domenica 11 giugno 2017

Repubblica 11.6.17
La sinistra europea alla ricerca di radici
di Marc Lazar


IN GRAN Bretagna il partito laburista, che pure ha guadagnato ben 32 seggi, è uscito sconfitto dalle elezioni, per la terza volta dal 2010. In Francia il partito socialista attraversa una crisi devastante.
IL suo candidato alle presidenziali, Benoît Hamon, ha raccolto appena il 6% dei voti, e i pronostici per le legislative dell’11-18 giugno sono pessimi. In Grecia nel 2015 il Pasok è crollato a meno del 5%. Lo scorso anno in Austria il candidato socialista alle presidenziali non è riuscito a qualificarsi per il secondo turno, e quest’anno in Olanda i socialisti hanno registrato un risultato catastrofico. Quanto alla Spagna, il Psoe, sconfitto alle elezioni del 2016, è uscito profondamente diviso dalle primarie organizzate per designare il segretario. In Germania l’Spd coltivava la speranza di battere la cancelliera Merkel nel settembre prossimo, ma sta collezionando insuccessi nei Länder, e al momento i sondaggi preannunciano una pesante sconfitta. Tra i principali membri del Partito socialista europeo sembrano emergere, in questo panorama gravido di pericoli per la sinistra, solo il partito svedese, quello portoghese, al potere col sostegno di un’alleanza ecologista e comunista, e il Pd in Italia; ma tutti e tre sono in regresso rispetto ai precedenti risultati elettorali.
Le ragioni di questa crisi che dura ormai da quasi quarant’anni sono note. I partiti socialdemocratici si trovano ad affrontare sfide considerevoli (che chiamano in causa, seppure in misura minore, anche i partiti di governo di destra): la globalizzazione, l’europeizzazione, i cambiamenti della società, le trasformazioni della democrazia, e non da ultimo l’isterilimento delle grandi ideologie. I loro punti di forza — le politiche keynesiane di welfare in ambito nazionale, i rapporti più o meno stretti coi sindacati, una solida organizzazione, una dottrina coerente — oggi sono venuti meno. I partiti della sinistra riformista hanno subito un declino elettorale, la perdita di molti dei loro iscritti, l’erosione del sostegno da parte delle categorie popolari e dei ceti medi sempre più vulnerabili, il declino dell’influenza culturale che esercitavano, la fine della loro egemonia in questo campo. Anche se ciò malgrado sono riusciti a volte a vincere le elezioni, la tendenza generale era quella della destabilizzazione.
Negli anni Novanta Tony Blair e Gerhard Schröder tentarono di uscire da questo vicolo cieco attraverso quella che è stata chiamata la “terza via” tra liberismo e socialdemocrazia classica. Si trattava di prendere atto delle trasformazioni del capitalismo, di affermare che la globalizzazione, pur generando maggiori disuguaglianze, offriva al tempo stesso nuove opportunità agli individui: di riconciliarsi in parte con liberalismo e liberismo, di promuovere le pari opportunità attraverso la scuola e la formazione, in via prioritaria per i meno abbienti, riconoscendo certo i loro diritti ma anche i doveri; di riconsiderare il ruolo dello Stato, di rivolgersi alle classi medie in ascesa proteggendo al tempo stesso le fasce popolari, ad esempio dalla delinquenza. I sostenitori della “terza via” ritenevano superata la frattura destra-sinistra, e preferivano parlare di antagonismo tra progressisti e conservatori. Quasi tutti i partiti socialdemocratici hanno ripreso queste idee, adattandole alle realtà dei rispettivi Paesi. Oltre ad aver sofferto dell’impegno di Tony Blair nella guerra in Iraq, la “terza via” ha messo a nudo i suoi limiti con la crisi iniziata nel 2008. Dovunque l’austerità ha provocato disoccupazione (anche se poi parzialmente riassorbita) e aggravato le disuguaglianze. L’Europa ha deluso, e continua a deludere. Le nostre società sono scosse dalla paura dell’immigrazione o dei migranti. La diffidenza verso le istituzioni, la classe politica e i partiti — a parte qualche eccezione — tende a generalizzarsi. La responsabilità di tutto questo è attribuita ai partiti socialisti, e il populismo avanza.
Si è aperto un fossato tra la sinistra riformista e quella più radicale. E questi partiti, quale che sia la strategia prescelta, non riescono a conquistare il potere. Il programma di Benoît Hamon era nettamente di sinistra, ma gli elettori gli hanno preferito Emmanuel Macron o Jean-Luc Mélenchon, il suo rivale ancora più radicale. Jeremy Corbyn si è presentato con un programma classicamente di sinistra, grazie al quale ha potuto compiere un netto progresso rispetto al 2015 imponendosi in maniera durevole alla testa del suo partito, ma non è riuscito a battere Theresa May. Pedro Sanchez ha riconquistato il Psoe attuando una svolta a sinistra e postulando un’alleanza con Podemos, ma col rischio che sia quest’ultima formazione a trarne i maggiori vantaggi. Dal canto loro, l’Spd e il Pd continuano a esplorare una politica social-liberale aggiungendo alcune misure sociali, oltre che ecologiche nel caso della Germania; ma non sembrano ottenere grandi risultati. Inoltre in Spagna, in Grecia, in Francia, in Olanda e in Belgio si sta sviluppando un processo di radicalizzazione alla sinistra dei partiti riformisti.
Non è la prima volta che la socialdemocrazia attraversa una zona di turbolenze; ma per il momento non ha trovato una terapia. Tanto più che è in atto un cambio di paradigma. Certo, la classica contrapposizione tra sinistra e destra non è del tutto scomparsa, in particolare sui problemi sociali, e nel caso italiano, sull’Europa; ma non struttura più i comportamenti, le culture e le mentalità politiche con lo stesso vigore del passato. E si intreccia con altri contrasti — tra europeisti e avversari dell’Ue, tra fautori di una società aperta o chiusa — che dividono sia i partiti di destra che quelli di sinistra. Per questi ultimi si profila l’urgenza di procedere a un bilancio delle politiche passate, di ripensare il progetto, di rinnovarsi in profondità e di ritrovare il contatto con la società. Sempre che sia ancora possibile. Altrimenti la sinistra socialdemocratica rischia di scomparire, come già è accaduto ai partiti comunisti, segnando una rottura antropologica nella storia europea.
Traduzione di Elisabetta Horvat