Repubblica 2.6.17
Fra il 1966 e il 1967 lo scrittore di “Furore” da poco insignito del Nobel raccontò il conflitto nel sudest asiatico
Partì animato da sentimenti patriottici che poi si affievolirono. Ora i suoi dispacci sono raccolti in un volume
Steinbeck in Vietnam
Un grande reporter sulle sponde del Mekong dove muore la “meglio gioventù” americana
Simonetta Fiori
Nelle
foto appare un po’ appesantito, come se facesse fatica a impugnare le
armi, mirare al bersaglio, farsi largo nella sterpaglia con il suo
elmetto d’acciaio. Ma quando punta l’obiettivo del fotografo, John
Steinbeck tenta di soffocare in un ghigno furbo la marea di dubbi dentro
la sua testa. Stava per compiere 65 anni, troppi per partecipare a una
guerra. Troppi per continuare a credere che la guerra in Vietnam fosse
necessaria. Sarebbe morto due anni più tardi, tra molti ripensamenti.
È
difficile tenere insieme due simboli apparentemente inconciliabili,
come possono esserlo luce e ombra, un icona tra le più alte del
Novecento letterario — il narratore dell’epopea di migranti all’epoca
della Grande Depressione — e la fotografia insanguinata dell’intervento
americano. E non è un caso che la storia di Steinbeck in Vietnam sia
rimasta nel backstage dell’immaginario collettivo, fin quando un paio
d’anni fa è uscita negli Stati la prima raccolta completa del suoi
dispacci, una serie di cinquantotto articoli scritti per il Newsday dal
dicembre del
1966 all’aprile del 1967 (ora tradotta in Italia da
Rossana Macuz Varrocchi nelle edizioni Leg, Vietnam in guerra, con saggi
di Thomas E. Barden e Cinzia Scarpino). Sono corrispondenze in forma di
missiva, pubblicate sotto la testatina “lettere ad Alicia”. Così aveva
voluto lo scrittore per rendere omaggio ad Alicia Patterson, la
fondatrice del giornale scomparsa poco tempo prima.
All’inizio
Steinbeck non voleva partire. Il presidente Johnson aveva cercato di
convincerlo in tutti i modi, ma lui resisteva all’idea di diventare un
testimonial del fronte asiatico: e certo lo sarebbe diventato vista la
sua gigantesca fama recentemente incoronata dal Nobel. Finché
un’occasione famigliare lo spinge a Saigon: l’arruolamento in Vietnam
del secondogenito John IV. Non era immaginabile che il grande reporter
di guerra, l’autore di pagine indimenticabili sul secondo conflitto
mondiale ( Once There Was a War), disertasse il campo di battaglia
frequentato dal figlio. Su incarico dell’editore Guggenheim — e non del
presidente Johnson — nel dicembre del 1966 Steinbeck parte con la moglie
per Saigon. Per poi visitare anche Laos, Cambogia, Thailandia, Hong
Kong.
Cosa vede Steinbeck della guerra? Si sposta in elicottero
lungo il Mekong, assiste al bombardamento di un B-52, partecipa come
osservatore alle escursioni aeree. Sembra confuso, ha l’impressione che
la guerra gli sfugga. Ma le sue corrispondenze non vengono mai meno a
quello spirito patriottico e interventista con cui era partito. Agli
occhi del reporter, la “meglio gioventù” non erano gli hippies o i
debosciati che perdevano tempo nelle marce pacifiste ma quei coraggiosi
ragazzi che in tuta mimetica si immolavano per la patria. Tornato negli
Usa alla fine di aprile — siamo nel 1967 — Steinbeck smette di occuparsi
pubblicamente del Vietnam per confessare le sue riserve solo agli
amici. «Sono quasi sicuro che quelli che dirigono questa guerra non
abbiano né un’idea né il controllo», scrive in agosto all’editor
Elizabeth Otis. Muore sedici mesi più tardi. Fortunatamente non fa a
tempo a vedere i reduci in carrozzella scagliare le loro medaglie contro
la gradinata del Campidoglio.