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Repubblica 11.6.17
Biotestamento
Bellocchio, il regista che narrò Eluana “Dire stop al dolore è una libertà giusta”
“Bella addormentata” portò nei cinema i 17 anni di coma della ragazza simbolo del dilemma sulla fine della vita
di Arianna Finos
Il 31 maggio “Repubblica” ha avviato un’iniziativa perchè arrivino in porto, prima che il Parlamento venga sciolto, sei leggi molte delle quali riconoscono nuovi diritti alle persone - che hanno già ottenuto il sì di una delle Camere. Hanno espresso il loro sostegno, tra gli altri, i presidenti della Camera Laura Boldrini e del Senato Pietro Grasso. Una di queste leggi, la riforma del processo penale, sta per affrontare un passaggio decisivo: martedì alla Camera è previsto l’esame degli emendamenti e il governo ha intenzione di porre la fiducia per accelerare l’approvazione.
La prima delle sei “leggi da non tradire” potrebbe quindi arrivare al traguardo.
ROMA.
«Mi sembra che molti dei punti della legge sul biotestamento siano condivisibili», dice Marco Bellocchio, che nel 2012 ha girato “Bella addormentata”, film ispirato al caso di Eluana Englaro, 17 anni in coma irreversibile dopo un incidente. «Non sarà una legge perfetta, come per molti versi non lo è stata quella sulle unioni civili, ma è tuttavia qualcosa più di prima. Come diceva quel poeta, “oggi è meglio di ieri, se non la felicità”. L’età mi rende forse moderato e pragmatico. Fare le cose è comunque un passo avanti».
Quali sono i punti importanti e condivisibili?
«Il principio della libertà di decidere riconosciuta al paziente e non al medico, che possono pensarla in modo totalmente diverso. Sia in un senso che nell’altro, paradossalmente. E anche il fatto che la persona sana, era questo il principio di Peppino Englaro riferito alla figlia Eluana, possa decidere per il futuro. Ecco, questo è un punto che spero sia accettato da tutti».
Perché fece “Bella addormentata”?
«Fui spinto dalla sincera ammirazione per l’eroismo discreto di Englaro, proprio perché io non credo di essere così coraggioso. Non sono esperto di modalità tecniche, quello che posso dire è che trovo giusto che una persona possa dire “signori, se dovessi trovarmi in quelle condizioni, in coma irreversibile per diciassette anni, vorrei poter chiudere prima”. Ci sono stati papi (Wojtyla-ndr) che sono diventati santi che hanno chiesto prima di tutto di non continuare più con terapie che ormai erano del tutto inefficaci. Lo stesso cardinal Martini diceva di non voler morire in modo atroce, perché a causa del suo male doveva finire con un soffocamento. In questa nostra società io credo che l’individuo possa decidere, sia libero di decidere soprattutto in condizioni …e qui bisogna discutere quali sono queste condizioni».
Quali sono?
«Credo che libertà non è intesa nel senso “io sono libero di buttarmi dalla finestra”, quello è un altro discorso. C’è una grande differenza di situazioni. Quella del grande intellettuale profondamente depresso che pur non avendo malattie incurabili decide di andare in Svizzera, come è capitato a Lucio Magri che ha scelto il suicidio assistito in piena coscienza. E poi c’è la situazione molto diversa di un malato terminale che chiede di finire dignitosamente la propria vita. Se un giovane mi dicesse “voglio ammazzarmi” io cercherei in tutti i modi di impedirglielo».
C’è chi contesta alla legge il fatto che trasforma il medico in mero esecutore.
«Qui si entra in un discorso ideologico, di principio. Come gli obiettori di coscienza per l’aborto. La coscienza va rispettata ma io metterei al primo posto il soggetto, che non è tanto il medico. E che quindi non può diventare un comandante, qualcuno che decide per un altro. Ovviamente entrano in campo le diverse posizioni, quella laica e quella dei credenti ».
Repubblica 11.6.17
L’aiuto di Francesco
di Alberto Melloni
I giudizi storico-politici sul rapporto fra il papato e l’Italia sono i più diversi. Ma non c’è chi non veda che ci sono stati tre giorni della nostra storia nei quali il papato ha “salvato” l’Italia. Il giorno della disfatta di Caporetto, il giorno dell’armistizio dell’8 settembre, il giorno del funerale di Aldo Moro questo paese fragile ha rischiato la liquefazione. E il papato — che nel 1917 avrebbe avuto diritto a vendicarsi del regime liberale, che nel 1943 avrebbe potuto mettersi al sicuro, e che nel 1978 avrebbe potuto sfilarsi dall’inizio della implosione democristiana — prese il Paese in mano, lo unì anziché dividerlo.
La gravità della crisi euro-mediterranea di oggi e le vulnerabilità congiunturali dell’Italia fanno pensare che questo compito del papa “in stato di eccezione” possa tornare per la quarta volta. E la posizione fin qui tenuta da papa Bergoglio non dava certezze sulla sua disponibilità a farsi carico di un Paese la cui stabilità è stata spesse volte imposta producendo una mirata instabilità o giudiziaria o finanziaria o terroristica. Anzi, i segnali dati da Francesco erano ambigui: la distanza pubblica da tutti i politici e la confidenza privata con pochi di loro finiva per far torto alle figure istituzionali.
Per questo due passaggi del discorso di papa Francesco al Quirinale sono molto importanti: uno riguarda la laicità, l’altro le istituzioni democratiche. Sono un po’ nascosti perché la visita del papa al Quirinale è un atto dovuto che per definizione va “bene”. È dovuto per ragioni storiche (il Quirinale è una casa sua, con tanto di quella Manica Lunga che, come Santa Marta, venne eretto per un conclave che non vi si tenne mai). E deve andare bene: perché guai se una astuzia o una negligenza anche lieve incrinasse quella “laicità” che ieri papa Francesco ha lodato con una variante tutta sua.
Benedetto XVI l’aveva classificata come una delle “laicità positive”: con un titolo non certo sgradevole, ma che lasciava intendere un diritto unilaterale di giudicarla che ricordava troppo “la sana libertà” di Pio XII e “l’antisemitismo buono” degli anni Trenta. Chi ha limato il discorso di Francesco ha preferito ricorrere a qualificazioni relazionali (laicità “non ostile”, “non conflittuale”, “amichevole”, “collaborativa”) che indicano un diverso atteggiamento: non un giudizio unilaterale ma un impegno reciproco. Il che dice che non è sul piano delle formalità sorridenti (che devono spesso coprire improvvisazioni e dispetti), ma sul piano della libertà che si deve giocare.
Ma Francesco — che ha antenne e collaboratori capaci di cogliere le manovre seduttive e i falsi allarmi che precedono le stagioni elettorali — ha preso posizione su un tema politicamente sensibilissimo. Era infatti evidente che le sue scelte consentivano di usare la sua allergia alle cerimonie del potere pubblico come un avallo pontificio all’antipolitica: eventualità contro la quale era sceso in campo pochi giorni fa il Segretario di Stato in persona. Un impegno così alto da far capire che la chiesa non voleva trovarsi, come capitò ai tempi di Gianfranco Miglio e la Lega, con qualche professore della Cattolica o qualche laico di spicco arruolato dalle parlamentarie. Ieri al Quirinale il papa in persona ha indicato un compito e ha detto di attendersi «da tutti coloro che hanno responsabilità in campo politico e amministrativo un paziente e umile lavoro per il bene comune, che cerchi di rafforzare i legami tra la gente e le istituzioni, perché da questa tenace tessitura e da questo impegno corale si sviluppa la vera democrazia e si avviano a soluzione questioni che, a causa della loro complessità, nessuno può pretendere di risolvere da solo».
È endorsement netto alla linea del Capo dello Stato davanti al partito dello scioglimento ad ogni costo delle camere. Ma è anche una definizione della politica e delle “istituzioni”: costate un prezzo pagato caro e che la ferocia coltivata nelle serre del qualunquismo espone a rischi che non si possono neppure immaginare.
La Stampa 11.6.17
Il Papa da Mattarella: impegno per migranti, lavoro e terrorismo
Francesco in visita oggi al Quirinale; l’abbraccio con 200 bambini delle zone del terremoto. «Servono iniziative contro la disoccupazione non speculazioni. Politiche fattive per la famiglia». Per i profughi «indispensabile una cooperazione internazionale»
di Salvatore Cernuzio
Roma Disoccupazione, denatalità, migranti, terrorismo, terremoto. È un’Italia appesantita da problematiche nazionali e internazionali quella che si presenta agli occhi di Papa Francesco, che tuttavia guarda al Paese con grande «speranza» come afferma nel corposo discorso rivolto al presidente Sergio Mattarella durante la visita di oggi al Quirinale, la seconda del suo pontificato. Una visita di “restituzione”, come recita il protocollo, a quella che a sua volta fece il neo presidente eletto in Vaticano il 18 giugno 2015, e che si inserisce nel filo di 86 anni di storia in cui i Pontefici tornarono in quella che un tempo fu la loro residenza.
Francesco vi arriva pochi minuti prima delle 11.00 a bordo di una Ford Focus blu, dopo aver percorso le vie del centro della Capitale sgombre come mai durante la settimana. La prima tappa è nel Cortile d’Onore dove fanno da cornice circa 200 bambini provenienti dalle scuole delle zone del terremoto che gridano in sottofondo: «Francesco, Francesco» e agitano bandiere tricolore dell’Italia e bianco-gialle della Città del Vaticano.
Mattarella va incontro al Vescovo di Roma e lo accoglie con poche, semplici, parole: «Grazie, Santità». Sono lontani i tempi delle solide amicizie tra un Papa e un presidente, come fu ad esempio per Ciampi e Wojtyla che si parlavano con uno sguardo, ma tra l’argentino Bergoglio e il cattolico Mattarella c’è buona sintonia. I due, dopo gli Onori militari e l’esecuzione degli inni, sotto lo sguardo dei Corazzieri a cavallo e del plotone dei Lancieri di Montebello, si recano nello Studio della Vetrata per il colloquio privato. Il presidente, prima, fa “gli onori di casa” mostrando al Pontefice alcune sale del Palazzo che sorge sul colle più alto di Roma. Gesti informali tra due leader che amano poco le etichette. Basti ricordare la visita di Mattarella del 2015, appunto, che si presentò nel Palazzo apostolico con i cinque nipotini, in anticipo e senza frac.
Il colloquio dura 20 minuti. Segue lo scambio dei doni (da parte del Papa, un’icona russa dei Santi Pietro e Paolo) nella Sala degli Arazzi, la presentazione delle delegazioni e una breve sosta nella Cappella dell’Annunziata, uno dei gioielli del Quirinale impreziosita dalla “Madonna del Cucito” di Guido Reni, restaurata pochi anni fa. Il Papa e il presidente si fermano per pochi istanti in preghiera e, insieme, si fanno il segno della croce. Nel Salone dei Corazzieri, pronunciano poi i loro discorsi.
Mattarella parla della «elevata responsabilità» di «chi è chiamato a pubblici impegni», delle politiche di crescita per i giovani, del dramma del lavoro, dell’impegno comune per i migranti e per l’ambiente alla luce della Laudato si’. «L’occupazione, e la dignità - che ad essa è intrinsecamente legata - deve costituire il centro dell’esercizio delle responsabilità di istituzioni e forze sociali, così da prevenire e curare fenomeni di emarginazione, povertà, solitudine e degrado», afferma.
Papa Francesco risponde parlando di «speranza» radicata «nella memoria grata verso i padri e i nonni» che - spiega - «sono anche i miei, perché le mie radici sono in questo Paese», e nella memoria grata «verso le generazioni che ci hanno preceduto e che, con l’aiuto di Dio, hanno portato avanti i valori fondamentali: la dignità della persona, la famiglia, il lavoro…».
Spostando l’attenzione sull’attualità, il Pontefice non manca di denunciare le emergenze che gravano sulla Penisola e sul Vecchio Continente: «Viviamo un tempo nel quale l’Italia e l’insieme dell’Europa sono chiamate a confrontarsi con problemi e rischi di varia natura, quali il terrorismo internazionale, che trova alimento nel fondamentalismo; il fenomeno migratorio, accresciuto dalle guerre e dai gravi e persistenti squilibri sociali ed economici di molte aree del mondo; e la difficoltà delle giovani generazioni di accedere a un lavoro stabile e dignitoso, ciò che contribuisce ad aumentare la sfiducia nel futuro e non favorisce la nascita di nuove famiglie e di figli».
A consolare il Papa è tuttavia il fatto che «l’Italia, mediante l’operosa generosità dei suoi cittadini e l’impegno delle sue istituzioni e facendo appello alle sue abbondanti risorse spirituali, si adopera per trasformare queste sfide in occasioni di crescita e in nuove opportunità». Ne sono prova «l’accoglienza ai numerosi profughi che sbarcano sulle sue coste, l’opera di primo soccorso garantita dalle sue navi nel Mediterraneo e l’impegno di schiere di volontari, tra i quali si distinguono associazioni ed enti ecclesiali e la capillare rete delle parrocchie». Ne è prova anche «l’oneroso impegno dell’Italia in ambito internazionale a favore della pace», come i «tanti esempi di proficua collaborazione tra la comunità ecclesiale e quella civile» per assistere le popolazioni del Centro Italia colpite dal terremoto.
Proprio questo sforzo, insieme a quello per affrontare la crisi migratoria, sono, secondo il Papa, «espressione di sentimenti e di atteggiamenti che trovano la loro fonte più genuina nella fede cristiana, che ha plasmato il carattere degli italiani». In particolare, per quanto riguarda il complesso fenomeno migratorio, «è chiaro – afferma Papa Francesco - che poche nazioni non possono farsene carico interamente». Per tale ragione, «è indispensabile e urgente che si sviluppi un’ampia e incisiva cooperazione internazionale».
Altrettanto urgente è la questione del lavoro, che interpella in primis pubblici poteri, imprenditori e sindacati. Bergoglio ricorda la sua recente visita all’Ilva di Genova dove ha avuto modo di toccare, «non teoricamente, ma a diretto contatto con la gente», la piaga della disoccupazione. Ribadisce quindi l’appello «a generare e accompagnare processi che diano luogo a nuove opportunità di lavoro dignitoso»: «Il disagio giovanile, le sacche di povertà, la difficoltà che i giovani incontrano nel formare una famiglia e nel mettere al mondo figli trovano un denominatore comune nell’insufficienza dell’offerta di lavoro, a volte talmente precario o poco retribuito da non consentire una seria progettualità», dice.
Per il Papa è necessaria perciò «un’alleanza di sinergie e di iniziative» perché «le risorse finanziarie siano poste al servizio di questo obiettivo di grande respiro e valore sociale» e « non siano invece distolte e disperse in investimenti prevalentemente speculativ i, che denotano la mancanza di un disegno di lungo periodo, l’insufficiente considerazione del vero ruolo di chi fa impresa e, in ultima analisi, debolezza e istinto di fuga davanti alle sfide del nostro tempo».
«Il lavoro stabile» e «una politica fattivamente impegnata in favore della famiglia» sono dunque «le condizioni dell’autentico sviluppo sostenibile e di una crescita armoniosa della società». Due «pilastri» li definisce Francesco, e aggiunge: «Le nuove generazioni hanno il diritto di poter camminare verso mete importanti e alla portata del loro destino», in modo da poter «costruire un avvenire degno dell’uomo, nelle relazioni, nel lavoro, nella famiglia e nella società». Per raggiungere tale obiettivo bisogna «rafforzare i legami tra la gente e le istituzioni», perché da questa tenace tessitura «si sviluppa la vera democrazia».
Nel suo discorso il Papa fa cenno anche al ruolo della Chiesa in Italia, «realtà vitale, fortemente unita all’anima del Paese», e alla collaborazione con lo Stato come stabilito dal Concordato del 1984 che ha promosso «una peculiare forma di laicità («laicità positiva» la definì Benedetto XVI), non ostile e conflittuale, ma amichevole e collaborativa, seppure nella rigorosa distinzione delle competenze proprie delle istituzioni politiche da un lato e di quelle religiose dall’altro». «La missione del Successore di Pietro non sarebbe facilitata senza la cordiale e generosa disponibilità e collaborazione dello Stato italiano», chiosa Bergoglio. Lo dimostra la buona riuscita delle celebrazioni del Giubileo «nonostante l’insicurezza dei tempi che stiamo vivendo».
«Signor Presidente», conclude il Papa, «l’Italia troverà nella Chiesa sempre il miglior alleato per la crescita della società, per la sua concordia e per il suo vero progresso. Che Dio benedica e protegga l’Italia!».
Prima di congedarsi, Francesco si sposta nei Giardini del Quirinale per abbracciare insieme a Mattarella i piccoli terremotati di Marche, Lazio, Umbria e Abruzzo, accompagnati dal ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli. Un tripudio di selfie, regali (tra questi, le lenticchie di Castelluccio), baci e strette di mano da parte di ragazzini feriti da una tragedia che gli ha portato via casa, parenti e amici, ma che sono ancora capaci di far festa, animati da quella «speranza» che contraddistingue gli italiani come diceva il Papa. Il quale, a sorpresa, rivolge loro alcune parole a braccio: «Grazie tante di essere qui, grazie per il vostro canto e per il vostro coraggio. Andate avanti con coraggio, sempre su, sempre su. È un’arte il salire sempre... È vero che nella vita ci sono difficoltà , avete sofferto tanto con questo terremoto, ci sono cadute, ma mi viene in mente quella bella canzone degli alpini: “Nell’arte di salire il successo non è non cadere ma non rimanere caduti”. Sempre su!».
Al presidente Mattarella, prima di salire in macchina e far ritorno in Vaticano, il Pontefice invece assicura: «Preghi per me, io lo farò per lei». E il capo dello Stato risponde: «Sono commosso».
Ridere ridere ridere!
Il Fatto 11.6.17
La dottrina della Trinità si può spiegare con una parola: amore
di Mons. Marcello Semerar
Otto giorni dopo Pentecoste, la Chiesa cattolica celebra la festa della Santissima Trinità. Per la Chiesa, in realtà, ogni liturgia è sempre lode al Padre mediante il suo Figlio Gesù nella comunione dello Spirito e pure invocazione di ogni dono dalla stessa Trinità. Tutto è sinteticamente evocato da quanto si legge nella II lettera di san Paolo ai Corinti e costituisce oramai il saluto abituale con il quale si apre ogni celebrazione liturgica: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo”. La sequenza di grazia/amore/comunione non è ispirata da una teoria astratta, bensì dalla storia evocata da quel che leggiamo nel Vangelo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto… perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”.
Ecco, questo evento dell’avere “donato” il proprio unico Figlio e, come si legge subito dopo, di avere “mandato” il Figlio nel mondo, insieme con quanto similmente è detto dello Spirito (ad esempio, nella lettera ai Galati 4,6: “Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio”) … proprio questo è il punto di partenza, la categoria fondamentale della dottrina cristiana della Trinità. Convinzione che nasce da un’esperienza, che è specificità assoluta della fede cristiana così da offrire la possibilità di distinguere ciò che è cristiano, da ciò che non lo è. La confessione trinitaria è la forma cristiana del monoteismo. A chi domandasse dove sia il tema unificante le tre letture bibliche indicate dal lezionario per la Messa di questa Domenica, dovremmo rispondere che sta nella parola amore! Consideriamo l’autoidentificazione di Dio a Mosè: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Esodo 34,6). Paolo scrive: “Dio dell’amore”. Abbiamo qui una chiave per intuire qualcosa del mistero della Trinità: nell’amore tutto è unificato. Annotava Pascal: “La moltitudine che non si riduce all’unità è confusione; l’unità che non dipende dalla moltitudine è tirannia” (Pens. 871). In Dio è l’amore a mediare l’unità e la molteplicità. Nella tradizione dell’Oriente cristiano l’icona principe di questo mistero è quella di Rublev, al punto che Pavel Florenski ha potuto esclamare: “Esiste la Trinità di Rublev, dunque Dio esiste”! L’icona evoca la visita ad Abramo di tre pellegrini narrata nel libro della Genesi (cap. 18). Il mistero che da lì traluce è una comunione di amore. In tale prospettiva, alla domanda ‘chi è il cristiano?’ la risposta non potrà che essere la seguente: uno che ha creduto all’amore. Esattamente in questo senso nella sua prima lettera enciclica Benedetto XVI ha sottolineato che all’inizio dell’essere cristiano non c’è né una grande idea, né una decisione etica, ma l’incontro con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e una direzione decisiva.
Papa Ratzinger citava poi il passo del Vangelo: “Dio ha tanto amato il mondo…” e lo commentava così: “Con la centralità dell’amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d’Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell’amore di Dio con quello dell’amore del prossimo contenuto nel Levitico. Siccome Dio ci ha amati per primo, l’amore adesso non è più solo un ‘comandamento’, ma la risposta al dono dell’amore col quale Dio ci viene incontro”. Importante è pure come egli conclude: “In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto” (Deus caritas est n. 1).
di Mons. Marcello Semeraro Vescovo di Albano
Il Fatto 11.6.17
Oggi in 10 milioni alle urne, ma i partiti se ne infischiano
I seggi in 1.004 Comuni aperti dalle 7 alle 23: è l’ultimo test prima delle Politiche
di Luciano Cerasa
Nessuno ne parla volentieri per paura di intestarsi qualche rovescio elettorale proprio nell’ultimo appuntamento con le urne prima della fine imminente, prematura o naturale, della legislatura. Ma domani andranno a votare 9 milioni di italiani per rinnovare sindaci e consigli comunali in 25 capoluoghi di Provincia e 4 di Regione: Palermo, Genova, Catanzaro e L’Aquila. Tutti i partiti guardano con preoccupazione a questo test elettorale su cui, per motivi locali che però si intrecciano di frequente con le turbolenze nazionali soprattutto nei grandi centri, incombe una grande incertezza. Quella scattata nel 2012 all’ultima tornata elettorale è una fotografia assai sbiadita e ad oggi molte sono le cose accadute sotto il cielo della politica. A cominciare dalla composizione delle alleanze e delle stesse formazioni politiche, che sono state sorprese da queste Amministrative nel pieno di un radicale e sofferto processo di ricollocazione. Dei 1.004 Comuni al voto, 169 sono amministrati dal centrosinistra, 82 dal centrodestra, 13 dalla sinistra, 6 dal centro e 4 dai Cinque stelle che in diverse realtà, come a Parma e a Genova, si sono spaccati a loro volta sulle candidature. Altre 627 amministrazioni sono rette in gran parte da sindaci uscenti sostenuti da liste civiche. I restanti 103 Comuni sono in amministrazione straordinaria dopo lo scioglimento anticipato. Il Comune con il più alto tasso di incertezza, secondo gli ultimi sondaggi, è Genova. Situazione più chiara e esito quasi scontato per i sondaggisti a Palermo. Il quattro volte sindaco Leoluca Orlando è dato per vincente con qualsiasi sfidante al ballottaggio. A Catanzaro corre da solo Nicola Fiorita, vicino all’associazione Libera e al mondo dell’Antimafia. Il Pd schiera il consigliere regionale Vincenzo Antonio Ciconte, indagato per peculato. A L’Aquila il centrodestra medita il colpaccio con Pierluigi Biondi. Il candidato dem Americo Di Benedetto è al centro delle polemiche perché, da presidente della Gran Sasso Acqua (la stazione appaltante più imponente della ricostruzione), avrebbe utilizzato la sua posizione per accrescere il consenso politico.
Repubblica 11.6.17
La sinistra europea alla ricerca di radici
di Marc Lazar
IN GRAN Bretagna il partito laburista, che pure ha guadagnato ben 32 seggi, è uscito sconfitto dalle elezioni, per la terza volta dal 2010. In Francia il partito socialista attraversa una crisi devastante.
IL suo candidato alle presidenziali, Benoît Hamon, ha raccolto appena il 6% dei voti, e i pronostici per le legislative dell’11-18 giugno sono pessimi. In Grecia nel 2015 il Pasok è crollato a meno del 5%. Lo scorso anno in Austria il candidato socialista alle presidenziali non è riuscito a qualificarsi per il secondo turno, e quest’anno in Olanda i socialisti hanno registrato un risultato catastrofico. Quanto alla Spagna, il Psoe, sconfitto alle elezioni del 2016, è uscito profondamente diviso dalle primarie organizzate per designare il segretario. In Germania l’Spd coltivava la speranza di battere la cancelliera Merkel nel settembre prossimo, ma sta collezionando insuccessi nei Länder, e al momento i sondaggi preannunciano una pesante sconfitta. Tra i principali membri del Partito socialista europeo sembrano emergere, in questo panorama gravido di pericoli per la sinistra, solo il partito svedese, quello portoghese, al potere col sostegno di un’alleanza ecologista e comunista, e il Pd in Italia; ma tutti e tre sono in regresso rispetto ai precedenti risultati elettorali.
Le ragioni di questa crisi che dura ormai da quasi quarant’anni sono note. I partiti socialdemocratici si trovano ad affrontare sfide considerevoli (che chiamano in causa, seppure in misura minore, anche i partiti di governo di destra): la globalizzazione, l’europeizzazione, i cambiamenti della società, le trasformazioni della democrazia, e non da ultimo l’isterilimento delle grandi ideologie. I loro punti di forza — le politiche keynesiane di welfare in ambito nazionale, i rapporti più o meno stretti coi sindacati, una solida organizzazione, una dottrina coerente — oggi sono venuti meno. I partiti della sinistra riformista hanno subito un declino elettorale, la perdita di molti dei loro iscritti, l’erosione del sostegno da parte delle categorie popolari e dei ceti medi sempre più vulnerabili, il declino dell’influenza culturale che esercitavano, la fine della loro egemonia in questo campo. Anche se ciò malgrado sono riusciti a volte a vincere le elezioni, la tendenza generale era quella della destabilizzazione.
Negli anni Novanta Tony Blair e Gerhard Schröder tentarono di uscire da questo vicolo cieco attraverso quella che è stata chiamata la “terza via” tra liberismo e socialdemocrazia classica. Si trattava di prendere atto delle trasformazioni del capitalismo, di affermare che la globalizzazione, pur generando maggiori disuguaglianze, offriva al tempo stesso nuove opportunità agli individui: di riconciliarsi in parte con liberalismo e liberismo, di promuovere le pari opportunità attraverso la scuola e la formazione, in via prioritaria per i meno abbienti, riconoscendo certo i loro diritti ma anche i doveri; di riconsiderare il ruolo dello Stato, di rivolgersi alle classi medie in ascesa proteggendo al tempo stesso le fasce popolari, ad esempio dalla delinquenza. I sostenitori della “terza via” ritenevano superata la frattura destra-sinistra, e preferivano parlare di antagonismo tra progressisti e conservatori. Quasi tutti i partiti socialdemocratici hanno ripreso queste idee, adattandole alle realtà dei rispettivi Paesi. Oltre ad aver sofferto dell’impegno di Tony Blair nella guerra in Iraq, la “terza via” ha messo a nudo i suoi limiti con la crisi iniziata nel 2008. Dovunque l’austerità ha provocato disoccupazione (anche se poi parzialmente riassorbita) e aggravato le disuguaglianze. L’Europa ha deluso, e continua a deludere. Le nostre società sono scosse dalla paura dell’immigrazione o dei migranti. La diffidenza verso le istituzioni, la classe politica e i partiti — a parte qualche eccezione — tende a generalizzarsi. La responsabilità di tutto questo è attribuita ai partiti socialisti, e il populismo avanza.
Si è aperto un fossato tra la sinistra riformista e quella più radicale. E questi partiti, quale che sia la strategia prescelta, non riescono a conquistare il potere. Il programma di Benoît Hamon era nettamente di sinistra, ma gli elettori gli hanno preferito Emmanuel Macron o Jean-Luc Mélenchon, il suo rivale ancora più radicale. Jeremy Corbyn si è presentato con un programma classicamente di sinistra, grazie al quale ha potuto compiere un netto progresso rispetto al 2015 imponendosi in maniera durevole alla testa del suo partito, ma non è riuscito a battere Theresa May. Pedro Sanchez ha riconquistato il Psoe attuando una svolta a sinistra e postulando un’alleanza con Podemos, ma col rischio che sia quest’ultima formazione a trarne i maggiori vantaggi. Dal canto loro, l’Spd e il Pd continuano a esplorare una politica social-liberale aggiungendo alcune misure sociali, oltre che ecologiche nel caso della Germania; ma non sembrano ottenere grandi risultati. Inoltre in Spagna, in Grecia, in Francia, in Olanda e in Belgio si sta sviluppando un processo di radicalizzazione alla sinistra dei partiti riformisti.
Non è la prima volta che la socialdemocrazia attraversa una zona di turbolenze; ma per il momento non ha trovato una terapia. Tanto più che è in atto un cambio di paradigma. Certo, la classica contrapposizione tra sinistra e destra non è del tutto scomparsa, in particolare sui problemi sociali, e nel caso italiano, sull’Europa; ma non struttura più i comportamenti, le culture e le mentalità politiche con lo stesso vigore del passato. E si intreccia con altri contrasti — tra europeisti e avversari dell’Ue, tra fautori di una società aperta o chiusa — che dividono sia i partiti di destra che quelli di sinistra. Per questi ultimi si profila l’urgenza di procedere a un bilancio delle politiche passate, di ripensare il progetto, di rinnovarsi in profondità e di ritrovare il contatto con la società. Sempre che sia ancora possibile. Altrimenti la sinistra socialdemocratica rischia di scomparire, come già è accaduto ai partiti comunisti, segnando una rottura antropologica nella storia europea.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Il Fatto 11.6.17
Compra il Corbyn che preferisci nei migliori negozi di politica
di Marco Palombi
Fino a giovedì la bambolina “Jeremy Corbyn” nel negozio della politica esisteva in una sola versione: quella di un signore di 68 anni, laburista britannico talmente vecchia maniera da apparire vintage, che proponeva a un Paese – che ha la sua moneta e non accetta vincoli esterni in materia di politica fiscale – antiche politiche di redistribuzione keynesiane. La bambolina non veniva comprata granché visto che Corbyn era pure un sostenitore della Brexit e aveva fatto una tiepida campagna pro-Ue solo costretto dal suo partito (ne seguì un vano tentativo di omicidio di Blair e l’esecrazione dei commentatori nostrani tutti). Da venerdì, però, la “Jeremy Corbyn action figure” esiste in mille versioni. Ogni consumatore può avere la sua: c’è il “Corbyn anti-Brexit” (il Corriere della Sera tanto da solo che con l’aiuto di Tajani) ; il “Corbyn argine ai populisti” (Matteo Renzi) ma pure il “Corbyn anti-Renzi” (Enrico Rossi); dal solido sapore antico è il “Corbyn e l’Ulivo” (Pier Luigi Bersani su La Stampa) e non manca un tocco psichedelico col “Corbyn Macron” (“per me sono simili”, dice lo scrittore Hanif Kureishi sempre a La Stampa). Il “Corbyn esempio per la sinistra”, poi, esiste in millanta versioni: da quella di Ken Loach (Repubblica) a quelle dei vari politici italiani che predicano la lista unica (o separata, o unica d’altro tipo) anti-Pd. Curioso che questo avvenga per uno che, seppur con un buon risultato, ha perso le elezioni: se le vinceva ci beccavamo pure il “Corbyn Berlusconi” (e, tra un agnello e un gattino, non è mica ancora detto…).
La Stampa 11.6.17
Cuperlo: “Renzi è confuso
Io e altri parlamentari Pd presto incontreremo Pisapia”
Il deputato della sinistra dem: “Alleanza anche con Bersani Sulla legge elettorale si torni a lavorare in commissione”
intervista di Andrea Carugati
Onorevole Gianni Cuperlo, ora a sinistra vi siete svegliati seguaci di Corbyn come ieri di Obama e Zapatero?
«Importare modelli è una sciocchezza. Quel voto dice che speranze e bisogni alla fine si impongono. Un leader di 70 anni senza camicia bianca ha riportato al Labour la generazione più umiliata. E’ questo che dovrebbe suggerire lucidità e una lettura di dove si vuol condurre il primo partito del centrosinistra. Purtroppo sembrano carenti entrambe».
Dopo il flop della legge elettorale simil tedesca alla Camera, ora Renzi sembra guardare nuovamente a una alleanza di centrosinistra. Lei è favorevole?
«Ho invocato il centrosinistra per anni e se ci arriviamo brindo ma non mi bendo gli occhi e dico che oggi Renzi segue una rotta confusa. Ha spinto per il voto subito anche a costo di archiviare l’identità del Pd in vista di un governo con Berlusconi. Ora apre a Pisapia dopo mesi in cui ha fatto l’opposto. Quel campo aperto, largo, civico che solo tre giorni fa pareva rimosso vorrei capire come lo si vuole rifondare».
Lo dica lei.
«Intanto con Pisapia il dialogo va fatto davvero. E con un gruppo di parlamentari Pd lo incontreremo nei prossimi giorni».
Per fare cosa?
«Il centrosinistra non è una somma di sigle o l’accordo di un ceto politico. Spetta al partito più grande gettare ponti, evitare rotture, ma poi il tema riguarda tutti. Da dove si riparte? Una carta condivisa, il migliore governo nelle città dove spero che oggi gli elettori ci diano fiducia, un movimento dal basso che riapra la questione sociale? O magari da primarie di coalizione? I cantieri aperti ci sono, le officine di Pisapia, una sinistra nel Pd che ha scommesso su una ripartenza. Io dico uniamo le forze, le risorse, perché il momento è adesso».
Sulla legge elettorale ritiene che si debba continuare a lavorare sull’ipotesi tedesca? O puntare su formule maggioritarie?
«Una classe dirigente non butta la palla fuori dal campo. Si torni in commissione e si cerchi una soluzione. I paletti ci sono, rappresentanza e governabilità recuperando la via di coalizioni da dichiarare prima del voto».
Tutto fa pensare che sia molto difficile tornare al maggioritario. E Orfini ha ribadito che col proporzionale le alleanze si fanno dopo il voto.
«Ma ci rendiamo conto del balzo logico da una cultura iper maggioritaria al proporzionale senza un correttivo? Si può rinsavire un istante e restituire valore alla ricerca di una mediazione saggia nell’interesse della democrazia e non dei singoli?».
Il nodo Mdp. Renzi pare rivolgersi esclusivamente all’ex sindaco di Milano.
«Il tema riguarda per primi noi, l’identità del Pd. La scommessa di sfondare al centro abbandonando principi e contenuti della sinistra è fallita. Il Pd è riuscito a litigare con tutti e a chiudersi in un isolamento dannoso. A questo punto non basta dire che su ius soli, tortura o fine vita andremo diritti. Dobbiamo correggere l’errore sui voucher, ridare nerbo a principi di eguaglianza, equità fiscale, investimenti per crescere. Senza questo il piano inclinato ci farà rotolare a valle e in molti non siamo disposti a farlo».
Con Bersani e gli altri è possibile per voi fare alleanze?
«Dico che si può e si deve. In questi anni a Renzi non ho risparmiato critiche ma nel Pd finora ho scelto di rimanere per sostenere le mie ragioni. Rispetto chi è uscito, ma senza la forza più grande è molto difficile costruire un centrosinistra di governo. Renzi non può concedere patenti a nessuno e io mi batto perché cambi strategia. La sinistra non vince sui veti ma se ricostruisce l’unità su una linea che parli e conquisti una maggioranza. Tra le due cose c’è la stessa distanza che separa la politica da Edmond Dantès».
Dopo lo strappo con Alfano, e in questo clima, ritiene possibile arrivare al 2018 e varare una buona legge di Bilancio con questa maggioranza?
«Non so se sia possibile. So che è necessario».
il manifesto 11.6.17
Primarie «avvelenate», non esistono ma già spaccano la sinistra
Alleanze. Gazebo di coalizione, c’è il niet di Mdp. Che avverte l’ex sindaco: Renzi è un piazzista, no al dialogo. Malumori anche nel Pd
di Daniela Preziosi
Le primarie del centrosinistra con un Pd che fino a una settimana sfotteva la «sinistra rissosa» sono un’ipotesi irrealistica, il classico ballon d’essai delle fasi politiche di stallo. Ma tanto poco basta per rialzare il termometro nella sinistra che fino a tre giorni fa tendeva all’unità, complice un incombente sbarramento al 5 % nella legge elettorale ormai spazzato via dall’orizzonte.
Per il terzo giorno consecutivo ieri Renzi, stavolta dal Corriere della sera, ha lanciato un amo a Giuliano Pisapia, leader di Campo progressista: «Noi ci siamo. Vediamo che farà lui». Il segretario Pd spiega meglio la sua idea di accordi a sinistra a legge vigente: un patto al senato, ma non alla camera, dove tanto è convinto di imbroccare l’onda del voto utile perché «il premio al 40% consente di tentare l’operazione maggioritaria». L’ex premier non risponde alle condizioni che Pisapia pone per riaprire il dialogo: primarie di coalizione, cancellazione dell’articolo 18, discontinuità. A questo dibattito manca il principio di realtà. Lo ricorda il presidente dem Matteo Orfini a Repubblica, che «c’è una legge proporzionale che non prevede coalizioni e quindi le primarie non avrebbero senso», dunque benvenga Pisapia in coalizione ma dopo il voto se avrà i numeri, «con questo sistema elettorale oguno tessa la sua tela e poi ci ritroveremo in parlamento in base al consenso che i cittadini ci daranno».
Ma questi giri di valzer comiminciano a suscitare malumori a sinistra, fra gli stessi alleati di Pisapia che il primo luglio hanno con lui un appuntamento a Roma per costruire «la casa comune» della sinistra. Bersani, D’Alema, Rossi, cioè tutta la «Ditta» ex Pd non hanno alcuna intenzione di allearsi con il proprio ex partito. Ampiamente ricambiati: Renzi spiega alcuni di loro farebbero fatica «anche a tornare alle feste dell’Unità».
Le polemiche non sono dirette, almeno per ora. Massimo Paolucci, europarlamentare vicinissimo a D’Alema, spiega che la proposta di Renzi a Pisapia è «una polpetta avvelenata», «Non esistono le condizioni minime per svolgere insieme al Pdr le primarie di coalizione. Senza una chiara alleanza politica, un simbolo ed una piattaforma comune sarebbe una grave errore, una decisione incomprensibile per milioni di nostri elettori delusi dalle scelte fatte, in questi anni, su tasse, lavoro, scuola, politiche sociali, investimenti». Il presidente della Toscana Enrico Rossi: «Le primarie di coalizione hanno poco senso perché la storia del sindaco d’Italia è finita il 4 dicembre 2016. Noi dobbiamo costruire un’alleanza per il cambiamento a sinistra del Pd fatta da coloro che, di sinistra e di centrosinistra, non si riconoscono più nel Pd di Renzi».
Enrico Rossi si rivolge al lato politico dove si collocano Sinistra italiana e Rifondazione comunista, e offre una lista unitaria, anche con i civici ex no che si vedranno a Roma il 18 giugno. Sorvolando sul fatto che difficilmente queste aree apprezzerebbero – anzi digerirebbero – la benedizione degli ulivisti Prodi, Letta, Bindi, così tanto invocata da Mdp.
Anche Pisapia evita la polemica interna. Ma dai suoi arrivare segnali di insofferenza: «Dobbiamo investire sulla riapertura di una nuova stagione di centrosinistra in discontinuità con questi anni. Aggiungo che oggi, per ragioni tutte giuste, governiamo, da una posizione di leggera subalternità, con Renzi e persino con Alfano».
il manifesto 11.6.17
Primarie, un favore a Renzi
di Massimo Villone
Per un tabellone elettronico salta il patto di scambio tra voto subito – voluto da Renzi, Grillo e Salvini – e sistema similtedesco proporzionale – voluto da Berlusconi. Ora Renzi dice di puntare al voto nel 2018.
Con il Consultellum nella doppia versione Camera-Senato, e aggiunge un’offerta di coalizione a Pisapia. Non sappiamo se sarà l’ultima mossa. Ma se lo fosse, a chi darebbe scacco?
Anzitutto, scacco a ciò che è a sinistra del Pd. A tal fine, il Consultellum è molto efficace. Alla Camera, il premio con soglia al 40% rafforza molto il richiamo del voto utile. Raggiungere la soglia sarà pure improbabile, ma l’argomento sposta comunque voti. Al Senato, il voto utile si aggancia agli sbarramenti, troppo alti per i partiti minori. E contro un’aggregazione che potrebbe ambire a superarli si offre la coalizione a uno dei player. Divide et impera. Ed è davvero sorprendente che Pisapia risponda chiedendo primarie. È solo un favore a Renzi, con il regalo di una probabilissima vittoria che ne rafforzerebbe legittimazione, leadership e disegno politico.
Dalla sinistra sparsa alla sinistra scomparsa: questo è il copione di Renzi. Una sparuta pattuglia di deputati farebbe sopravvivere qualche pezzo di ceto politico, ma rimarrebbe del tutto insignificante.
E la diversità dei sistemi elettorali? La governabilità? Mattarella? Questo è il secondo scacco. Il Capo dello Stato non può impedire lo scioglimento della Camere in due casi. Il primo è lo scioglimento anticipato voluto da una maggioranza parlamentare in grado di negare la fiducia a qualsiasi governo. Questa era l’ipotesi sottesa al patto tra i quattro leaders. Fatta la legge elettorale, Mattarella non avrebbe potuto opporsi al voto subito. Il secondo caso è la fine naturale della legislatura, perché la tempistica è dettata dalla Costituzione, e nessun rinvio è consentito. Dire che si vota nel 2018 equivale a dire che si vota con la legge che c’è. Quindi, basta non fare, e Consultellum sia: ecco lo scacco a Mattarella.
È chiaro che rimangono tutte le censure nel merito, in specie per la diversità tra Camera e Senato. Il pasticcio viene da Renzi, per l’arrogante pretesa di anticipare con una legge elettorale solo per la Camera la riforma costituzionale poi sepolta dai no. Come non bastasse, ora Renzi lucra sul malfatto, potendo con la sua proposta ottenere vantaggi anche limitandosi a un gioco di interdizione.
Che si può fare? In Parlamento, poco. Sono controinteressati alla proposta Renzi soprattutto i partiti minori, che certo non controllano i lavori parlamentari. Inoltre, sono spinti verso la subalternità per non morire. Qualcosa, invece, si può fare sul piano della politica. E qui una lezione viene dal voto in Gran Bretagna.
Per molti, Corbyn era un pezzo di modernariato politico, da non prendere sul serio. Ma in poche settimane di campagna ha recuperato quasi del tutto un distacco che sembrava incolmabile, con un programma elettorale vicino a una proposta socialdemocratica vintage. È chiaro che ha trovato una corrente profonda di cui non si sospettava l’esistenza. E colpisce che abbia così guadagnato tra i giovani e nell’area del non voto. Una vecchia sinistra in disarmo ha visto i propri figli innalzare le bandiere da tempo ammainate.
Forse nel voto GB la più importante indicazione è proprio questa: la sinistra può essere competitiva se dismette una lunga sostanziale subalternità ai mantra del privato, del mercato, della finanza. Perché non in Italia? Dunque, bene se qui la sinistra sparsa si compatta e trova qualche candidatura eccellente. Meglio se formula un progetto non di nicchia, volto a ritrovare in modo compiuto le antiche risposte socialdemocratiche sulla dignità della persona, la solidarietà, l’eguaglianza, la giustizia sociale, il ruolo del pubblico. Da un appeal verso i giovani e il non voto potrebbe venire la massa critica utile a superare qualsiasi scoglio di sistema elettorale.
In realtà lo stesso Renzi potrebbe fiutare il vento e volgersi a una proposta socialdemocratica vintage. Vogliamo anche augurarglielo. Certo, sarebbe difficile riconvertire l’ultimo Pd, tutto privato, competizione e libero mercato. Ma uno che nasce boy scout deve pure saper affrontare qualche avversità.
Repubblica 11.6.17
Bologna.
Cinquemila respinti agli scritti per elementari e materne
Ma la colpa non è solo loro
E l’Italia scopre di avere un esercito di maestri incapaci di insegnare
di Mariapia Veladiano
LA NOTIZIA è che in Emilia Romagna solo il 24% dei candidati al concorso per entrare di ruolo nella scuola primaria e il 16,5% dei candidati alla scuola d’infanzia ha superato le prove scritte. Il rigoroso meccanismo dei concorsi che ha letteralmente strizzato le possibilità organizzative dell’amministrazione scolastica (banditi in tempi strettissimi, in corso d’anno scolastico, le commissioni nominate e rinominate vorticosamente, senza esonero dalle lezioni e pagate un nulla) non porterà a coprire i posti disponibili. La stragrande maggioranza delle cattedre non andrà a ruolo. Il Direttore dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari dice che per la scuola d’infanzia il problema è stato il livello culturale basso, mentre per la scuola primaria mancava la preparazione didattica.
Si trattava di candidati laureati, la maggior parte di loro già in cattedra da anni. La prova scritta prevede 6 domande, tutte legate a situazioni concrete che richiedono da un lato la conoscenza della normativa e dall’altro la capacità di giocarla creativamente in situazioni concrete di scuola. Il presidente coordinatore delle commissioni alla scuola d’infanzia Emilio Porcaro parla di gravi incompetenze ortografiche, sintattiche e didattiche. Mancava l’abc del buon docente, insomma.
Se il livello è questo, giocare la carta del discredito sulle commissioni esaminatrici non ha senso. Qualsiasi candidato che non sappia scrivere in italiano corretto non può fare il docente e va fermato. E anche se non ha idea di come trasferire nella classe le sue conoscenze. In questo senso il concorso, previsto dalla Costituzione come modalità di reclutamento, fa esattamente il suo dovere. Solo che arriva alla fine di una serie di errori e inadempienze e allora appare ingiusto e scandaloso.
La vicenda del concorso in Emilia Romagna racconta un pezzo della nostra storia. La scuola come lavoro-rifugio. Chiunque pensa di poter insegnare e invece non è vero. Ma lo si pensa perché negli ultimi trent’anni, in mancanza di un sistema regolare di reclutamento, tanti hanno potuto insegnare di fatto, senza concorsi e selezione, per accumulo di punteggio di servizio e titoli i studio, anno dopo anno, con meccanismi di salvaguardia per cui alla fine in qualche modo nella scuola si entra e soprattutto si resta. Inamovibili. Provi un preside a fare una contestazione a un docente, di ruolo o no. Un calvario.
Racconta anche la storia di una mortificazione sistematica delle competenze linguistiche che è comodo ma sbagliato imputare alla scuola. Non è la scuola di massa il problema. È l’ignoranza di massa accettata ed esibita. Si impara la lingua per esposizione, esposizione alla buona lingua, e se la società non legge, non sa parlare e pensare e di questo non si preoccupa e per questo non sente vergogna, se anche la politica esibisce la sciatteria del linguaggio e del pensiero, non c’è scuola che possa trovare un rimedio.
Racconta anche la storia di un Paese confuso, che da un lato vuole giustamente mandare in cattedra chi sa insegnare bene e dall’altro continua ad offrire pochissimo agli insegnanti davvero bravi: scuole con pochi mezzi, stipendi che dicono “il tuo lavoro non vale niente”. I candidati bocciati continueranno ad insegnare da precari, perché i posti ci sono e le cattedre vanno coperte. Il concorso ci rivela un bel po’ di mali della nostra società più che della nostra scuola.
La Stampa 11.6.17
Arabia-Qatar, il duello che ci riguarda
di Maurizio Molinari
Pollo con il riso, fagioli e tè. Poco dopo le 21 la cena dell’Iftar segna il Ramadan nella grande moschea di Monte Antenne, a Roma, con i fedeli intenti a discutere il tema che più li inquieta: la disputa nel Golfo determinata dalla decisione dell’Arabia Saudita di rompere ogni legame con il Qatar accusandolo di «sostenere i terroristi». Per comprendere perché in quest’angolo di Europa, il Qatar conti più del Russiagate, della Brexit e del populismo bisogna ascoltare immigrati, piccoli commercianti e fedeli in arrivo da Maghreb e Sahel che in modi diversi ma con pari enfasi affermano un concetto: «In gioco c’è l’identità dell’Islam, lo scontro può innescare una guerra».
La contesa sull’identità dell’Islam si deve al fatto che Arabia Saudita e Qatar incarnano correnti rivali dei sunniti - ovvero l’80 per cento dei musulmani - perché i salafiti si riconoscono in Riad e i Fratelli musulmani in Doha. Tanto gli uni quanto gli altri si richiamano alle origini dell’Islam ma con intenzioni opposte: i salafiti per rafforzare la fede preservando gli Stati arabi formatisi negli ultimi cento anni, i Fratelli musulmani per abbatterli unificando l’intero Islam. Lo scontro è sull’assetto politico del mondo sunnita: Riad è il simbolo di chi vuole conservare quello esistente, Doha di chi punta a rivoluzionarlo. L’ideologia dei Fratelli musulmani, fondati da Hassan el-Banna nel 1928, è considerata da grande parte degli Stati arabi la fonte della deviazione teologica che ha portato a generare Al Qaeda, lo Stato Islamico (Isis) e la galassia dei gruppi jihadisti che praticano e si
identificano nelle forme più efferate di violenza.
Se a ciò aggiungiamo che Riad guida l’Opec del greggio in affanno e Doha possiede il più grande giacimento di gas naturale, che gli Abdulaziz sauditi e gli al-Thani qatarini sono da sempre tribù rivali nella Penisola arabica nonché in conflitto sulla discendenza da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, fondatore nel XVIII secolo del moderno fondamentalismo, non è difficile concludere che la disputa investe ogni tassello del mosaico sunnita.
Se tutto ciò comporta il pericolo di un conflitto regionale è per la composizione degli opposti schieramenti. L’Arabia Saudita ha tagliato ogni collegamento terrestre, aereo e marittimo con Doha, creando una coalizione anti-Qatar a cui aderiscono Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Egitto, Giordania e Yemen mentre sul fronte opposto gli al-Thani hanno ricevuto l’immediato sostegno dell’Iran degli ayatollah, che gli ha offerto tre porti sul Golfo per continuare a commerciare con il resto del mondo, e della Turchia di Recep Tayyp Erdogan, che ha promesso l’invio di contingenti militari a difesa dell’Emiro. Se il legame del Qatar con l’Iran è cementato dallo sviluppo degli stessi giacimenti di gas naturale nel Golfo, con la Turchia invece la convergenza è sul sostegno ai Fratelli musulmani testimoniata dal comune impegno a favore di Hamas a Gaza come dell’ex presidente Mohammed Morsi in Egitto.
Al momento Riad punta a piegare Doha chiedendo l’«espulsione di 12 gruppi e 59 individui terroristi», ovvero legati ai Fratelli musulmani, e ciò può innescare confronti militari per procura fra i due Paesi lì dove sostengono milizie rivali: in Siria e Libia. Ma il pericolo maggiore riguarda il coinvolgimento dell’Iran: i sauditi accusano le unità speciali della «Forza Al Qods» dei pasdaran di Teheran di difendere il palazzo dell’Emiro ovvero di essersi insediati a ridosso delle loro frontiere. E ancora Abu Dhabi e Riad accusano al-Thani di aver versato in aprile 700 milioni di dollari agli hezbollah sciiti iracheni e 300 milioni a gruppi jihadisti siriani - in entrambi i casi consegnati in dozzine di valigette portatili - con l’intento apparente di ottenere la liberazione di 50 ostaggi e quello reale di finanziare in segreto «chi persegue la demolizione degli Stati arabi».
Le scintille fra Riad e Doha minacciano di incendiare il Golfo, ma investono anche l’Occidente, per tre motivi. Primo: il Qatar ha forti legami tanto con gli Stati Uniti - ospita dal 2002 ad Udeir la più grande base militare Usa in Medio Oriente - che con l’Europa, a causa degli ingenti investimenti economici e finanziari. Secondo: in Europa esistono network di istituzioni religiose - moschee e scuole coraniche - tanto dei salafiti quanto dei Fratelli musulmani riproponendo nelle singole nazioni le aspre rivalità che si originano dalla Penisola arabica. Terzo: i Fratelli musulmani ottennero in Egitto con la presidenza Morsi un riconoscimento da parte dell’amministrazione Obama che gli ha consentito di legittimarsi e rafforzarsi presso alcuni governi.
Sono tali ragioni a spiegare perché i venti di guerra che spazzano il Golfo ci riguardano: la sfida per la supremazia politica nell’Islam può avere ripercussioni immediate in casa nostra.
La Stampa 11.6.17
La politica perde il suo potere
di Giovanni Orsina
La vicenda grottesca della riforma elettorale ci ha dato un ricco antipasto di quel che, con ogni probabilità, ci attende nella prossima legislatura. E il sapore è disgustoso.
Il progetto di legge uscito dalla commissione Affari costituzionali della Camera non era esente da difetti. Soprattutto perché, dati gli attuali rapporti di forza fra i partiti, non avrebbe saputo generare una maggioranza. Un sistema capace di creare una maggioranza, però, non avrebbe alcuna chance di essere approvato dalle camere attuali. E quello in discussione, con la soglia del cinque per cento, aveva per lo meno il pregio di ridurre il tasso di frammentazione parlamentare.
Ma quel che importava ancor di più era il fatto che almeno una volta, almeno sulle regole del gioco, il Pd, il M5S, Forza Italia e la Lega erano riusciti a mettersi d’accordo. Su un minimo comun denominatore tutt’altro che perfetto, e immaginando un voto anticipato che non si sa quanto convenga al Paese, certo. Ma di questi tempi non è il caso di esser schizzinosi: che si formasse un’ampia convergenza era un passo in avanti del quale ci si poteva accontentare.
L’incapacità delle forze politiche di condurre in porto la riforma - e nonostante si trattasse d’un sistema elettorale che le garantiva tutte! - è un segnale drammatico dello stato di dissoluzione terminale cui è giunta la politica italiana. Segnale mitigato tutt’al più dalla tenue speranza che il dialogo riprenda dopo il voto amministrativo. Viene da chiedersi che cosa avesse in mente chi, opponendosi alla riforma costituzionale di Renzi, sosteneva che dopo la bocciatura del 4 dicembre si sarebbero aperti chissà quali mirabolanti processi riformistici. O di quanto ottimismo ci sia bisogno per sognare che la prossima legislatura svolga un’opera costituente.
Ci sono tante ragioni, naturalmente, per le quali ci siamo ridotti in questo stato. Due ordini di motivi, però, mi paiono particolarmente rilevanti. Il primo è la presenza, sia fra gli eletti sia fra gli elettori, di due fratture «assolute». Una recente, figlia delle elezioni del 2013, in nome della quale il Movimento 5 stelle finisce invariabilmente per cedere al richiamo della purezza e a rifiutare qualsivoglia compromesso col «sistema». L’altra più antica, risalente al 1994, per la quale una parte non piccola della sinistra non può mai e in nessun caso convergere con Berlusconi.
Ora, bastano delle nozioni basilari di aritmetica per vedere come, a meno di grosse sorprese, o dopo le prossime elezioni una di queste due faglie «assolute» diverrà negoziabile, oppure avremo un parlamento del tutto ingestibile. Si guardi alla Francia e alla Gran Bretagna, del resto. Se riusciranno a trovare una loro stabilità politica, magari precaria, è sì a motivo della loro maggiore solidità istituzionale, ma è pure dovuto all’attenuarsi di una delle due divisioni: in Francia quella fra destra e sinistra, in Gran Bretagna quella fra i partiti tradizionali e le forze di protesta.
La seconda causa di paralisi politica è la debolezza dei leader, e in particolare di Renzi e Berlusconi. Berlusconi conta ancora, sembra vedere più lontano degli altri, e non è impossibile che alle prossime elezioni Forza Italia vada ancora una volta meglio di quanto non si pensi. Ciò nonostante, resta un leader residuale. E si è rassegnato alla sua nuova condizione, per altro - a tal punto da rinunciare al maggioritario che ha fatto la sua fortuna per vent’anni. Dopo il 4 dicembre anche Renzi è un leader residuale. Ma il suo ostinato rifiuto di prenderne atto fa di lui un elemento ulteriore di destabilizzazione.
È dal 1994 che, collassato il sistema dei partiti, falliti tutti i tentativi di riforma delle istituzioni, la politica italiana si struttura intorno a un leader. Fino al 2011 è stato Berlusconi. Dal 2014 al 2016 è stato Renzi. Gli oppositori dell’«uomo solo al comando» li hanno combattuti ferocemente, e alla fine hanno vinto. Buon per loro. Quel che il Paese ne ha ottenuto, però, non è un sistema stabile, equilibrato, pluralistico. È una palude mefitica dalla quale nessuno sa davvero come si possa uscire.
Il Sole 11.6.17
I diari del sindacalista
Trentin e la bussola del cambiamento
di Giuseppe Berta
Tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90 il sindacato italiano andò incontro a una complessa e contraddittoria stagione di mutamento che doveva incidere durevolmente sui suoi assetti interni. Le confederazioni dei lavoratori passarono da una fase di lacerazioni e contrasti a una ricomposizione unitaria che avvenne grazie al Protocollo Ciampi del 1993, l’accordo che diede il via al prolungato periodo della concertazione, assicurando ai sindacati un ruolo pubblico che finì col generare un inaridimento delle loro strategie contrattuali e di rappresentanza.
Quell’epoca di crisi e di trasformazione del sindacato e delle sue strategie coincise col momento finale della carriera di Bruno Trentin, segretario generale della Cgil dal 1988 al 1994. Trentin era la figura di maggiore spicco, per rilievo politico, carisma e prestigio culturale, della scena sindacale. E tuttavia i suoi Diari di quegli anni, pubblicati dalla Ediesse grazie alla cura affettuosa e tenace di Iginio Ariemma, rivelano con quali dubbi e anche travaglio interiore egli abbia assunto la più alta responsabilità all’interno di un sindacato cui apparteneva da quarant’anni.
Quando Trentin, allora sessantaduenne, prese su di sé quel compito, con una certa intima riluttanza, la Cgil non attraversava una buona congiuntura. Nell’estate del 1988 alla Fiat era stato siglato un accordo separato, che la Fiom aveva rifiutato di sottoscrivere quando sembrava cosa fatta. Il segretario generale Antonio Pizzinato, un caparbio operaio di Sesto San Giovanni, era osteggiato all’interno dell’organizzazione, al punto che sarebbe stato costretto ad abbandonare la carica. La scelta cadde su Trentin, il quale l’accolse con un senso profondo della crisi cui era soggetta l’azione collettiva dei lavoratori. Chi legga ora, a distanza di quasi un trentennio, le sue pagine di diario, spesso segnate da un intenso disagio e da una dolorosa percezione di inadeguatezza che non risparmia nessuno, tantomeno l’autore, non tarderà a rendersi conto di quanta fatica e sofferenza personale sia costata a Trentin un’opera di direzione destinata a rimanere come uno sforzo solitario, largamente incompreso, soprattutto nelle file della sua organizzazione.
La missione contrattuale del sindacato appariva acefala a Trentin, ove non fosse stata orientata da una volontà acuta di trasformazione. Ciò che mancava al sistema sindacale era la considerazione della portata del mutamento che stava avvenendo entro il mondo del lavoro. La quotidianità delle confederazioni procedeva con i suoi rituali senza misurarsi con un cambiamento tale, secondo Trentin, da alterare la nozione stessa della prestazione di lavoro. Così, le lunghe annotazioni di diario testimoniano di una disaffezione del segretario generale della Cgil verso le pratiche interne della confederazione, scandite dalle logiche delle correnti, dal personalismo dei dirigenti, dall’insipienza della politica.
Trentin vorrebbe che fosse la bussola del mutamento a determinare la strategia sindacale e invece si ritrova a scontrarsi con opportunità contingenti e, a volte, opportunismi personali. Di qui la piega risentita della sua scrittura, il rifugio privato in cui può esprimere fino in fondo il suo spaesamento di fronte alle «miserie» delle situazioni nelle quali deve operare. I diari testimoniano delle sue grandi passioni private come la montagna e la lettura, dove accumula senza tregua note e osservazioni che progetta di far confluire in un libro destinato a rimanere come il proprio segno sulla corteccia di un albero (diverrà La città del lavoro, la sua riflessione più ambiziosa, edita da Feltrinelli).
Grazie a queste risorse private Trentin combatte la depressione che lo incalza, specie nei giorni più oscuri, come nell’estate del ’92, quando obtorto collo firma l’intesa con cui il Governo Amato fa fronte alla crisi finanziaria del Paese. Trentin apporrà la sua firma soltanto per offrire le proprie dimissioni un attimo dopo, dicendo di averlo fatto unicamente per non pregiudicare una situazione già di per sé gravissima. L’anno seguente, la Cgil sottoscriverà invece con convinzione il Protocollo Ciampi, di cui Trentin sarà un protagonista. Ma nella sfera privata, in procinto di lasciare la Cgil, la sua attenzione è concentrata sul mutamento economico e sociale che permetterà di coniugare lavoro e libertà.
Era un’utopia quella di Trentin? Almeno in parte sì, anche perché la dimensione utopica gli era congeniale. Ma aveva probabilmente ragione a credere che l’azione sindacale per rigenerarsi deve calarsi nelle grandi trasformazioni del lavoro del proprio tempo e cercare nella soggettività dei nuovi lavoratori l’impulso per il futuro.
Il Fatto 11.6.17
Nei diari di Trentin una lezione di etica per tutta la sinistra
di Giorgio Meletti
Intervistato dall’Espresso, Pier Luigi Bersani ha così commentato la sua uscita dal partito di cui è stato leader: “Ora mi sento me stesso, libero di dire quello che penso”. Un’antica tradizione culturale della sinistra considera il dire ciò che si pensa un lusso anziché un dovere. Sarebbe ora di calcolare quale prezzo assurdo sia stato pagato finora al pur nobile dovere di umile discrezione e disciplina.
L’Ediesse, editrice della Cgil, pubblica in questi giorni i diari di Bruno Trentin degli anni 1988-1994, quelli in cui guidò il primo sindacato italiano. Scelta di grande coraggio perché rende noto a tutti che cosa pensasse Trentin dell’organizzazione per la quale ha speso l’intera vita. Impressiona come il capo della Cgil, già 30 anni fa, affidasse al suo diario privato l’analisi della “disperata volontà di un ceto burocratico di sopravvivere con il suo vecchio bagaglio culturale, (…) un ceto squalificato e sempre più depotenziato nelle sue stesse capacità professionali”. E la disperata riflessione “sul cumulo di corruzione, di vessazioni, di arbitri che regolano la vita del sindacato reale” e su sindacalisti “che sentono venire meno la barriera di omertà e di savoir vivre che ha fatto smarrire a molti di loro e di noi ogni ansia, ogni dubbio di carattere morale sul senso del loro lavoro”.
Quanti lavoratori hanno assistito al declino inesorabile del sindacato, pensando le stesse cose di Trentin senza mai trovare una sponda autorevole per i loro dubbi? Chissà con che rimpianto oggi, ormai anziani, apprenderanno che Trentin era d’accordo con loro ma riservava al diario privato le sue analisi più esplicite. È stato un uomo di immenso spessore culturale ed etico. I suoi diari si raccomandano a lettori di ogni età per scoprire un carattere di spettacolare nobiltà, soprattutto in confronto allo stato deplorevole del discorso pubblico attuale. Così commenta la sua elezione al vertice della Cgil: “È cominciata la nuova storia della mia piccola vita (…) Mi manca il tempo per leggere e persino per informarmi. Bisogna che mi difenda”. Non avrebbe senso il processo postumo alle intenzioni di chi ci ha lasciato, troppo presto, dieci anni fa. Eppure, leggendo i suoi diari, non si resiste a chiedersi quale contributo positivo avrebbe dato al destino dei lavoratori italiani e di tutta la comunità nazionale se certe cose, anziché affidarle al diario, le avesse dette.
A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 il segretario della Cgil osservava profeticamente anche le manovre di un ceto politico intento a predisporre la distruzione del Paese. I dirigenti del Pci vivono la svolta di Achille Occhetto dopo l’89 come “uno scontro di schieramenti, costruito sulle invettive, le etichette, i posizionamenti dell’avversario”, e il duello tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni per la segreteria del Pds (luglio ’94) è “una penosa vicenda” che si svolge “in modo isterico, personalistico e selvaggio”. Giudizi severi ma mai condizionati da avversioni personali, ché anzi in ogni riga traspare l’affetto per il suo mondo, la sinistra. Giudizi che si possono anche considerare sbagliati. Non importa.
Ma la lezione di etica che i diari di Trentin danno a tutta la sinistra scombussolata di questo 2017 è preziosa. Andiamo verso elezioni politiche drammatiche, non a una partita alla Playstation. La posta in gioco non è “vinciamo noi, vincono loro” e neppure il destino della mitica sinistra, bensì il futuro dell’Italia e dei suoi figli. Tutti i leader, veri o sedicenti, aspiranti federatori e opportunisti, quelli che si credono furbi, si leggano i diari di Trentin e imparino a dirci sempre che cosa pensano davvero. Senza la paura di passare per fessi: tanto quelli astuti si sono già fatti male da soli.
Il Sole Domenica 11.6.17
Non chiamateli Presocratici
I primi filosofi greci non furono semplici precursori di Socrate ma veri pionieri in materia di conoscenza dell’universo, ontologia e argomentazione
di André Laks e Glenn W. Most
Presocratici sono sempre stati interessanti, ma oggi sembrano destare un grande fascino e rivelarsi stimolo e punto di riferimento sempre più importante per la riflessione filosofica professionale nel mondo. Ogni anno appaiono numerose autorevoli monografie su singoli presocratici o sull’eredità della prima filosofia greca così come nuove edizioni e traduzioni, e l’International Association for Presocratic Studies, che accoglie centinaia di specialisti da tutto il mondo, ha celebrato lo scorso anno in Texas il suo quinto congresso biennale. Ma i primi filosofi greci sono anche diventati oggetto di grande interesse fuori dall’università, specialmente in Italia: pensiamo all’Eleatica, istituita dalla Fondazione Alario ad Ascea Marina e dedicata dal 2004 allo studio di Parmenide e Zenone, o al Festival della Filosofia in Magna Grecia che è giunto nel 2016 alla sua 22esima edizione, o all’eccitazione generale provocata da straordinarie scoperte quali il papiro di Derveni o il papiro di Strasburgo di Empedocle.
Molteplici sono le cause di questa vera e propria infatuazione. Innanzittutto, i Presocratici sono all’origine delle pratiche intellettuali profondamente nuove che si perpetuano fino ai nostri giorni con il nome di “filosofia” e di “scienza”, termini che non facevano ancora parte del loro vocabolario. Tra di loro vi sono grandissimi scopritori in materia di conoscenza dell’universo, di ontologia, di argomentazione. Poi, siccome essi si situano per definizione “prima”, possono facilmente ergersi a modelli per coloro che, per una ragione o per un’altra, giudicano che il pensiero occidentale abbia preso un corso sbagliato, a partire da Socrate e più ancora da Platone. E così Nietzsche, il quale non è estraneo alla diffusione della denominazione “Presocratici”, ha fatto di Socrate il primo rappresentante di una modernità decadente, ottimista e democratica alla quale ha potuto miticamente opporre quelle grandi individualità aristocratiche, ancora comprese di una visione tragica del mondo, per lui più giusta, che erano Anassimandro, Eraclito, Parmenide o Empedocle. Nella sua scia, Heidegger ha percepito in quelli che chiamava «i pensatori degli inizi» una apertura premetafisica al mondo che alludeva anche a un possibile superamento della metafisica. E infine anche uno spirito pur contrario ai vaticini heideggeriani come Karl Popper ha potuto richiamarsi ai Presocratici, le cui audaci ipotesi scientifiche gli sembravano illustrare in modo paradigmatico la logica della scoperta scientifica.
Ma c’è, accanto a queste due ragioni di fondo, una terza ragione per il fascino che i Presocratici non possono non suscitare e che riguarda il modo in cui essi ci sono stati tramandati. Infatti le opere dei Presocratici che ci sono note, tranne qualche eccezione, sono sottoforma di frammenti, il più delle volte pochi e assai brevi. Certo non si può che deplorare questa grande perdita; mentre, d’altra parte, lo stato frammentario stesso della documentazione ci sottopone a sfide appassionanti. Ricostruire il pensiero dei Presocratici è un esercizio d’immaginazione controllata che incoraggia la riflessione metodologica. È proprio su questo punto e non solo sulle questioni interpretative che la nostra edizione ha cercato di apportare novità.
Per meglio comprendere in cosa consistono le novità, è subito necessario tenere presente che i frammenti in questione sono di due tipi. Da una parte, vi è una serie di citazioni verbali che rimandano all’opera originale. Questi sono dei brani staccati da un insieme ormai perduto, che ci sono pervenuti il più delle volte grazie alle citazioni che ne hanno fatto altri autori, in qualche raro caso in seguito a scoperte papirologiche. E d’altra parte ci sono dei sunti, delle parafrasi, delle allusioni, delle critiche, in breve tutto un insieme di testimonianze dovute ad autori vissuti nel corso dei secoli successivi, tra il VI e il V secolo a.C. e il VI secolo d.C. Le nostre fonti d’informazione sono dunque a volte assai parziali e assai eterogenee. Come farne una presentazione che renda tutto questo chiaro?
La prima raccolta scientifica di questi frammenti, i Fragmente der Vorsokratiker di Hermann Diels, è datato 1903. Nella versione rivista da Walter Kranz tra il 1934 e il 1951, questo lavoro è diventato l’edizione di riferimento e il pilastro di tutti gli studi presocratici moderni. Non è l’intenzione della nostra raccolta di sostituirla ma piuttosto, attraverso diverse innovazioni maggiori, di rendere più intelligibile e più fruibile la natura del materiale di cui disponiamo. Alcune di queste innovazioni comportano semplicemente un aggiornamento della raccolta nei termini del corrente stato delle conoscenze: abbiamo aggiunto certi testi che sono stati scoperti dopo l’ultima edizione di Diels-Kranz e abbiamo corretto tutti i testi riprodotti sulla base delle migliori edizioni recenti disponibili. Altre innovazioni servono solo a renderne più facile l’uso, sia per studiosi, professori e studenti che vogliano orientarsi facilmente in questo materiale complesso e difficile, sia anche per non addetti ai lavori che vogliano sapere quello che dicevano Eraclito, Parmenide o i pitagorici. E dunque noi abbiamo tradotto non solo le citazioni verbali esatte dei presocratici, come aveva fatto Diels, ma anche i resoconti del loro pensiero e delle vicende personali come riportati da altri autori dell’antichità, compresi quelli che hanno scritto in armeno, in siriano, in arabo e in ebraico. Perciò quella di Diels-Kranz resterà un’edizione di riferimento, ma la nostra sarà l’edizione che i più consulterano per prima.
Oltre i punti già indicati, le nostre più significative innovazioni crediamo siano tre: 1) abbiamo deciso di includere non solo tutti i materiali che consentissero, per quanto possibile, di ricostruire il vero pensiero dei primi filosofi greci, ma anche, almeno in linea di massima, quelli che ci rivelano la storia della loro ricezione nella filosofia e nella cultura letteraria greca antica dal loro tempo fino alla fine dell’antichità. Diels senz’altro conosceva tutti, o quasi tutti, quei testi che pubblichiamo nella sezione etichettata con la R (che sta per Ricezione) della maggior parte dei filosofi presocratici, ma li escludeva dalla sua raccolta forse perché li considerava irrilevanti per la ricostruzione di ciò che quei primi filosofi avevano veramente pensato. Noi abbiamo mantenuto il suo obiettivo di tentare un recupero, per quanto possibile, delle loro effettive idee, ma abbiamo imparato dallo sviluppo di decenni di studi sulla ricezione quanto sia importante cercare di correlare i documenti che ci restano del passato alle tradizioni interpretative più tarde che li hanno trattati esegeticamente, criticamente, polemicamente o in qualsiasi altro modo. Per questo la nostra edizione costituisce l’ennesimo capitolo nella storia della ricezione dei Presocratici. 2) Abbiamo scelto di rompere con la tradizione che fa di Socrate la figura perno per il prima e per il dopo, dedicandogli un capitolo che permetta di ricollocarlo cronologicamente e intellettualmente tra i suoi contemporanei. Tale scelta, che ha delle conseguenze storiografiche importanti, spiega che noi non abbiamo parlato di “filosofi presocratici”, ma degli “inizi della filosofia greca” o, in inglese, di Early Greek Philosophy. 3) Infine, abbiamo fornito al lettore, in mancanza di interpretazioni esaurienti nostre, una doppia griglia di lettura per orientarsi nel dedalo dei testi: da una parte, organizzando in maniera sistematica i testi servendosi di numerosi titoli e sottotitoli, e d’altra parte fornendo un glossario esplicativo dettagliato di una lunga serie di nozioni intorno alle quali si è organizzato il pensiero dei primi filosofi greci. Speriamo così di aver fornito un’edizione che possa rivelarsi utile e durare negli anni.
André Laks e Glenn W. Most (a cura di),
Early Greek Philosophy , Loeb Classical Library, 9 volumi (Cambridge, MA - London: Harvard University Press), ogni volume $26
André Laks and Glenn W. Most (a cura di), Les débuts de la philosophie grecque (Parigi, Fayard), € 70, vincitore del premio Desrousseaux 2017 dell'Association des Études grecques
Il Sole Domenica 11.6.17
Tra filosofia e filologia
Eraclito era un riccio o una volpe?
di Armando Massarenti
Tra i molti, meravigliosi giochi che si possono fare avendo tra le mani i nove volumi della nuova e innovativa edizione dei frammenti dei cosiddetti Presocratici curata da Glenn Most e André Laks, uno potrebbe essere quello di provare a verificare quanto fosse giustificata l’idea di Karl Popper secondo cui i primi filosofi greci - Parmenide compreso - furono gli inventori del pensiero critico e della discussione razionale, salvo scoprire quanto sia raro trovare testimonianze dirette che corroborino la sua tesi. Soprattutto nell’ambito a lui più caro, quello della filosofia della natura e della cosmologia, mentre qualche “prova” la si può trovare tra i medici di quel periodo. Ma anche se non erano dei falsificazionisti ante litteram come li sognava Popper, i primissimi pensatori greci restano una palestra in cui è possibile allenarsi per infiniti giochi intellettuali. Compreso quello principale che ha ispirato i curatori nel costruire un’edizione - presentata qui in un articolo scritto espressamente per la Domenica - frutto di anni di lavoro e che ha tutte le caratteristiche per imporsi come quella di riferimento. Se la natura tende a nascondersi, come dice Eraclito, tra i suoi nascondigli migliori ci sono sicuramente le varie stratificazioni del linguaggio. Most e Laks vi si immergono in una autentica caccia al tesoro per farci scoprire, tra le altre cose, che Eraclito era insieme una volpe e un riccio, dal punto di vista del linguaggio (ma non solo). Ricordando il celeberrimo verso di Archiloco, «La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande», possiamo apprezzare infatti la struttura assolutamente chiara e al contempo profondamente complessa delle frasi di Eraclito, dove una singola espressione di grande potenza espressiva (riccio-friendly, si potrebbe dire, come è tendenzialmente interpretata) può prestarsi a molti, volpini, significati. Ma dove è in questo la novità? Si prenda proprio la frase sulla natura. Con mossa innovativa e sapienza volpina, Most e Laks ne inseguono le varie ramificazioni non solo all’interno dei testi tradizionalmente utilizzati come testimonianze del pensiero di Eraclito, ma anche nel corpus degli autori vissuti nei secoli successivi, fino alla fine dell’antichità. Per scoprire (come rileva Most in un saggio uscito nel volume Riccio o volpe? a cura di Vanna Maraglino, Cacucci editore) «che una singola espressione perfettamente composta da Eraclito può prestarsi a molteplici paradossali significati. In altre parole, sul piano della performance testuale, Eraclito si rivela essere un riccio nei suoi significanti, ma una volpe nei suoi significati». Significati che si moltiplicano e arricchiscono (senza mai smettere di giocare a nascondino col filologo) se ricostruiti attraverso l’interpretazione di filosofi successivi, come Filone alessandrino. Le edizioni precedenti di Eraclito sono edizioni “ricce”, perché lo presentano nella forma di espressioni perfette, indiscutibili e lapidarie, laddove invece questa edizione volpina - e il metodo è applicato anche agli altri pensatori - tiene conto, e mette in scena, le difficoltà di stabilire il testo esatto di molti aforismi di Eraclito, difficoltà «causate in parte dal loro enorme successo tra i lettori antichi, che spesso li citarono, parafrasarono e fecero allusioni ad essi, senza preoccuparsi molto di fornire le esatte parole dell’originale».
Dal metodo volpino emerge dunque un’immagine ricca e sfumata del filosofo. Per Eraclito la maggior parte degli uomini è pigra, vuole vivere tranquilla evitando la fatica di comprendere la vera natura delle cose e le loro ragioni nascoste. Se le cose a una prima occhiata non rivelano la loro vera natura, è necessario studiarle con cura e a lungo per comprenderle. E ciò vale persino per la cosa a noi più vicina: noi stessi. «Ho cercato me stesso», dice Eraclito, che, se alla luce di uno dei suoi aforismi più famosi - «Dopo che hai ascoltato non me ma il logos, è saggio riconoscere che tutto è uno» - appare più che mai riccio, si rivela mano a mano sempre più volpe fino ad affermare che «gli uomini che amano la sapienza devono indagare molte cose». E se è vero che «quelli che cercano l’oro scavano molta terra e ne trovano poco» ciò significa solo che devono continuare a scavare. La caccia al tesoro continua, anche perché - popperianamente - la ricerca non ha fine.
Il Sole Domenica 11.6.17
Farsi santificare dal popolo
Con Napoleone inizia la «dittatura per mezzo del plebiscito». Un metodo antiliberale ancora oggi in voga e pieno di rischi
di Nadia Urbinati
L’appello al popolo misura il rapporto tra governanti e governati. Usato da leader cesaristi per vantare l’amore del popolo, il plebiscito, in cui l’appello al popolo si manifesta, ha un rapporto obliquo con la democrazia, che non è identica al consenso perché regola innanzi tutto il ruolo del dissenso nella costruzione della maggioranza.
Il plebiscito occupa un ruolo importante nella storia politica moderna, a partire prima di tutto dalle costituzioni americane (dove venne usato per confermare le carte con voto popolare) e poi, soprattutto, dalla Rivoluzione francese, dove la forma plebiscitaria ha giocato ruoli diversi e contradditori. In questo libro interessante e utilissimo, Enzo Fimiani ricostruisce la storia comparata del plebiscito nei Paesi europei moderni in un lasso di tempo di duecento anni, dal 1791 quando venne usato in Francia per ratificare la Costituzione, fino al 1991 quando Boris Eltsin usa il “grimaldello plebiscitario” per sancire la fine dell’URRS. Coloro che nella Francia rivoluzionaria si espressero a favore dell’appello al popolo posero il problema della legittimazione popolare delle leggi in maniera diretta: la Costituzione, disse Brissot, potrà essere “perfetta” solo quando il popolo l’avrà ratificata.
In effetti il plebiscito sembrò connettere al meglio popolo e Costituzione e si iscrisse in un processo interessante di interpretazione della voce sovrana in un tempo di attiva sperimentazione istituzionale, quando la monarchia era ancora in campo, disposta di lì a poco a scendere in diretta competizione con il popolo-re per la conquista del potere sovrano. Pochi anni dopo, Napoleone avrebbe usato il plebiscito per soddisfare le sue esigenze di “tribuno ambizioso” che cercava nell’“entusiasmo irriflessivo” dei francesi il viatico supremo. Comincia con lui la “dittatura per mezzo del plebiscito” che sarà destinata a godere di larga e sinistra fortuna nell’Europa continentale, fino a suggellare i regimi totalitari. Condizioni democratiche e condizioni cesaristiche si sono dunque contese lo scettro mediante il plebiscito. La svolta più dirompente verso la dittatura consensuale si ebbe con Luigi Napoleone che, da Presidente della seconda Repubblica ne decretò la fine con la forza del voto popolare, usato per sottolineare il vincolo affettivo che lo univa direttamente alla nazione. La domanda plebiscitaria che lo incoronò era furbescamente privata del punto interrogativo: «Il popolo francese vuole il mantenimento dell’autorità di Luigi Napoleone Bonaparte, e gli delega i poteri necessari per stabilire una Costituzione sulle basi proposte nella sua proclamazione del 2 dicembre 1851».
Dall’età rivoluzionaria viene la consuetudine di assegnare all’appello al popolo la sorgente della delega formale e totale non a governare semplicemente, ma a scrivere una nuova Costituzione: dal Settecento in poi, la conquista del potere, fosse per mano dei rappresentati eletti per suffragio o di un capo che si auto-dichiarava rappresentante ideale dell’unità del popolo, è associata alla scrittura di norme. La politica costituzionale cercò la legittimità per via di consenso dunque, che poteva essere una tantum (come con il ’golpista’ Napoleone III) o il primo atto di una politica basata sul consenso elettorale. Darsi al capo e dare vita a una sovranità democratica sono opzioni contraddittorie che possono partire dal seme plebiscitario, a dimostrazione di quanto ambiguo sia il principio del consenso popolare.
Un esempio di questa originaria ambiguità è anche nella storia italiana, la cui unità nazionale sotto i Savoia avvenne anche attraverso i plebisciti (a suffragio largo e anche universale maschile) per legittimare un nuovo Stato i cui governi si sarebbero di lì in poi retti solo sul consenso elettorale di una ristrettissima minoranza di aventi diritto al voto. All’opposto sta l’esempio che ci viene dall’epilogo della Resistenza: il referendum istituzionale che nel 1946 fonda la Repubblica italiana darà vita ad un’Assemblea costituente che scriverà la nuova Costituzione democratica che non interpellerà il popolo alla fine dei lavori. Il grande potere che l’Assemblea si è dato non introducendo l’obbligo del referendum confermativo rifletteva la diffidenza dei costituenti nei confronti degli appelli al popolo, usati con pompa propagandistica dal regime fascista.
Nel plebiscito si manifesta una particolare predisposizione a semplificare il voto popolare : non solo esso non è un’istituzione con cadenza regolare ma mantiene un carattere di eccezionalità (non è identificabile quindi con il referendum); è inoltre indifferente all’espressione individuale del voto perché conta la massa. Infine, il suo successo è fortemente associato alla partecipazione più che alla conta dei voti: indire un plebiscito e vincerlo su una partecipazione esigua è un segno di sconfitta. Ciò prova che nonostante la sua identificazione tecnica con la democrazia diretta, il plebiscitario vuole l’esaltazione dell’opinione e un consenso entusiasta, non semplicemente una maggioranza di consensi. La sua norma è, come recita il titolo del libro, “l’unanimità più uno”. Come tale piace ai leader cesaristi e populisti, mentre incontra la diffidenza dei democratici liberali.
Enzo Fiminai, L’unanimità più uno. Plebisciti e potere, una storia europea (secoli XVII-XX) , Mondadori, Milano, pagg. XII, 404, € 19,80
Il Sole 11.6.17
Storie atomiche
Le particelle nate in cantina
Settant’anni fa un esperimento tutto italiano sanciva la nascita della fisica subnucleare
di Vincenzo Barone
La scienza non procede linearmente, per accumulo, ma errando (in tutti i sensi), e una confutazione – come insegnava Karl Popper – vale più di una conferma. Guardiamo per esempio che cosa accadde settant’anni fa, in quel 1947 che a buon diritto può considerarsi l’anno di nascita della moderna fisica delle particelle.
Come in ogni storia che si rispetti, c’è un antefatto. Nel 1935 il più grande fisico teorico giapponese del XX secolo, Hideki Yukawa, aveva ipotizzato che le forze nucleari tra protoni e neutroni (responsabili della struttura dei nuclei atomici) fossero dovute allo scambio di una particella sconosciuta, duecento volte più pesante dell’elettrone. Quando, l’anno successivo, due ricercatori americani, Carl Anderson e Seth Neddermeyer, scoprirono una particella – chiamata «mesotrone» – che aveva proprio quella massa, i conti sembrarono tornare alla perfezione e i fisici si convinsero di aver raggiunto un punto fermo nella comprensione del mondo subatomico. Le cose dovevano rivelarsi più complicate.
A riaprire i giochi fu un bellissimo esperimento condotto nel pieno della seconda guerra mondiale da un gruppo di giovani scienziati italiani, non ancora trentenni: Marcello Conversi (1917-1988), Ettore Pancini (1915-1981) e Oreste Piccioni (1915-2002). Nell’estate del 1943, dopo il bombardamento del quartiere romano di San Lorenzo, vicino alla Città Universitaria, Conversi e Piccioni decisero di trasferire i loro apparati sperimentali negli scantinati del liceo Virgilio, considerato più sicuro perché vicino al Vaticano. Il trasporto degli strumenti per le vie di Roma avvenne con un carretto tirato a mano da un manipolo di studenti, mentre Edoardo Amaldi faceva da battistrada in bicicletta. Nel laboratorio improvvisato del Virgilio, che ospitava anche le armi di una formazione partigiana e un radiotrasmettitore del Partito d’Azione, cominciarono le misure sull’assorbimento dei mesotroni nella materia (Pancini, nel frattempo, era andato a fare il comandante dei GAP in Veneto). Come dirà Amaldi, principale artefice con Gilberto Bernardini della sopravvivenza e dello sviluppo della fisica italiana nel dopoguerra, «mantenere funzionante a tutti i costi questo esperimento era diventato una specie di simbolo della nostra volontà di continuità culturale e politica».
Dopo la liberazione di Roma, l’esperimento poté tornare all’università e a partire dalla primavera del 1945 riprese con l’apporto di Pancini. Ci volle ancora un anno di misure per giungere a una conclusione sorprendente: il mesotrone, pur avendo la massa giusta, non interagiva con i nuclei e non poteva quindi essere la particella di Yukawa. Il risultato, esposto in una breve nota sulla Physical Review all’inizio del 1947, fece subito il giro della comunità scientifica internazionale, destando un grande clamore. Tramontava l’ipotesi che la particella scoperta da Anderson e Neddermeyer fosse il mediatore della forza nucleare, e al tempo stesso sorgevano nuove domande. Che tipo di particella era il «mesotrone»? Qual era il suo ruolo?
Alcuni mesi di intenso lavoro teorico e sperimentale chiarirono la questione. Le osservazioni cruciali furono effettuate, sempre nel 1947, a Bristol e videro protagonista un altro grande fisico sperimentale italiano, Giuseppe Occhialini (un po’ più anziano dei suoi colleghi romani), assieme all’inglese Cecil Powell e al brasiliano César Lattes. Studiando le tracce di raggi cosmici su lastre fotografiche, questo brillante terzetto mostrò che il mesotrone – chiamato poi «muone» – era un corpuscolo prodotto dalla disintegrazione di una particella primaria leggermente più pesante, il «pione», la vera particella di Yukawa, lungamente cercata. E il muone? Nessuno lo aveva previsto e non se ne sentiva la necessità. Era – nelle parole colorite di Murray Gell-Mann, teorizzatore dei quark – «il bambino non desiderato che mette fine ai giorni dell’innocenza».
Le scoperte di Roma e di Bristol spalancavano un mondo nuovo, il mondo subnucleare, governato da due forze fondamentali, la forza forte e la forza debole, e fatto di tantissime particelle oltre a quelle ordinarie (protone, neutrone ed elettrone): particelle che sentono la forza forte, come il pione (se ne troveranno in seguito parecchie decine e si scoprirà che sono tutte composte da quark), o che interagiscono per effetto della forza debole, come il muone. Oggi sappiamo che l’ars combinatoria della natura produce l’immensa varietà delle cose a partire da dodici mattoni elementari, sei quark e sei leptoni (uno dei quali è il muone).
Tra tutti i protagonisti di questa storia, la disattenta Accademia svedese delle Scienze premierà con il Nobel nel 1950 il solo Powell, ma l’importanza dell’esperimento di Conversi, Pancini e Piccioni è testimoniata dalle parole di un grande fisico, solitamente avaro di elogi, Robert Oppenheimer, il quale, alla fine del 1947, ebbe a dire che i risultati dei tre italiani avevano prodotto «una vera rivoluzione nel nostro modo di pensare». Una rivoluzione nata in una cantina romana, sotto le bombe.
vincenzo.barone@uniupo.it
Il Sole Domenica 11.6.17
Chiesa & vita
«Ardor, desir, amor» materia per teologi
L’esortazione «Amoris laetitia» di Francesco ha generato una serie di studi sui temi della persona, del corpo, e dell’amore sessuale
di Gianfranco Ravasi s.j.
«Un medesimo ardor, un desir... / inclina e sforza l’uno e l’altro sesso / a quel suave fin d’amor». Siamo nel IV canto dell’Orlando Furioso, quello del volo di Ruggiero, innamorato di Angelica, sull’ippogrifo, all’ottava 66, e Ariosto ci offre una suggestiva ricomposizione della costellazione che regge l’innamoramento. Esso parte, sì, dall’«ardor» istintuale della sessualità (e fin qui procediamo appaiati a tutti gli esseri viventi) ma sboccia poi in «desir» che è sostanzialmente l’eros, cioè la scoperta della bellezza dell’altro, è la passione, il sentimento, l’emozione, la tenerezza, e qui ci attestiamo in un territorio che è squisitamente umano. Ma la vera meta che la persona riesce a raggiungere è sulla vetta, ove brilla l’amore, «quel suave fin d’amor», come scrive il poeta emiliano.
Sull’esortazione postsinodale Amoris laetitia di papa Francesco (19 marzo 2016) l’attenzione prevalente dei lettori s’è inchiodata su quel capitolo VIII e in particolare sulla nota 351, alla ricerca di una risposta alla questione dell’ammissibilità all’eucaristia dei divorziati risposati. In realtà, il testo papale è un grande affresco dell’amore nuziale, della famiglia, della spiritualità coniugale con molte pagine che esaltano appunto quella triplice ascensione capace di collocare all’apice l’esperienza d’amore, «che persiste attraverso mille vicissitudini, come il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune», come annotava nel suo Journal François Mauriac. Naturalmente riguardo al documento pontificio, ma soprattutto attorno al tema che lo regge, s’è allargata una raggiera di pubblicazioni.
Noi ne vogliamo segnalare una trilogia di taglio differente, capace però di ricomporsi in un trittico dalle scene e dai colori variegati ma complementari. Iniziamo dall’orizzonte più largo, proposto da uno dei nostri maggiori e più raffinati teologi morali, Giannino Piana, che ha ricostruito fin dal titolo un’altra terna che trascende e colloca al suo interno la sequenza sesso-eros-amore (l’ariostesco «ardor-desir-amor»): persona, corpo, natura. È una trattazione sintetica di alcuni temi spesso roventi nel dibattito contemporaneo: si pensi solo al concetto di “natura” umana del quale si indica, al termine di un lungo itinerario storico-ideale, l’approdo a una prospettiva personalista, capace di reagire a visioni riduttive solo fisiciste o essenzialiste. Per elaborare una simile proposta sono necessarie, anzi, sono capitali le altre due categorie, il corpo e la persona.
Da un lato, c’è la base della corporeità umana che non può essere derubricata a mera biologia eticamente neutra ma che è per eccellenza simbolo relazionale e razionale. D’altro canto, si ha l’accesso terminale alla persona, “ultimo referente”, la cui dignità genera automaticamente una serie di corollari molto delicati come la sua manipolabilità, l’inserzione sociale, il coinvolgimento nell’intrico delle cosiddette «questioni eticamente sensibili». Come è evidente, lo scritto di Piana si rivela come una guida primaria per un itinerario lungo strade che ogni giorno si diramano davanti ai passi della nostra vita. Da questa mappa primordiale possiamo transitare senza soluzione di continuità all’altro volume della nostra trilogia, un vero e proprio “trattato” nel senso classico del termine ove il tractare, cioè “impegnarsi in un’opera” precisa, acquista una connotazione didattica.
Così un teologo, Maurizio Chiodi, e un filosofo, Massimo Reichlin, delineano una Morale della vita, un’architettura imponente eretta e “trattata” a quattro mani, proprio perché la bioetica esige un duplice sguardo sia filosofico-etico, sia teologico-morale secondo epistemologie non overlapping (per usare la celebre formula di Stephen Gould), non sovrapponibili ma neppure antitetiche, distinte ma non separate. L’imprescindibile diversità metodologica non conduce, quindi, a una mera giustapposizione ma a un dialogo fecondo (gli autori parlano di «approfondimento reciproco») all’interno di un perimetro comune che è riassunto anche in questo caso in una terna lessicale: nascere, morire, soffrire. E dato che non si parte mai da una tabula rasa, cioè da una tavoletta o pagina senza iscrizioni (come suggerisce la locuzione latina), la prima sezione dell’opera è dedicata alla memoria, cioè alla storia della riflessione sul tema e alla relativa eredità culturale. Là sfilano i grandi come Agostino e Tommaso, Cartesio e Kant, Schopenhauer e Nietzsche, ma anche figure più vicine a noi come Illich, Jonas, Habermas, Ellul e così via.
Altre figure riappaiono nella seconda parte del trattato ove si presentano quei tre crocevia – nascita, morte, dolore – che tutti affrontiamo e che costituiscono la nostra carta d’identità comune. È proprio qui che s’aggrovigliano tutti i nodi della bioetica. Per questo sono convocati pensatori come Arendt e Ricoeur, Levinas e Rahner, naturalmente sotto l’ombrello di una riflessione teorica complessa che cerca di coprire soggetti etici la cui sola elencazione rende evidente la delicatezza e urgenza: genetica, aborto, procreazione medicalmente assistita, staminali, eutanasia, sperimentazione clinica, testamento biologico... Un orizzonte sul quale Chiodi accende la lampada della Rivelazione biblica e della teologia, mentre Reichlin rischiara questo orizzonte con l’insonne interrogarsi della filosofia e con le sue diagnosi.
Giungiamo, così, all’ultima tavola del nostro trittico che restringe l’arco di visuale dall’antropologia generale a quel campo da cui siamo partiti con Ariosto, cioè l’Amore sessuale, come recita il titolo di un altro saggio-trattato, frutto della ricerca di un teologo ambrosiano, Aristide Fumagalli, che abbiamo già ospitato su queste pagine per un suo interessante studio sul gender. L’opera, piuttosto maestosa ma nitida nella sua impostazione e nel dettato, si muove sostanzialmente lungo due traiettorie indicate già nel sottotitolo «Fondamenti e criteri teologico-morali». Il primo movimento rivela un’assidua frequentazione delle biblioteche non solo esegetiche e teologiche, ma anche storiche, filosofiche e psicologiche. Così, accanto a tutta la letteratura religiosa che attorno a questo tema ha da sempre accumulato uno scrigno di analisi – a partire dall’asserto biblico dell’“immagine” di Dio nel “maschio e femmina”, cioè nella creatività genetica d’amore (Genesi 1,27) – si accostano i “fondamenti antropologici” che la sessuologia scientifica, la simbologia, la psicologia hanno eretto o demolito.
D’altronde, quelli della generazione che ha vissuto la “contestazione” degli anni Sessanta e Settanta (Fumagalli ne è cronologicamente escluso, tant’è vero che non lo cita) ricordano la battuta della Rivoluzione sessuale di Wilhelm Reich – testo del 1936 allora imbracciato col “libretto rosso” di Mao – secondo cui «l’ideologia sessuale è la più profondamente ancorata di tutte le ideologie conservatrici». Ma Fumagalli su questi fondamenti vasti e complessi si preoccupa di elevare una criteriologia morale che tiri anche le fila della precedente carrellata storica lunga più di 350 pagine. Ora ne bastano una cinquantina (forse troppo poche e sintetiche) per spremere il succo di una concezione squisitamente teologico-morale della sessualità umana. Come egli scrive ricorrendo a una metafora vegetale, la morale sessuale può essere riassunta in un quadrifoglio, le cui foglie possono crescere in forme diverse ma mai disgiunte, pena l’avvizzimento: «vivere per l’altro/a, con tutti se stessi, nel mondo ambiente, lungo la storia».
Giannino Piana, Persona, corpo, natura , Queriniana, Brescia, pagg. 228, € 15
Maurizio Chiodi – Massimo Reichlin, Morale della vita. Bioetica in prospettiva filosofica e teologica , Queriniana, Brescia, pagg. 438, € 31
Aristide Fumagalli, L’amore sessuale. Fondamenti e criteri teologico-morali , Queriniana, Brescia, pagg. 462, € 30
Il Sole Domenica 11.6.17
Memorie della seconda guerra mondiale
La bella estate di un Figlio della Lupa
Corrado Stajano rievoca gli anni fascisti della sua infanzia a Como, la guerra e, a Milano, la lotta partigiana
di Raffaele Liucci
«Ha un senso ricordare più di settant’anni dopo una guerra vista e vissuta da un bambino?», si chiede Corrado Stajano nel suo nuovo libro. Si rischia la sindrome di Pinocchio: «Com’ero buffo, quando ero un burattino!». All’epoca, infatti, Stajano viveva a Como ed era un Figlio della Lupa. Orgoglioso della sua funerea uniforme, già sognava il giorno in cui sarebbe diventato Balilla e poi Balilla moschettiere, con quel fucile adatto a sparare soltanto cartucce di carta, ma in grado di far somigliare chi lo impugnava a un «vero soldato». Il Figlio della Lupa aveva letto con passione i libri di Salvator Gotta. Non soltanto Il piccolo alpino, ambientato nella Grande Guerra, ma anche i capitoli successivi della saga, nei quali Giacomino diventava prima squadrista alle prese con i sovversivi e poi piccolo legionario in Africa Orientale. Pure il «Corriere dei Piccoli» faceva la propria parte, sbeffeggiando il Negus da disarcionare.
Sulle rive del Lario, quella del ’39 fu «una tragica estate mascherata di serena letizia». A maggio il Figlio della Lupa aveva acclamato il passaggio a Como di Ciano e von Ribbentrop, i ministri degli Esteri dell’Asse, in procinto di firmare il Patto d’Acciaio. Quel tardo pomeriggio lui e i suoi compagni di scuola avevano marciato in fila per tre sventolando bandierine con la svastica, agli ordini del maestro, vestito interamente di nero e con uno stiletto fissato alla cintura. Qualche nube s’addensava all’orizzonte, ma il cielo rimaneva terso e il quadro era rasserenante, per un bambino di nove anni. Il placido lungolago, le aiole di azalee, le fragranze della città vecchia, la finestrella del fruttivendolo, con mandarini, noci, datteri. Soltanto gli adulti che si spingevano sino a Chiasso e Lugano s’imbattevano in giornali inaspettati, scritti in italiano, ma non preconfezionati dalle autorità fasciste.
Ritornato sui luoghi della propria infanzia, Stajano li ritrova sonnolenti e dimentichi, sfiorati dalla Storia senza mai esserne diventati parte integrante. Chi si ricorda, per esempio, che la Casa del Fascio di Como firmata da Terragni – oggi sede della locale Guardia di Finanza – non soltanto non divenne la «casa di vetro» grottescamente invocata da Mussolini, ma sotto l’occupazione tedesca ospitò una camera di tortura per partigiani, antifascisti ed ebrei? Quello di Giuseppe Terragni – architetto antiretorico devoto al duce, che fece della città lariana la capitale del razionalismo modernista – non è il solo fantasma incrociato da Stajano durante queste postreme peregrinazioni. Ce ne sono altri. Alida Valli, «fidanzata d’Italia», giunta a Como da Pola, intravista mentre chiacchierava con le amiche sotto il colonnato del liceo Alessandro Volta. E Margherita Sarfatti, la «maga Circe del fascismo», proprietaria, non lontano dal lago (a Cavallasca), di una villa di campagna foderata di libri e abbellita dai quadri di Sironi, Boccioni, Funi. All’epoca, i contadini più anziani ricordavano ancora «la Presidenziale», che scortava in quest’alcova l’Alfa Romeo del duce.
Nel ricostruire la tragica parabola di Margherita – donna colta, ambiziosa, trasformista, biografa e amante di Mussolini, poi caduta in disgrazia e costretta all’esilio dalle leggi «razziali» – Stajano ingaggia un amaro corpo a corpo con il fascismo e la sua inquietante «eredità». Viene in mente la definizione datane dallo storico Angelo Ventura: «Un movimento politico che ha inventato e instaurato con la violenza, per la prima volta nella storia, un regime totalitario di destra in un paese civile e industrializzato». Questo primato spetta al fascismo italiano che, alleato della Germania nazista, spingerà il nostro paese «alla catastrofe di una guerra condotta con inefficienza, incompetenza e irresponsabilità senza pari nella storia dell’Italia unita». Quant’era lontana, anche sul Lario, l’Italia di Cavour, mezzo ginevrino di madrelingua francese innamorato dell’Inghilterra! Una cacofonia di slogan autarchici inondava il Figlio della Lupa: «È vietato parlare di politica e di alta strategia», «Il Duce ha sempre ragione», «credere, obbedire, combattere», l’esercito di «otto milioni di baionette», «il primo ministro Churchillone».
Ogni nuovo libro di Stajano è un parto più autobiografico del precedente. Come se quest’autore – inizialmente restio a esporsi in prima persona, preferendo dedicarsi ad alcuni personaggi esemplari, dall’anarchico Serantini all’«eroe borghese» Ambrosoli – sentisse il crescente bisogno di rivitalizzare con un «io» non debordante i brandelli della propria memoria (una vocazione forse affiorata per la prima volta nel 2001 con Patrie smarrite e proseguita nei successivi libri). Collaudata è invece la macchina narrativa: amalgama inconfondibile di fonti, stili e registri diversi, capace di fotografare la storia d’Italia con una profondità di campo inconsueta. Come risulta anche nel passaggio dalla prima alla seconda parte del libro.
Siamo nella primavera del ’45. Le rive indolenti e solatie del lago di Como hanno lasciato il posto alle macerie di Milano, su cui si affaccia l’ex Figlio della Lupa. Sono le ultime settimane della Repubblica Sociale. La città, scarnificata dai bombardamenti, è «una caldaia rovente di pece nera». Tanto inconsapevole era il fanciullo nella «bella estate» del ’39 quanto raggelato da un eccesso di lucidità appare l’adolescente cresciuto troppo in fretta, mentre percorre le spossate vie cittadine in una catarsi onirica e visionaria.
L’insurrezione partigiana è ormai alle porte, in Duomo celebra la messa il giovane David Maria Turoldo, frate servita del convento di San Carlo, nonché collaboratore attivo della Resistenza. Nonostante questi lampi nel buio, gli occhi dell’ex Figlio della Lupa si posano soprattutto su androni lugubri e sanguinanti. Villa Triste, dimora dei sadici della Banda Koch. L’Albergo Regina, quartiere generale delle SS, dal quale le urla dei torturati squarciano il silenzio della notte. La Basilica delle Grazie, colpita a morte dai bombardamenti, già sede del Tribunale della Santissima Inquisizione. Il ritiro di Santa Valeria, dove fu murata viva in una cella la monaca di Monza. Come mai lo sguardo del giovane sembra attratto più dalle tenebre che dalla luce? Forse perché in quella Milano caliginosa intravede non soltanto l’alba della Resistenza, ma anche il cupo futuro che un giorno, da adulto, racconterà egli stesso: la città di Piazza Fontana, delle Brigate Rosse, di Michele Sindona, di Tangentopoli. La città uscita da una tela di Goya, traboccante di relitti del dolore.
La Liberazione del 25 aprile sarà perciò soltanto un pallido raggio di sole calato sull’eterno orfanatrofio della guerra. Non è un caso che la terza e conclusiva parte del libro narri il rimpatrio del padre: «Catturato dai tedeschi al Brennero dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, internato in una catena di lager, liberato a Berlino dall’Armata Rossa nel maggio 1945, portato in Ucraina da dove ora sta tornando». Un’odissea che ricorda quella raccontata da Primo Levi nella Tregua, memoria dal titolo non proprio beneaugurante.
Corrado Stajano,
Eredità , il Saggiatore, Milano,
pagg. 166, € 18
Il Fatto 11.6.17
“Le passeggiate con Fellini, le cene insieme a Volonté e le ‘fughe’ dal ristorante”
Elvira Carteny. La vedova di Nanni Loy e i 15 anni vissuti con “un uomo straordinario”
di Alessandro Ferrucci
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Nanni Loy per molti è il cornetto dolce infilato nel cappuccino del vicino, la sacralità della colazione al bar violata da un bell’uomo, alto, serio, sigaretta in bocca e cappotto, stile british e provocazioni nostrane. Eppure “Nanni era una persona molto più complicata della sua apparenza; molto più complessa e intellettualmente preparata rispetto a quanto si possa credere. Quando parlo di lui ancora oggi piango. Ed è morto nel 1995”. Lei è Elvira Carteny, per quindici e più anni compagna di vita del regista, candidato per due volte all’Oscar, padre nostrano delle candid camera, presunta derisione italica, in realtà racconto oltre la patina di come eravamo e in parte siamo (“Sono passati cinquant’anni dalla loro messa in onda e ancora sono cliccatissime sul sito della Rai e Youtube”). Con lui, Elvira Carteny, ha visto e condiviso: giornate sui set, i copioni sul divano, le vacanze, le infinite discussioni politiche (“in-fi-ni-te”), i sogni di coppia e le speranze per il famoso mondo migliore.
Come vi siete conosciuti?
Lavoravo a Botteghe Oscure (storica sede del Pci) e Nanni frequentava quelle stanze. Però il nostro intrecciarsi non è stato né semplice né immediato: eravamo dei single convinti; la prima volta che ci hanno invitato a cena come coppia, ci è preso un colpo e ci siamo allontanati per poi ritrovarci.
Terrorizzati…
Avevamo deciso di tenere un doppio diario sul quale scrivere tutto quello che non sarebbe mai dovuto accadere, fissare le regole per la convivenza, quando bastava mantenere la libertà reciproca.
Cosa aveva sottolineato?
Detestava la mondanità. Era schivo. Sceglieva con chi stare, selezionava, le persone dovevano rispecchiare canoni morali ben precisi; ogni volta che uscivamo, l’imprevisto poteva mutare drasticamente la serata.
Di che genere?
Amava Capri, lì ritrovava alcuni dei suoi amici più cari e a quel tempo l’isola non era il vippume di oggi, però capitava di incappare in certi incontri, ed era un problema…
Cosa accadeva?
Andavamo a cena presto per evitare i politici come Pomicino o De Lorenzo, ma non sempre ci riuscivamo; quando questi soggetti entravano nel ristorante lui immediatamente si alzava da tavola: ‘Se c’è lui, non posso esserci io’. E se ne andava! Un inferno, restavo con il piatto a metà.
Lei avrebbe continuato…
Quando stai con uno così, devi accettare il pacchetto.
Le piacevano i suoi film?
Mi sono innamorata del Padre di famiglia (1967), ancor prima di conoscerlo, parlava di un uomo che aveva il bisogno di donna libera.
È chiaro il concetto di libertà…
Però nella sua vita arrivo nel 1981. Comunque lui amava e molto le donne, ne ha frequentate tante.
Anche quando stava con lei?
Forse sì, non lo so, non mi interessa. L’importante era il nostro rapporto, la nostra intesa, la qualità del tempo in comune, se poi mi ha tradita sono affari suoi.
“La qualità del tempo in comune”.
Alta, anzi altissima. Con aspetti paradossali: amavo stirare, mi piaceva proprio tanto, una forma di gesto fattivo lontano dalla vaghezza della politica, insomma dove puoi apprezzare immediatamente il risultato del tuo impegno. Lui non voleva: ‘Una donna che perde tempo a stirare, invece di uscire o leggere un libro, mi dà fastidio’.
E quindi?
Lo facevo di nascosto.
Le proibiva altro?
Lui non proibiva, predicava.
Va bene, allora predicava sull’abbigliamento?
No, però in quindici anni il complimento più audace è stato: ‘Oggi sei affascinante’. Comunque era sempre dalla mia parte, puntava sulla sostanza del rapporto.
Sempre…
Una volta ha rincorso a piedi un signore perché con la macchina mi aveva sfiorata. Se qualcuno mi insultava era morto. Se stavo male, impazziva.
Lei andava sul set?
Sì, specialmente nell’ultima parte della sua vita, quando non stava più tanto bene e preferivo stargli vicina.
Era un uomo intransigente anche quando girava?
No, totalmente democratico: prima di dare il via alle riprese, domandava a tutti i componenti della troupe se andava bene l’inquadratura. A tutti. Per lui il cinema era il prodotto di un lavoro collettivo.
Lei leggeva i copioni?
Certo. E quando ritrovavo i nostri siparietti, iniziava la trattativa, alcune situazioni dovevano restare nostre, non tutto poteva finire nella sua opera.
Nanni Loy cosa temeva?
La noia. Ma con lui era impossibile, un uomo imprevedibile, con il quale era necessario vivere con le giuste antenne per le sue improvvisate.
Tipo?
Spesso andavamo al ristorante e spesso le discussioni cadevano sul dibattito politico, poi a un certo punto, d’emblée, iniziava ad alzare al voce e a dirmi ‘Tu mi tradisci!’. Capivo, rilanciavo: ‘Per forza, non ci sei mai’. E da lì simulavamo una lite furiosa, mi tirava il tovagliolo, io l’acqua, gli altri avventori girati e a darsi di gomito: ‘Guarda Nanni Loy…’.
Tutto questo come finiva?
Con l’arrivo del cameriere e i piatti caldi. Mangiavamo, fine dello spettacolo.
Liti serie?
Mai. Solo dopo la sua morte l’ho mandato più volte a quel paese: un dolore così forte da provocarmi rabbia.
Uno dei film più celebri di Nanni Loy è “Amici miei parte III”…
Da Tognazzi a Cervi fino a Moschin: un gruppo di professionisti rari, persone deliziose, quando giravano era la parte seria della giornata, il resto del tempo era puro cazzeggio, battute, complicità. Ricordo la scena del ranocchio nel piatto, poco prima di girare qualcuno ha aperto il sacco con dentro tutti gli animaletti. Duecento ranocchi a saltellare e ovunque. Nanni dà lo stop. Tutti a cercare di recuperarli, il caos. Ed era tardi: dovevamo andare a giocare ai cavalli.
Scommettitori?
Amavamo frequentare l’ippodromo, quello di Roma era quasi una seconda casa, puntavamo poco, una cifra fissata prima e rispettata. Era una liturgia. Diceva sempre: ‘Ho conosciuto Elvira quando girava con Rinascita o Critica marxista, ora cammina con sotto braccio Il cavallo’.
Era vero?
Un po’. Ma allora era normale frequentare l’ippodromo, andavano tutti, da De Laurentiis ad Andrea Barbato fino a Giulio Andreotti. La carriera di Max Tortora inizia lì, stava sempre insieme a Nanni per parlargli di cinema.
Amava scoprire i talenti?
Adorava i caratteristi. Spesso giravamo per Napoli, magari nei teatrini più piccoli, in cerca di nuove maschere.
Cosa raccontava dei suoi esordi?
Su come veniva pagato: all’inizio del lavoro il compenso era evaso con il cibo, soprattutto la carne: ‘Tu sei il regista? Allora hai il filetto’. Agli ultimi operai toccavano le frattaglie.
Pagamenti pratici…
Se parla di praticità, allora penso alla sua totale assenza di attitudini manuali: Nanni non utilizzava i polpastrelli, lui si definiva ‘solidale’, se dovevo montare una mensola a casa, si sedeva in poltrona e guardava l’opera.
Non era in grado?
Per niente, poi era distratto. All’inizio della nostra storia aveva una Panda, un giorno ci salgo, lui sudava, quanto sudava! Dopo un po’ gli dico: ‘Perché hai il riscaldamento acceso?’. E lui stupito: ‘La Panda ha il riscaldamento? Non lo sapevo…’.
Cosa leggeva?
Tutti i giorni, e sottolineo tutti, studiava filosofia, aveva un libro sul comodino o sulla scrivania. Rivedeva. Ripassava. Ne parlavamo. Oppure riprendeva in mano il Don Chisciotte. Era un uomo con una cultura sterminata, mai esibita.
È ricordato poco, perché?
Come le dicevo, non era mondano, non doveva sedurre per forza il prossimo, si concedeva il lusso di dire quello che pensava, schifava gli opportunisti, anche dentro al Partito comunista. Era ruvido. Le risate servivano solo a far aprire il cervello alle persone e comprendere la realtà. E poi all’inizio della carriera aveva scritto un libro contro i critici, e nessun critico ha mai dimenticato quelle parole.
Lo ha letto?
No. Però ho visto come lo hanno trattato. Aveva ragione.
Le candid camera sono tra le sue opere più celebri.
La vicenda è partita grazie a un giovane funzionario della Rai, Angelo Guglielmi, spedito da Viale Mazzini negli Stati Uniti per studiare alcuni format. Prese i diritti sulle candid camera. Al suo ritorno Guglielmi chiamò gli intellettuali del momento per mostrare il prodotto, e ottenere valutazioni. Tra questi Nanni. Finita la discussione propose il programma a Gregoretti, niente da fare, poi a Nanni: ‘Sono interessato solo se può diventare una ricerca sociologica sulla società di oggi’.
Nasce “Specchio segreto”.
Mi raccontava la fatica per nascondere l’attrezzatura, le microcamere di oggi erano lontane; nonostante questo, girarono per un anno e mezzo. Dei gioielli. Una volta lo hanno arrestato.
Per cosa?
Era andato davanti a una fabbrica dell’Alfa Romeo e vestito da operaio con tanto di cartello di protesta: denunciava la situazione di usura fisica rispetto a una pensione lontana. Chiedeva la solidarietà degli altri lavoratori con un piccolo contributo economico. Siccome il giorno prima c’erano stati problemi con i fascisti, le forze dell’ordine lo scambiarono per un fomentatore. Finì dentro.
Non l’avevano riconosciuto?
Lui gli disse: ‘Sono un regista della televisione!’, e il maresciallo: ‘E io Gina Lollobrigida, piacere’.
La sua candid più famosa è la zuppetta nel cappuccino.
Forse la più banale, e gli è riuscita solo alla stazione di Bologna, nel resto del Paese, Napoli e Roma in primis, lo hanno picchiato.
Un film che non amava?
Ha girato alcune cose solo per incassare soldi da investire su pellicole più difficili: Pacco, doppio pacco e contropaccotto è stato funzionale per Scugnizzi. Il secondo infarto è arrivato proprio per questo film, ci teneva tantissimo.
“Mi manda Picone”…
Allora, a Napoli, la classe privilegiata era quella operaia, gli altri vivevano di espedienti. La tuta blu era uno status symbol. Per quel film lui ha girato realmente nelle fogne, noi restavamo fuori pronti con i bidoni di alcol per disinfettarli: quando tornavamo all’hotel Vesuvio la puzza distruggeva l’olfatto dei presenti.
Giancarlo Giannini era il protagonista.
Una scommessa. In quel periodo era molto legato ai film con la Wertmüller, era considerato una maschera, gli arrivavano meno proposte drammatiche, mentre Nanni gli cambiò la carriera. Ma il vero cruccio fu Lina Sastri: allora era sconosciuta, i produttori poco convinti, anche lei divenne una sua impuntatura. Però quanto ci siamo divertiti a girare…
Nonostante le fogne…
La città partecipava, Napoli tirò fuori la sua anima attoriale: durante le riprese ogni tanto sentivamo ‘stooooop’, tutti si fermavano: qualcuno del pubblico aveva bloccato la scena perché poco convinto. ‘Che succede?’, domandava Nanni. ‘Ma non lo vedi, chillo sbaglia, la può fare meglio!’.
Lui si scocciava?
No! Anzi, interagiva, era la sua città, non la imbavagliava, la conosceva nonostante fosse nato a Cagliari.
Era legato alla Sardegna?
Una volta a Cagliari decide di mostrarmi dove era nato, ci andiamo, quindi indica una casa: ‘Quella è di Amedeo Nazzari, di fronte c’era la mia’. Si ferma, parte con uno dei suoi tipici silenzi, mi pongo degli interrogativi, due passi indietro, gli lascio una presunta bolla di ricordi, poco dopo poi si gira, mi raggiunge: ‘A Elvi’, che culo essere andato via da qui’. Però nel fondo era sardo.
Non in maniera evidente…
Era talmente testone che il produttore Minervini lo chiamava ‘Nuraghe’.
Dalla Sardegna di quegli anni arrivava la politica ‘alta’.
Inizialmente manteneva rapporti con Cossiga, su temi come la salvezza della lingua italiana. Si sentivano. Solidarizzavano. Solo fino a quando Cossiga non ha iniziato con le sue improbabili esternazioni, a quel punto Nanni è stato il primo firmatario per una petizione contro di lui.
In direzione ostinata e contraria.
Adorava essere minoranza, per questo era diventato laziale, mi diceva: ‘Di comunisti biancocelesti ce ne sono pochissimi, quindi mi piace’.
Una sua regola aurea?
Spesso sceglieva attori comici per ruoli drammatici, li considerava i più bravi, e penso a Sordi, Manfredi o Villaggio: ‘Non ci vuole niente per far piangere, il problema è far ridere’.
I suoi amici nel cinema?
Ricordo le lunghe passeggiate con Fellini. Rincorrevano i sogni, i propri e quelli degli altri. Poi amava Massimo Troisi, quando siamo usciti dal Postino, singhiozzava.
Oltre a Fellini?
Volonté. Una sera lo invitiamo a casa, nella cena era incluso Pino Caruso, persona deliziosa, un socialista dell’area Nenni, molto lontano da Craxi e dal craxismo. Beh, a metà cena Gian Maria scopre il suo ‘socialismo’, non lo accetta, era intransigente, quindi se ne va da casa. Alle tre di notte vibra il citofono, era sempre Volonté: ‘Non mi piacciono le discussioni interrotte’. Sale. E sono ripartiti a parlare di politica.
Sempre politica…
Veramente ho sentito anche una discussione articolata, con Fellini che rivelava a Mastroianni: ‘Dopo trent’anni di rapporto con un’amante, la si può lasciare per una vena varicosa?’. E Mastroianni: ‘Non la lasciare’. ‘Ma ogni volta che vedo la vena, è un problema’. ‘Spegni la luce quando si spoglia…’.
E purtroppo qualcuno ha spento la luce anche su Nanni Loy.