Repubblica 16.6.17
1917 2017
Dopo l’abdicazione di Nicola
II, la Chiesa di Mosca che ha funzionato da ideologia popolare di massa
per il regime non sa come continuare a esistere
Santa Madre Russia resta senza Dio
La fine della monarchia coincide con la rottura del vaso mistico che da 300 anni univa Zar e Pope
di Ezio Mauro
SAN
PIETROBURGO L’alba arrivò col fuoco, come in un rito pagano. Il fumo si
vedeva da lontano, alla prima luce del mattino, quando cominciava a
mettersi in marcia il mondo delle periferie, oltre i ponti sui canali.
Nessuno voleva mancare, tutti sapevano dove andare, quel fumo era una
conferma e un segnale per il giorno del lutto che saliva a prendere il
posto dei giorni della ribellione. Nel cordoglio cittadino il dolore
privato diventava l’onore pubblico, fondamento della coscienza comune,
sigillo del mito collettivo in cui la realtà trasfigurava già mentre
veniva vissuta. Cataste di legna formavano falò giganteschi per
sciogliere la neve, sembravano pire sacrificali, altari primitivi in una
città irreale, umida, grigia e tuttavia lucida come un metallo nelle
pozze d’acqua dove marciva la neve ormai sporca. Ogni reggimento aveva
schierato il suo coro attorno alla grande fossa su Campo di Marte e i
canti funebri si alzarono davanti alle prime bare dei martiri della
rivoluzione, che arrivavano da tutti i quartieri di Pietrogrado: 183
bare per la prima volta rosse, e non bianche come vuole la tradizione
russa, travolta anch’essa dal vortice di Febbraio.
Quel giorno il
rosso era dovunque, nelle bandiere, sulle coccarde, nei fiocchi tra i
capelli delle ragazze, un fiume colorato dilagò sulla spianata
annunciato da una distesa di fiaccole sollevate davanti agli operai di
Vyborg che dopo aver portato la rivoluzione a Palazzo d’Inverno ora
portavano sulle spalle i loro 51 morti alla sepoltura. Il governo
provvisorio, i capi della Duma, ciò che restava dello Stato erano in
prima fila, vicino agli ambasciatori dei 14 Paesi che avevano già
riconosciuto il nuovo potere nato dalla rivoluzione. Da mezzogiorno i
cannoni della fortezza di Pietro e Paolo sparavano a salve, a sera i
marinai accesero i loro riflettori e la giornata sembrava non finire
mai, chiusa dentro quel canto che ogni volta ricominciava. Borghesi,
soldati, bolscevichi, ragazzi, tutta la città fece in tempo a passare
sul Campo (dove ancora oggi la fiamma è accesa) chinando il capo.
Mancava soltanto Dio, nei primi funerali della storia russa in cui non
c’era una preghiera, nemmeno un pope o una benedizione.
Senza che
nessuno lo decretasse, si era rotto il vaso mistico del potere russo,
che da trecento anni teneva insieme nell’acquasanta lo Zar e la Chiesa,
l’Autocrazia e l’Ortodossia, la fede e l’impero, con la spada del
sovrano che proteggeva il Dio da cui riceveva autorità, legittimazione e
l’unzione eterna. A Piter, a Pskov, a Mosca e a Zarskoe Celo tutti
avevano visto disfarsi una dinastia mentre si svuotava la reggia e si
rovesciava il trono. Ma il legame identitario, costitutivo del potere
russo era così forte e così profondo che senza lo Zar la Chiesa non
sapeva come esistere, dopo aver funzionato da ideologia popolare di
massa per il regime, accettando la sottomissione imposta da Pietro il
Grande ma ricevendo in cambio il beneficio cortigiano della religione di
Stato, privilegiata e riconosciuta.
Adesso, nello sconvolgimento di quella primavera cent’anni fa, anche l’anima russa per la prima volta si scopriva vacante.
Non
c’era nessun calcolo bolscevico, nell’assenza del pope a Campo di
Marte, il governo era borghese, il Primo Ministro era un Principe, tra i
ministri si contava appena un socialista, giunto fin lì quasi a
dispetto del suo partito. Semplicemente, il sentimento popolare aveva
avvertito la fine di un rito congiunto – la “sinfonia” – che per tre
secoli aveva visto i turiboli della Chiesa spargere incenso ad ogni
anniversario reale, quasi cento feste all’anno tra i Te Deum per
nascite, morti, compleanni, matrimoni, anniversari di vittorie e
incoronazioni.
Popi, arcipreti e monaci accompagnavano gli Zar
ovunque, camminando subito dopo l’Imperatore. Lui si poneva la corona in
capo da solo, in nome dell’autocrazia, ma chi gliela consegnava nelle
mani tra il canto dei cherubini era il Metropolita, e tutto avveniva nel
sacro splendore della cattedrale della Dormizione, a Mosca, mentre
tutt’attorno nelle scuole della Russia il santo catechismo insegnava ai
bambini a pregare “per la salute del corpo e dell’anima dello Zar”,
rigettando la ribellione al sovrano come un peccato, perché sta scritto
che “chiunque resiste al potere resiste al disegno stabilito da Nostro
Signore”.
Il disegno divino veniva testimoniato sull’altare, realizzato dal trono.
Segue nelle pagine successive
Non
c’era nessun calcolo bolscevico il primo ministro era un Principe Al
Campo di Marte si celebrano i primi funerali senza preghiere e
benedizioni
Lo Zar si sentiva non solo eletto dal Signore ma
interprete della sua volontà con la guida effettiva della Chiesa dal
1721, quando Pietro abolì il Patriarca nominando un Procuratore del
Santo Sinodo per gestire la gerarchia, le nomine, le entrate e le
uscite. Il Sovrano tramite di Dio, per trecento anni. E alle origini
della Rus, addirittura, il Gran Principe che sceglie il Dio per il suo
popolo, obbligandolo a convertirsi in massa battezzandosi nelle acque
del Dnepr dove alcuni entrarono fino al collo, altri fino al petto.
Perché in quella stessa nuvola d’incenso che Nikolaj II vedeva
innalzarsi ogni domenica a fianco del suo baldacchino nella cattedrale
dei Santi Pietro e Paolo (ancora oggi immenso, e vuoto) mille anni fa
era entrato per primo Vladimir il Bello, signore incontrastato col
grande mantello, la lunga barba e la corona del principe guerriero.
Portarono
la spada, il fuoco e la croce e Vladimir il Sole chinò il capo davanti
al Dio dei cristiani, lui che aveva a Kiev 800 mogli, 12 figli e tutti e
sei gli idoli delle tribù radunati sulla collina davanti al suo
palazzo. Sono andato a cercare i loro segni sulla collina di Boricevu,
dove nelle feste i contadini pregano ancora il fuoco: Veles signore
della terra e dell’acqua, Khors dio del sole vecchio, Dazbog figlio di
Svarog padrone del cielo, Stribog che comanda il vento, Simargl che
conosce il mistero della fertilità, Mokos che ferma pioggia e tempesta, e
soprattutto Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono. Tutto ciò che
in Russia riguarderà per un millennio lo spirituale e il temporale,
l’anima e la corona, era già racchiuso e annunciato da quel primo atto.
Gli ambasciatori del Gran Principe che partono per il mondo allora
conosciuto cercando la religione non più vera, ma più bella, e la
trovano a Costantinopoli dove durante la messa il tetto sembra aprirsi
per permettere al cielo di toccare la terra; il Sovrano che converte in
blocco il suo popolo a Cristo, d’imperio; e quegli idoli prima adorati e
poi distrutti su questa collina di Boricevu, ma sempre temuti nel
substrato di superstizione pagana che sopravvive nella radice popolare
della religiosità russa.
In quel limite estremo tra la mistica e
la superstizione, precipita anche la Corte, nei due anni che precedono
il grande crollo. Nello smarrimento del loro destino, lo Zar e la Zarina
cercano un contatto diretto col divino per trovare quelle certezze che
il potere temporale non garantisce più: e il potere spirituale si prende
la sua rivincita sull’Autocrate, distorcendosi a divinazione,
occultismo, sacra magia che condiziona e certifica ogni suo passo verso
la sventura. Tutto l’inferno imperiale che inghiotte la Corte è
circondato da un sentimento malato del sacro: le profezie di morte di
San Serafim di Sarov, la domanda del Pope Gapon nella domenica di sangue
(“Sovrano, sei conforme alle leggi divine”?), l’invocazione finale di
Nikolaj II alle truppe dopo l’abdicazione (“che il santo martire, il
trionfante Georgij, vi guidi alla vittoria”), le immagini dei santi che
Alix la Zarina distribuisce agli uomini della scorta che se ne vanno per
sempre da Zarskoe Celo, le ore che lei trascorre da sola nella cripta
sotterranea della Feodorovski Sobor, la chiesa della Guardia, nei giorni
della rinuncia al trono, fino alla testa di Cristo che il ministro
Protopopov, favorito di Corte, tiene in ufficio agli Interni, per
interrogarla prima di ogni decisione scrutando gli occhi che si aprono e
si chiudono secondo il bisogno.
Smarrita senza più il trono da
servire e insieme influenzare, la Chiesa si scopre autonoma per la prima
volta da secoli. È un breve spazio nel tempo, nella storia, nella
Russia. Ma genera il primo gesto di libertà, forse di conformismo,
comunque di indipendenza, che produce l’inaudito, rompendo per sempre
una liturgia uguale nei secoli: la Chiesa cancella l’invocazione per lo
Zar e per la sua famiglia dalle preghiere pubbliche durante la messa.
Era un rito cantilenante, sempre fisso. Il diacono, con la sua voce da
basso, intonava la supplica: “Al nostro Sovrano Imperatore”. “Lunga
vita”, lo soverchiava il coro dei fedeli, con un grido che faceva
muovere le fiammelle dei mille ceri accesi nei cento candelabri di ogni
chiesa, non per illuminare ma per ardere.
La separazione era
compiuta, e la Chiesa ormai sciolta e sola si incamminerà verso il
martirio che riporterà un Dio sofferente in Russia, dopo questa breve
assenza nel vuoto di sovranità. Davanti allo sconvolgimento del
Febbraio, l’ortodossia decide di appoggiare il nuovo potere, e dopo aver
destituito i vescovi di Mosca, Tobolsk e Pietrogrado fedelissimi di
Rasputin, dal Sinodo “otto umili Padri” invitano già a marzo i figli di
Dio ad appoggiare il governo provvisorio: “Assoggettatevi, perché ogni
comando viene da Dio”. Si convoca un Concilio, a giugno il Congresso del
clero chiede che alla fede ortodossa venga riconosciuto il diritto di
supremazia, fino al punto di stabilire che il Capo dello Stato sia un
credente ortodosso.
Il futuro Capo dello Stato era tutt’altro che
un credente, anche se era stato battezzato regolarmente, come sua moglie
Nadja, e si era addirittura sposato con una cerimonia religiosa,
accontentando la suocera Elizaveta, cristiana convinta. In quei giorni
Lenin chiuso nella sua stanza al secondo piano del palazzo della
Kshesinskaja sta misurando il rapporto di forza con il governo. Pensa di
organizzare una grande manifestazione bolscevica di operai e di soldati
ma di fronte alle voci di un richiamo di truppe nella capitale da parte
di Kerenskij il congresso dei Soviet proibisce tutti i raduni pubblici a
Pietrogrado per tre giorni. Ilic si sente controllato, minacciato,
pedinato nel biancore estivo che esplode nelle notti di Piter, decide di
prendersi qualche giorno di riposo con Nadja nella dacia dell’amico
Bonch-Bruevich al confine della Finlandia. Legge, cammina, scrive. Si
accorge di quel che si sta muovendo dentro la Chiesa, ma non interviene,
la sua partita è temporale, per la sfida spirituale c’è tempo, e
d’altra parte Lenin ha già detto da anni tutto quello che pensa di Dio:
“Chiesa e clero hanno una funzione di classe come puntelli
ultra-reazionari della borghesia”, i popi “sono feudatari in sottana che
difendendo la loro posizione di predominio fanno un’aperta difesa del
medioevo”, ”il capitale organizza l’abbrutimento del popolo per mezzo
dello stupefacente religioso”, dunque “non un soldo dei cittadini deve
andare a questi sanguinari nemici del popolo che offuscano la coscienza
popolare”. Quanto alla ricerca di Dio, bisogna lasciarla da parte,
“perché ogni idea religiosa, ogni civettare con il buon Dio è la più
pericolosa delle abominazioni, il più infame dei contagi”.
Preoccupata,
la Chiesa fa appello a tutti perché si superino le discordie e cessi il
fratricidio: ”Troppi hanno dimenticato Dio, e con lui la coscienza e la
patria”. Ma bisogna che il comunismo prenda il potere con l’Ottobre
perché la Chiesa acquisti coscienza del martirio e della santità. Pochi
giorni dopo, il 21 novembre, il metropolita Vladimir s’inchina davanti
all’icona della Divina Madre nella cattedrale di Cristo Salvatore a
Mosca, dove il popolo dei fedeli si è radunato per assi- stere alla
resurrezione del Patriarca di tutte le Russie, abolito da Pietro il
Grande. Il nome è chiuso nello scrigno esposto alla benevolenza
dell’icona, insieme ad altri nominativi selezionati dal Concilio. La
sorte e la mano dello starec Aleksej scelgono Tichon. Monaci e popi si
inchinano a baciargli l’anello, ma lui è consapevole di ciò che lo
aspetta: “Quante lacrime dovrò inghiottire anch’io e quanti lamenti
dovrò piangere, nei tempi bui che ci aspettano”? È un crescendo tragico.
“Il calice della collera di Dio trabocca su di noi”, rivela la Chiesa,
che comincia a parlare di “sacrilegio”, di “ateismo” e arriva a evocare
il Maligno: “Compaiono nell’anima russa i semi dell’Anticristo”.
Toccherà all’”umile” Tichon annunciare dalla sua cattedra patriarcale la
“persecuzione” contro la verità divina e infine denunciare l’”opera
satanica” dei bolscevichi con la suprema scomunica: “Con il potere che
ci viene da Nostro Signore noi vi proibiamo di accostarvi ai sacramenti
di Cristo, e lanciamo contro di voi l’anatema, se ancora
portate un nome cristiano”.
Il
nuovo governo esproprierà subito le terre della Chiesa e i monasteri,
confischerà le sue opere pie, vieterà l’insegnamento della religione e
passerà le scuole confessionali allo Stato, annullando gli effetti
civili del matrimonio ortodosso e introducendo il divorzio. Ma il 13
novembre arriverà il primo omicidio di un pope, il parroco di Santa
Caterina Ioann Kochurov, arrestato dai bolscevichi durante una
processione e fucilato senza processo nei campi di Zarskoe Celo. Nei
primi mesi della rivoluzione verranno imprigionati e giustiziati il
metropolita della Galizia, i vescovi di Selenginsk, di Tobolsk, di Perm,
di Nezinsk, di Sarapul, di Vjazma, di Kirillov. Nei primi anni saranno
fucilati 20 mila sacerdoti e parrocchiani. Quando arriva il decreto
sulla separazione della Chiesa dallo Stato il Concilio parlerà di
“attentato consapevole” alla sopravvivenza dell’ortodossia, Tichon
sceglierà segretamente i suoi successori nel caso di una scomparsa
improvvisa e la Chiesa lancerà un appello alla “Svjataja Rus”: “Accadono
avvenimenti che non si sentivano da secoli: fatti coraggio, o Santa
Russia, sali sul tuo Golgota”. È la denuncia di “uomini senza fede
alcuna”, commissari del popolo che hanno deciso “una completa
sopraffazione della coscienza dei cristiani”. Bisogna reagire, difendere
le chiese, altrimenti “toglieranno gli ornamenti sacri alle icone
miracolose”, “non si celebreranno più i misteri”, “i morti saranno
sepolti senza benedizione” e infine “tacerà il suono delle campane”.
Intanto, processioni interrotte con la forza, icone bruciate, scritte e
dipinti futuristi sui muri dei conventi e dei monasteri, urne dei Santi
profanate, finché il governo cancellerà le reliquie disponendo il loro
trasferimento nei musei o la sepoltura definitiva per mettere fine “a
questo culto di cadaveri e fantocci”.
La fede si ritira nei cuori,
si ribella e si sottomette secondo la pressione del terrore, ondeggia
come le fiammelle dei ceri riuniti a grappoli davanti alle icone dove
tutto è sacro, la presenza del Santo nel dipinto, l’acqua benedetta
mescolata ai colori, le immagini consacrate a Dio che da lui ricavano la
forza di guarire le malattie, favorire i raccolti, cacciare gli spiriti
malvagi dalle case dove sono perennemente esposte nell’angolo più alto.
In quelle fiammelle sta il mistero della fede in Russia dopo il ’17:
esile e tremolante, catturata e compromessa e tuttavia accesa per
trasmettere il segreto del fuoco sacro a chi un giorno verrà. Chissà
cosa si percepiva di tutto questo, nell’odore di cera e d’incenso
prigioniero nelle chiese che via via chiuderanno, cent’anni fa. Eppure,
tutto era annunciato fin da quel giorno lontano mille anni, quando sulla
collina di Kiev tutti gli idoli furono fatti a pezzi e distrutti e
sopravvisse come una profezia paurosa soltanto Perùn terribile, “colui
che frantuma”, il dio della distruzione. Lo legarono alla coda di un
cavallo per portarlo al Dnepr, lo gettarono nel fiume e dodici uomini lo
colpirono coi loro bastoni, ma non voleva affondare e tutti videro alta
sull’acqua la grande testa d’argento e i baffi d’oro, intatta e dunque
eterna. La Russia sapeva. Ma sapeva anche la verità che Bulgakov fa
pronunciare sottovoce al Professore, su una panchina degli stagni
Patriarshie qualche anno dopo e per l’eternità: “Tengano presente che
Gesù Cristo è esistito”.