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Se la
sinistra liberale non sa parlare agli esclusi
Nell’ultimo
anno nel mondo occidentale sono accadute diverse cose inattese. Il 24 giugno
scorso i cittadini britannici hanno votato a favore della Brexit, poi, a
novembre, Donald Trump ha vinto le elezioni. Più recentemente il leader
laburista Jeremy Corbyn ha registrato un successo che nessuno aveva previsto
alle elezioni indette dal primo ministro Theresa May, convinta di una vittoria
a valanga dei conservatori; e un giovane outsider, Emmanuel Macron, ha ottenuto
la maggioranza assoluta nel parlamento di Parigi in un’elezione che ha visto la
quasi estinzione del partito socialista. L’elemento che lega questi quattro
avvenimenti è l’imprevedibilità.
Dibattito
| La crisi del modello democratico occidentale affonda le radici nel
neoliberismo degli anni ’70 e ’80. Uno schema che favorisce pochi a scapito
della maggioranza. E che travasato nella terza via blairiana e clintoniana ha
allontanato i ceti più svantaggiati dalle élite riformiste
di
Enrico Pedemonte
Nell’ultimo
anno nel mondo occidentale sono accadute diverse cose inattese. Il 24 giugno
scorso i cittadini britannici hanno votato a favore della Brexit, poi, a
novembre, Donald Trump ha vinto le elezioni. Più recentemente il leader
laburista Jeremy Corbyn ha registrato un successo che nessuno aveva previsto
alle elezioni indette dal primo ministro Theresa May, convinta di una vittoria
a valanga dei conservatori; e un giovane outsider, Emmanuel Macron, ha ottenuto
la maggioranza assoluta nel parlamento di Parigi in un’elezione che ha visto la
quasi estinzione del partito socialista. L’elemento che lega questi quattro
avvenimenti è l’imprevedibilità.
I
cosiddetti esperti consideravano Trump nulla più che un fastidioso ostacolo per
Hillary Clinton nella corsa alla casa Bianca; il referendum sulla Brexit era
stato indetto nella certezza che l’appartenenza del Regno Unito all’Unione
europea non fosse in discussione; Emmanuel Macron è stato a lungo considerato
solo un giovane di belle speranze; quanto a Corbyn, negli ultimi mesi gli
analisti si sono affannati a descrivere la sua nomina alla guida del Labour
come la ricetta sicura per la fine del partito storico della sinistra
britannica: Corbyn il veterocomunista schierato a favore della sanità pubblica
e della scuola gratuita, l’idealista che predica reti di protezione sociale per
i ceti meno abbienti e chiede tasse più alte ai ricchi. Più tasse? Quando mai
si è sentito, negli ultimi quarant’anni, un uomo politico con ambizioni di
successo predicare un aumento delle imposte? Gli analisti che hanno fatto a
pezzi Corbyn non hanno spiegato perché i giovani britannici abbiano votato in
massa per lui, né perché gli iscritti al partito, nell’era della disaffezione
alla politica, siano cresciuti di mezzo milione; e neppure hanno scritto che il
successo del leader è stato possibile grazie a decine di migliaia di giovani
militanti che hanno girato casa per casa a convincere gli elettori. Per
chiudere il cerchio di questa introduzione, è bene ricordare che sull’altra
sponda dell’Atlantico il radicale Bernie Sanders, che alle primarie del 2016
aveva combattuto come un leone contro Hillary Clinton, continua a essere uno
dei politici più amati dai democratici. Come Corbyn, Sanders basa la sua
battaglia politica sulla lotta alle diseguaglianze e si definisce «socialista»,
un aggettivo che i politici americani, almeno fino a ieri, hanno sempre evitato
con molta cura per non essere considerati degli inaffidabili sognatori. Che
cosa sta succedendo?
•
Liberalismo in ritirata
Edward
Luce, uno dei più prestigiosi opinionisti del Financial Times, ha appena
pubblicato il saggio The Retreat of Western Liberalism (La ritirata del liberalismo
occidentale, Little,Brown) che racconta con toni piuttosto cupi (ma
convincenti) la crisi del modello occidentale a partire dai due Stati guida,
gli Stati Uniti e il Regno Unito, e del modello neoliberista che in quei Paesi
si è sviluppato a partire dalla fine degli anni Settanta, con l’ascesa di
Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Luce, che pure è una colonna del giornale
simbolo della City londinese, costruisce una narrativa che fa risalire la crisi
attuale (una crisi grave, strutturale, che coinvolge tutto l’Occideente) a
quell’epoca di estremismo ideologico che ha segnato un’era: l’epoca in cui, per
dirla con Reagan, «il governo era il problema, non la soluzione», e il mercato
– specie se non regolato – era considerata la bacchetta magica in grado di
risolvere tutti i problemi. Fu quell’ideologia a plasmare il processo di
globalizzazione che si è imposto nel mondo e che – nelle intenzioni di allora –
avrebbe dovuto portare benefici per tutti «come la marea che fa salire tutte le
barche». La realtà è andata diversamente: molte barche sono affondate, altre
imbarcano acqua e oggi rischiano di portare al naufragio l’intero mondo
occidentale.
• Quei
leader a Firenze
Perché
quella visione del mondo – che nel frattempo si è infranta contro la realtà –
ha contagiato in modo profondo la cultura contemporanea, anche quella della
sinistra. Luce ricorda un incontro che si svolse a Firenze allo scadere del
secolo scorso (era il novembre 1999) tra i primi ministri europei (quelli
progressisti) che allora sembravano incarnare lo spirito stesso della
modernità: c’erano il britannico Tony Blair, il francese Lionel Jospin, il
tedesco Gerhard Schroeder e l’italiano Massimo D’Alema. E insieme a loro erano
presenti anche Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea, oltre
a Bill e Hillary Clinton, che ancora alloggiavano alla Casa Bianca. Quei leader
parteciparono a una tavola rotonda che aveva un titolo (La nuova economia:
uguaglianza e opportunità) che oggi suona beffardo. Naturalmente è facile dare giudizi
a posteriori, e a quell’epoca molti di noi erano incantati da una sinistra che
si andava “modernizzando” e da leader che predicavano un mondo post-ideologico
e discettavano di una “terza via” che avrebbe superato le divisioni tra le
classi sociali. Ma quei leader “moderni” che avevano adottato il linguaggio di
Davos e della McKinsey – dice Luce –, sapevano sì dialogare con la nuova classe
cosmopolita, ma non non erano più in grado di parlare ai perdenti.
• Come
votano i poveri
È
questa la ragione che ha portato alla rottura tra la sinistra tradizionale e le
classi subalterne? Luce ne è convinto e i dati sembrano dargli ragione. Negli
Stati Uniti e in Gran Bretagna l’analisi dei voti recenti mostra in modo
lampante come la “nuova economia” abbia cambiato la geografia stessa della
ricchezza che si è concentrata soprattutto nelle grandi metropoli. Così, mentre
due terzi dei londinesi ha votato per restare in Europa, tutto il resto
dell’Inghilterra e il Galles si sono espressi per la Brexit. E negli Stati
Uniti tutte le 493 contee più ricche del Paese hanno votato per Hillary mentre
le altre 2.623 hanno preferito Trump. La “nuova economia”, con il mito di una
meritocrazia che in realtà serve a perpetuare ricchezza e potere all’interno
delle classi agiate, porta a una concentrazione di “talenti” e di cittadini ad
alto reddito nelle grandi metropoli: un fenomeno che non è mai stato così
estremo e che è ben visibile anche nelle elezioni italiane, dove a votare a
sinistra sono ormai le classi sociali più abbienti, istruite e metropolitane.
«Le città dell’Occidente», scrive Edward Luce con un’immagine che fotografa con
precisione il mondo in cui viviamo, «sono isole circondate da un mare di
risentimento». Se nel mondo l’uno per cento dei più abbienti controlla il 30%
della ricchezza complessiva e le élite continuano a parlare del potere
salvifico del “mercato”, nell’opinione pubblica si diffonde un pessimismo cupo.
E i perdenti, nella confusione ideologica che ha rotto gli steccati tra destra
e sinistra, scelgono chi promette un ritorno a un mondo foderato di sicurezze
prendendo di mira i “nemici” principali: la globalizzazione, l’Unione europea,
gli immigrati... Ai tempi della prima industrializzazione, a una crescita delle
ineguaglianze erano seguiti un aumento del benessere collettivo e la
moltiplicazione dei posti di lavoro. Oggi la storia non sembra ripetersi. In
alcuni Paesi (gli Stati Uniti, per esempio) il tasso di occupazione scende,
l’innovazione tecnologica impone cambiamenti così rapidi da creare insicurezza,
le aspettative diminuiscono e la rabbia cresce.
• La
crisi delle democrazie
Tutto
ciò non produce solo una generale sfiducia nelle élite, ma nel concetto stesso
di democrazia. Dalla fine del secolo scorso in almeno 25 Paesi nel mondo i
sistemi democratici hanno fallito e tre di questi (Turchia, Russia e Ungheria)
sono in Europa. E in tutti i casi la colpa del fallimento è da imputare alla
sfiducia dei cittadini “rimasti indietro”. «Non c’è democrazia senza
borghesia», disse il sociologo americano Barrington Moore. E in molti Paesi
dell’Occidente la classe media sente franare la terra sotto i piedi. C’è da
stupirsi se queste persone si schierano contro chi dice di difenderli? No, è
sempre accaduto nella storia. Edward Luce nota che nell’Europa continentale il
peso dei partiti populisti è tanto più forte quanto è più solido il welfare da
difendere: in Danimarca il Partito del popolo e in Olanda il partito per la
libertà di Geert Wilder, ponendosi come baluardi contro gli immigrati (che
usano lo stato sociale pagato dai cittadini) hanno conquistato i voti di oltre
un quarto dei lavoratori che fino a ieri votavano socialdemocratico. In Francia
Marine Le Pen propone un «contratto sociale contro l’occupazione islamica».
L’Ukip britannico, nato come piccolo partito antitasse, è diventato poi uno
strenuo difensore del servizio sanitario, e nel corso della campagna della
Brexit diffuse la colossale bugia che uscendo dalla Ue il Regno Unito avrebbe
liberato 350 milioni di sterline da investire nella sanità per i cittadini
britannici. E anche in Italia il Movimento Cinque Stelle, vedendo l’aria che
tira, sta indurendo la propria strategia anti-immigrati schierandosi contro lo
ius soli.
• Il
sogno infranto
Tutto
ciò – dice Luce – ha naturalmente un impatto molto radicale sul ruolo che
l’Occidente ha nel mondo. Il fatto che si stiano moltiplicando gli Stati
autoritari e le democrazie illiberali è il segno che qualcosa è andato storto:
forse pensare che il resto del mondo seguisse il nostro copione è stato solo il
frutto della nostra arroganza. In realtà la marcia verso la libertà – e verso
un benessere sempre maggiore – non è un processo inarrestabile. In Occidente
abbiamo una visione lineare della storia, dove il tempo si srotola di fronte a
noi e non può che portarci al progresso e alla felicità. Ma quel sogno si è
spezzato. E forse hanno ragione i cinesi e gli indiani, che invece hanno una
visone circolare della storia. Forse torneremo a un mondo multipolare, dove il
primato dell’Occidente sarà un ricordo. Cina, India e Russia si stanno battendo
contro la nostra ambizione di imporre valori universali a tutti , e c’è da
augurarsi che questo scontro - qualunque esito abbia - prosegua pacificamente.
Ma per tornare con i piedi per terra, e capire la reale dimensione di quello
che sta accadendo conviene dare un’occhiata a una vignetta del New Yorker che
racconta meglio di qualunque altra cosa la crisi che sta vivendo l’Occidente.
C’è una povera donna cinese che dice al figlio, davanti a una ciotola di riso:
«Mangia, e pensa ai bambini della West Virginia che hanno fame». Siamo in
difficoltà, le aspettative non sono più quelle di un tempo, il populismo
cresce. Ma non esageriamo: un po’ di ironia non guasta.