Repubblica 2.6.17
I sei giorni che cambiarono il mondo
di Bernardo Valli
GERUSALEMME
Quella mattina del 5 giugno, di cinquant’anni fa, ero lontano
dall’immaginare il nuovo Medio Oriente che stava per disegnarsi. Ero al
Cairo, sulla sponda del Nilo, nell’attesa di una guerra inevitabile, ma
della quale era difficile prevedere il momento in cui sarebbe
cominciata. L’incertezza non era sui giorni, le settimane, i mesi che
mancavano all’inizio. Sembrava una questione di ore. E invece l’attesa
fu di qualche minuto. Gli eserciti avversari erano pronti in Israele,
dove da giorni erano stati richiamati i riservisti, e sull’altro fronte,
in Egitto, in Siria, in Giordania, i paesi di prima linea, con i quali
si erano schierati, perlomeno nelle dichiarazioni, l’Arabia Saudita,
l’Iraq, il Libano e altre nazioni ancora. L’armonia non regnava tra gli
alleati arabi. I siriani ostentavano la loro autonomia rispetto agli
egiziani che si consideravano alla testa della coalizione
anti-israeliana. In Israele erano ormai state superate le esitazioni
sulla necessità di lanciare l’offensiva.
Ero reduce da Gaza. Avevo
percorso il Sinai nei due sensi. Un viaggio polveroso sulle strade
della penisola, tra le colonne corazzate e i reparti di fanteria
egiziani; e a Gaza tra i palestinesi ammassati sulle piazze dove
venivano armati con vecchi fucili Enfield abbandonati dagli inglesi.
Erano i profughi di vent’anni prima, della guerra ’47-48, che speravano
di ritornare nelle loro case, in quello che era diventato Israele. Molti
avevano appese al collo le chiavi arrugginite delle loro vecchie
abitazioni, ormai inesistenti.
Guardando il Mediterraneo dalla
finestra del suo ufficio, il generale comandante la guarnigione della
Striscia di Gaza mi aveva ripetuto gli ordini ricevuti da Gamal Abdel
Nasser. Doveva combattere fino all’ultimo uomo. «Questa città, aveva
sentenziato, sarà la Stalingrado del Medio Oriente». Nella base militare
di al Arish, il comandante dei reparti corazzati destinati a scontrarsi
con quelli israeliani non mi aveva nascosto il dilemma che l’aveva
tormentato a lungo. Aveva esitato tra la tattica di Rommel e quella di
Montgomery. Alla fine aveva preferito quella più mobile del comandante
dell’Afrika Korps a quella del suo avversario inglese. Rommel aveva
perso, è vero, ma non vince sempre il migliore, mi aveva assicurato il
loquace e cordiale ufficiale egiziano.
Nell’attesa della guerra
annunciata, quella mattina, al Cairo, bevevo l’ennesimo tè alla menta
guardando le pacifiche, silenziose feluche con l’albero e la vela
inclinati verso la prua. Scivolavano sull’acqua torbida del Nilo,
disertato dai rumorosi battelli carichi di turisti diretti a Luxor e a
Assuan. Gli stranieri se ne erano andati. Il segnale dell’inizio della
guerra arrivò con i ripetuti tonfi provenienti dal deserto, ai limiti
della metropoli, oltre il quartiere di Heliopolis, dove si stendevano le
piste dell’aeroporto. Quei rumori sordi, attutiti dalla lontananza e
dal vasto sbarramento di costruzioni, parevano inoffensivi.
Il
cielo fu trafitto da centinaia di esplosioni, macchie nere che si
dissolvevano nell’azzurro limpido. La contraerea egiziana rispondeva
sparando nello spazio vuoto. Uomini e donne, camerieri, clienti,
passanti, autisti con la testa fuori dal finestrino, operai sulle
impalcature di un cantiere edile di Garden City con gli occhi rivolti al
cielo, sentinelle del vicino ponte con i fucili puntati contro un
nemico invisibile, tutti coloro che si muovevano nella città dove
arrivava il mio sguardo, e anche oltre, sulle piazze spalancate nella
metropoli affollata, e sull’opposta sponda del fiume, a Zamalek, tutti
lanciarono grida trionfali, affascinati da un evento tanto atteso che
infine si realizzava. Era come se la loro squadra del cuore sempre
sconfitta avesse infine segnato un goal decisivo.
Il grande abbaglio egiziano
I
numerosi transistor davano a tutto volume, eccitando ancor più la
folla, una precipitosa, fantasiosa contabilità della guerra appena
iniziata. Secondo le radio venti, trenta, settanta aerei israeliani
erano stati abbattuti in pochi minuti. I fiocchi scuri della contraerea
che si dissolvevano sulle nostre teste, emettendo raffiche di tuoni
asciutti, senza eco, erano scambiati per apparecchi sionisti centrati in
pieno dai tiri egiziani. In preda all’esaltazione i cairoti pensavano
che i loro difensori non mancassero mai gli obiettivi. Ogni piccola
nuvola nera provocata da uno sparo della contraerea era per loro un jet
nemico che andava in frantumi. Una rivincita sognata per anni favoriva
il grande abbaglio. Si gonfiava l’euforia per una vittoria che era già
in realtà una disfatta. Tutte le città israeliane, annunciavano
trionfanti le voci delle radio, erano sotto i bombardamenti egiziani e
l’esercito di Rabin e di Dayan stava disperdendosi sconfitto nel
deserto. L’arte dell’illusione prevalse quella mattina, e nelle ore che
seguirono, sulla realtà di una guerra già perduta nei primi minuti. Non
un solo aereo egiziano era riuscito ad alzarsi in volo e non un solo
carro armato avrebbe nelle ore successive avanzato di un metro. Il
generale di Gaza che doveva combattere fino all’ultimo uomo si preparava
a firmare la resa in ebraico. E il suo collega di al Arish avrebbe
tentato, non senza coraggio, una controffensiva che sarebbe risultata
vana, secondo la tattica di Rommel.
Non tanto lontano dalla mia
terrazza sul Nilo, dove cominciava il deserto, l’aviazione israeliana
aveva distrutto l’aviazione egiziana in pochi minuti, senza neppure
darle il tempo di decollare. L’aveva inchiodata a terra, dove era
allineata senza protezione, mentre i piloti consumavano la prima
colazione nel refettorio accanto alle piste di involo. Il maresciallo
Abdel Hakim Amer, comandante delle forze armate egiziane, non aveva
pensato di mettere al sicuro gli aerei, in appositi rifugi, o di tenerli
in volo in quelle ore decisive. Per questo fatale errore si sarebbe
suicidato.
Alle 7,10, ora israeliana, era scattata l’operazione
Focus: sedici jet Magister Fouga, di fabbricazione francese e di recente
dotati di missili, erano decollati da Hatzor, la base creata durante il
protettorato britannico nel centro di quello che sarebbe diventato
Israele. In prossimità dell’omonimo kibbutz. Gli aerei Fouga
trasmettevano sulle stessa frequenze usate dai Mystère e dai Mirage, e,
imitando quegli apparecchi, volavano come se fossero impegnati in una
normale ricognizione senza mettere in allarme gli egiziani. Quattro
minuti dopo si erano staccati dalle piste di Hatzor dei bombardieri
Ouragan, seguiti a cinque minuti di distanza da uno squadrone di Mirage,
decollato da Ramat David, e da quindici bimotori Vatours, della base di
Hatzerim. Dopo le 7,30 erano in volo circa duecento apparecchi spronati
dall’ordine del giorno di Motti Hod, comandante delle forze aeree: « …
disperdere il nemico nel deserto affinché Israele possa vivere, sicuro
sulla sua terra, per generazioni».
L’intera armata aerea volava a
bassa quota, spesso a non più di quindici metri dal suolo, per evitare
di essere intercettata dalle ottantadue stazioni radar egiziane. Alcuni
apparecchi si diressero a Ovest, verso il Mediterraneo, per poi seguire
la rotta inversa, in direzione dell’Egitto. Altri puntarono sul Mar
Rosso per poi raggiungere obiettivi più all’interno del territorio
egiziano. Il silenzio radio era imposto senza eccezione. In caso di
guasti meccanici, precisò il colonnello Rafi Harlev, capo delle
operazioni aeree, i velivoli sarebbero precipitati in mare in silenzio.
Gli israeliani fecero 164 incursioni in cento minuti e distrussero 286
dei 420 aerei da combattimento egiziani in tredici basi disperse nel Sud
e nel Nord del paese, tutte rese inservibili dai bombardamenti. Un
terzo dei piloti fu ucciso. Il generale Yitzhak Rabin disse a
conclusione di quella mattina che l’aviazione egiziana non esisteva più.
Gli israeliani avevano perduto nove apparecchi.
I piloti
israeliani avevano seguito un addestramento più intenso e più lungo dei
piloti arabi. Avevano più ore di volo e avevano studiato per mesi gli
obiettivi da colpire. La maggioranza dei loro aerei era francese, aerei
ricevuti negli anni (precedenti alla svolta filo araba di De Gaulle) in
cui i governi di Parigi avevano stretti rapporti con Israele, al punto
da fornirgli (nel 1956) le informazioni tecniche per la costruzione di
armi nucleari. Erano aerei resi molto più operativi dei Mig, Ilyushin e
Topolov forniti dai sovietici a siriani e egiziani. I mezzi elettronici
avevano raccolto informazioni essenziali. Il contributo dei servizi di
intelligence non era stato trascurabile. Facendosi passare per un ex
ufficiale delle SS, Wolfgang Lotz, un ebreo tedesco nato in Israele,
carpì agli ufficiali egiziani informazioni preziose, fino a quando fu
scoperto nel 1964. Più utile ancora fu l’ufficiale dell’intelligence
diventato massaggiatore personale di Nasser. Aveva assunto una falsa
identità egiziana e parlava l’arabo come un cairota. Forse lo era per
nascita.
Al Ghezira Club, dove si giocava a golf, impaurita dalle
esplosioni e dai tiri della contraerea, si era raccolta gran parte della
grande borghesia. Era una frazione della società egiziana che non aveva
motivo di partecipare all’euforica festa delle illusioni esplosa al
Cairo. Il socialismo arabo di Nasser aveva nazionalizzato quasi tutti i
suoi beni. E forse molti dei soci del club nei giorni o nelle ore
successive, chiarito che la vittoria inventata dalla propaganda
nasseriana era in realtà una brutale sconfitta, avrebbero condiviso quel
che un grande poeta egiziano, nemico di Nasser, il copto George Henein,
scrisse più tardi: «Una straordinaria dolce aria di disfatta aleggiava
nella sera». Quella mattina del 5 giugno al Ghezira Club prevalevano
tuttavia un istintivo patriottismo e la paura. Tra i soci presenti c’era
il dottor Riso Levi, il più noto e rispettato ebreo del Cairo. Colto
dall’emozione, tra le esplosioni dei missili israeliani e i tiri della
contraerea egiziana, il medico si allontanò da solo sul green deserto,
sotto gli sguardi della borghesia spaurita, assiepata ai margini del
terreno da golf. Non era facile essere ebreo in quelle ore al Cairo. Il
dottor Levi vide in chi l’osservava una forte ostilità. Si sentì il
nemico. Ma fu sorpreso da una bella e giovane signora che, staccatasi
dal gruppo spaurito, si dirigeva verso di lui. Era Nini Sharawi, di una
aristocratica famiglia egiziana dell’Alto Egitto. Nini lo raggiunse, lo
prese sotto braccio e lo condusse tra gli altri soci, mentre i rumori
della guerra si intensificavano sulle vicine sponde del Nilo. Ancora
anni dopo, emozionato, il dottor Levi mi raccontava l’episodio. Nella
notte del 5 giugno e in quelle seguenti gli ebrei, molti dei quali col
passaporto italiano, furono internati e poi espulsi dal paese. Insieme
ai giornalisti americani e inglesi. Il dottor Levi rimase. Il Cairo era
la sua città. A volte veniva nella mia camera d’albergo e sul balcone,
dove nessuno registrava la nostra conversazione, parlava liberamente, a
lungo, per alleggerire la tensione. La musica classica ascoltata per ore
era il suo tranquillante. Nessuno gli fece mai uno sgarbo. Era un
medico popolare. Spesso non poteva radunare nella sinagoga un numero
sufficiente di fedeli per la preghiera. Non c’erano più abbastanza ebrei
al Cairo.
Nel novembre 1966 Egitto e Siria avevano sottoscritto
un’alleanza in cui i due paesi assumevano il reciproco impegno a
intervenire nel caso uno dei due fosse coinvolto in un conflitto armato.
L’iniziativa era dovuta al desiderio assillante, ossessivo, di una
rivincita nei confronti di Israele. L’umiliante sconfitta del ’47-48
aveva condotto all’indipendenza dello Stato ebraico ed era all’origine
del colpo di stato dei “liberi ufficiali”, guidati dal generale Naguib e
dal colonnello Nasser, che nel ’52 avevano messo fine alla monarchia, e
cacciato re Faruk. E nel ’56 non c’era stata una rivincita. Era sotto
la pressione americana che gli israeliani, intervenuti con la spedizione
franco-inglese (dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez), avevano
dovuto ritirarsi dal Sinai. Tra i due grandi paesi arabi, Egitto e
Siria, c’era una gara per dimostrare la disponibilità ad affrontare lo
Stato ebraico. La manifestavano alimentando un’accanita propaganda
anti-israeliana e abbandonandosi a una gesticolazione che era la mimica
di una guerra. Al momento gli scontri erano limitati, ma destinati a
condurre col tempo a un vero conflitto. La questione dei profughi
palestinesi, cacciati o fuggiti dalle loro case, era sentita a livello
popolare, ma in quel periodo le organizzazioni palestinesi non erano
tenute in grande considerazione dai governi arabi. Avevano scarso peso.
L’ avrebbero avuto tra breve.
Il 7 aprile 1967 un incidente banale
al confine siro-israeliano provocò una battaglia aerea all’altezza
delle alture del Golan. Sei Mig-21 furono abbattuti e Damasco si sentì
ferita nel prestigio e minacciata in seguito alle dichiarazioni di
Yitzhak Rabin, allora capo di Stato maggiore di Tsahal, l’esercito
israeliano. I siriani denunciarono l’arrivo di truppe israeliane al
confine e i sovietici loro alleati diffusero la notizia, informando con
toni allarmati il Cairo. Gamal Abdel Nasser non voleva impegnarsi in una
guerra. Sapeva di non essere preparato. Nel ’ 56 l’avevano salvato gli
americani ordinando a inglesi, francesi e israeliani di ritirarsi dal
Canale di Suez. Consentendogli così di vantare una vittoria politica se
non militare, e di ribadire l’espropriazione di quella via d’acqua di
importanza strategica, scavata nel secolo precedente. Ma questa volta
gli americani erano più che mai al fianco di Israele e lui, Nasser,
aveva intensificato, come alternativa obbligata, il rapporto con
l’Unione Sovietica. Dalla quale aveva ottenuto la costruzione della diga
di Assuan, dopo il rifiuto americano.
La crisi mediorientale era
cosi diventata un capitolo della guerra fredda tra le due superpotenze.
Nasser non pensava nella primavera ’67 a un conflitto aperto con
Israele, anche perché parte del suo esercito, forse la migliore, si
trovava nello Yemen da anni, dove combatteva a fianco dei repubblicani
in una guerra civile. Ma giocò con sfrontatezza e con grande rischio la
carta della provocazione. Concentrò numerosi reparti nel Sinai, al
confine con Israele, al fine di costringerlo ad allentare la pressione
lungo la frontiera siriana. Era un modo per dimostrare il suo impegno
con Damasco. Ma per dispiegare l’esercito nel Sinai il rais del Cairo fu
costretto a sfrattare dalla penisola le forze delle Nazioni Unite sul
posto da dieci anni, con il compito di interporsi tra i rivali.
La destra e il sionismo
Gli
israeliani furono sorpresi dall’azione egiziana e della partenza dei
caschi blu il giorno in cui celebravano l’anniversario
dell’indipendenza. Nasser prese un’altra decisione che aumentò l’allarme
nello Stato ebraico: proibì il passaggio delle navi israeliane negli
stretti di Tiran, tra il golfo di Aqaba e il Mar Rosso, e quindi
indispensabili, o addirittura vitali ai paesi della zona. Il gesto di
Nasser fu interpretato come un decisivo passo verso la guerra. Mentre
lui contava sugli americani, sperando che frenassero, come nel ’56, gli
israeliani ed evitassero che la crisi sfociasse in un conflitto. Questo
suo calcolo risultò con chiarezza nella sua ultima conferenza stampa,
quando gli appelli agli Stati Uniti furono ripetuti e decifrabili. Noi
che l’ascoltavamo capimmo il messaggio in cui si alternavano spavalderia
e tentativo di seduzione. La manovra non riuscì.
A Tel Aviv fu
formato un governo di unione nazionale, di fatto un governo di guerra,
con Moshe Dayan alla difesa e Menachem Begin come ministro senza
portafogli, rappresentante della destra per la prima volta ammessa
nell’esecutivo dominato dalla sinistra. Levi Eshkol non era un primo
ministro bellicoso e come garanzia, per addentrarsi in un conflitto,
voleva un decisivo appoggio americano. Lasciò comunque a Dayan la
responsabilità della guerra, con Rabin come capo di stato maggiore. Ai
due generali non restava che aprire le ostilità. Vale a dire anticipare
un’iniziativa dell’Egitto e dei suoi alleati, ma anche cogliere
l’occasione per sbaragliare i numerosi e rumorosi nemici ai confini.
L’intensificarsi delle azioni armate palestinesi, che nel ’ 64 avevano
creato l’Olp ( l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), e
l’arrivo al potere a Damasco del partito Ba’th (Rinascimento)
particolarmente aggressivo nei confronti di Israele, erano stati
considerati segnali allarmanti. Il dubbio sulle reali intenzioni di
Nasser non è mai stato del tutto dissipato. Con le sue decisioni,
trascinato dalla competizione (su chi era più anti- israeliano) tra gli
arabi, egli preparò comunque la trappola in cui sarebbe caduto.
Tsahal
concentrò la sua offensiva sull’Egitto, privato ormai, come gli altri
paesi arabi, di una protezione aerea. I palestinesi, principali vittime
del dramma mediorientale, si difesero con coraggio a Gaza. Ma non a
lungo. Noi cronisti scrivevamo dal Cairo le nostre corrispondenze, le
affidavamo al telex dell’ufficio stampa, e finivano nella spazzatura,
dopo essere state lette dai censori. Il passaggio sul lungo Nilo di
camion isolati, con pochi soldati e i teloni slacciati e sbatacchiati
dal vento, furono le prime immagini della disfatta nel Sinai. La
testimonianza di un gruppo di petrolieri americani costretti ad
abbandonare i pozzi nella penisola ci descrisse l’esercito egiziano in
rotta. In un articolo finito nel cestino, ma letto prima da un giovane
censore palestinese che aveva studiato dai salesiani la nostra lingua,
figurava la parola “sterminato”. L’aggettivo si riferiva allo spazio, al
deserto, ma il censore lo interpretò nell’altro significato, e
l’affiancò all’esercito egiziano in rotta, e quindi “sterminato”. Fui
convocato da un colonnello dell’intelligence che mi chiese come osassi
usare un termine simile riferendosi al suo esercito. Mentre mi
rimproverava per quell’aggettivo che giudicava insultante, dalle
finestre dell’ufficio, affacciate sul lungo Nilo, si vedevano sfilare i
resti dei reparti fuggiti dal Sinai. Quelle immagini drammatiche non
piegavano l’orgoglio del colonnello.
Gerusalemme Est fu
conquistata il 7 giugno, il terzo giorno di guerra. La controllava
Hussein di Giordania, membro di una famiglia reale, quella hashemita,
costretta ad abbandonare il califfato di due luoghi santi, La Mecca e
Medina, e compensata con un regno ritagliato nel dissolto impero
ottomano. Accusato di complottare con gli ebrei, Abdallah, nonno di
Hussein, era stato assassinato da un palestinese. Mentre i paracadutisti
israeliani stavano per superare le mura della vecchia Gerusalemme il
giovane re cercò di farla dichiarare zona franca dalle Nazioni Unite. Ma
quella mattina Motta Gur, comandante dei paracadutisti, annunciò per
radio: « Il Monte del Tempio è nelle nostre mani». Alla notizia della
conquista del luogo più sacro per l’ebraismo molti soldati non
riuscirono a trattenere le lacrime. Fu un momento di intensa emozione
per gli israeliani. Era come riappropriarsi di un pezzo di Storia.
Quando veniva chiesto a Ben Gurion come mai lui, un agnostico, un laico,
considerasse la Bibbia un testo essenziale, il fondatore dello Stato
ebraico diceva che in quel libro c’è la storia del suo popolo. Il Monte
del Tempio è un pezzo di quella storia.
All’occupazione della
Gerusalemme orientale ricca di luoghi santi, Levi Eshkol reagì dicendo:
«Abbiamo ricevuto una buona dote, ma è accompagnata da una sposa che non
ci piace». Si riferiva alla passione religiosa e alle polemiche che
sarebbero sorte attorno alla città tre volte santa. Per gli ebrei, i
cristiani e i musulmani. La battuta di Levi Eshkol si è rivelata una
giusta previsione. Neppure lui immaginava quanto fosse appropriata.
Durante il mandato britannico e nei primi venti anni dell’esistenza di
Israele, il sionismo socialista aveva avuto un ruolo decisivo nella
formazione della società e dello Stato. Per una parte della sinistra
europea, Israele con i suoi kibbutz e i governi laburisti era un punto
di riferimento. I religiosi si erano uniti con fatica, riluttanti, al
nazionalismo laico. Avevano ambizioni limitate: anzitutto far rispettare
le regole religiose, in particolare quelle riguardanti l’alimentazione.
Si accontentavano, secondo lo scrittore Amos Oz, di gestire il vagone
ristorante. In effetti il laico Ben Gurion aveva dovuto fare concessioni
ai religiosi superstiti dei campi di sterminio nazisti. Ma la guerra
dei Sei giorni ha mutato il loro ruolo. Hanno rilanciato il sionismo in
una versione impregnata di principi e riferimenti biblici, e hanno
chiesto e intensificato (assecondati spesso anche da governi laburisti)
l’insediamento di colonie nei territori occupati al fine di ricreare col
tempo, secondo la loro visione, il Grande Israele. Favoriti dalla
crescita dei sentimenti ultraortodossi e dall’intensificarsi delle
pratiche religiose nella popolazione, in particolare in quella
sefardita, i dirigenti della destra rimasti a lungo nell’angolo hanno
fortemente influenzato la società e di riflesso conosciuto un rapido
successo politico. Al punto da scalzare la sinistra sionista dal
governo. Israele è cambiato con la guerra dei Sei giorni e con quella
del Kippur, di sei anni dopo. Oggi i nazional-religiosi non
rappresentano numericamente molto, sarebbero il dieci per cento. Ma
sarebbero almeno il quaranta per cento tra gli ufficiali subalterni, e
in parte anche tra quelli superiori. Ufficiali provenienti spesso dalle
famiglie delle colonie israeliane di Cisgiordania ( o Giudea e Samaria).
Sono ottimi e fedeli soldati del miglior esercito della regione, e non
solo, ma secondo i vecchi militari si richiamano a principi diversi da
quelli che ispiravano gli ufficiali di un tempo, usciti dai kibbutz, in
cui prevaleva uno spirito laico. Dayan e Rabin ne erano un esempio.
Per
il teologo Yeshayahu Leibowitz la guerra dei Sei giorni «è stata una
catastrofe storica per lo Stato di Israele » . Secondo Leibowitz le
conquiste territoriali del ’ 67 hanno acceso il progetto biblico del
Grande Israele. E sollecitato l’idea di annettere le contrade occupate:
Gerusalemme Est e la Cisgiordania ( Giudea e Samaria). La società è
stata condotta a reprimere un altro popolo, quello palestinese. Da
teologo che riponeva i valori non nella terra, ma nei principi,
Leibowitz teneva in scarsa considerazione il problema della sicurezza,
che ha invece avuto e ha un peso determinante in Israele. Rispettato per
l’intensa religiosità e la vasta cultura, Leibowitz era discreditato
agli occhi degli altri religiosi sia per la condanna dell’occupazione
dei territori conquistati nel ’67, sia per l’invito ai giovani di
rifiutare il servizio militare con il ruolo di occupanti, sia perché era
favorevole alla totale separazione tra Stato e religione. Dal conflitto
di mezzo secolo fa è nata una appassionata polemica sulla morale e il
diritto storico degli ebrei sulla Terra di Israele, vista attraverso una
interpretazione della Bibbia. La posizione di grandi scrittori, quali
Amos Oz e A. B. Yehoshua, è nettamente critica sull’occupazione.
Mai
nel nostro tempo un conflitto tanto breve, durato sei giorni, e
limitato a una regione, ha avuto conseguenze cosi vaste e prolungate.
Ancora oggi molti problemi creati in neppure una settimana del giugno
1967 restano irrisolti e sono almeno in parte all’origine dei contestati
mutamenti nella mappa mediorientale. Cambiamenti non solo territoriali.
Dalle conquiste di quei giorni ( Gerusalemme Est, Cisgiordania, Golan, e
Gaza poi abbandonata) nascono ambizioni che modificano lo spirito dello
Stato ebraico. Nell’ebbrezza del successo si intensifica lo slancio
nazionalista, in cui contano il richiamo storico e l’aspetto religioso.
Lo spazio laico delle origini sioniste si restringe. Cosi la
frustrazione del nazionalismo arabo, di cui la dittatura nasseriana è la
massima espressione, dopo la nuova sconfitta inflittagli da Israele,
contribuisce a far emergere l’alternativa integralista islamica, nella
versione violenta, jihadista.
Il 9 giugno, quinto giorno di
guerra, gli israeliani hanno già il controllo del Sinai e sono sulle
sponde del Canale di Suez. Sul fronte siriano esitano, preoccupati per
le eventuali reazioni dei sovietici, stretti alleati e virtuali
protettori di Damasco. Ma le esitazioni non durano a lungo, Moshe Dayan
dà via libera all’occupazione delle alture del Golan, al confine
siriano. Nelle stesse ore il Cairo è sprofondato nel pessimismo. I
sovietici hanno inviato armi e munizioni di cui l’esercito egiziano in
piena decomposizione non è in grado di servirsi. Gruppi di soldati si
aggirano smarriti nelle strade semideserte della capitale. Lo spettacolo
conferma ai cairoti che le vittorie annunciate dalla propaganda
nascondevano una disfatta su tutti i fronti. Riferendosi a Nasser, nei
quartieri popolari, si dice non tanto sottovoce «la bestia». E in alcune
capitali arabe, ad esempio a Algeri, davanti all’ambasciata egiziana
centinaia di persone scandiscono «Nasser traditore».
Testimonianze
di quelle ore descrivono il rais in preda a una forte depressione.
Mostra la tasca gonfia per la rivoltella e dice che potrebbe servirsene
per togliersi la vita. La sua guardia del corpo si è schierata sul
Canale di Suez e lui, Nasser, si sente indifeso, esposto a un colpo di
mano degli stessi militari egiziani. Il maresciallo Amer, principale
responsabile della disfatta, in quanto comandante delle forze armate, ha
già tentato di suicidarsi nel Quartier generale. Ci riuscirà in
settembre, quando accusato di un complotto contro Nasser, gli sarà
imposto di scegliere tra un processo per alto tradimento e il suicidio. E
lui sceglierà quest’ultimo.
Le dimissioni (respinte) del rais
Di
primo mattino, quel 9 giugno, Hassanein Heikal, direttore del
quotidiano Al Ahram, trova il rais, suo grande protettore, invecchiato
«di dieci anni» e in preda a forti dolori alle gambe. Nasser gli dice di
essere colpevole del disastro e pronto a espiare. L’Egitto deve ormai
trattare con gli Stati Uniti e lui non è la persona adatta. La conquista
politica dell’America è la sua ossessione da quando ha preso il potere
quindici anni prima. Non riuscire a staccare gli Stati Uniti dall’intesa
con Israele è stato il suo grande fallimento. Non gli restano che le
di- missioni. Il successore sarà Zakaria Mohieddin, un ufficiale
nasseriano della prima ora, più volte ministro, considerato una persona
in grado di allacciare un dialogo con l’America. Zakaria figurava come
l’esponente più autorevole della corrente di destra del regime. Il
maresciallo Amer chiama Nasser al telefono, mentre il direttore di Al
Ahram è ancora presente, e l’avverte che gli israeliani hanno
attraversato il Canale di Suez. Nasser non lo prende sul serio: «Ha
perso i nervi come ha perso l’esercito».
Nel tardo pomeriggio,
sono le sei e trenta, il personale dell’albergo si precipita a chiudere
le vetrate che danno sul Nilo da un lato, e su una piazza dal altro. Noi
clienti siamo invitati a rinchiuderci nelle nostre camere. Una folta
squadra di poliziotti armati di fucili e sfollagenti circonda
l’edificio, appena in tempo per contenere la folla che cerca di
invaderlo. Nasser ha annunciato alla radio le dimissioni. E subito dopo
uno speaker ha informato che la calma sta ritornando su tutti i fronti
in seguito all’accordo raggiunto per un cessate il fuoco.
Con una
voce a tratti spezzata il rais ha difeso la decisione di rimilitalizzare
il Sinai, di cacciare i caschi blu e chiudere gli stretti di Tiran.
L’intenzione era di dissuadere Israele dall’invadere la Siria. La Russia
e gli Stati Uniti avevano esortato l’Egitto a non sparare per primo.
Israele, aiutato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, l’aveva
sorpreso scatenando l’offensiva: « Aspettavamo che il nemico arrivasse
da Est e da Nord, e invece è arrivato da Ovest. Per cancellare la
sconfitta ( Naksa) gli arabi devono restare uniti contro Israele » . Con
queste parole il rais si è rivolto al paese.
Non ha ancora
terminato il breve discorso che il Cairo esplode. Folle enormi,
compatte, occupano le piazze, mentre gli aerei egiziani superstiti
volano a bassa quota e l’artiglieria spara dalla collina di Mokattam che
sovrasta dal lato Est la capitale. La gente scandisce « no Zakaria — sì
Gamal». Zakaria Mohieddin è visto come una resa a Israele e
all’America, mentre Gamal Abdel Nasser, superate le critiche, spesso gli
insulti, incarna adesso la resistenza. Ossia il rifiuto della
sconfitta. Viene scandito anche il nome di Ali Sabri, un altro «
ufficiale libero » delle prime ore, considerato meno filo americano di
Zakaria, e quindi un successore più accettabile di Nasser, nel caso il
rais non ritirasse le
dimissioni.
In Egitto sono stato
testimone di tanti avvenimenti corali: le svolte sempre orchestrate e
retoriche del regime; le impennate sentimentali della folla: i funerali
grandiosi di Nasser e poi quelli freddi, glaciali di Sadat; l’entusiasmo
per vittorie che erano sconfitte. Credevo di conoscere il popolo del
Nilo, incline all’esaltazione di rado al fanatismo. Ma il giorno del
giugno ’67 in cui Nasser ha dichiarato che rinunciava al potere,
addossandosi la responsabilità della fulminea disfatta, e milioni di
cairoti si sono riversati nelle piazze e sul lungo fiume, implorandolo
di restare, il dramma ha raggiunto un’intensità senza precedenti.
L’emozione di milioni di uomini e donne ti investiva come qualcosa di
concreto, di palpabile. Steso su un muro che dava sul lungo fiume, e
sotto il quale sfilava la folla, ho assistito a quella passionale
reazione dell’Egitto. Non c’entrava più la guerra. C’era un popolo
illuso, ingannato, frustrato, che si aggrappava al rais, al capo che
l’aveva trascinato nella disfatta. Per milioni di egiziani il suo
abbandono del potere avrebbe appesantito l’umiliazione. Avrebbe reso
definitiva la sconfitta. La sopravvivenza politica del responsabile del
disastro era l’ultima linea di resistenza.
La fuga palestinese
Nella
notte ho attraversato la città buia, aprendomi un varco nella folla
diventata silenziosa nell’attesa di una risposta del rais. All’inizio
era stata una tempesta poi il Cairo si era quietato. La gente si
spostava per lasciarmi passare quasi con dolcezza, pur sentendo che ero
uno straniero. Sembrava che mi accettasse nella sua intimità. Nasser
esaudì infine la folla, restava alla testa del paese che aveva portato
alla sconfitta. Forse lui stesso aveva orchestrato quel plebiscito, non
tanto organizzandolo, perché non ne avrebbe avuto il tempo, ma giocando
sui sentimenti della sua gente, con la studiata regia degli aerei a
bassa quota e i tiri d’artiglieria dalla collina di Mokattam. Aveva
perduto una guerra, ma vinceva il confronto col suo popolo. L’indomani,
la decisione di Nasser fu celebrata con una disciplina popolare che era
mancata sul piano militare. Il regime aveva ancora la forza di
organizzare una manifestazione che aveva anche il valore di una
psicoterapia di gruppo per un popolo sconsolato.
Il nazionalismo
nasseriano è comunque naufragato nel giugno del ’ 67. Lui, il rais, è
sopravvissuto tre anni, e il successore, Anwar el Sadat, è stato
assassinato da un egiziano perché aveva avuto il coraggio di andare a
Gerusalemme per tentare una pace con Israele. Cosi come anni dopo
Yitzhak Rabin fu assassinato da un israeliano per avere sottoscritto un
accordo con i palestinesi. Negli anni l’islamismo è dilagato sulle
sponde del Nilo e nell’universo musulmano. E l’intransigenza nella
società israeliana.
Il 10 giugno, prima del cessate il fuoco
firmato l’ 11, gli israeliani arrivarono quasi sotto le porte di
Damasco. E avrebbero potuto raggiungere anche quelle del Cairo. Ma la
questione non si pose neppure. Fu il generale Rabin, che era stato alla
guida delle forze armate israeliane come Capo di stato maggiore, a
chiamare “dei Sei giorni” la guerra appena finita. Rabin si è ispirato
alla Creazione. In una settimana il territorio sotto controllo dello
Stato ebraico era triplicato. E in quello conquistato c’era più di un
milione di palestinesi sudditi giordani. Erano morti settecentocinquanta
israeliani e ne erano stati feriti tremila. I morti arabi erano stati
ventimila, dei quali diecimila egiziani e seimila giordani. Non si parlò
di pace. Gli arabi, riuniti a Kartum in settembre, la rifiutarono.
Stava del resto già per cominciare la “ guerra d’attrito”, continuazione
di quella dei Sei Giorni, lungo il Canale di Suez, sulle cui sponde
erano schierati, faccia a faccia, Tsahal e quel che restava
dell’esercito egiziano. Rafforzato dal rimpatrio del corpo di spedizione
nello Yemen.
La guerra dei Sei Giorni è stato l’incipit di tanti
eventi. È continuata di fatto per anni con quella guerreggiata (
d’attrito), ed è riesplosa nel ’ 73 con l’offensiva egiziana del Kippur.
Ma soprattutto da quella disfatta è emersa la guerriglia palestinese.
Di fronte al disastro degli eserciti tradizionali è apparsa infatti come
la salvezza dell’onore arabo, come la sola forza capace di proseguire
la lotta contro Israele. Il docile Ahmad Shuqeiri era stato il
palestinese preferito da Gamal Abdel Nasser. Apparteneva a una famiglia
facoltosa ed era un ex alto funzionario di molti governi arabi, ma
anzitutto fedele all’Egitto. Era stato messo da Nasser alla testa
dell’Olp al momento della sua creazione. Nei giorni di giugno era spesso
disponibile a lunghe conversazioni nel caffè dell’albergo in cui
alloggiavo. Era un uomo spiritoso, gentile, che aveva redatto la
costituzione dell’Olp in cui si chiedeva la scomparsa di Israele. Quando
gli chiedevo come potesse raggiungere l’obiettivo mi rispondeva che gli
eserciti arabi avrebbero fatto il necessario. Proprio gli eserciti che
in quelle ore venivano sconfitti da Israele. Shuqeiri non era un uomo
d’azione. E dopo la disfatta lo sguardo del rais egiziano, confermato al
potere, si è posato su Al Fatah, movimento palestinese più attivo, più
radicale, e critico nei confronti del Olp di Shuqeiri, giudicato
inefficiente. Invitato al Cairo, Yasser Arafat, capo di Al Fatah, si è
presentato con la pistola alla cintola. Voleva dimostrare di non essere
intimidito. Prima di entrare nell’ufficio del rais fu tuttavia
disarmato. Ne uscì praticamente nuovo presidente dell’Olp al posto di
Shuqeiri.
Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu
ha approvato la risoluzione 242 come base per futuri negoziati di pace.
Il documento prevedeva la restituzione dei territori da Israele durante
la guerra e «una pace giusta e durevole grazie alla quale ogni stato
dell’area possa vivere in sicurezza » . Oltre « a una giusta soluzione
del problema dei profughi». La risoluzione è rimasta inascoltata e
Yasser Arafat, promosso leader arabo dalle rovine arabe del ’67, ha
occupato la tragica scena mediorientale per anni. Una conseguenza della
guerra dei Sei Giorni è stato il Settembre nero, quando Arafat ha
cercato invano di strappare il regno di Giordania a Hussein. In quei
giorni ad Amman intravidi il capo di Al Fatah sconfitto, ma non
ripudiato dal mondo arabo. E lo rividi a Tripoli, in Libano, quando
nella valle della Bekà i suoi uomini si battevano ed erano decimati
dall’esercito siriano. Prima lo scontro era stato con gli israeliani a
Beirut. Quello dei palestinesi è uno strano destino: non solo gli
israeliani, ma, anzi più di loro, anche gli arabi si sono prodigati nel
reprimerli. Ma vado troppo in fretta con la storia. Sono già nel 1982.
Dieci anni dopo il massacro degli atleti israeliani a Monaco. E più di
dieci dopo la morte di crepacuore di Gamal Abdel Nasser, che era
sopravvissuto al giugno ’67.