Repubblica
Il medioevo di Grillo
di Ezio Mauro
NON
è automaticamente di destra il tema dell’immigrazione, perché qualunque
democrazia deve rispondere alle inquietudini dei suoi cittadini,
soprattutto i più fragili e impauriti. È sicuramente di destra il modo,
il tono, la postura politica con cui il tema è stato estratto da qualche
alambicco della Casaleggio e associati, collegato automaticamente alla
sicurezza e trasformato da Grillo nel nuovo manifesto identitario dei
Cinquestelle, con la firma gregaria della sindaca di Roma Virginia
Raggi.
Quando chiede al prefetto, nell’intervallo tra i due turni
elettorali, di bloccare l’arrivo dei migranti nella capitale denunciando
un’«evidente pressione » con «devastanti conseguenze », Raggi
ingigantisce un fantasma sociale che non trova corpo né nei numeri (8600
richiedenti asilo tra Roma e provincia, contro gli 11mila programmati)
né nella coscienza della comunità cittadina, né nella vita concreta e
reale della capitale.
SI TRATTA dunque del calcolo preciso di un
investimento politico sulla paura, evocata strumentalmente per poterla
combattere, regalando al movimento un profilo artificiale di governo che
compensi il vuoto amministrativo di questi mesi.
Quando Grillo
rilancia nel vangelo del blog la svolta romana, e la arricchisce
aggiungendo agli immigrati i rom, le tendopoli, i mendicanti, disegna un
paesaggio spaventato che evoca una politica d’ordine, allineando —
forse inconsapevolmente — tutte le figure simboliche della devianza
sociale che una politica autoritaria ha sempre e dovunque scelto come
bersagli, trasformandoli in colpevoli, e additandoli come avversari ai
ceti sociali garantiti, scelti come base di riferimento, e dunque
rassicurati. Gruppi sociali marginali, scarti umani, soggetti esclusi,
corpi che chiedono di sopravvivere: ridotti tutti insieme a pura
quantità da respingere — i moderni “banditi” — , annullando storie,
biografie, geografie, come se il valore di una civiltà contasse
esclusivamente per gli inclusi, e soltanto a danno degli altri.
Di
più: come se si fosse spezzato il concetto di società, lasciando
precipitare nella deriva finale la parte sconfitta, i perdenti della
globalizzazione, per i quali si sancisce l’impossibilità di salvezza e
di emancipazione, tanto da decretare il loro bando definitivo, che li
escluda dalla comunità, comunque dalla vista, certamente dalla tutela
politica, persino dallo spazio marginale che oggi pretendono di
occupare. Liberando così simmetricamente la parte vincente del mondo in
cui viviamo da ogni vincolo con la parte sommersa, sgravandola di
qualsiasi legame, e soprattutto sciogliendola da ogni responsabilità
politica nei confronti di quella comunità di destino che fino a ieri
avevamo chiamato società: ma a cui dovremo inventare un nuovo nome,
visto che vale soltanto per noi e si configura per esclusione, credendo
di trovare nella differenza l’unica garanzia di sopravvivenza.
Verrebbe
da chiedere a Grillo e alla sua sindaca se davvero il paesaggio sociale
che hanno in mente nell’Italia 2017 è fatto di città assediate da
migranti, popolate da mendicanti con minorenni al seguito o da falsi
nullatenenti con auto di lusso, una specie di gigantesca tendopoli che
confina con un campo rom. È la costruzione meccanica di un presepio
politico, che trasfigura la realtà in un iper-realismo grottesco,
evocando tutti i personaggi di comodo del grande disordine fantasmatico
che visita le fragilità del nostro Paese e abita le solitudini sociali
esposte dalla crisi. Una proiezione di comodo, a fini politici, come la
geografia immaginaria di Di Maio, la fantascienza delle scie chimiche,
la medicina prêt-à-porter del no ai vaccini.
È ben chiaro che
l’Italia minuta, dei piccoli Paesi e delle lunghe periferie, sotto i
colpi della crisi riscopre antiche paure, un inedito egoismo del
welfare, una nuovissima gelosia del lavoro, uno smarrimento identitario
sconosciuto. A tutto questo bisogna rispondere ma dentro un sentimento
di comunità, su una scala europea, nella fiducia in una tradizione
occidentale di inclusione responsabile e di apertura culturale.
Tutto
questo si chiama politica, senso dello Stato e del Paese. Mentre invece
è una ben scarsa rivoluzione, quella che rinuncia a cambiare il mondo
per rinchiuderlo su se stesso come un pacchetto fragile, cercando così
di comprare governo al mercato della paura, a un prezzo stracciato. Vien
fuori un’idea balorda dell’Italia, amputata in alto delle competenze
delle élite, colpevoli di tutto: e liberata in basso dalla scomoda
presenza dei disperati. Un Paese di singoli, arrabbiati con chi ha vinto
e con chi ha perso, per l’invidia del successo, la noncuranza del
sapere, il fastidio della responsabilità generale.
L’immagine non è
nemmeno quella del muro di Trump. In quel muro Grillo infatti si limita
ad alzare il ponte levatoio, come in un medioevo impaurito. Fuori, c’è
il mondo.