lunedì 12 giugno 2017

Repubblica 12.6.17
Quelle terre di libertà colpite dalla maledizione della Torre di Babele
Lucio Villari


Lo “Spirito” della Pentecoste è lo stesso che unì i costruttori biblici Ma il potere, allora come oggi, non vuole che si parli un’unica lingua
È stato un colto medico siriano, l’evangelista Luca, a dare con i suoi Atti degli apostoli, circa trent’anni dopo la morte di Gesù, il sigillo a una sorta di plusvalore cristiano, lo Spirito. Il cui dono fu dato a Pietro e a un centinaio di persone — “Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo”(Atti,2) — riunite un giorno a Gerusalemme a incontrare Gesù risorto, ad assistere alla sua ascensione (“una nube lo sottrasse al loro sguardo”), a celebrare la Pentecoste. C’erano frigi, mesopotamici, cretesi, parti, medi, giudei, libici, egiziani, elamiti, ebrei, romani circoncisi e arabi. Non riuscivano però a capirsi. Improvvisamente furono lambiti da lingue di fuoco. Cominciarono allora, increduli e felici, a intendersi perfettamente, ma, ricorda Luca, «erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: “Che significa questo?”» Era avvenuto il miracolo della lingua comune. Questo potere dello Spirito, tra gli altri suoi poteri, ha sempre affascinato, nell’antichità, i filosofi e i poeti. Appariva forse una estrema salvezza della ragione, dell’amore, del dialogo. Li affascinerà fino al nostro tempo perché lo Spirito pareva racchiudere anche particolari segni sociali e politici. Sfogliamo Cartesio, Lo spirito delle leggi di Montesquieu, i Sogni di un visionario di Kant: rileggiamo uno degli
Inni sacri di Manzoni, La Pentecoste. In quei versi invocano lo Spirito quanti sono «soli per selve inospiti; vaghi in deserti mari: dall’Ande algenti al Libano». Per Francesco De Sanctis, l’inno manzoniano contiene «la famosa triade libertà, uguaglianza, fraternità vangelizzata». Riascoltiamo anche l’appello di Benedetto Croce ai partiti politici, in un discorso alla Assemblea Costituente del 1947, a non inserire il Concordato clerico-fascista del 1929 nella nostra Costituzione. Chiuse con un invito: raccogliere «tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime: Veni creator Spiritus / Mentes tuorum visita/ Accende lumen sensibus/ Infunde amorem cordis. Soprattutto a questi: ai cuori».
Il medico Luca dunque esalta l’intervento dello Spirito — che poi è il senso più autentico della Pentecoste — perché risarcisce dall’errore di duemila anni prima raccontato nel libro della Genesi. Fu quando il Signore biblico dissipò con la forza, un bene che stava nascendo: l’amichevole unità di un popolo di migranti insediatosi nel deserto mediorientale, l’unificazione delle loro lingue, il loro impegno a fondare una città. Il Signore preferì sostituire i loro progetti razionali con un caotico agglomerato umano. Gli diede il nome Babele. Quel deserto non era una finzione teologica ma un preciso luogo geografico e storico. Era la pianura del Sennaar che coincide oggi con l’Iraq meridionale e con il Kuwait. Proviamo allora a leggere “storicamente”, come desiderano i teologi, le pagine della Bibbia. Quello che ci hanno sempre insegnato e che alcuni grandi pittori hanno dipinto è falso, e cioè che il Signore volesse punire l’arroganza, la vanità, le licenze degli abitanti di quel luogo. Volle invece punirne il sapere e il loro solidale “spirito” comunitario. La popolazione che aveva deciso di fermarsi in quel luogo della Mesopotamia, era formata e guidata da persone con un notevole livello di conoscenze. Infatti, si stabilirono in un territorio dove esistevano nuove materie prime e dove da certe pozze affiorava il bitume, cioè il petrolio. Parla la Genesi: «E dissero gli uni agli altri: “Fabbrichiamo dei mattoni e cuociamoli al fuoco”. E si servirono di mattoni invece che di pietre e di bitume in luogo di calce ». Dunque questo popolo voleva lì fondare una città “moderna”. Non solo, ma per dare un segno simbolico della loro concorde volontà avevano deciso di erigere un possente obelisco. «E dissero: “Edifichiamoci una città e una torre con la cima al cielo. Fabbrichiamoci così un segno di unione, altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra”». Era presuntuoso progettare e costruire così una città? È evidente che nel caso di Sennaar si trattava di una pacifica e creativa novità. Quei “cittadini” avevano poi un altro legame: il comune linguaggio. Anzi, era forse qui l’origine della loro eccentricità in quell’area abitata da popoli fino allora capaci soltanto di farsi la guerra, senza incontrarsi pacificamente mai. In quella parte del deserto, stava invece nascendo una civile comunicazione tra le genti, il dialogo, il capirsi senza fraintendersi, il capirsi per Capire. Lo Spirito, che sarà poi svelato da Luca, forse cominciava già a operare. Di qui l’esasperazione del Signore della Bibbia. «Ecco, essi sono un popolo solo e hanno tutti una lingua sola, questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». L’autore della Genesi conclude: «Il Signore li disperse su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città».
È su questa nuova, dilatata, ottusa Babele che ora volano i jet, è lì che si confezionano in nome di altri feroci Signori le bombe dei terroristi, che si manifestano la povertà e il non capirsi e comprendersi. Su essa giocano molti Stati, molte armi e molte violente diplomazie. È anche da queste sabbie che fuggono gli eredi di una speranza e di una città incompiuta duemila anni fa.