Repubblica 12.6.17
Così, mentre l’Occidente attendeva il suo
Rinascimento, l’Asia Centrale visse secoli di arti, cultura e tolleranza
tra Avicenna e Omar Khayyam
I primi illuministi parlavano arabo
Siegmund Ginzberg
Due
giovani intrecciano una fitta corrispondenza a molte centinaia di
chilometri di distanza. Si scambiano opinioni e scoperte scientifiche.
Si pongono interrogativi profondi su come è fatto il mondo, su come
tutto è incominciato e come andrà a finire. Lo fanno mille anni fa. E
con una libertà che da noi non si sarebbe vista per molti secoli ancora.
L’uno ha 28 anni. Sa già di tutto. È un geografo, un geologo, un
fisico, un matematico, un astronomo, un filosofo. È studioso di
religioni comparate, di psicologia, persino musicista. Si chiama
Al-Biruni, vive e lavora in quel che oggi è il nord dall’Afghanistan.
L’altro, poco più che ventenne, si chiama Ibn-Sina (conosciuto anche
come Avicenna). Nato in Khorasan, che oggi sarebbe Iran, al confine con
l’Afghanistan, studia a Bukhara, che oggi è in Uzbekistan, si sposta a
Gurganj, e infine a Isfahan, in
Persia. La chiamavano “Terra delle
Mille città”. Alcune erano allora più grandi e popolose di Parigi,
Roma, Pechino o Delhi. Lui si trasferiva da una all’altra, offrendo le
sue conoscenze e anche consigli politici (come capitò ad altri geni,
ascoltati o inascoltati: da Confucio, a Dante, a Machiavelli). La sua
opera più famosa è il ponderoso Canone di medicina, sulla cui traduzione
latina è praticamente fondata tutta la nostra medicina. Nella
corrispondenza col suo amico espone una teoria dell’evoluzione. Quasi
dieci secoli prima di Darwin. I due avevano addirittura postulato
l’esistenza in un punto imprecisato tra Atlantico e Pacifico di un
continente ancora sconosciuto. Insomma erano arrivati in America 500
anni prima di Colombo, senza neanche mettersi in viaggio, in base a
calcoli astronomici.
Fenomeni. Ma non isolati. Ci fu un momento in
cui l’Asia Centrale profonda pullulava di menti geniali e poliedriche.
Mezzo millennio prima del miracolo del Rinascimento, dei Leonardo, dei
Michelangelo e dei Galileo. Una folla di geni: da al-Khwarizmi, che
avrebbe dato il nome al termine “Algoritmo”, e che scoprì le orbite
ellittiche dei pianeti attorno al Sole, secoli prima di Keplero, agli
astronomi di Samarcanda che misurarono l’anno siderale con maggiore
accuratezza di quanto poi fece Copernico, e l’inclinazione dell’asse
della Terra con precisione pari a quella di oggi. Eccellevano nella
scienze come in poesia. Di Omar Khayyam si conoscono le quartine in cui
cantava la vita, l’amore, il vino, l’umanità. Meno si sa che era anche
un grande matematico. Fu tra i primi ad accettare i numeri irrazionali e
a classificare i 14 tipi di equazioni di terzo grado. Gli viene
attribuita persino una teoria delle parallele che prefigura le geometrie
non euclidee di Lobacevskij e Riemann, quelle che sarebbero servite ad
Einstein per inquadrare le relatività e la “curvatura dell’Universo”.
Passano per arabi. È vero, scrivevano in persiano e in arabo (che per
un’epoca fu la lingua per eccellenza del pensiero e dei dotti). Ma non
erano arabi. Sarebbe più esatto definirli cosmopoliti. Si professavano
islamici come gli arabi. Ma in comune con gli arabi di El-Andalus
avevano soprattutto tolleranza e rispetto per gli altri. I loro
interlocutori erano ebrei, indù, buddisti e cristiani. Si trovavano più a
loro agio a discutere con uomini di studio di una religione diversa,
piuttosto che con i contrapposti fanatismi in seno alla propria. Erano a
modo loro eretici. Anche se nessuno li mandò al rogo, come sarebbe
successo invece secoli dopo ai loro colleghi europei. Le corti dei
Califfi, gli Imperatori della Cina, e poi i Khan mongoli, si sarebbero
contesi studiosi ed esperti appartenenti alle molte e diverse scuole
dell’Asia centrale. Formavano una comunità, anzi una “rete liquida” che
scambia informazioni e saperi, insomma anticipavano Internet.
Ibn
Sina e Al Biruni sono solo i più famosi in mezzo ad una galleria
sterminata di personaggi, scoperte, risultati scientifici, opere di
ingegno, storie e aneddoti che affollano un bel libro di Frederick
Starr, ora tradotto da Einaudi. Si intitola L’illuminismo perduto.
Sottotitolo:
L’età d’oro dell’Asia Centrale dalla conquista araba a Tamerlano. È
quasi un’enciclopedia: 700 pagine. L’autore è uno studioso serio e molto
brillante, che aveva iniziato la sua carriera come archeologo in
Turchia e in Persia. Insegna alla Johns Hopkins, ha presieduto l’Aspen
Institute, è uno dei massimi esperti mondiali di Asia Centrale. Al pari
dei suoi soggetti di studio, coltiva interessi poliedrici. È anche un
musicista e ha scritto una strepitosa storia del jazz in Unione
sovietica.
L’illuminismo nel titolo si riferisce a un’altra
specialità in cui gli intellettuali dell’Asia Centrale eccellevano a
cavallo tra il primo e il secondo millennio: la compilazione di grandi
compendi dello scibile umano, anticipando Diderot e gli encyclopédistes
nel secolo dei Lumi. La loro produzione rivaleggiava in quantità con i
libri sacri dell’India e gli annali della Cina, superava l’analoga
produzione europea nel Medioevo. Ma è andata in gran parte perduta.
Delle 180 opere di Al Biruni ne restano 22, di cui gran parte ancora
inedite, di Ibn Sina ne sopravvivono circa 200 su 400. Ibn Sina e Al
Biruni li avevo incontrati, se così si può dire, per la prima volta in
Iran, quarant’anni fa. Me ne parlava, nella lunghe serate di coprifuoco a
Teheran, un estro- so collega giornalista, Pietro Buttitta, fratello
del poeta, e in quanto siciliano passionalmente interessato all’eredità
islamica. Nelle librerie di Teheran si potevano ancora reperire volumi
di una serie di reprint anastatici di classici sull’Iran, sponsorizzati
dalla sorella dello Scià. Unico difetto: erano deturpati da pacchiani
ritratti di Reza Pahlavi. Qualche anno dopo avevo percorso in lungo e in
largo l’Asia centrale cinese. Fu per me la scoperta di una terra
magica, in cui il tempo pareva essersi fermato a molti secoli fa. Nel
Xinjiang, il Turkestan cinese, avevo ritrovato le arguzie senza temo di
Nasreddin Hodja, l’amore per la vita, la danza e il vino, i tappeti di
Kashgar, i meloni, le angurie e altri sapori della mia infanzia, e anche
qualcosa della ferocia della Turchia in cui sono nato. Nel frattempo
gli “Stan” (il Turkestan cinese, gli ex sovietici Kazakhstan,
Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan, ma anche Afghanistan,
Pakistan e Iran) nell’immaginario occidentale sono ridiventati il buco
nero del mondo. Malgrado uno sviluppo talora impetuoso, le contrade dove
una volta vivevano i grandi geni ora evocano, ben che vada, il kitsch
dell’esilarante Borat di Sacha Baron Cohen. Se no, di peggio:
oscurantismo, ignoranza, burqa, taliban, malavita, terrorismo. A Mosca
gli immigrati dall’Asia centrale ex-sovietica sono i più malvisti. Così
come sono disprezzati a Pechino, temuti come mafiosi o terroristi gli
uighuri originari dal Xinjiang. Salvo poi corteggiare gli Stan (e i loro
dittatori) per farci passare le future magnifiche autostrade delle Vie
della Seta.
Sarebbe più esatto definirli cosmopoliti Avevano
profondo rispetto per gli altri I loro interlocutori erano ebrei,
buddisti e cristiani Erano eretici, ma nessuno li mandò al rogo
L’IMMAGINE
Il Maidan Shah o Piazza Reale di Isfahan in Iran, meglio nota come “ Piazza della Metà del mondo”
* IL LIBRO L’illuminismo perduto.
L’età
d’oro dell’Asia centrale dalla conquista araba a Tamerlano di Frederick
Starr ( tr. L. Giacone, Einaudi, pagg. 676, 36 euro)