giovedì 15 giugno 2017

Repubblica
Il medioevo di Grillo
di Ezio Mauro


NON è automaticamente di destra il tema dell’immigrazione, perché qualunque democrazia deve rispondere alle inquietudini dei suoi cittadini, soprattutto i più fragili e impauriti. È sicuramente di destra il modo, il tono, la postura politica con cui il tema è stato estratto da qualche alambicco della Casaleggio e associati, collegato automaticamente alla sicurezza e trasformato da Grillo nel nuovo manifesto identitario dei Cinquestelle, con la firma gregaria della sindaca di Roma Virginia Raggi.
Quando chiede al prefetto, nell’intervallo tra i due turni elettorali, di bloccare l’arrivo dei migranti nella capitale denunciando un’«evidente pressione » con «devastanti conseguenze », Raggi ingigantisce un fantasma sociale che non trova corpo né nei numeri (8600 richiedenti asilo tra Roma e provincia, contro gli 11mila programmati) né nella coscienza della comunità cittadina, né nella vita concreta e reale della capitale.
SI TRATTA dunque del calcolo preciso di un investimento politico sulla paura, evocata strumentalmente per poterla combattere, regalando al movimento un profilo artificiale di governo che compensi il vuoto amministrativo di questi mesi.
Quando Grillo rilancia nel vangelo del blog la svolta romana, e la arricchisce aggiungendo agli immigrati i rom, le tendopoli, i mendicanti, disegna un paesaggio spaventato che evoca una politica d’ordine, allineando — forse inconsapevolmente — tutte le figure simboliche della devianza sociale che una politica autoritaria ha sempre e dovunque scelto come bersagli, trasformandoli in colpevoli, e additandoli come avversari ai ceti sociali garantiti, scelti come base di riferimento, e dunque rassicurati. Gruppi sociali marginali, scarti umani, soggetti esclusi, corpi che chiedono di sopravvivere: ridotti tutti insieme a pura quantità da respingere — i moderni “banditi” — , annullando storie, biografie, geografie, come se il valore di una civiltà contasse esclusivamente per gli inclusi, e soltanto a danno degli altri.
Di più: come se si fosse spezzato il concetto di società, lasciando precipitare nella deriva finale la parte sconfitta, i perdenti della globalizzazione, per i quali si sancisce l’impossibilità di salvezza e di emancipazione, tanto da decretare il loro bando definitivo, che li escluda dalla comunità, comunque dalla vista, certamente dalla tutela politica, persino dallo spazio marginale che oggi pretendono di occupare. Liberando così simmetricamente la parte vincente del mondo in cui viviamo da ogni vincolo con la parte sommersa, sgravandola di qualsiasi legame, e soprattutto sciogliendola da ogni responsabilità politica nei confronti di quella comunità di destino che fino a ieri avevamo chiamato società: ma a cui dovremo inventare un nuovo nome, visto che vale soltanto per noi e si configura per esclusione, credendo di trovare nella differenza l’unica garanzia di sopravvivenza.
Verrebbe da chiedere a Grillo e alla sua sindaca se davvero il paesaggio sociale che hanno in mente nell’Italia 2017 è fatto di città assediate da migranti, popolate da mendicanti con minorenni al seguito o da falsi nullatenenti con auto di lusso, una specie di gigantesca tendopoli che confina con un campo rom. È la costruzione meccanica di un presepio politico, che trasfigura la realtà in un iper-realismo grottesco, evocando tutti i personaggi di comodo del grande disordine fantasmatico che visita le fragilità del nostro Paese e abita le solitudini sociali esposte dalla crisi. Una proiezione di comodo, a fini politici, come la geografia immaginaria di Di Maio, la fantascienza delle scie chimiche, la medicina prêt-à-porter del no ai vaccini.
È ben chiaro che l’Italia minuta, dei piccoli Paesi e delle lunghe periferie, sotto i colpi della crisi riscopre antiche paure, un inedito egoismo del welfare, una nuovissima gelosia del lavoro, uno smarrimento identitario sconosciuto. A tutto questo bisogna rispondere ma dentro un sentimento di comunità, su una scala europea, nella fiducia in una tradizione occidentale di inclusione responsabile e di apertura culturale.
Tutto questo si chiama politica, senso dello Stato e del Paese. Mentre invece è una ben scarsa rivoluzione, quella che rinuncia a cambiare il mondo per rinchiuderlo su se stesso come un pacchetto fragile, cercando così di comprare governo al mercato della paura, a un prezzo stracciato. Vien fuori un’idea balorda dell’Italia, amputata in alto delle competenze delle élite, colpevoli di tutto: e liberata in basso dalla scomoda presenza dei disperati. Un Paese di singoli, arrabbiati con chi ha vinto e con chi ha perso, per l’invidia del successo, la noncuranza del sapere, il fastidio della responsabilità generale.
L’immagine non è nemmeno quella del muro di Trump. In quel muro Grillo infatti si limita ad alzare il ponte levatoio, come in un medioevo impaurito. Fuori, c’è il mondo.