mercoledì 7 giugno 2017

Repubblica 7.6.17
Caterina la santa che inventò l’italiano
di Silvia Ronchey


Come svelano nuovi studi, il vero miracolo della mistica di Siena è la sua scrittura innovativa
“Più luce!”, furono le ultime parole di Goethe. “Sangue! Sangue!”, furono le ultime parole di Caterina da Siena, con Dante il primo genio, come scrisse Tommaseo, della lingua italiana. Le sue opere – il “Libro”, in seguito reintitolato “Dialogo della divina provvidenza”, e le trecentottantuno Lettere – furono scritte col sangue, quasi letteralmente. Scrivo “nel prezioso sangue di Cristo”, spiegava di continuo Caterina. Non era solo una metafora. Il più attendibile dei suoi biografi, Tommaso Caffarini, narra di come un giorno, trovando in una stanza della rocca di Tentennano un vasetto
di cinabro di quelli usati dai copisti per vergare i capilettera, lei lo afferrasse insieme al calamo e alla pergamena e prendesse a scrivere rapidamente, “con tratto leggibile e netto”. Caterina, ed era forse questo uno dei suoi molti segreti, scriveva in inchiostro color sangue, e lo faceva di suo pugno, per quanto reticenti o deliberatamente svianti siano in proposito i suoi primi agiografi, attenti a far credere all’autorità ecclesiastica che quelle opere non nascessero dall’audacia di un carisma personale, bensì da miracolosa ispirazione divina; che fossero da lei dettate in stato di trance ai membri maschi della sua laica confraternita. Furono capaci di persuaderne i successivi studiosi, a loro volta inclini a credere all’inevitabile analfabetismo di quella strana figlia della piccola borghesia della buia contrada senese dell’Oca, adolescente anoressica uscita dal mondo per sprofondare nella sua “cella interiore”, fuggita dal corpo per costruirsi un “corpo spirituale” nella perenne astensione dal cibo (un po’ d’acqua e piccoli boli di erbe che subito rimetteva) e dal sonno (su una tavola per terra e “non più di mezz’ora ogni due giorni”), nelle piaghe delle catene e del cilicio, nelle penitenze, nei più implacabili e disciplinati stenti dell’ascesi, nelle devastazioni dell’estasi.
Come scriveva il suo amico William Flete all’indomani della morte, che la prese a trentatré anni, Caterina “abitava nella caverna del costato di Cristo”. Nel Dialogo confessava: “La vita mia non è passata altro che in tenebre; ma io mi nascondarò nelle piaghe di Cristo crocifixo e bagnarommi nel sangue suo”. Vissuta in un tempo in cui l’accesso alla scrittura era nominalmente vietato a qualsiasi donna non fosse regina o principessa, la sua padronanza dello scrivere era nascosta in quella caverna, nota solo a quell’entourage di confessori in realtà segretari, direttori di coscienza in realtà sottoposti, padri spirituali in realtà figli, che costituivano la “bella brigata”, la comunità di cui Caterina, il volto brunito come un capo indiano, indurito “come cuoio” dal sole della Francigena, era l’irrivelabile maestra, “madre” e profetessa. Un libro di André Vauchez ( Caterina da Siena. Una mistica trasgressiva, Laterza) cerca oggi di contestualizzare la sua eversione spirituale e la sua militanza politica nella lotta tra chiesa e impero, regni e stati dello scacchiere trecentesco, ma anche fra ordini rivali e contrapposti papati nel tempo dello scisma avignonese, della Crociata contro l’Anticristo, della plurinvocata riforma della chiesa, al di là della narrazione della propaganda ecclesiastica, che della sua figura di outsider ha fatto prima una paladina del primato della sede papale romana, poi una costruzione patriottica, tanto da trasformarla in antesignana dell’unità d’Italia, e nel 1939, ad opera di Pio XII, in copatrona d’Italia: in un Francesco femmina – per quanto lei si considerasse uomo e per quanto meno scrittore, ancorché sublime, fosse di lei Francesco. Ma accomunava certo entrambi la simulata illetteratezza, la scelta del sermo humilis, l’esoterica semplicità del volgare con cui vollero trasporre nella lingua umana l’ineffabile.
Il Sangue, la passione, la tortura, è la scrittura. Perché “in sul cuore la pietra del diamante, se non si rompe col Sangue, non si può rompere”. La sua anima, come dichiara nel prologo del Dialogo, era “ansietata di grandissimo desiderio”, ed era “abituata e abitata nella cella del cognoscimento di sé”, perché “al cognoscimento seguita l’amore” e “amando cerca di seguitare e vestirsi di verità”. Per Caterina l’opus della scrittura era un corpo a corpo con quell’“ansietato desiderio” di smarrire il proprio io in un amore non di questo mondo. Influenzata dall’agostiniano William Flete, il peccato era per lei solo mancanza d’amore: non realtà ma, scrive, “quella cosa che non c’è”. E “l’attitudine dello scrivere”, come confidò a Raimondo da Capua, era l’unica “con cui sfogare il cuore, perché non scoppiasse”.
Come ha scritto Michel de Certeau, il mistico è la persona che vuole “offrire un corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla verità”. “Affogata e annegata nel sangue” dell’inchiostro, Caterina vi trovava “l’affocata sua verità”. Il discorso, il Logos, si fece carne in quella sofferenza, da Caterina paragonata alla passione di Cristo e assimilata al torchio dionisiaco da cui cola la bevanda redentrice del dio sacrificato e spremuto. Smembrata come Dioniso, le sue reliquie saranno sparse in più templi del mondo cattolico, ma la sua testa mummificata, oltre la grata del tabernacolo gotico, presidia quell’insospettabile tempio pagano che è la basilica senese dell’ordine cui fu più vicina, quello di San Domenico. Se percorsa la navata centrale in direzione della Sagrestia Vecchia, varcata la balaustra di marmo, si accede alla Cappella del Testa, si verrà colpiti anzitutto, ai due lati del sottarco, da due misteriosi personaggi affrescati dal Sodoma, identificati oggi da Gioachino Chiarini ( Il calice e lo specchio, Nerbini) con Platone e Aristotele; ma soprattutto, al centro del pavimento policromo, da una figura tanto anomala quanto inconfondibile, identificata da Bernard Berenson con quella di un classico Orfeo che al posto della cetra regge uno specchio. Nella lettura di Chiarini l’intero programma iconografico della cappella, progettato tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento dai seguaci senesi dei misteri cateriniani, è la coerente illustrazione delle pagine finali del Dialogo e l’Orfeo asessuato della tarsia marmorea è la chiave della teoria cateriniana dell’anima. Una teoria ermetica, dove la passione di Cristo è l’opus cui si rifà l’anima individuale nel laboratorio alchemico della salvazione, attraverso quella sua letterale e fisica imitazione che è l’opus della scrittura, attuata nel bagno vermiglio del sangue. Più ci si addentra nella vicenda intellettuale di Caterina, più si è rapiti dalla sua indecifrabilità. Anche se oggi la riconosciamo certo ben più consapevole di quanto ogni versione ecclesiastica abbia voluto o potuto in origine ammettere, non conosciamo le fonti filosofiche dirette del suo
Dialogo. Qualcuno ha evocato Agostino, qualcun altro lo Pseudo-Dionigi, ma molto era occultato nella composita comunità di cui Caterina era maestra, madre e profetessa. Se le facce di Caterina sono tante quanto le reliquie in cui il suo corpo è oggi smembrato, se le ragioni della sua fortuna sono sotterranee, e anche per questo confondono storici e biografi, se tra i miracoli di Caterina il più grande è quello della scrittura, dietro il segreto della sua scrittura, così ben custodito dai suoi seguaci, ce n’è forse un altro: l’ermetismo, l’alchimia. Un segreto di cui solo i suoi più tardi conoscitori e cultori, in quello spalancarsi del vaso di Pandora del pensiero medievale che fu il Rinascimento, hanno voluto fornirci, con le dovute precauzioni, la chiave.