Repubblica 11.6.17
L’aiuto di Francesco
di Alberto Melloni
I
giudizi storico-politici sul rapporto fra il papato e l’Italia sono i
più diversi. Ma non c’è chi non veda che ci sono stati tre giorni della
nostra storia nei quali il papato ha “salvato” l’Italia. Il giorno della
disfatta di Caporetto, il giorno dell’armistizio dell’8 settembre, il
giorno del funerale di Aldo Moro questo paese fragile ha rischiato la
liquefazione. E il papato — che nel 1917 avrebbe avuto diritto a
vendicarsi del regime liberale, che nel 1943 avrebbe potuto mettersi al
sicuro, e che nel 1978 avrebbe potuto sfilarsi dall’inizio della
implosione democristiana — prese il Paese in mano, lo unì anziché
dividerlo.
La gravità della crisi euro-mediterranea di oggi e le
vulnerabilità congiunturali dell’Italia fanno pensare che questo compito
del papa “in stato di eccezione” possa tornare per la quarta volta. E
la posizione fin qui tenuta da papa Bergoglio non dava certezze sulla
sua disponibilità a farsi carico di un Paese la cui stabilità è stata
spesse volte imposta producendo una mirata instabilità o giudiziaria o
finanziaria o terroristica. Anzi, i segnali dati da Francesco erano
ambigui: la distanza pubblica da tutti i politici e la confidenza
privata con pochi di loro finiva per far torto alle figure
istituzionali.
Per questo due passaggi del discorso di papa
Francesco al Quirinale sono molto importanti: uno riguarda la laicità,
l’altro le istituzioni democratiche. Sono un po’ nascosti perché la
visita del papa al Quirinale è un atto dovuto che per definizione va
“bene”. È dovuto per ragioni storiche (il Quirinale è una casa sua, con
tanto di quella Manica Lunga che, come Santa Marta, venne eretto per un
conclave che non vi si tenne mai). E deve andare bene: perché guai se
una astuzia o una negligenza anche lieve incrinasse quella “laicità” che
ieri papa Francesco ha lodato con una variante tutta sua.
Benedetto
XVI l’aveva classificata come una delle “laicità positive”: con un
titolo non certo sgradevole, ma che lasciava intendere un diritto
unilaterale di giudicarla che ricordava troppo “la sana libertà” di Pio
XII e “l’antisemitismo buono” degli anni Trenta. Chi ha limato il
discorso di Francesco ha preferito ricorrere a qualificazioni
relazionali (laicità “non ostile”, “non conflittuale”, “amichevole”,
“collaborativa”) che indicano un diverso atteggiamento: non un giudizio
unilaterale ma un impegno reciproco. Il che dice che non è sul piano
delle formalità sorridenti (che devono spesso coprire improvvisazioni e
dispetti), ma sul piano della libertà che si deve giocare.
Ma
Francesco — che ha antenne e collaboratori capaci di cogliere le manovre
seduttive e i falsi allarmi che precedono le stagioni elettorali — ha
preso posizione su un tema politicamente sensibilissimo. Era infatti
evidente che le sue scelte consentivano di usare la sua allergia alle
cerimonie del potere pubblico come un avallo pontificio
all’antipolitica: eventualità contro la quale era sceso in campo pochi
giorni fa il Segretario di Stato in persona. Un impegno così alto da far
capire che la chiesa non voleva trovarsi, come capitò ai tempi di
Gianfranco Miglio e la Lega, con qualche professore della Cattolica o
qualche laico di spicco arruolato dalle parlamentarie. Ieri al Quirinale
il papa in persona ha indicato un compito e ha detto di attendersi «da
tutti coloro che hanno responsabilità in campo politico e amministrativo
un paziente e umile lavoro per il bene comune, che cerchi di rafforzare
i legami tra la gente e le istituzioni, perché da questa tenace
tessitura e da questo impegno corale si sviluppa la vera democrazia e si
avviano a soluzione questioni che, a causa della loro complessità,
nessuno può pretendere di risolvere da solo».
È endorsement netto
alla linea del Capo dello Stato davanti al partito dello scioglimento ad
ogni costo delle camere. Ma è anche una definizione della politica e
delle “istituzioni”: costate un prezzo pagato caro e che la ferocia
coltivata nelle serre del qualunquismo espone a rischi che non si
possono neppure immaginare.