il manifesto 2.6.17
Trump non sposta l’ambasciata, Netanyahu deluso, Abu Mazen esulta
Israele/Territori
occupati. Il presidente americano ha deciso di congelare l'applicazione
della legge che stabilisce il trasferimento della sede diplomatica Usa
da Tel Aviv a Gerusalemme. Il governo Netanyahu accusa il colpo. L'Anp
applaude. Ma la decisione non è definitiva
di Michele Giorgio
GERUSALEMME
«Sebbene Israele sia deluso del mancato spostamento, per ora,
dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, apprezza l’espressione dell’amicizia
di oggi del presidente Trump e il suo impegno a muovere l’ambasciata nel
futuro». Benyamin Netanyahu ieri provava a fare buon viso a cattivo
gioco dopo la decisione presa da Donald Trump di firmare il decreto che
congela per altri sei mesi l’attuazione della legge – il Jerusalem
Embassy Act – approvata dal Congresso nel 1995 che stabilisce il
trasferimento della sede diplomatica statunitense da Tel Aviv a
Gerusalemme, in modo da riconoscere la città, inclusa la zona Est
(palestinese) occupata nel 1967, come la capitale di Israele. Il premier
israeliano però non ha potuto trattenersi dal rivolgere una critica al
presidente americano. «Il mantenere le ambasciate fuori dalla capitale
(unilateralmente proclamata da Israele, ndr) – ha detto Netanyahu –
allontana la pace mantenendo viva la fantasia palestinese che lo Stato e
il popolo ebraico non abbiano connessioni con Gerusalemme».
Trump
non ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale e che aveva
fatto brindare alla vittoria l’establishment politico israeliano.
L’ambasciata Usa resta a Tel Aviv. Non cambia nulla. Per ora, sottolinea
Netanyahu, però anche lui sa che persino il tycoon che si proclama un
alleato di ferro di Israele e che il mese scorso, primo presidente
americano in carica, ha visitato il Muro del Pianto nella zona Est della
città, non può non tenere conto dell’eccezionale importanza che
Gerusalemme ha anche per il mondo arabo e islamico. Nel momento in cui
stringe i rapporti con le petromonarchie del Golfo in chiave anti-Iran,
Trump ha scelto di sacrificare i desideri di Israele. Il governo
Netanyahu ne è consapevole. Per questo non sorprende il forte disappunto
del ministro Yuval Steinitz che ha accusato Trump di aver ceduto alle
pressioni arabe. «Penso che sia il momento di mettere fine a questa
mancanza – ha protestato – tutti riconoscono Gerusalemme come capitale
d’Israele e quando Trump viene qui, va a Gerusalemme non a Tel Aviv».
Steinitz, polemicamente, ha aggiunto di sperare che il trasferimento
dell’ambasciata avvenga «prima dell’avvento del Messia». Una battuta che
risponde alle assicurazioni del portavoce di Trump, Sean Spicer, certo
che l’interrogativo non è più se la sede diplomatica sarà trasferita «ma
quando». Deluso anche il sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barkat,
che si è detto «pronto a fare qualsiasi cosa per concretizzare la
mossa».
In casa palestinese, o meglio dell’Anp del presidente Abu
Mazen, ieri sera si cantava vittoria, come se Trump fosse davvero
interessato a promuovere un accordo tra israeliani e palestinesi fondato
sul rispetto delle risoluzioni internazionali. Nabil Abu Rudeinah, ha
elogiato «il passo positivo e importante che – a suo dire – migliorerà
le possibilità di raggiungere la pace». Quindi ha affermato la volontà
dei palestinesi di «continuare a lavorare con il presidente Trump e la
sua amministrazione per raggiungere una pace giusta e duratura». Abu
Rudeinah sa bene che quella di trump è solo una mossa tattica per far
riavviare il negoziato tra israeliani e palestinesi ed evitare uno
scontro con il mondo arabo nel momento in cui l’Amministrazione Usa è
impegnata, oltre a vendere armi per almeno 110 miliardi di dollari
all’Arabia saudita, a formare un fronte arabo sunnita compatto contro
l’Iran. Trump intende spostare l’ambasciata Usa ma solo quando lo
riterrà più conveniente. E che il presidente americano non sia affatto
neutrale tra israeliani e palestinesi, come vorrebbero far credere
alcuni esponenti dell’Anp, lo dice lo stesso Abu Mazen che, secondo la
stampa locale, avrebbe ammesso di essere finito sotto una valanga di
accuse nel faccia a faccia che ha avuto con Trump il 23 maggio a
Betlemme, perché secondo gli americani non ha fermato «l’istigazione
contro Israele» come aveva promesso di fare durante la sua recente
visita alla Casa Bianca.