative, come d’altra parte specificato dai giudici costituzionali, le due leggi esistenti.
Renzi, da parte sua, prova a dare una lettura positiva per il Pd anche nel caso di fallimento del tentativo riformatore. Anche perché è chiaro che se salta il proporzionale alla tedesca non ci saranno altri tentativi, si tornerà a votare con i sistemi attuali: per la Camera proporzionale con sbarramento al 3% e premio di maggioranza per la lista che superi il 40%; per il Senato proporzionale senza premio ma con un sistema di soglie di sbarramento “ammazza-piccoli”: 3% per chi si coalizza a patto che la coalizione di riferimento prenda almeno il 20%, 8% per chi non si coalizza. Ben oltre il 5% che ha fatto saltare i nervi ai centristi di Angelino Alfano, e non solo. Fin dalla sera stessa della sentenza della Consulta che a gennaio scorso bocciò il ballottaggio previsto dall’Italicum Renzi aveva commentato che in fondo, a condizioni date, il sistema elettorale esistente è il migliore per il Pd. Che potrebbe giocarsi una campagna elettorale in autonomia, con l’obiettivo pur sempre credibile di raggiungere il 40%, senza doversi subire le accuse preventive di “inciucio”. Accuse che, assieme alle bordate di vecchi del Pd come il presidente emerito Giorgio Napolitano, hanno fatto particolarmente male a Renzi in questi giorni. «Comunque vada noi si vince - ripete il leader Pd nei ragionamenti con i suoi -. Certo, mi sarei risparmiato volentieri gli insulti dei miei. A cominciare dalle parole di Napolitano, che ho trovato irresponsabili».
Lo schema di gioco ad ogni modo per il Pd resta lo stesso, sia con il proporzionale alla tedesca sia con i due Consultellum: la corsa solitaria, senza alleanze predefinite. Da qui la strategia di Renzi di tentare di strappare l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia dall’abbraccio dei bersaniani e una personalità come il ministro Carlo Calenda dall’abbraccio dei centristi vari. Ma se salta la legge elettorale si allontana anche l’ipotesi di voto anticipato al 24 settembre, dal momento che il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha detto con chiarezza che precondizione per lo scioglimento anticipato delle Camere è appunto una legge elettorale condivisa che armonizzi i sistemi di Camera e Senato. «A me non importa quando si va a votare - ripete Renzi - quello a cui tengo è che si faccia una legge di bilancio incentrata sulla crescita e sul taglio delle tasse. Ci sono le condizioni politiche?» Ma non c’è solo la questione della legge di bilancio: è chiaro che, se il voto si allontana e se la soglia alla Camera resta il 3%, anche la strategia di attrarre nell’orbita del Pd Pisapia e i centristi si indebolisce, dando di contro spazio ai progetti alternativi al Pd. Da qui, anche, l’aria cupa che si respirava ieri sera a Largo del Nazareno.
La Stampa 8.6.17
Renzi adesso teme che prenda forma il “partito” di Napolitano
Un movimento d’opinione per influenzare il voto
di Fabio Martini
Sin dal primo momento la parola d’ordine dal quartier generale di Matteo Renzi è stata chiara: ignorare Giorgio Napolitano, far finta di nulla, assorbire nel muro del silenzio la severa requisitoria dell’ex Capo dello Stato contro l’ipotesi di elezioni anticipate, promosse sull’onda di interessi più personali che politici da parte dei principali leader del Paese. Consegna mantenuta: in 24 ore neppure un esponente vicino a Matteo Renzi ha pronunciato una sola parola contro Napolitano.
La strategia del silenzio, così perfettamente realizzata, nasconde due timori da parte di Matteo Renzi. Il primo: che possa ingrossarsi e trasformarsi in diga il «partito del no» alle elezioni anticipate. Il secondo: che le tante dissociazioni da parte dei padri fondatori del Pd - da Napolitano a Prodi, da Letta e Veltroni - possano fare «massa critica». Con un effetto «convergenze parallele», da parte di personaggi che per il momento non parlano tra di loro, non hanno studiato una strategia comune, ma che condividono un giudizio critico nei confronti di Matteo Renzi.
Il leader del Pd conosce l’ex Capo dello Stato e sa bene che pur mantenendo influenza e amicizie tra personalità «altolocate», a tutto può pensare Giorgio Napolitano tranne che a dare vita un fantomatico «partito del Presidente emerito». Certo l’ex Capo dello Stato è ancora un punto di riferimento fuori e dentro il Pd, fuori e dentro l’Italia. In questi giorni Napolitano non si è parlato con Mario Draghi ma i contatti e gli scambi di opinione sono frequenti, compresa l’ultima volta che il presidente della Bce è stato in Italia.
Anche Giuliano Pisapia, leader in pectore di una nuova formazione di centrosinistra fortemente concorrenziale col Pd, non ha parlato in queste ore con Giorgio Napolitano, ma nel 2011 quando divenne sindaco la prima telefonata la fece all’allora Capo dello Stato. Da allora i due si sono sentiti e visti anche in occasioni non ufficiali.
Ieri Napolitano, all’indomani della sua severa requisitoria, si è trattenuto nel suo studio a palazzo Giustiniani, con l’intermezzo di un pranzo con una vecchia amica, Anna Finocchiaro. E guarda caso proprio lei, la ministra per i Rapporti col Parlamento, è l’ultima di una serie di esponenti di primo piano della stagione dell’Ulivo che si sia dissociata dalle scelte politiche di Matteo Renzi.
In un intervento di due giorni fa la Finocchiaro ha scritto parole molto critiche verso Renzi: «Una precisa, e studiata, strategia politica sul quadro delle alleanze con cui ci si presenta al voto e con cui si intenda, in caso di vittoria, governare. È questo un vuoto clamoroso della nostra riflessione politica» e «francamente passare da “la sera del voto bisogna sapere chi governa” a “vedremo poi” mi pare un’acrobazia poco credibile».
Quel che Renzi più di tutto teme è che la saldatura tra tante voci critiche possa condizionare pesantemente il risultato elettorale del Pd alle prossime Politiche.
Eloquente il commento di Romano Prodi alle parole di Napolitano: confermando il giudizio «negativo» sulla legge elettorale approdata alla Camera, il Professore ha aggiunto: «Condivido Napolitano: senza saperlo abbiamo detto le stesse cose». Sottolineatura non casuale: «senza saperlo». È proprio così. Per il momento il fronte dei «frenatori», di coloro che immaginano di «mettere in sicurezza» il Paese avanza in ordine sparso. Prodi, Letta, Veltroni, Napolitano: personaggi che hanno lasciato la politica, che non stanno «brigando» contro Renzi. Ma sono personalità che si conoscono da una vita e sono unite da un sentimento comune: la sensazione di essere stati «snobbati», chi più, chi meno, dal giovane Matteo.
Il Fatto 8.6.17
Colosseo, il Tar boccia il Parco di Franceschini: “È eccesso di potere”
Il ministro ha unito l’Anfiteatro Flavio alla Domus Aurea e al Palatino per semplificare e risparmiare, ma ha creato così 10 organismi. I giudici: “Viola gli accordi tra Stato e Comune sui Fori”
Colosseo, il Tar boccia il Parco di Franceschini: “È eccesso di potere”
di Vittorio Emiliani
Comincia a grandinare su Dario Franceschini, il peggior ministro della Cultura da anni, quello che ha preteso di squartare il corpo della tutela dei Beni culturali e paesaggistici, già dissanguato dai feroci tagli berlusconiani. Il Tar del Lazio lo riboccia sulla creazione di un assurdo Parco archeologico del Colosseo accorpato con la Domus Aurea (edificata da Nerone quando davanti solo c’era un lago) e col Palatino dove sorse la Roma più antica, separandolo invece dal contesto della Roma imperiale.
Una follia anche organizzativa che ha creato 10 organismi con altrettanti dirigenti di I e II fascia al posto dei 3 preesistenti. Per “semplificare.” I ricorsi accolti dal Tar sono due: del Comune di Roma e della Uil. Si conoscono le motivazioni solo del primo. La decisione del MiBACT è avvenuta violando i precedenti accordi di collaborazione fra Stato e Comune (che ha competenza sui Fori Imperiali). Il ministro non aveva il potere di “creare un nuovo ufficio dirigenziale generale come quello” del Parco Archeologico. Egli può sopprimere, fondere, o accorpare uffici in funzione di particolari esigenze fra le quali “garantire il buon andamento dell’amministrazione di tutela del patrimonio culturale.” Non di più. Una bella botta.
Va ricordato che la frantumazione in più organismi della Soprintendenza Speciale per l’Archeologia di Roma era stata operata inserendo nella legge di stabilità un emendamento voluto a tutti i costi da Pd romano dopo che il presidente di commissione l’aveva più volte rigettato. Inoltre per il Tar del Lazio il Comune avrebbe così perso parte degli incassi e – cosa fondamentale – sarebbe stata sancita “la eliminazione della rilevanza unitaria dell’area all’interno delle Mura Aureliane, oggetto della tutela Unesco.” Il Comune ha un particolare ruolo rispetto al quale lo Stato non può incidere unilateralmente” trattandosi di “competenza concorrente.” Come volle Corrado Ricci nel 1907, incolti.
Gli “orrori” franceschiniani si infittiscono. Il rock “Divo Nerone”, caldeggiato da lui e dalla sua signora sul Palatino, è stato un fiasco imbarazzante, molti spettatori si sono eclissati dopo il primo tempo. Le royalties per lo Stato forse evaporano. I soli tranquilli sono gli organizzatori i quali hanno ricevuto dalla Regione Lazio (bella figura) 1.050.000 euro.
“Orrori” pure in materia di paesaggio e di centri storici il ministro delle “deforme” volute testardamente da Matteo Renzi. Non solo non ha efficacemente sollecitato le Regioni a co-pianificare col Ministero i piani paesaggistici rimedi essenziali contro la speculazione – per cui siamo fermi a 3 Piani e mezzo (Puglia, Toscana, Piemonte e coste sarde) – , non solo non ha fatto muovere un passo alla buona legge Catania sul consumo di suolo (che corre 3-4 volte più che in Germania), ma col Dpr 31/2017 ha ancora tagliato i tempi alle Soprintendenze per rispondere alle richieste di autorizzazioni e pareri architettonici e urbanistici. La prima autorizzazione va richiesta ai Comuni e questi, alla canna del gas per il calo dei trasferimenti erariali, sono indotti ad autorizzare un po’ di tutto.
Esse riguardano, incredibilmente, anche i “territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla battigia”, le rive dei laghi e dei fiumi, le montagne, i parchi naturali, le zone archeologiche dove il divieto di costruire dovrebbe essere assoluto, “di per sé.” E poiché gli architetti delle Soprintendenze sono appena 539 per tutta Italia, cioè 1 ogni 283 Kmq di territorio vincolato, con 4-5 pratiche complesse al giorno da sbrigare a testa, il silenzio/assenso scatterà inesorabile. La fissazione è sempre quella decrepita di “rianimare” così la ripresa edilizia. Ma per chi?
Sempre quel Dpr di Franceschini ha “semplificato” le autorizzazioni di lavori negli stessi centri storici eliminando le verifiche per ben 31 tipologie di interventi: finestre, porte, lucernari, gazebo, chioschi, mini-pale eoliche, pannelli solari. E i centri storici – a parte Urbino integralmente vincolata con grande coraggio dal soprintendente Francesco Scoppola anni fa – sono vincolati, Roma compresa, a “macchia di leopardo.” Aspettiamoci mille bazar, mille nuovi orrori.
Repubblica 8.6.17
Boccassini: “Riina resti in cella non è vendetta, solo giustizia”
La pm antimafia difende la scelta del tribunale di sorveglianza “L’apertura di Albamonte? Non è la linea di chi lotta contro i clan”
Piero Colaprico
MILANO. Anche Ilda Boccassini si schiera contro la possibilità che il capo dei capi di Cosa Nostra, responsabile di stragi e di centinaia di omicidi tra cosche, possa tornare a casa per ragioni umanitarie. Magistrato impegnato da decenni nell’antimafia che porta in carcere, e con condanne definitive, i criminali di peso, Boccassini affida a
Repubblica
il suo pensiero: «Il provvedimento dei giudici di sorveglianza di Bologna è stato un atto di giustizia e non di vendetta nei confronti del pluriergastolano Salvatore Riina. Ho percepito, al contrario, come inappropriate e per nulla condivisibili le dichiarazioni del presidente dell’Associazione magistrati. Mi auguro che, in questo caso, le sue parole non rappresentino il pensiero della maggioranza dei colleghi. Soprattutto — mi pare doveroso sottolinearlo — di quanti, in silenzio e rifuggendo la luce dei riflettori, ogni giorno si adoperano nel contrasto al crimine organizzato, e in generale per garantire ai cittadini una giustizia giusta».
Boccassini non nomina mai la Cassazione, ma difende la linea del tribunale di sorveglianza di Bologna, competente sul carcere di Parma. Qui Riina è attualmente detenuto, dopo la cattura nel 1993 e una lunga permanenza nel carcere milanese di Opera, dov’era stato intercettato mentre si vantava con un altro detenuto del suo potere mafioso. Per i giudici bolognesi, spiega un’ordinanza del maggio 2016, le sue condizioni di salute, «pur gravi», sono curabili in carcere, non sono stati mai superati i «limiti» del rispetto dell’umanità ed è la «notevole pericolosità» a imporre la «detenzione inframuraria». Ma nei giorni scorsi la prima sezione penale della Cassazione ha bollato quell’ordinanza come «carente e contraddittoria». Ha ricordato «l’esistenza di un diritto a morire dignitosamente » e rimandato gli atti nel capoluogo emiliano, dove si deciderà il 7 luglio.
Per Eugenio Albamonte, presidente dell’Anm, la Cassazione con i suoi distinguo «dimostra che lo Stato è più forte della mafia»; di più, «una giustizia che ragiona in termini di diritti nei confronti di una persona che li ha negati dovrebbe renderci orgogliosi». Ma proprio queste parole, dette da Albamonte a Repubblica tv, non sono piaciute a Ilda Boccassini. A lei, procuratore aggiunto a Milano, guardano molti di quei magistrati e detective che «si adoperano per garantire ai cittadini una giustizia giusta». E tra loro non sono pochi quelli che, come ha spiegato ieri “Omar”, uno dei carabinieri che catturarono nel 1993 il capo dei capi, si aspettano la certezza della pena.
Va ricordato che sia Bernardo Provenzano, sia Luciano Liggio, boss paragonabili a Riina, nonostante fosser in condizioni di salute peggiori (ieri è comparso in teleconferenza al processo d’appello per la strage del Rapido 904, che risale al 1984, mostrandosi in barella) sono morti senza poter tornare a casa.
Repubblica 8.6.17
Thoreau
A duecento anni dalla nascita New York celebra l’autore di “Walden” con una mostra ricca di oggetti e manoscritti
L’America riscopre i diari dello scrittore solitario schierato dalla parte degli ultimi
Holland Cotter
Quando frequentava il liceo, mio padre tutte le estati lavorava come bagnino al lago Walden. Da bambino andavo spesso lì a fare birdwatching, a leggere i diari di Henry David Thoreau e ad assorbire vibrazioni trascendentaliste da quel lago glaciale di acqua limpida contornato di abeti e sentieri. Non ero mai solo, neanche in bassa stagione. Venivano continuamente pellegrini sulle tracce di Thoreau. La piccola baita – lui la chiamava casa – che aveva costruito qui nel 1845, che aveva ammobiliato con una ribaltina in legno di pino dipinta di verde e dove aveva vissuto per due anni, era scomparsa da tempo, ma un tumulo di pietre sparse segnava il punto in cui sorgeva e ogni visitatore gettava una pietra nuova sul mucchio. Era un assaggio di Thoreau: una lezione mora
le (dare, non prendere) e la sensazione di aggiungere qualcosa alla storia. Gli stessi risultati, più o meno, si possono ottenere visitando fino al 10 settembre la mostra This Ever New Self: Thoreau and His Journal alla Biblioteca- museo Morgan di New York. Materialmente, c’è tantissimo Thoreau qui, più di quello che potete trovare a Walden. E guardando la mostra si capisce quanto sia importante averlo qui con noi in questo momento: non solo perché il 2017 è il bicentenario della sua morte, ma perché rappresenta un modello di resistenza in una fase politica lacerante, autodistruttiva e demagogica.
Sono tre gli oggetti centrali della mostra, e due di questi sono fotografie di Thoreau, i soli documenti concreti che possediamo sul suo aspetto. L’immagine più vecchia è un minuscolo dagherrotipo scattato nel 1856, quando aveva 39 anni. Quasi nessuno lo definiva bello (Nathaniel Hawthorne, suo amico e vicino, diceva che era «brutto come il peccato »). Ma molti ricordavano i suoi occhi chiari grigio-azzurri, ed eccoli qui, immortalati in uno sguardo trattenuto, indagatore, che vediamo di nuovo nelle sue fattezze di cinque anni dopo, quando, segnato dalla tubercolosi, aveva ancora solo pochi mesi di vita davanti a sé.
Il cuore dell’installazione è la scrivania a ribaltina di Walden, in prestito dal museo di Concord, Massachusetts. In un certo senso si può dire che l’intera mostra si irradia da questo mobile. Thoreau lo comprò poco dopo essersi laureato a Harvard, quando lui e suo fratello maggiore, John, aprirono una scuola vicino a casa loro, a Concord appunto. Quando la scuola fu chiusa all’improvviso – John morì di tetano a 26 anni dopo essersi tagliato con un rasoio – Thoreau tenne la scrivania. Probabilmente la usò come tavolo da disegno quando cominciò a lavorare come agrimensore (il suo goniometro e il suo compasso sono in mostra). Quasi certamente servì come postazione di lettura per il Thoreau eterno studente, che passava al setaccio testi sacri induisti, guide ornitologiche e trattati filosofici del suo vicino, mentore e amico-nemico Ralph Waldo Emerson. E fu un equipaggiamento fondamentale per lo scrittore a tempo pieno che diventò, privatamente (con il suo diario aggiornato tutti i giorni) e pubblicamente (come conferenziere e saggista). La mostra, organizzata da Christine Nelson della Morgan e David Wood del Concord, è divisa in sezioni corrispondenti alle diverse sfaccettature dell’identità di Thoreau – studente, lavoratore, lettore, scrittore – che usano il diario come filo conduttore: e questo nessuno può farlo meglio della Morgan considerando che quasi tutti i diari sopravvissuti, circa 40 volumi scritti a mano, sono conservati nella sua collezione. Rappresentano uno dei grandi tesori manoscritti di New York e sono il modo più diretto e coinvolgente per avvicinarsi a Thoreau. Nella mostra sono esposti diversi volumi aperti. Attraverso le loro parole prende forma un dramma ed emerge una personalità, sorprendentemente differente dal Thoreau antisociale e frugale della leggenda moderna. Lungi dall’essere un recluso, Thoreau passava gran parte del suo tempo con le persone. Con certe tipologie non si trovava proprio: le autorità presuntuose, quelli che facevano di tutto per mettersi in vista (un breve soggiorno a Manhattan per cercare di entrare nel mondo dell’editoria fu un disastro) e gli ingessati esponenti della borghesia di Concord. Si paralizzava quando si trattava di fare conversazione spicciola e prolungare la socializzazione con una compagnia che non era di suo gradimento lo lasciava sfibrato. Ma era un familiare devoto, un amico coscienzioso e un beniamino dei bambini. Le sue simpatie andavano agli emarginati, agli oppressi: i braccianti irlandesi scaricati nei sobborghi di Concord, i nativi americani espropriati che incontrava nei suoi viaggi. Sua madre era stata una delle fondatrici della Società femminile antischiavista di Concord, sua sorella Helen era un’amica di Frederick Douglass (il celebre intellettuale abolizionista afroamericano) e la sua casa di famiglia era una delle “stazioni” dell’Underground Railroad, la rete clandestina di itinerari e rifugi sicuri messa in piedi dagli abolizionisti per garantire agli schiavi fuggitivi il passaggio verso il Canada. Considerando questo contesto, la notte che passò in prigione, nel 1846, per essersi rifiutato di pagare le tasse a un governo che sosteneva la schiavitù fu un evento meno sensazionale di quello che la storia cerca di far credere. Le azioni più rischiose vennero dopo, quando nel 1854 pronunciò un discorso furiosamente antischiavista sotto una bandiera americana rovesciata e listata a lutto, su un palco accanto a Sojourner Truth, ex schiava e paladina della lotta abolizionista e dei diritti delle donne. E colpì ancora più forte quando prese le difese dell’abolizionista radicale John Brown nel 1859. In entrambi i casi, estrapolò idee e parole dal diario, l’unico luogo in cui si concedeva di parlare in modo libero.
«Quando ieri io e Sophia siamo passati in barca attraverso le terre del signor Prichard, dove il fiume è costeggiato da una lunga fila di olmi e salici bassi, alle sei del pomeriggio, abbiamo sentito una singolare nota di angoscia». Thoreau, pensando che un uccello fosse nei guai, remò fino a riva per aiutarlo, poi vide «un animaletto nero che veniva frettolosamente incontro alla barca. Un piccolo topo muschiato? Un visone? No, era un gattino minuscolo. Abbandonando i suoi miagolii, venne scompostamente sopra le pietre, con tutta la velocità che gli consentivano le sue deboli zampe, dritto verso di me. Lo presi e lo depositai nella barca, ma mentre la spingevo via dalla riva lui la attraversò di corsa tutta quanta fino a Sophia, che lo tenne in braccio mentre remavamo verso casa ». Questa annotazione del diario risale al maggio del 1853, molto avanti nell’arco cronologico che circonda la ribaltina verde nella mostra. A quel punto sarete già passati attraverso la gran parte di una vita istruttiva e generosa. E semplicemente per il fatto di avervi dedicato attenzione avrete aggiunto, come quelli che lasciano una pietra a Walden, qualcosa alla storia: la vostra.
Repubblica 8.6.17
Parco del Colosseo bocciato dal Tar il progetto Mibact
Lorenzo D’Albergo
Sul Parco archeologico del Colosseo, la ciliegina sulla rivoluzione del Mibact del ministro Dario Franceschini, piomba il “niet” del Tar del Lazio. Stop quindi alla super struttura che doveva accorpare i tesori dell’archeologia romana: dall’Anfiteatro Flavio alla Domus Aurea, dai Fori al Palatino. E stop anche al concorso internazionale che entro fine mese avrebbe dovuto indicare il nuovo direttore manager. Questa volta, se possibile, lo schiaffo inferto dalla magistratura amministrativa al titolare del Collegio Romano è più doloroso di quello arrivato sulla riforma dei musei e la nomina dei direttori dei supermusei, stranieri in testa. Almeno nei toni, perché i giudici non sembrano essersi risparmiati. Nelle 36 pagine del dispositivo, le toghe della seconda sezione quater citano la Costituzione e poi affondano il colpo: sulla gestione recente dell’Anfiteatro Flavio ravvisano la «violazione del principio della leale collaborazione tra enti». Di più: per il Tar, «le disposizioni di legge non hanno attribuito al ministro alcun potere di creare un nuovo ufficio dirigenziale generale». Secondo i giudici quello di Franceschini è stato un colpo di mano: «La nuova configurazione – si legge nella sentenza – avrebbe comportato la perdita per la città di Roma di gran parte dei proventi del Colosseo».
Ora, annullato il decreto del Mibact del 12 gennaio, torna tutto come prima. Riecco la Soprintendenza speciale per il Colosseo di Francesco Prosperetti. Mentre Federica Galloni, la direttrice ad interim del Parco archeologico, tornerà alla direzione dell’Arte contemporanea. A festeggiare, quindi, è il Campidoglio. Per la sindaca Virginia Raggi e per il suo vice Luca Bergamo, la battaglia per il Colosseo era diventata un faccia a faccia tra M5S e Pd. Un braccio di ferro vinto. Almeno per ora. Perché la sentenza con cui sono stati accolti il ricorso di Palazzo Senatorio e della Uiltucs Bact nelle prossime ore sarà impugnata dall’avvocatura dello Stato.
Con tanto di richiesta di immediata sospensione degli effetti della decisione del Tar del Lazio, i legali del governo e i tecnici del Collegio Romano torneranno alla carica in appello. Inequivocabile, in questo senso, il tweet del ministro Franceschini: «Lo stesso Tar dei direttori stranieri boccia il Parco archeologico del Colosseo». Poi lo sfogo con i collaboratori: «Fatico a capire perché 31 musei e parchi archeologici, dagli Uffizi a Pompei alla Reggia di Caserta, vadano bene e il 32esimo, giuridicamente identico agli altri, invece no». L’ultima parola sul Colosseo spetterà, dunque, al Consiglio di Stato. Agli stessi magistrati chiamati a esprimersi il 15 giugno sulla modalità della nomina dei direttori. Potrebbero decidere di investire della questione anche la Corte costituzionale. La battaglia non è ancora chiusa. In ballo c’è soprattutto la ripartizione degli incassi del monumento più redditizio d’Italia (6,4 milioni di accessi nel 2016 per 60 milioni di euro di entrate). E la possibilità di tirare uno sgambetto all’avversario. Lo sa bene la sindaca Virginia Raggi, che ha twittato: «Roma resta di tutti. Sconfitto il tentativo del Governo di gestire in totale autonomia e senza concertazione il patrimonio culturale della nostra amministrazione ». A patto che in appello la sentenza non venga ribaltata.
Il Fatto 8.6.17
Sondaggi, la lista unica di sinistra fa 16%
di Antonio noto
Lo scenario che emerge dall’ultimo sondaggio sulle intenzioni di voto, datato 6 giugno 2017, vede il Movimento 5 Stelle accreditarsi come primo partito al 30% seguito dal Pd al 26%. A Forza Italia e Lega andrebbe un 12% ciascuno mentre un 5% sarebbe raccolto da Fratelli d’Italia. Rispetto all’offerta elettorale attuale, questi sarebbero gli unici partiti con seggi a Montecitorio. Meno del 5% raccoglierebbero i partiti restanti, e con la soglia di sbarramento non sarebbe attribuito a nessuno di questi alcun deputato alla Camera. Si tratta di Art.1. MDP cui andrebbe un 4%, AP che può attualmente contare su un 3% e Sinistra Italiana che raccoglierebbe il 2% dei consensi. Allo stato attuale, quindi, per le forze di sinistra considerate singolarmente, non esisterebbe la possibilità di ottenere un risultato elettorale tale da accreditare l’ingresso in Parlamento.
Il consenso a una lista unica di sinistra
Se i singoli partiti che si collocano alla sinistra del Pd, presi singolarmente, raccolgono quote di consenso inferiori al 5%, una lista unica di sinistra potrebbe invece vedere crescere molto il proprio valore elettorale. È infatti un 4% a dichiarare “certo” il proprio voto a una coalizione tra forze di sinistra. A questi, però, può essere aggiunto un ulteriore 12% che dichiara che potrebbe prendere in considerazione l’idea di votare per una formazione così composta. Il potenziale elettorale di una lista unica di sinistra pertanto arriva attualmente al 16%. Ma a quali condizioni questa propensione al voto potrebbe tradursi in effettivo consenso?
L’importanza del leader
Un elemento fondamentale a determinare l’identità e conseguentemente il consenso a una formazione politica è certamente la figura del suo leader. In questo caso sono stati testati 12 nomi, e nella rosa Roberto Saviano è risultato quello che ha raccolto la quota maggiore di fiducia sia tra gli elettori di una nuova ipotetica lista di sinistra sia tra tutti gli italiani (rispettivamente 78 e 60%). A lui segue Stefano Rodotà che ha ottenuto la fiducia del 58% di chi si schiera a favore di una neo coalizione di sinistra e del 40% degli italiani, mentre in terza posizione si è collocato Pier Luigi Bersani cui manifesta fiducia il 42% degli interessati a una nuova lista di sinistra e circa 1/3 degli italiani. Tra il 30 e il 40% di fiducia da parte degli interessati a una neo lista di sinistra si collocano poi gran parte dei nomi testati (Pisapia 39%, Landini 37%, Boldrini 35%, Camusso 35%, D’Alema 33%, Vendola 32%, Speranza 31%), mentre raggiungono risultati più bassi Fratoianni e Civati (28 e 22% del target).
La fiducia espressa nei confronti del leader, come emerge dal sondaggio, è risultato un fattore che ha pesato molto anche sulle intenzioni di voto manifestate dagli intervistati.
Il consenso a una lista unica di sinistra calcolato in relazione alla presenza dei diversi leader è arrivato a variare fino a 12 punti: raggiungerebbe infatti il 16% se questa neo formazione avesse alla guida Roberto Saviano, otterrebbe un 13% se guidata da Stefano Rodotà e un 10% con Pier Luigi Bersani; 6% con Pisapia, Landini, Boldrini e Camusso. Con D’Alema si assesterebbe sulla soglia del 5% mentre scenderebbe addirittura con leader come Vendola, Speranza, Fratoianni o Civati. Tutto ciò avrebbe ovviamente una ripercussione sul numero di seggi guadagnati in Parlamento: rappresentata da Saviano, infatti, questa lista di sinistra otterrebbe 109 seggi, con Rodotà 91, mentre guidata da Bersani potrebbe contare su 71 seggi. 44 sarebbero i seggi disponibili con a capo Pisapia, Landini, Boldrini o Camusso, mentre 37 con D’Alema. Con Vendola, Speranza, Fratoianni o Civati invece la lista potrebbe non conquistare seggi fermandosi al di sotto del 5%.
In sintesi, quindi, considerando nel complesso il livello di fiducia raccolto e la capacità di tramutarlo in consenso, Saviano e Rodotà risultano per una neo formazione di sinistra i leader più forti, quelli cioè che potrebbero essere strategicamente più “efficaci” nell’intercettare l’interesse e quindi la fiducia del target. Li segue a stretto giro Pier Luigi Bersani che, tra i politici, è il leader che ottiene il piazzamento migliore. In una posizione mediana invece si collocano più o meno alla pari Pisapia, Landini, Boldrini e Camusso, un po’ distaccato risulta D’Alema, mentre i meno “efficaci” rispetto all’attrarre il consenso del target risultano attualmente Vendola, Fratoanni e Civati.
Gli elettori di una lista unica di sinistra: aspettative e valori
A un’analisi delle preferenze espresse dai potenziali elettori di una lista di sinistra, emerge che a risultare più forti nell’attrarre il consenso sono soprattutto i leader connotati da un alto profilo etico e morale. In generale, poi, i non politici hanno vinto sui politici e in ogni caso tra i leader sono stati preferiti coloro che attraggono l’interesse di un target orientato più verso il Movimento 5 Stelle che verso la sinistra.
In questo quadro, il buon risultato ottenuto da Pier Luigi Bersani viene vissuto in maniera positiva per la sua capacità di essere una sorta di “connettore”, un punto mediano tra aspettative diverse. Il buon posizionamento che ottiene infatti, a ridosso di “superstar” come Roberto Saviano e Stefano Rodotà, esprime il contemperarsi delle diverse esigenze del multiforme “popolo della sinistra” interessato a una nuova formazione politica che possa rappresentare i diversi valori di quest’area. Il profilo morale che a Bersani viene riconosciuto si accompagna a un’identità politica percepita come di sinistra, non estrema, ma coerentemente e non conflittualmente difesa. Il valore del profilo etico e morale diventa ancora più forte nella scelta di Saviano e Rodotà. Questi due, infatti, sono quelli che riescono a sottrarre il maggiore numero dei voti al M5S, un partito che si basa prevalentemente sulle scelte etiche e morali nella politica. Pertanto il leader ideale di questo nuovo soggetto politico dovrà essere un mix tra un profilo altamente etico e morale (Saviano e Rodotà) con quello più specificatamente politico (Bersani e Pisapia). Ovviamente in questo segmento elettorale prevale leggermente l’etica sulla politica. È questa una delle maggiori differenze che si riscontra tra i bisogni dell’elettorato di sinistra e quelli dei votanti Pd.
Ma chi sono questi italiani interessati a votare per una lista di sinistra? In generale il profilo risulta vicino all’elettore classico della sinistra: uomini più che donne, con livello di istruzione superiore più che inferiore e residenti al centro e nel nord-ovest più che nel resto della penisola. Rispetto alle preferenze politiche, invece, emerge un profilo antagonista rispetto all’ortodossia di centrosinistra: l’85% ha votato No al referendum dello scorso dicembre e soprattutto, alle elezioni 2013, a votare per il Pd è stato un 45% del target, che nel resto dei casi si è diviso tra M5S (35%) e Sel (18%).
Questa doppia anima, un po’ tradizione di sinistra un po’ filo M5S emerge anche nel momento in cui dai suoi possibili elettori sono indicati i temi identitari per una neo formazione: così accanto al lavoro, citato dal 68%, compaiono l’onestà e la lotta ai privilegi ricordati dal 62%. Seguono ambiente, immigrazione e banche indicati rispettivamente dal 55, 53 e 51% temi che rispetto a quelli classici affrontati dalla sinistra comportano una sorta di “attualizzazione”, un aggiornamento dettato dai “tempi nuovi”.
Le alleanze
A conferma della attrazione esercitata sul target dal M5S, per l’assoluta maggioranza degli elettori di una lista unica a sinistra del Pd (il 62%) l’alleanza più “adatta” da perseguire sarebbe proprio quella con i grillini. Solo ¼ di questo elettorato infatti guarderebbe al Pd come al proprio alleato naturale, mentre un 9% considera la lista unica di sinistra una forza di opposizione “pura” ovvero non immagina alcun alleato cui dovrebbe rivolgersi. Rispetto a possibili alleanze con Berlusconi invece l’elettorato interessato a una lista unica di sinistra si esprime in maniera molto più netta e nell’88% dei casi ne dà un giudizio assolutamente negativo.
Scenari post voto
In conclusione, indipendentemente dal leader, al momento non sembrano esserci le condizioni di una alleanza della Lista di Sinistra con il Pd o con il M5S. Infatti, sia nel primo che nel secondo caso la totalità dei seggi dei due partiti si fermerebbe a 269 nell’ipotesi migliore per la Lista Unica, ovvero con Saviano leader.
Dai dati risulta invece ipotizzabile una alleanza a tre gambe tra M5S, Pd e Lista Unica. Con qualsiasi leader (tra quelli che portano il partito almeno al 5%) si supererebbe infatti abbondantemente in Parlamento la maggioranza dei 315 deputati e, in questo scenario, la lista unica potrebbe rivestire un ruolo importante, diventando “pietra angolare”, elemento di equilibrio nella costruzione di un’alleanza tra forze politiche che, nella percezione dell’elettorato, al momento non sembra vissuta negativamente: non è vista infatti come un’alleanza “innaturale” ma anzi sembra valutata coerente con uno spirito progressista che in varia forma rappresenta. Però gli stessi elettori, reali e potenziali, accendono un “alert”: la lista unica della sinistra ha un livello di attrazione molto variabile in relazione al leader. Il range varia dal 4 al 16%, dall’inferno al
Senza nessuna maggioranza Con i dati attuali M5S sarebbe primo partito con il 30%, seguito da Pd (26%), Forza Italia (12%), Lega Nord (12%) e Fdi (5%). Non basterebbe quindi sommare solo due gruppi parlamentari (a meno che non siano M5S e Pd) per ottenere una maggioranza in Parlamento. M5S, infatti, con 216 voti, abbisognerebbe di altri 100 eletti per avere i numeri in aula. Al Pd ne mancherebbero 121. A Forza Italia 225. Alla Lega 228. Mdp e Si sarebbero sotto soglia
Lo scrittore e il professore Sono Roberto Saviano e Stefano Rodotà a guidare le preferenze di chi vorrebbe votare una lista unica di sinistra. Più tiepidi i possibili elettori nei confronti di Vendola, Speranza, Fratoianni e Civati. Tra i “politici di professione” la sorpresa è Pier Luigi Bersani, terzo sul podio con il 42% dei consensi
Il referendum “fondativo” L’88% di chi approva una lista unica di sinistra ha votato “No” al referendum del 4 dicembre scorso. Alle scorse Politiche ha per lo più votato Pd (45%), M5S (32%) e Sel (18%), e non vedrebbe male, in prima istanza, una alleanza con i grillini (62%). Più tiepidi verso il Pd (25%)
A chi sottrae preferenze – Una candidatura di Saviano porterebbe M5S al 24% e il Pd al 23%. Simile situazione per Rodotà che pescherebbe sempre nel bacino di Pd e M5S, portando il primo al 25% e il secondo al 24%. Bersani, col suo 10%, prenderebbe più voti dal Pd di cui è stato segretario (lo porterebbe al 23%) e meno a M5S (lasciandolo al 29%)
D’Alema sulla soglia – Una lista unica guidata da Massimo D’Alema sarebbe sopra il 5% e porterebbe a Montecitorio 37 eletti. Non raggiungerebbero invece il 5% Vendola, Speranza, Fratoianni e Civati. Camusso, Pisapia, Landini e Boldrini eleggerebbero 44 deputati. Bersani 71
Quota 316 troppo lontana – Anche il miglior successo della lista unica (il 16% di Saviano), non la porterebbe al governo con una singola alleanza (con Pd o M5S). Le due liste si fermerebbero a 269 eletti. Un patto a tre li porterebbe a una maggioranza di 429, ma Pd e M5S arriverebbero già assieme a 320
Vecchie e nuove parole d’ordine – Il “lavoro” è da sempre la parola caratterizzante della sinistra storica. Ma l’elettore della sinistra unita vorrebbe anche onestà e lotta ai privilegi, maggior attenzione all’ambiente e all’immigrazione e anche una commissione d’inchiesta sulle banche .
il manifesto 8.6.17
Un network intellettuale per indagare il mondo
Sinistra. Il nuovo numero della rivista «Critica marxista»
di Alessandro Santagata
È uscito il primo numero del 2017 di Critica Marxista. Nuova veste grafica e nuovo editore (Ediesse), ma identici gli intenti che avevano spinto nel 1992 un variegato gruppo di intellettuali e militanti a rilevare la testata, dopo che il suo vecchio proprietario, il Pci divenuto Pds, ne aveva deciso la chiusura. Si tratta di una rivista storica della sinistra italiana. Fondata nel 1963 come bimestrale teorico del Partito comunista italiano, ha avuto come direttori intellettuali e politici di rilievo: da Luigi Longo e Alessandro Natta a Emilio Sereni e Luciano Gruppi. Sotto l’attuale direzione di Aldo Tortorella e Aldo Zanardo, e con Guido Liguori come redattore capo, si propone di offrire uno spazio di analisi «per ripensare la sinistra», ospitando studi sulla realtà politica e sociale contemporanea e saggi teorici o di ricostruzione storiografica.
L’EDITORIALE a firma di Tortorella ha il compito di calare queste riflessioni nell’attualità della fase, oggi segnata da un movimento di ricomposizione a sinistra più volte caldeggiato dalle pagine della rivista. Se lo sguardo sembra rivolto, in prima istanza, ai fuoriusciti dal Pd renziano e a Sinistra italiana, la varietà dei contributi testimonia l’attenzione alle anime della «sinistra diffusa». La Cgil, per esempio, a cui si collegano gli articoli dedicati alle tematiche del lavoro: si veda Piergiovanni Alleva sulla proposta di legge regionale de «L’Altra Emilia Romagna» sulla riduzione dell’orario di lavoro tramite i contratti collettivi aziendali di solidarietà «espansiva». Ma anche il variegato movimento femminista, al centro delle riflessioni di Serena Fiorletta sugli esiti della manifestazione romana del 26 novembre, le assemblee «Non una di meno» e lo sciopero dell’8 marzo, e di Giordana Masotto sulla soggettività femminile come elemento di trasformazione della cultura e della politica.
Il focus del numero è dedicato all’analisi dell’elezione di Trump e alle caratteristiche che sta assumendo «il declino della democrazia in America», come lo definisce Joseph Buttigieg. Tra gli elementi principali, lo studioso analizza il «paradigma del declino americano», cioè la convinzione diffusa e alimentata dai teorici del «trumpismo» che gli Stati Uniti stiano attraversando una fase di crisi epocale.
POCO IMPORTA se i gli indicatori economici dicono tutt’altro, soprattutto per una middle class che ha pagato il prezzo più alto della de-industrializzazione e che si è rivelata decisiva negli Stati chiave. «Lungi dall’essere dimenticati – scrive Buttigieg – i sostenitori di Trump sono tra i militanti più visibili, aggressivi e di maggior successo dal punto di vista politico della storia degli Stati Uniti». L’analisi di Bruno Cartosio sembra confermare queste tendenze e il giudizio di fondo sulla crisi di una democrazia in cui il presidente è il primo produttore di fake news in una società sempre meno istruita e più chiusa.
L’AUTORE SPIEGA che se è vero che «non esiste una correlazione diretta tra le diseguaglianze sociali e i comportamenti elettorali, senza l’economia neoliberista un candidato come Trump e un simile esito elettorale non si sarebbero dati». La natura dell’attuale sistema di produzione rimane quindi al centro di questo network di intellettuali che ha raccolto la sfida storica del Novecento e della sua sconfitta.
il manifesto 8.6.17
Venezuela, ripartire da sinistra
America Latina. « Il nodo sta nella ricostituzione di un progetto di sinistra, non nel suo adattamento». Il punto sulla crisi del governo Maduro, nell’ultimo articolo pubblicato
di François Houtart
Dopo una visita a Caracas, mi fermo per fare alcune riflessioni sulla situazione all’interno del Paese.
L’idea di una revisione costituzionale su basi più popolari è buona, in linea di principio, ma implica l’avvio di un processo di media o lunga durata, laddove i problemi attuali sono da affrontare nell’immediato. Prima della conclusione del processo, si corre il rischio che le persone siano sopraffatte delle difficoltà della vita quotidiana. Queste ultime sono determinate innanzitutto dal boicottaggio e dalla speculazione del capitale locale e dell’imperialismo, ma anche dai problemi tipici delle fasi in cui scarseggiano i beni di prima necessità: mercato nero, accaparramento delle merci, modifiche nell’assetto produttivo in funzione della domanda e dell’offerta, degli intermediari, ma anche della corruzione dei funzionari statali.
NONOSTANTE TUTTO, si corre il rischio di un approccio “feticista” alla legge (in questo caso la Costituzione) che porta a confondere il testo giuridico con la realtà. È una tendenza classica di tutto il mondo latino, dall’epoca della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo della Rivoluzione francese. Karl Marx ne parlava già nel suo saggio Sulla questione ebraica. Inoltre, non sarà facile definire su quali basi si designeranno gli elettori e, comunque, ci vorrà molto tempo. Infine, c’è il rischio che l’opposizione non partecipi, lasciando il processo esclusivamente nelle mani dei suoi sostenitori, per non parlare di una possibile astensione della maggioranza della popolazione.
Oggi sta assumendo rilevanza un gruppo che, pur contrario all’opposizione, critica alcune politiche del governo. Nel tentativo di offrire proposte concrete, in questo clima di scontri estremi, rischia tuttavia di essere additato come pericoloso o, nella migliore delle ipotesi, come utopista invece di essere ritenuto capace di proporre alternative degne di considerazione.
È chiaro che la caduta del governo di Maduro avrebbe come risultato l’ascesa al potere di un Macri o di un Temer, ossia di un regime anti-popolare. Per questo motivo bisogna difendere la sua legittimità fino alla fine del mandato. È importante ricordare qui che il ricorso alla violenza da parte dell’opposizione ha assunto proporzioni inedite, con la distruzione di edifici pubblici (è il caso, tra gli altri, di un ospedale e un deposito dell’aviazione civile), l’immolazione di un ragazzo, l’uso di escrementi umani, di fronte alle forze dell’ordine che hanno ricevuto l’ordine di non utilizzare armi da fuoco.
I MEZZI DI COMUNICAZIONE, per la loro stessa natura, amplificano l’importanza delle azioni violente della destra, offrendo l’impressione di un caos generalizzato, mentre la vita quotidiana procede nonostante le difficoltà. I servizi pubblici, come i trasporti, la raccolta dell’immondizia, la pulizia dei luoghi pubblici, continuano a funzionare.
Certo, la scarsità di materiali in un settore come la sanità può avere conseguenze drammatiche e, sul medio periodo, anche la mancanza di pezzi di ricambio può ripercuotersi sulla disponibilità di veicoli che possano circolare. Il 21 maggio, l’opposizione ha indetto uno sciopero generale ma la città di Caracas non è stata paralizzata e la vita ha continuato il suo corso.
Eppure, per difendere la propria legittimità, il governo deve evitare errori che possano metterlo in discussione e alimentare le campagne di denigrazione scatenate dalla maggioranza dei media nazionali e internazionali. Nicolas Maduro dovrebbe adottare una posizione da capo di Stato più che da militante di base, ricordandosi di parlare a tutta la nazione, a tutto il continente latinoamericano, ma anche al resto del mondo, e non solo ai membri del proprio partito.
IN FIN DEI CONTI, è soprattutto e in primo luogo una questione di conflitto di classe. Le manifestazioni dell’opposizione lo provano chiaramente, per il tipo di quartiere in cui vengono organizzate e il pubblico che vi partecipa. Una parte della classe media urbana, il cui potere d’acquisto è stato duramente colpito dal crollo dei profitti del settore petrolifero (oggi un importante pezzo di ricambio di un’automobile costa quanto cinque automobili quattro anni fa), collabora attivamente con le classi abbienti che vogliono recuperare il potere politico. Queste ultime si affiancano a gruppi violenti (le cui vittime sono prevalentemente chaviste). Esiste anche un forte scontento nelle classi subalterne della base del processo bolivariano, riguardo il deterioramento delle «missioni» per la mancanza di finanziamenti e la corruzione dilagante (nei settori della sanità, dell’educazione, nei mercati rionali, che ancora esistono seppur svuotati della propria essenza).
L’AUMENTO DEL TASSO di mortalità materna e infantile è il risultato di diversi fattori: la logica capitalistica del monopolio mondiale che controlla il prezzo dei prodotti di prima necessità, il boicottaggio interno da parte di quanti controllano il potere economico e la grande distribuzione, e infine la corruzione interna. La destituzione del ministro della Sanità, che ha reso pubbliche le cifre di questo preoccupante fenomeno, non è stata probabilmente la risposta più adeguata.
Un’importante sfida è rappresentata dalla capacità di tenere insieme una prospettiva sul lungo periodo e una sul breve periodo. Secondo un testo di Álvaro García Linera, una rivoluzione che non assicuri (qualunque sia la ragione) le basi materiali per la vita della popolazione, non ha futuro e i suoi avversari lo sanno bene.
Mentre la Conferenza episcopale ha scelto il proprio schieramento (quello dell’opposizione) ed elaborato testi di notevole povertà intellettuale, il Papa non ha esitato a criticare l’opposizione per la mancanza di volontà di dialogo.
IN VENEZUELA, come in tutti i paesi post-neoliberisti dell’America latina, il nodo sta nella ricostituzione di un progetto di sinistra, non nel suo adattamento. È l’unico modo per rimanere fedeli al postulato di base sull’emancipazione del popolo e sulla riorganizzazione della società che ha generato tante speranze e ammirazione nel mondo intero e che, in Venezuela, continua ad avere buone basi nelle iniziative comunali. Questa è anche la strada per emanciparsi progressivamente dai profitti petroliferi e minerari, frutto di una produzione altamente dannosa per l’ambiente e in totale contraddizione con un progetto post-capitalista.
(fonte in spagnolo: ALAI