venerdì 2 giugno 2017

Repubblica 2.6.17
I sei giorni che cambiarono il mondo
di Bernardo Valli


GERUSALEMME Quella mattina del 5 giugno, di cinquant’anni fa, ero lontano dall’immaginare il nuovo Medio Oriente che stava per disegnarsi. Ero al Cairo, sulla sponda del Nilo, nell’attesa di una guerra inevitabile, ma della quale era difficile prevedere il momento in cui sarebbe cominciata. L’incertezza non era sui giorni, le settimane, i mesi che mancavano all’inizio. Sembrava una questione di ore. E invece l’attesa fu di qualche minuto. Gli eserciti avversari erano pronti in Israele, dove da giorni erano stati richiamati i riservisti, e sull’altro fronte, in Egitto, in Siria, in Giordania, i paesi di prima linea, con i quali si erano schierati, perlomeno nelle dichiarazioni, l’Arabia Saudita, l’Iraq, il Libano e altre nazioni ancora. L’armonia non regnava tra gli alleati arabi. I siriani ostentavano la loro autonomia rispetto agli egiziani che si consideravano alla testa della coalizione anti-israeliana. In Israele erano ormai state superate le esitazioni sulla necessità di lanciare l’offensiva.
Ero reduce da Gaza. Avevo percorso il Sinai nei due sensi. Un viaggio polveroso sulle strade della penisola, tra le colonne corazzate e i reparti di fanteria egiziani; e a Gaza tra i palestinesi ammassati sulle piazze dove venivano armati con vecchi fucili Enfield abbandonati dagli inglesi. Erano i profughi di vent’anni prima, della guerra ’47-48, che speravano di ritornare nelle loro case, in quello che era diventato Israele. Molti avevano appese al collo le chiavi arrugginite delle loro vecchie abitazioni, ormai inesistenti.
Guardando il Mediterraneo dalla finestra del suo ufficio, il generale comandante la guarnigione della Striscia di Gaza mi aveva ripetuto gli ordini ricevuti da Gamal Abdel Nasser. Doveva combattere fino all’ultimo uomo. «Questa città, aveva sentenziato, sarà la Stalingrado del Medio Oriente». Nella base militare di al Arish, il comandante dei reparti corazzati destinati a scontrarsi con quelli israeliani non mi aveva nascosto il dilemma che l’aveva tormentato a lungo. Aveva esitato tra la tattica di Rommel e quella di Montgomery. Alla fine aveva preferito quella più mobile del comandante dell’Afrika Korps a quella del suo avversario inglese. Rommel aveva perso, è vero, ma non vince sempre il migliore, mi aveva assicurato il loquace e cordiale ufficiale egiziano.
Nell’attesa della guerra annunciata, quella mattina, al Cairo, bevevo l’ennesimo tè alla menta guardando le pacifiche, silenziose feluche con l’albero e la vela inclinati verso la prua. Scivolavano sull’acqua torbida del Nilo, disertato dai rumorosi battelli carichi di turisti diretti a Luxor e a Assuan. Gli stranieri se ne erano andati. Il segnale dell’inizio della guerra arrivò con i ripetuti tonfi provenienti dal deserto, ai limiti della metropoli, oltre il quartiere di Heliopolis, dove si stendevano le piste dell’aeroporto. Quei rumori sordi, attutiti dalla lontananza e dal vasto sbarramento di costruzioni, parevano inoffensivi.
Il cielo fu trafitto da centinaia di esplosioni, macchie nere che si dissolvevano nell’azzurro limpido. La contraerea egiziana rispondeva sparando nello spazio vuoto. Uomini e donne, camerieri, clienti, passanti, autisti con la testa fuori dal finestrino, operai sulle impalcature di un cantiere edile di Garden City con gli occhi rivolti al cielo, sentinelle del vicino ponte con i fucili puntati contro un nemico invisibile, tutti coloro che si muovevano nella città dove arrivava il mio sguardo, e anche oltre, sulle piazze spalancate nella metropoli affollata, e sull’opposta sponda del fiume, a Zamalek, tutti lanciarono grida trionfali, affascinati da un evento tanto atteso che infine si realizzava. Era come se la loro squadra del cuore sempre sconfitta avesse infine segnato un goal decisivo.
Il grande abbaglio egiziano
I numerosi transistor davano a tutto volume, eccitando ancor più la folla, una precipitosa, fantasiosa contabilità della guerra appena iniziata. Secondo le radio venti, trenta, settanta aerei israeliani erano stati abbattuti in pochi minuti. I fiocchi scuri della contraerea che si dissolvevano sulle nostre teste, emettendo raffiche di tuoni asciutti, senza eco, erano scambiati per apparecchi sionisti centrati in pieno dai tiri egiziani. In preda all’esaltazione i cairoti pensavano che i loro difensori non mancassero mai gli obiettivi. Ogni piccola nuvola nera provocata da uno sparo della contraerea era per loro un jet nemico che andava in frantumi. Una rivincita sognata per anni favoriva il grande abbaglio. Si gonfiava l’euforia per una vittoria che era già in realtà una disfatta. Tutte le città israeliane, annunciavano trionfanti le voci delle radio, erano sotto i bombardamenti egiziani e l’esercito di Rabin e di Dayan stava disperdendosi sconfitto nel deserto. L’arte dell’illusione prevalse quella mattina, e nelle ore che seguirono, sulla realtà di una guerra già perduta nei primi minuti. Non un solo aereo egiziano era riuscito ad alzarsi in volo e non un solo carro armato avrebbe nelle ore successive avanzato di un metro. Il generale di Gaza che doveva combattere fino all’ultimo uomo si preparava a firmare la resa in ebraico. E il suo collega di al Arish avrebbe tentato, non senza coraggio, una controffensiva che sarebbe risultata vana, secondo la tattica di Rommel.
Non tanto lontano dalla mia terrazza sul Nilo, dove cominciava il deserto, l’aviazione israeliana aveva distrutto l’aviazione egiziana in pochi minuti, senza neppure darle il tempo di decollare. L’aveva inchiodata a terra, dove era allineata senza protezione, mentre i piloti consumavano la prima colazione nel refettorio accanto alle piste di involo. Il maresciallo Abdel Hakim Amer, comandante delle forze armate egiziane, non aveva pensato di mettere al sicuro gli aerei, in appositi rifugi, o di tenerli in volo in quelle ore decisive. Per questo fatale errore si sarebbe suicidato.
Alle 7,10, ora israeliana, era scattata l’operazione Focus: sedici jet Magister Fouga, di fabbricazione francese e di recente dotati di missili, erano decollati da Hatzor, la base creata durante il protettorato britannico nel centro di quello che sarebbe diventato Israele. In prossimità dell’omonimo kibbutz. Gli aerei Fouga trasmettevano sulle stessa frequenze usate dai Mystère e dai Mirage, e, imitando quegli apparecchi, volavano come se fossero impegnati in una normale ricognizione senza mettere in allarme gli egiziani. Quattro minuti dopo si erano staccati dalle piste di Hatzor dei bombardieri Ouragan, seguiti a cinque minuti di distanza da uno squadrone di Mirage, decollato da Ramat David, e da quindici bimotori Vatours, della base di Hatzerim. Dopo le 7,30 erano in volo circa duecento apparecchi spronati dall’ordine del giorno di Motti Hod, comandante delle forze aeree: « … disperdere il nemico nel deserto affinché Israele possa vivere, sicuro sulla sua terra, per generazioni».
L’intera armata aerea volava a bassa quota, spesso a non più di quindici metri dal suolo, per evitare di essere intercettata dalle ottantadue stazioni radar egiziane. Alcuni apparecchi si diressero a Ovest, verso il Mediterraneo, per poi seguire la rotta inversa, in direzione dell’Egitto. Altri puntarono sul Mar Rosso per poi raggiungere obiettivi più all’interno del territorio egiziano. Il silenzio radio era imposto senza eccezione. In caso di guasti meccanici, precisò il colonnello Rafi Harlev, capo delle operazioni aeree, i velivoli sarebbero precipitati in mare in silenzio. Gli israeliani fecero 164 incursioni in cento minuti e distrussero 286 dei 420 aerei da combattimento egiziani in tredici basi disperse nel Sud e nel Nord del paese, tutte rese inservibili dai bombardamenti. Un terzo dei piloti fu ucciso. Il generale Yitzhak Rabin disse a conclusione di quella mattina che l’aviazione egiziana non esisteva più. Gli israeliani avevano perduto nove apparecchi.
I piloti israeliani avevano seguito un addestramento più intenso e più lungo dei piloti arabi. Avevano più ore di volo e avevano studiato per mesi gli obiettivi da colpire. La maggioranza dei loro aerei era francese, aerei ricevuti negli anni (precedenti alla svolta filo araba di De Gaulle) in cui i governi di Parigi avevano stretti rapporti con Israele, al punto da fornirgli (nel 1956) le informazioni tecniche per la costruzione di armi nucleari. Erano aerei resi molto più operativi dei Mig, Ilyushin e Topolov forniti dai sovietici a siriani e egiziani. I mezzi elettronici avevano raccolto informazioni essenziali. Il contributo dei servizi di intelligence non era stato trascurabile. Facendosi passare per un ex ufficiale delle SS, Wolfgang Lotz, un ebreo tedesco nato in Israele, carpì agli ufficiali egiziani informazioni preziose, fino a quando fu scoperto nel 1964. Più utile ancora fu l’ufficiale dell’intelligence diventato massaggiatore personale di Nasser. Aveva assunto una falsa identità egiziana e parlava l’arabo come un cairota. Forse lo era per nascita.
Al Ghezira Club, dove si giocava a golf, impaurita dalle esplosioni e dai tiri della contraerea, si era raccolta gran parte della grande borghesia. Era una frazione della società egiziana che non aveva motivo di partecipare all’euforica festa delle illusioni esplosa al Cairo. Il socialismo arabo di Nasser aveva nazionalizzato quasi tutti i suoi beni. E forse molti dei soci del club nei giorni o nelle ore successive, chiarito che la vittoria inventata dalla propaganda nasseriana era in realtà una brutale sconfitta, avrebbero condiviso quel che un grande poeta egiziano, nemico di Nasser, il copto George Henein, scrisse più tardi: «Una straordinaria dolce aria di disfatta aleggiava nella sera». Quella mattina del 5 giugno al Ghezira Club prevalevano tuttavia un istintivo patriottismo e la paura. Tra i soci presenti c’era il dottor Riso Levi, il più noto e rispettato ebreo del Cairo. Colto dall’emozione, tra le esplosioni dei missili israeliani e i tiri della contraerea egiziana, il medico si allontanò da solo sul green deserto, sotto gli sguardi della borghesia spaurita, assiepata ai margini del terreno da golf. Non era facile essere ebreo in quelle ore al Cairo. Il dottor Levi vide in chi l’osservava una forte ostilità. Si sentì il nemico. Ma fu sorpreso da una bella e giovane signora che, staccatasi dal gruppo spaurito, si dirigeva verso di lui. Era Nini Sharawi, di una aristocratica famiglia egiziana dell’Alto Egitto. Nini lo raggiunse, lo prese sotto braccio e lo condusse tra gli altri soci, mentre i rumori della guerra si intensificavano sulle vicine sponde del Nilo. Ancora anni dopo, emozionato, il dottor Levi mi raccontava l’episodio. Nella notte del 5 giugno e in quelle seguenti gli ebrei, molti dei quali col passaporto italiano, furono internati e poi espulsi dal paese. Insieme ai giornalisti americani e inglesi. Il dottor Levi rimase. Il Cairo era la sua città. A volte veniva nella mia camera d’albergo e sul balcone, dove nessuno registrava la nostra conversazione, parlava liberamente, a lungo, per alleggerire la tensione. La musica classica ascoltata per ore era il suo tranquillante. Nessuno gli fece mai uno sgarbo. Era un medico popolare. Spesso non poteva radunare nella sinagoga un numero sufficiente di fedeli per la preghiera. Non c’erano più abbastanza ebrei al Cairo.
Nel novembre 1966 Egitto e Siria avevano sottoscritto un’alleanza in cui i due paesi assumevano il reciproco impegno a intervenire nel caso uno dei due fosse coinvolto in un conflitto armato. L’iniziativa era dovuta al desiderio assillante, ossessivo, di una rivincita nei confronti di Israele. L’umiliante sconfitta del ’47-48 aveva condotto all’indipendenza dello Stato ebraico ed era all’origine del colpo di stato dei “liberi ufficiali”, guidati dal generale Naguib e dal colonnello Nasser, che nel ’52 avevano messo fine alla monarchia, e cacciato re Faruk. E nel ’56 non c’era stata una rivincita. Era sotto la pressione americana che gli israeliani, intervenuti con la spedizione franco-inglese (dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez), avevano dovuto ritirarsi dal Sinai. Tra i due grandi paesi arabi, Egitto e Siria, c’era una gara per dimostrare la disponibilità ad affrontare lo Stato ebraico. La manifestavano alimentando un’accanita propaganda anti-israeliana e abbandonandosi a una gesticolazione che era la mimica di una guerra. Al momento gli scontri erano limitati, ma destinati a condurre col tempo a un vero conflitto. La questione dei profughi palestinesi, cacciati o fuggiti dalle loro case, era sentita a livello popolare, ma in quel periodo le organizzazioni palestinesi non erano tenute in grande considerazione dai governi arabi. Avevano scarso peso. L’ avrebbero avuto tra breve.
Il 7 aprile 1967 un incidente banale al confine siro-israeliano provocò una battaglia aerea all’altezza delle alture del Golan. Sei Mig-21 furono abbattuti e Damasco si sentì ferita nel prestigio e minacciata in seguito alle dichiarazioni di Yitzhak Rabin, allora capo di Stato maggiore di Tsahal, l’esercito israeliano. I siriani denunciarono l’arrivo di truppe israeliane al confine e i sovietici loro alleati diffusero la notizia, informando con toni allarmati il Cairo. Gamal Abdel Nasser non voleva impegnarsi in una guerra. Sapeva di non essere preparato. Nel ’ 56 l’avevano salvato gli americani ordinando a inglesi, francesi e israeliani di ritirarsi dal Canale di Suez. Consentendogli così di vantare una vittoria politica se non militare, e di ribadire l’espropriazione di quella via d’acqua di importanza strategica, scavata nel secolo precedente. Ma questa volta gli americani erano più che mai al fianco di Israele e lui, Nasser, aveva intensificato, come alternativa obbligata, il rapporto con l’Unione Sovietica. Dalla quale aveva ottenuto la costruzione della diga di Assuan, dopo il rifiuto americano.
La crisi mediorientale era cosi diventata un capitolo della guerra fredda tra le due superpotenze. Nasser non pensava nella primavera ’67 a un conflitto aperto con Israele, anche perché parte del suo esercito, forse la migliore, si trovava nello Yemen da anni, dove combatteva a fianco dei repubblicani in una guerra civile. Ma giocò con sfrontatezza e con grande rischio la carta della provocazione. Concentrò numerosi reparti nel Sinai, al confine con Israele, al fine di costringerlo ad allentare la pressione lungo la frontiera siriana. Era un modo per dimostrare il suo impegno con Damasco. Ma per dispiegare l’esercito nel Sinai il rais del Cairo fu costretto a sfrattare dalla penisola le forze delle Nazioni Unite sul posto da dieci anni, con il compito di interporsi tra i rivali.
La destra e il sionismo
Gli israeliani furono sorpresi dall’azione egiziana e della partenza dei caschi blu il giorno in cui celebravano l’anniversario dell’indipendenza. Nasser prese un’altra decisione che aumentò l’allarme nello Stato ebraico: proibì il passaggio delle navi israeliane negli stretti di Tiran, tra il golfo di Aqaba e il Mar Rosso, e quindi indispensabili, o addirittura vitali ai paesi della zona. Il gesto di Nasser fu interpretato come un decisivo passo verso la guerra. Mentre lui contava sugli americani, sperando che frenassero, come nel ’56, gli israeliani ed evitassero che la crisi sfociasse in un conflitto. Questo suo calcolo risultò con chiarezza nella sua ultima conferenza stampa, quando gli appelli agli Stati Uniti furono ripetuti e decifrabili. Noi che l’ascoltavamo capimmo il messaggio in cui si alternavano spavalderia e tentativo di seduzione. La manovra non riuscì.
A Tel Aviv fu formato un governo di unione nazionale, di fatto un governo di guerra, con Moshe Dayan alla difesa e Menachem Begin come ministro senza portafogli, rappresentante della destra per la prima volta ammessa nell’esecutivo dominato dalla sinistra. Levi Eshkol non era un primo ministro bellicoso e come garanzia, per addentrarsi in un conflitto, voleva un decisivo appoggio americano. Lasciò comunque a Dayan la responsabilità della guerra, con Rabin come capo di stato maggiore. Ai due generali non restava che aprire le ostilità. Vale a dire anticipare un’iniziativa dell’Egitto e dei suoi alleati, ma anche cogliere l’occasione per sbaragliare i numerosi e rumorosi nemici ai confini. L’intensificarsi delle azioni armate palestinesi, che nel ’ 64 avevano creato l’Olp ( l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), e l’arrivo al potere a Damasco del partito Ba’th (Rinascimento) particolarmente aggressivo nei confronti di Israele, erano stati considerati segnali allarmanti. Il dubbio sulle reali intenzioni di Nasser non è mai stato del tutto dissipato. Con le sue decisioni, trascinato dalla competizione (su chi era più anti- israeliano) tra gli arabi, egli preparò comunque la trappola in cui sarebbe caduto.
Tsahal concentrò la sua offensiva sull’Egitto, privato ormai, come gli altri paesi arabi, di una protezione aerea. I palestinesi, principali vittime del dramma mediorientale, si difesero con coraggio a Gaza. Ma non a lungo. Noi cronisti scrivevamo dal Cairo le nostre corrispondenze, le affidavamo al telex dell’ufficio stampa, e finivano nella spazzatura, dopo essere state lette dai censori. Il passaggio sul lungo Nilo di camion isolati, con pochi soldati e i teloni slacciati e sbatacchiati dal vento, furono le prime immagini della disfatta nel Sinai. La testimonianza di un gruppo di petrolieri americani costretti ad abbandonare i pozzi nella penisola ci descrisse l’esercito egiziano in rotta. In un articolo finito nel cestino, ma letto prima da un giovane censore palestinese che aveva studiato dai salesiani la nostra lingua, figurava la parola “sterminato”. L’aggettivo si riferiva allo spazio, al deserto, ma il censore lo interpretò nell’altro significato, e l’affiancò all’esercito egiziano in rotta, e quindi “sterminato”. Fui convocato da un colonnello dell’intelligence che mi chiese come osassi usare un termine simile riferendosi al suo esercito. Mentre mi rimproverava per quell’aggettivo che giudicava insultante, dalle finestre dell’ufficio, affacciate sul lungo Nilo, si vedevano sfilare i resti dei reparti fuggiti dal Sinai. Quelle immagini drammatiche non piegavano l’orgoglio del colonnello.
Gerusalemme Est fu conquistata il 7 giugno, il terzo giorno di guerra. La controllava Hussein di Giordania, membro di una famiglia reale, quella hashemita, costretta ad abbandonare il califfato di due luoghi santi, La Mecca e Medina, e compensata con un regno ritagliato nel dissolto impero ottomano. Accusato di complottare con gli ebrei, Abdallah, nonno di Hussein, era stato assassinato da un palestinese. Mentre i paracadutisti israeliani stavano per superare le mura della vecchia Gerusalemme il giovane re cercò di farla dichiarare zona franca dalle Nazioni Unite. Ma quella mattina Motta Gur, comandante dei paracadutisti, annunciò per radio: « Il Monte del Tempio è nelle nostre mani». Alla notizia della conquista del luogo più sacro per l’ebraismo molti soldati non riuscirono a trattenere le lacrime. Fu un momento di intensa emozione per gli israeliani. Era come riappropriarsi di un pezzo di Storia. Quando veniva chiesto a Ben Gurion come mai lui, un agnostico, un laico, considerasse la Bibbia un testo essenziale, il fondatore dello Stato ebraico diceva che in quel libro c’è la storia del suo popolo. Il Monte del Tempio è un pezzo di quella storia.
All’occupazione della Gerusalemme orientale ricca di luoghi santi, Levi Eshkol reagì dicendo: «Abbiamo ricevuto una buona dote, ma è accompagnata da una sposa che non ci piace». Si riferiva alla passione religiosa e alle polemiche che sarebbero sorte attorno alla città tre volte santa. Per gli ebrei, i cristiani e i musulmani. La battuta di Levi Eshkol si è rivelata una giusta previsione. Neppure lui immaginava quanto fosse appropriata. Durante il mandato britannico e nei primi venti anni dell’esistenza di Israele, il sionismo socialista aveva avuto un ruolo decisivo nella formazione della società e dello Stato. Per una parte della sinistra europea, Israele con i suoi kibbutz e i governi laburisti era un punto di riferimento. I religiosi si erano uniti con fatica, riluttanti, al nazionalismo laico. Avevano ambizioni limitate: anzitutto far rispettare le regole religiose, in particolare quelle riguardanti l’alimentazione. Si accontentavano, secondo lo scrittore Amos Oz, di gestire il vagone ristorante. In effetti il laico Ben Gurion aveva dovuto fare concessioni ai religiosi superstiti dei campi di sterminio nazisti. Ma la guerra dei Sei giorni ha mutato il loro ruolo. Hanno rilanciato il sionismo in una versione impregnata di principi e riferimenti biblici, e hanno chiesto e intensificato (assecondati spesso anche da governi laburisti) l’insediamento di colonie nei territori occupati al fine di ricreare col tempo, secondo la loro visione, il Grande Israele. Favoriti dalla crescita dei sentimenti ultraortodossi e dall’intensificarsi delle pratiche religiose nella popolazione, in particolare in quella sefardita, i dirigenti della destra rimasti a lungo nell’angolo hanno fortemente influenzato la società e di riflesso conosciuto un rapido successo politico. Al punto da scalzare la sinistra sionista dal governo. Israele è cambiato con la guerra dei Sei giorni e con quella del Kippur, di sei anni dopo. Oggi i nazional-religiosi non rappresentano numericamente molto, sarebbero il dieci per cento. Ma sarebbero almeno il quaranta per cento tra gli ufficiali subalterni, e in parte anche tra quelli superiori. Ufficiali provenienti spesso dalle famiglie delle colonie israeliane di Cisgiordania ( o Giudea e Samaria). Sono ottimi e fedeli soldati del miglior esercito della regione, e non solo, ma secondo i vecchi militari si richiamano a principi diversi da quelli che ispiravano gli ufficiali di un tempo, usciti dai kibbutz, in cui prevaleva uno spirito laico. Dayan e Rabin ne erano un esempio.
Per il teologo Yeshayahu Leibowitz la guerra dei Sei giorni «è stata una catastrofe storica per lo Stato di Israele » . Secondo Leibowitz le conquiste territoriali del ’ 67 hanno acceso il progetto biblico del Grande Israele. E sollecitato l’idea di annettere le contrade occupate: Gerusalemme Est e la Cisgiordania ( Giudea e Samaria). La società è stata condotta a reprimere un altro popolo, quello palestinese. Da teologo che riponeva i valori non nella terra, ma nei principi, Leibowitz teneva in scarsa considerazione il problema della sicurezza, che ha invece avuto e ha un peso determinante in Israele. Rispettato per l’intensa religiosità e la vasta cultura, Leibowitz era discreditato agli occhi degli altri religiosi sia per la condanna dell’occupazione dei territori conquistati nel ’67, sia per l’invito ai giovani di rifiutare il servizio militare con il ruolo di occupanti, sia perché era favorevole alla totale separazione tra Stato e religione. Dal conflitto di mezzo secolo fa è nata una appassionata polemica sulla morale e il diritto storico degli ebrei sulla Terra di Israele, vista attraverso una interpretazione della Bibbia. La posizione di grandi scrittori, quali Amos Oz e A. B. Yehoshua, è nettamente critica sull’occupazione.
Mai nel nostro tempo un conflitto tanto breve, durato sei giorni, e limitato a una regione, ha avuto conseguenze cosi vaste e prolungate. Ancora oggi molti problemi creati in neppure una settimana del giugno 1967 restano irrisolti e sono almeno in parte all’origine dei contestati mutamenti nella mappa mediorientale. Cambiamenti non solo territoriali. Dalle conquiste di quei giorni ( Gerusalemme Est, Cisgiordania, Golan, e Gaza poi abbandonata) nascono ambizioni che modificano lo spirito dello Stato ebraico. Nell’ebbrezza del successo si intensifica lo slancio nazionalista, in cui contano il richiamo storico e l’aspetto religioso. Lo spazio laico delle origini sioniste si restringe. Cosi la frustrazione del nazionalismo arabo, di cui la dittatura nasseriana è la massima espressione, dopo la nuova sconfitta inflittagli da Israele, contribuisce a far emergere l’alternativa integralista islamica, nella versione violenta, jihadista.
Il 9 giugno, quinto giorno di guerra, gli israeliani hanno già il controllo del Sinai e sono sulle sponde del Canale di Suez. Sul fronte siriano esitano, preoccupati per le eventuali reazioni dei sovietici, stretti alleati e virtuali protettori di Damasco. Ma le esitazioni non durano a lungo, Moshe Dayan dà via libera all’occupazione delle alture del Golan, al confine siriano. Nelle stesse ore il Cairo è sprofondato nel pessimismo. I sovietici hanno inviato armi e munizioni di cui l’esercito egiziano in piena decomposizione non è in grado di servirsi. Gruppi di soldati si aggirano smarriti nelle strade semideserte della capitale. Lo spettacolo conferma ai cairoti che le vittorie annunciate dalla propaganda nascondevano una disfatta su tutti i fronti. Riferendosi a Nasser, nei quartieri popolari, si dice non tanto sottovoce «la bestia». E in alcune capitali arabe, ad esempio a Algeri, davanti all’ambasciata egiziana centinaia di persone scandiscono «Nasser traditore».
Testimonianze di quelle ore descrivono il rais in preda a una forte depressione. Mostra la tasca gonfia per la rivoltella e dice che potrebbe servirsene per togliersi la vita. La sua guardia del corpo si è schierata sul Canale di Suez e lui, Nasser, si sente indifeso, esposto a un colpo di mano degli stessi militari egiziani. Il maresciallo Amer, principale responsabile della disfatta, in quanto comandante delle forze armate, ha già tentato di suicidarsi nel Quartier generale. Ci riuscirà in settembre, quando accusato di un complotto contro Nasser, gli sarà imposto di scegliere tra un processo per alto tradimento e il suicidio. E lui sceglierà quest’ultimo.
Le dimissioni (respinte) del rais
Di primo mattino, quel 9 giugno, Hassanein Heikal, direttore del quotidiano Al Ahram, trova il rais, suo grande protettore, invecchiato «di dieci anni» e in preda a forti dolori alle gambe. Nasser gli dice di essere colpevole del disastro e pronto a espiare. L’Egitto deve ormai trattare con gli Stati Uniti e lui non è la persona adatta. La conquista politica dell’America è la sua ossessione da quando ha preso il potere quindici anni prima. Non riuscire a staccare gli Stati Uniti dall’intesa con Israele è stato il suo grande fallimento. Non gli restano che le di- missioni. Il successore sarà Zakaria Mohieddin, un ufficiale nasseriano della prima ora, più volte ministro, considerato una persona in grado di allacciare un dialogo con l’America. Zakaria figurava come l’esponente più autorevole della corrente di destra del regime. Il maresciallo Amer chiama Nasser al telefono, mentre il direttore di Al Ahram è ancora presente, e l’avverte che gli israeliani hanno attraversato il Canale di Suez. Nasser non lo prende sul serio: «Ha perso i nervi come ha perso l’esercito».
Nel tardo pomeriggio, sono le sei e trenta, il personale dell’albergo si precipita a chiudere le vetrate che danno sul Nilo da un lato, e su una piazza dal altro. Noi clienti siamo invitati a rinchiuderci nelle nostre camere. Una folta squadra di poliziotti armati di fucili e sfollagenti circonda l’edificio, appena in tempo per contenere la folla che cerca di invaderlo. Nasser ha annunciato alla radio le dimissioni. E subito dopo uno speaker ha informato che la calma sta ritornando su tutti i fronti in seguito all’accordo raggiunto per un cessate il fuoco.
Con una voce a tratti spezzata il rais ha difeso la decisione di rimilitalizzare il Sinai, di cacciare i caschi blu e chiudere gli stretti di Tiran. L’intenzione era di dissuadere Israele dall’invadere la Siria. La Russia e gli Stati Uniti avevano esortato l’Egitto a non sparare per primo. Israele, aiutato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, l’aveva sorpreso scatenando l’offensiva: « Aspettavamo che il nemico arrivasse da Est e da Nord, e invece è arrivato da Ovest. Per cancellare la sconfitta ( Naksa) gli arabi devono restare uniti contro Israele » . Con queste parole il rais si è rivolto al paese.
Non ha ancora terminato il breve discorso che il Cairo esplode. Folle enormi, compatte, occupano le piazze, mentre gli aerei egiziani superstiti volano a bassa quota e l’artiglieria spara dalla collina di Mokattam che sovrasta dal lato Est la capitale. La gente scandisce « no Zakaria — sì Gamal». Zakaria Mohieddin è visto come una resa a Israele e all’America, mentre Gamal Abdel Nasser, superate le critiche, spesso gli insulti, incarna adesso la resistenza. Ossia il rifiuto della sconfitta. Viene scandito anche il nome di Ali Sabri, un altro « ufficiale libero » delle prime ore, considerato meno filo americano di Zakaria, e quindi un successore più accettabile di Nasser, nel caso il rais non ritirasse le
dimissioni.
In Egitto sono stato testimone di tanti avvenimenti corali: le svolte sempre orchestrate e retoriche del regime; le impennate sentimentali della folla: i funerali grandiosi di Nasser e poi quelli freddi, glaciali di Sadat; l’entusiasmo per vittorie che erano sconfitte. Credevo di conoscere il popolo del Nilo, incline all’esaltazione di rado al fanatismo. Ma il giorno del giugno ’67 in cui Nasser ha dichiarato che rinunciava al potere, addossandosi la responsabilità della fulminea disfatta, e milioni di cairoti si sono riversati nelle piazze e sul lungo fiume, implorandolo di restare, il dramma ha raggiunto un’intensità senza precedenti. L’emozione di milioni di uomini e donne ti investiva come qualcosa di concreto, di palpabile. Steso su un muro che dava sul lungo fiume, e sotto il quale sfilava la folla, ho assistito a quella passionale reazione dell’Egitto. Non c’entrava più la guerra. C’era un popolo illuso, ingannato, frustrato, che si aggrappava al rais, al capo che l’aveva trascinato nella disfatta. Per milioni di egiziani il suo abbandono del potere avrebbe appesantito l’umiliazione. Avrebbe reso definitiva la sconfitta. La sopravvivenza politica del responsabile del disastro era l’ultima linea di resistenza.
La fuga palestinese
Nella notte ho attraversato la città buia, aprendomi un varco nella folla diventata silenziosa nell’attesa di una risposta del rais. All’inizio era stata una tempesta poi il Cairo si era quietato. La gente si spostava per lasciarmi passare quasi con dolcezza, pur sentendo che ero uno straniero. Sembrava che mi accettasse nella sua intimità. Nasser esaudì infine la folla, restava alla testa del paese che aveva portato alla sconfitta. Forse lui stesso aveva orchestrato quel plebiscito, non tanto organizzandolo, perché non ne avrebbe avuto il tempo, ma giocando sui sentimenti della sua gente, con la studiata regia degli aerei a bassa quota e i tiri d’artiglieria dalla collina di Mokattam. Aveva perduto una guerra, ma vinceva il confronto col suo popolo. L’indomani, la decisione di Nasser fu celebrata con una disciplina popolare che  era mancata sul piano militare. Il regime aveva ancora la forza di organizzare una manifestazione che aveva anche il valore di una psicoterapia di gruppo per un popolo sconsolato.
Il nazionalismo nasseriano è comunque naufragato nel giugno del ’ 67. Lui, il rais, è sopravvissuto tre anni, e il successore, Anwar el Sadat, è stato assassinato da un egiziano perché aveva avuto il coraggio di andare a Gerusalemme per tentare una pace con Israele. Cosi come anni dopo Yitzhak Rabin fu assassinato da un israeliano per avere sottoscritto un accordo con i palestinesi. Negli anni l’islamismo è dilagato sulle sponde del Nilo e nell’universo musulmano. E l’intransigenza nella società israeliana.
Il 10 giugno, prima del cessate il fuoco firmato l’ 11, gli israeliani arrivarono quasi sotto le porte di Damasco. E avrebbero potuto raggiungere anche quelle del Cairo. Ma la questione non si pose neppure. Fu il generale Rabin, che era stato alla guida delle forze armate israeliane come Capo di stato maggiore, a chiamare “dei Sei giorni” la guerra appena finita. Rabin si è ispirato alla Creazione. In una settimana il territorio sotto controllo dello Stato ebraico era triplicato. E in quello conquistato c’era più di un milione di palestinesi sudditi giordani. Erano morti settecentocinquanta israeliani e ne erano stati feriti tremila. I morti arabi erano stati ventimila, dei quali diecimila egiziani e seimila giordani. Non si parlò di pace. Gli arabi, riuniti a Kartum in settembre, la rifiutarono. Stava del resto già per cominciare la “ guerra d’attrito”, continuazione di quella dei Sei Giorni, lungo il Canale di Suez, sulle cui sponde erano schierati, faccia a faccia, Tsahal e quel che restava dell’esercito egiziano. Rafforzato dal rimpatrio del corpo di spedizione nello Yemen.
La guerra dei Sei Giorni è stato l’incipit di tanti eventi. È continuata di fatto per anni con quella guerreggiata ( d’attrito), ed è riesplosa nel ’ 73 con l’offensiva egiziana del Kippur. Ma soprattutto da quella disfatta è emersa la guerriglia palestinese. Di fronte al disastro degli eserciti tradizionali è apparsa infatti come la salvezza dell’onore arabo, come la sola forza capace di proseguire la lotta contro Israele. Il docile Ahmad Shuqeiri era stato il palestinese preferito da Gamal Abdel Nasser. Apparteneva a una famiglia facoltosa ed era un ex alto funzionario di molti governi arabi, ma anzitutto fedele all’Egitto. Era stato messo da Nasser alla testa dell’Olp al momento della sua creazione. Nei giorni di giugno era spesso disponibile a lunghe conversazioni nel caffè dell’albergo in cui alloggiavo. Era un uomo spiritoso, gentile, che aveva redatto la costituzione dell’Olp in cui si chiedeva la scomparsa di Israele. Quando gli chiedevo come potesse raggiungere l’obiettivo mi rispondeva che gli eserciti arabi avrebbero fatto il necessario. Proprio gli eserciti che in quelle ore venivano sconfitti da Israele. Shuqeiri non era un uomo d’azione. E dopo la disfatta lo sguardo del rais egiziano, confermato al potere, si è posato su Al Fatah, movimento palestinese più attivo, più radicale, e critico nei confronti del Olp di Shuqeiri, giudicato inefficiente. Invitato al Cairo, Yasser Arafat, capo di Al Fatah, si è presentato con la pistola alla cintola. Voleva dimostrare di non essere intimidito. Prima di entrare nell’ufficio del rais fu tuttavia disarmato. Ne uscì praticamente nuovo presidente dell’Olp al posto di Shuqeiri.
Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato la risoluzione 242 come base per futuri negoziati di pace. Il documento prevedeva la restituzione dei territori da Israele durante la guerra e «una pace giusta e durevole grazie alla quale ogni stato dell’area possa vivere in sicurezza » . Oltre « a una giusta soluzione del problema dei profughi». La risoluzione è rimasta inascoltata e Yasser Arafat, promosso leader arabo dalle rovine arabe del ’67, ha occupato la tragica scena mediorientale per anni. Una conseguenza della guerra dei Sei Giorni è stato il Settembre nero, quando Arafat ha cercato invano di strappare il regno di Giordania a Hussein. In quei giorni ad Amman intravidi il capo di Al Fatah sconfitto, ma non ripudiato dal mondo arabo. E lo rividi a Tripoli, in Libano, quando nella valle della Bekà i suoi uomini si battevano ed erano decimati dall’esercito siriano. Prima lo scontro era stato con gli israeliani a Beirut. Quello dei palestinesi è uno strano destino: non solo gli israeliani, ma, anzi più di loro, anche gli arabi si sono prodigati nel reprimerli. Ma vado troppo in fretta con la storia. Sono già nel 1982. Dieci anni dopo il massacro degli atleti israeliani a Monaco. E più di dieci dopo la morte di crepacuore di Gamal Abdel Nasser, che era sopravvissuto al giugno ’67.