Corriere 2.6.17
Il trauma del ’67 inquieta israele
di Yossi Klein Halevi
Nelle
prossime settimane si prevedono accesi dibattiti attorno al 50°
anniversario della Guerra dei sei giorni, che iniziò il 5 giugno del
1967, e durante la quale Israele sconfisse tre eserciti arabi per poi
occupare la Cisgiordania, le alture del Golan e il deserto del Sinai. Ci
saranno celebrazioni in Israele per commemorare la riunificazione di
Gerusalemme, il cuore pulsante delle speranze e delle preghiere degli
ebrei durante duemila anni di esilio. E ci saranno anche dibattiti e
riflessioni sul futuro di Israele.
Il ricordo di quella guerra del
1967, nella memoria della comunità internazionale, ha inizio con la
vittoria di Israele e la straordinaria dimostrazione di valore militare
da parte dell’esercito israeliano che avrebbero trasformato l’intero
Medio Oriente.
Tuttavia, per capire appieno l’impatto della guerra
sulla psiche israeliana, occorre tornare ancora più indietro, alle
settimane che precedettero il conflitto armato. Mentre si interrogano
sul futuro della Cisgiordania, gli israeliani ricorderanno non solo la
vittoria del giugno 1967, ma soprattutto la sensazione dolorosa di
estrema ansia e vulnerabilità che precedette la guerra.
Conto alla rovescia
Il
conto alla rovescia verso le ostilità prese avvio a metà maggio, quando
il presidente egiziano Gamal Abdul Nasser decretò la mobilitazione di
decine di migliaia di soldati verso i confini di Israele. Nasser ordinò
alle forze di pace delle Nazioni Unite di ritirarsi e, cosa
sorprendente, l’Onu obbedì senza neanche convocare il Consiglio di
sicurezza. Subito dopo Nasser ordinò il blocco navale degli Stretti di
Tiran, la via marittima a sud di Israele, per poi firmare accordi
militari con la Siria e la Giordania.
Pretesto dell’aggressione
araba non fu affatto l’occupazione territoriale, difatti la Cisgiordania
era controllata dalla Giordania e Gaza dall’Egitto, bensì l’esistenza
stessa di uno Stato ebraico. I leader arabi dichiararono che la
distruzione di Israele era imminente.
Tutti gli israeliani e gli
ebrei spaventati e ansiosi in giro per il mondo rimasero scioccati nel
rendersi conto che l’Olocausto non aveva segnato la fine del genocidio
contro gli ebrei, ma che il pericolo si era semplicemente spostato
dall’Europa al Medio Oriente. E ancor più scioccati furono davanti alla
scoperta che Israele avrebbe dovuto affrontare quella minaccia da solo.
La
straordinaria vittoria israeliana lasciò sbalordito il mondo intero, e
persino gli israeliani stessi. Lo stato ebraico uscì dalla Guerra dei
sei giorni con un territorio tre volte più grande rispetto alle
dimensioni precedenti.
Più tardi, Israele restituì all’Egitto il
territorio più vasto conquistato, il deserto del Sinai, a seguito del
trattato di pace tra i due Paesi siglato nel 1979. Per quel che riguarda
le Alture del Golan, sottratte alla Siria, la maggioranza degli
israeliani concorda nel ritenere che con ogni probabilità resteranno a
far parte del territorio di Israele, sia per l’implosione dello Stato
siriano che per la presenza dell’Isis e di altri gruppi terroristici
operanti sul confine tra Siria e Israele.
La Cisgiordania
Il
futuro resta invece incerto per la Cisgiordania, l’ultimo territorio
conquistato nella Guerra dei sei giorni. Per Israele, è un dilemma assai
spinoso. Se annette il territorio e assorbe al suo interno i diversi
milioni di palestinesi che vi abitano, Israele sarà prima o poi
costretto a scegliere se essere uno Stato ebraico o uno Stato
democratico, due aspetti fondamentali della sua identità. Se concede ai
palestinesi il diritto di voto, dovrà rinunciare alla maggioranza
ebraica. Se nega il voto ai palestinesi, perderà la sua vocazione
democratica.
Ma il ritiro da quelle terre nasconde rischi non meno
allarmanti. Il ritorno ai confini precedenti al ‘67 rischia di esporre
l’area metropolitana di Tel Aviv alla minaccia degli attacchi
missilistici palestinesi dalle colline della Cisgiordania. Gli
israeliani temono inoltre che dopo il ritiro, il gruppo fondamentalista e
terroristico di Hamas prenda il controllo del territorio, come già
accaduto a Gaza. A quale Stato mediorientale assomiglierebbe allora la
Palestina: alla Siria? al Libano? all’Iraq? alla Libia?
Gli
israeliani sono tormentati da due incubi. Il primo è che non ci sarà mai
uno Stato palestinese e lo stallo si protrarrà all’infinito. Il secondo
è che ci sarà uno Stato palestinese e Israele si ritroverà a vivere,
anche se in modo diverso, la precarietà e l’insicurezza del maggio 1967.
Per
coloro che appoggiano il ritiro, il ricordo della vittoria del giugno
1967 fornisce la prova schiacciante che persino nel peggiore dei casi
Israele sarà in grado di difendersi. Per coloro che si oppongono al
ritiro, il trauma del maggio 1967 resta un avvertimento che Israele
potrebbe ritrovarsi nuovamente abbandonato e costretto ad agire da solo.
Il futuro
I
pessimisti ammoniscono che ben poco è cambiato negli atteggiamenti del
mondo arabo nei confronti di Israele. Avvertono che in un Medio Oriente
in disfacimento, le garanzie internazionali sulla sicurezza di Israele
come parte di un accordo per il ritiro dalla Cisgiordania non avranno
alcun valore. Gli ottimisti, in Israele, controbattono che la Guerra dei
Sei giorni ha contribuito a trasformare un piccolo Stato agrario e
marginale di appena tre milioni di abitanti nella potenza tecnologica di
oggi. Il Paese creato nel giugno ‘67 deve liberarsi dai traumi di
quello del maggio ‘67.
La comunità internazionale, tuttavia,
spesso rafforza le tesi dei pessimisti. La legittimità di Israele resta
una questione aperta nel mondo islamico e sempre di più anche in alcuni
settori dell’opinione pubblica occidentale. Quando gli israeliani si
sentono assediati, di solito reagiscono irrigidendosi. Quando si sentono
benvoluti, ecco che abbassano la guardia. Come quando, dopo la Guerra
del Golfo del 1991 e la caduta dell’Unione Sovietica, decine di Paesi
dell’Europa dell’Est, dell’Africa e dell’Asia riconobbero lo Stato
ebraico e l’Onu si rimangiò la risoluzione sul sionismo come forma di
razzismo. Israele reagì dando avvio al processo di pace di Oslo con i
palestinesi.
Il modello è chiaro: umiliate e isolate Israele, e il
Paese ripiomberà nel terrore del maggio 1967. Accogliete Israele nella
comunità internazionale e i suoi cittadini si sentiranno pronti ad agire
con la fiducia dei vincitori, capaci di affrontare ogni rischio per la
pace.
(Traduzione di Rita Baldassarre)